Finanza dei derivati
di Paolo Savona
Finanza dei derivati
sommario: 1. Definizione, finalità e proprietà dei contratti derivati. 2. Caratteristiche strumentali e funzionali dei derivati. 3. Fonti e conoscenze statistiche del fenomeno. 4. I metodi di valutazione dei derivati. 5. Impatto dei derivati sui mercati. 6. Impatto dei derivati sulla creazione monetaria. 7. Impatto dei derivati sugli equilibri di portafoglio. □ Bibliografia.
1. Definizione, finalità e proprietà dei contratti derivati
I contratti 'derivati' (derivative) sono accordi finanziari che hanno lo scopo di trasferire in tutto o in parte i rischi di variazione dei valori di mercato di titoli di credito o di beni reali (obbligazioni, azioni, prestiti bancari, commodity, ecc.), di mettere a disposizione degli operatori nuove opportunità di diversificazione dei loro portafogli o di speculare sui valori presi a riferimento o su grandezze a essi direttamente o indirettamente correlate (indici di borsa, statistiche macroeconomiche, ecc.). Il termine 'derivati' indica che in origine questi accordi si innestavano in contratti 'principali' al fine di coprirne una serie di rischi - derivanti dai tassi dell'interesse, dai rapporti di cambio, dalle quotazioni o da un qualsivoglia prezzo preso a riferimento - e di accrescerne le opportunità; ma le innovazioni introdotte li hanno resi indipendenti dai contratti principali (v. BIS, 1999; v. BIS-Basel Committee ..., 20012).
Un esempio delle finalità di copertura del rischio di un contratto di credito principale stipulato a tasso di interesse variabile o che comporti l'uso di una data valuta si ha quando, simultaneamente o al delinearsi del rischio di variazione del tasso o del cambio, uno o entrambi i contraenti danno vita a un contratto derivato che copre in tutto o in parte le perdite causate dal realizzarsi dell'evento. Il contratto derivato, tuttavia, può essere attuato per fini puramente speculativi e anche prescindendo dall'esistenza di un contratto principale; ciò accade quando un operatore, prevedendo una variazione in uno dei valori o degli indici di mercato, incontra una controparte di avviso contrario e 'scommette' con questa sugli andamenti futuri degli stessi al fine di guadagnare una frazione della variazione che in pratica si realizza (v. U.S. Department of the Treasury..., 1997; v. Hunter e Smith, 2002).
È stato sostenuto che il mercato dei derivati ha elevate capacità di previsione dei valori o degli indici presi a riferimento (price discovery), che attenua e potenzialmente annulla le diversità di conoscenza tra gli operatori (asymmetric information) e che riduce i costi di negoziazione (transaction costs) e le rigidità negli scambi (exchange friction). La sua esistenza favorirebbe pertanto il realizzarsi di talune condizioni richieste affinché il mercato possa garantire l'uso razionale delle risorse (v. The Group of Thirty, 1993). I derivati sono senza dubbio la più grande innovazione finanziaria degli ultimi decenni, e hanno contribuito ad accrescere le possibilità del mercato (v. Salvatore, 1998; v. Savona, 2002), ma offrono anche l'occasione di speculare a bassi costi e per valori nominali elevati senza bisogno di mobilitare risorse effettive, sfruttando la 'benevola disattenzione' (benign neglect) degli organi di vigilanza nazionali e internazionali suggerita dai vantaggi che questi nuovi strumenti finanziari offrono all'attività produttiva e al buon funzionamento dei mercati. In taluni casi i derivati sono stati vistosamente presenti in gravi crisi bancarie e finanziarie (come nel caso della Barings inglese e della LTCM - Long-Term Capital Management - statunitense) o di imprese (si pensi alla italiana Ferruzzi e alla californiana Enron), nonché in recenti crisi valutarie e finanziarie di alcuni paesi o intere aree geografiche (come il Messico e l'Estremo Oriente). In queste occasioni le autorità nazionali e sovranazionali (come il Fondo Monetario Internazionale) sono intervenute per evitare la diffusione degli effetti delle crisi all'interno dei sistemi economici nazionali e nel mercato globale, inducendo una riduzione delle risorse da destinare allo sviluppo a livello locale e una creazione monetaria non desiderata a livello globale. È noto, tuttavia, che nonostante i problemi che i derivati talvolta comportano, e hanno di fatto comportato, le banche centrali e i governi si avvalgono di essi nella loro normale attività sui mercati monