Filosofie e sincretismo religioso
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel II secolo si sviluppa una nuova religiosità, una sorta di sincretismo religioso, ispirato a diverse tradizioni mistiche e religiose del passato, rielaborate e improntate a una maggiore spiritualità rispetto alla tradizione razionalistica greca; nasce un nuovo misticismo che, sorto dallo scetticismo nei confronti della religione degli dèi, è caratterizzato da una ripresa del pitagorismo e dalla riscoperta dei culti orientali, avvalorato dalla convinzione che tutto ciò che è lontano, temporalmente e spazialmente, è santo e puro e conserva un’aura sacrale.
Il II secolo è il periodo che va da Traiano all’ultimo dei Severi, ed è un’epoca piena di contrasti. Da un lato si vive in un’epoca di civiltà, di ordine politico, di pace, e tutti i popoli dell’impero sono uniti da una lingua e da una cultura comune, i retori viaggiano di città in città a pronunciare discorsi, la medicina compie grandi progressi, si sviluppano le matematiche, la musica, l’astronomia, si inventano macchine pneumatiche, apparati bellici sofisticati, fiorisce l’ottica. Insomma la cultura si accresce e l’educazione si diffonde in modo organico tanto che è in questa epoca che si definisce il concetto di enkyklios paideia, di educazione globale, che mira a produrre una figura di uomo completo e versato in tutte le discipline. Ma d’altro lato mancano creazioni veramente originali, si conosce tutta la cultura del passato, la si sviluppa, la si rielabora, la si commenta, ma la volgarizzazione prevale sulla scoperta.
In opposizione alla tradizione razionalistica, al pensiero di Aristotele, degli stoici o degli epicurei, si sostituisce una forma di pensiero religioso che in seguito sarà definito come sincretismo, che unisce (senza preoccupazioni filologiche) diverse forme di tradizione mistica, e diverse rivelazioni.
Come ha scritto Francis Yates “gli uomini del II secolo avevano la ferma convinzione (passata in seguito ai loro eredi rinascimentali) che antichità fosse sinonimo di santità e purezza e che i più antichi filosofi avessero una conoscenza degli dèi di gran lunga superiore a quella degli irriducibili razionalisti loro successori”. Di qui la rinascita di motivi pitagorici, la credenza che tutto ciò che fosse remoto e distante possedesse una maggior santità, per cui si scoprivano o riscoprivano pitagorismo e orfismo, i gimnosofisti indiani, i magi persiani, gli astrologi caldaici, le divinità egiziane come Thot-Ermete, insomma ogni forma di pensiero che potesse venire intesa come improntata a una maggiore religiosità rispetto a quella dei Greci (Yates, 1964, tr. it., p. 17).
Lo spirito sincretista investe anche le religioni tradizionali. Ormai la religione imperiale è puramente formale, un’espressione di lealismo, ogni popolo conservava i propri dèi che vengono accettati dal pantheon latino, senza badare a contraddizioni, sinonimie o omonimie. Originariamente queste divinità avevano per ciascun popolo un significato profondo, ma nel momento in cui l’impero dissolve le patrie locali esso dissolve anche l’identità dei vari dèi, confondendoli tutti in una sorta di crogiolo mitologico. Vediamo la sorte che tocca a una divinità egiziana come Iside: essa diventa Demetra e Cibele, l’Afrodite siriaca, Giunone, l’Anaitis persiana e la Maia degli Indiani. Assume tutti i nomi e tutte le funzioni. Troppi dèi, indistinguibili l’uno dall’altro, dai poteri confusi.
Jean-Paul-Philippe Festugière (1942) cita la storia di Giustino martire cerca il vero Dio e si rivolge ai filosofi: uno stoico gli dice di non sapere nulla di Dio e che non è necessario saperne, un peripatetico gli chiede anzitutto di essere pagato per parlare, un pitagorico pretende che egli apprenda prima di tutto la musica e la geometria. Segue infine un platonico che gli promette la visione di Dio. Giustino si ritira quindi in solitudine a meditare sulla riva del mare, dove incontrerà qualcuno che lo condurrà al cristianesimo e al martirio.
Ci si può chiedere se, in questa situazione di sincretismo e scetticismo, il verbo cristiano non si presentasse come una soluzione. Ma non dobbiamo pensare al cristianesimo di questa epoca come a una religione diffusa e nota a tutti. Non dimentichiamo che è in questo secolo che Traiano chiede a Plinio il Giovane e l’imperatore Traiano discutono su come procedere nei confronti della misteriosa setta dei fedeli di un certo Cristo. Sarà solo più tardi che il cristianesimo diventerà religione di stato e attirerà anche la classe dirigente. In quest’epoca è ancora una religione per gli schiavi, e agli occhi del sapiente appariva come una delle tante sette misteriche di cui diremo.
Si manifesta allora, presso le anime deluse dagli dèi, dal I al II secolo, una sorta di religiosità diffusa, si pensa a un’anima universale del mondo, che sussiste negli astri come nelle cose terrestri e di cui la nostra anima individuale è una parcella. Sarà su questo spirito di religiosità cosmica che potrà poi innestarsi il neoplatonismo.
Ma oltre allo scetticismo e alla pietà diffusa esisteva una terza scelta: il misticismo. Poiché sui massimi problemi i filosofi non potevano offrire nessuna verità sostenuta dalla ragione, non restava che cercare una rivelazione al di là della ragione, che pervenisse per visione diretta e per rivelazione della divinità stessa.
La psicologia dello spirito religioso ci dice che nulla è più facile che trovare un dio quando si è intimamente deciso che si vuole credere. Ma siccome ora si cerca una fede diversa, una fede altra, non si può non essere persuasi che questa fede e questa rivelazione, se esistono, debbano essere ignote e segrete. Questa è la colorazione che assume il misticismo ellenistico: c’è una verità ma è segreta. Il dio supremo è inconoscibile.
In questo clima rinasce il pitagorismo. Sin dagli inizi la dottrina di Pitagora si era presentata come conoscenza mistica e i pitagorici praticavano riti iniziatici. La loro stessa conoscenza delle leggi matematiche e musicali si presentava come frutto di una rivelazione avuta dagli Egizi. I pitagorici non appartenevano a un gruppo filosofico come i platonici o gli aristotelici, ma a una vera e propria chiesa di cui Pitagora era il maestro, e le parole del maestro non venivano messe in discussione. Autòs épha, ipse dixit. I precetti di Pitagora venivano conservati gelosamente dagli iniziati come verità da tenere segrete.
Non vi è nulla di più affascinante di una sapienza segreta. Si sa che esiste, ma non la si conosce e quindi si suppone sia profondissima. In questo secolo si identifica la verità col segreto, ovvero con ciò che o non viene detto o viene detto in modo oscuro e deve venire capito al di là dell’apparenza e della lettera. Nel mondo greco, in cui non esisteva un libro sacro come la Bibbia degli ebrei, ci si rivolge al massimo poeta, Omero, per usarlo come oracolo. Inizia l’interpretazione allegorica di Omero, per scoprire al di sotto dei miti una verità più profonda; la più famosa di queste interpretazioni allegoriche di Omero è l’Antro delle Ninfe di Porfirio.
Dei libri della filosofia classica, quello tenuto in maggiore stima in quel tempo è stato il Timeo di Platone, proprio perché in quel libro si utilizzavano antichi miti pitagorici per rappresentare il mondo come un grande animale retto da leggi matematiche (e non sarà un caso che il Medioevo perda praticamente tutti gli scritti platonici ma continui a studiare come testo quasi sacro il Timeo).
Ma una delle caratteristiche del misticismo (e poi del pensiero ermetico che qui trova le sue radici) è che una sapienza, per essere veramente segreta, debba essere esotica. Il principio ha una spiegazione psicologica ed è stato Jung ai tempi nostri a ricordare che quando un simbolo, una qualsiasi immagine divina, ci è diventata troppo familiare e ha perso ogni mistero, dobbiamo rivolgerci a simboli e immagini di altre civiltà, perché solo i simboli esotici conservano un mana, una carica, un’aura sacrale.
Per questo il II secolo decide che, se si deve ricercare una verità segreta, occorre risalire al di là di Pitagora, là dove presumibilmente Pitagora aveva ottenuto le rivelazioni che lo avevano illuminato. Occorreva risalire verso sorgenti lontane e ignote. Il mondo ellenistico conosceva tre di queste sorgenti, l’Africa profonda, l’Oriente e il Nord. Gli Africani, a sud della costa mediterranea, erano considerati barbari rozzi e incolti, che vivevano in una zona inesplorata di cui nulla si sapeva e da cui non erano pervenuti documenti culturali. Invece il mondo greco si era sempre mosso con interesse verso l’Oriente. E il mondo romano aveva scoperto il mondo dei Galli e quindi la civiltà dei Celti. La saggezza segreta avrebbe dovuto dunque abitare o presso i druidi, i sacerdoti dei Celti, o presso i sapienti dell’Oriente. Nel III secolo Diogene Laerzio inizia le sue Vite dei filosofi con la frase: “Alcuni vogliono che la filosofia sia cominciata coi barbari: ci sono stati infatti i magi presso i Persiani, i Caldei, i Babilonesi e gli Assiri, i gimnosofisti dell’India, i druidi tra i Celti e i Galati”. Per non dire degli ebrei e dei bramani.
Si sceglie in generale l’Oriente per due ragioni psicologiche e mistiche molto forti: l’Oriente è antico (si sapeva di civiltà orientali che avevano preceduto quella greca) e tutto ciò che è antico è vero; l’Oriente parla lingue ignote, ciò che è ignoto è segreto, e dunque deve contenere una parcella di quel segreto che solo la divinità conosce.
Questo atteggiamento rovescia l’atteggiamento tipico dell’intellettuale greco classico, che identificava i barbari con coloro che non sapevano neppure articolare la parola (l’etimologia di barbaros è questa, è barbaro chi balbetta). Ora invece è proprio il presunto balbettio dello straniero che diventa lingua sacra, piena di promesse e di rivelazioni taciute.
In parole semplici, se la grandezza del razionalismo greco si poteva riassumere nella persuasione che è vero ciò che può essere capito, ora si assume che è vero ciò che non si capisce.
In questo ambiente mistico si decide che la visione di Dio non la si può ottenere che nel silenzio e nella privazione, e cioè attraverso l’ascesi, e attraverso una sorta di intuizione istantanea che scavalca nella visione ogni sforzo razionale. Se Dio è misterioso e nascosto, non potrà che rivelarsi nel sogno, o in qualsiasi altra esperienza psichica affine al sogno.
È la visione, la rivelazione che viene provvista anche tradizionalmente dall’oracolo. Ad analizzarle razionalmente, le parole dell’oracolo non dicono nulla, o dicono troppo: occorre che esse lavorino sul nostro animo in modo da produrre una subitanea illuminazione. Già Eraclito aveva detto che l’oracolo che sta in Delfi “non dice e non nasconde, bensì fa segno” (DK 93), dove la controversa espressione semainei non dovrebbe venir tradotta con “significa” bensì con “accenna”, “suggerisce attraverso una traccia”.
Quindi, se per il razionalismo greco sapere era conoscere attraverso un laborioso discorso mentale le cause (e la conoscenza era conquista umana), per il nuovo misticismo sapere è ricevere, come in una sorta di ebbrezza, una rivelazione che ci proviene da chi sa quello che noi non potremmo altrimenti sapere (e la conoscenza è dono divino). Non è più necessario dialogare, come faceva Socrate, e dispiegare tutte le sottigliezze razionali della dialettica, né apprendere a organizzare, come voleva Aristotele, perfetti sillogismi: occorre attendere che qualcuno parli per noi.
A quel punto il sapere non apparterrà alla ragione, ma al sentimento, al cuore, diventerà di una evidenza quasi tattile (come accade talora ai mistici) e la chiarezza sarà così rapida da confondersi con l’oscurità.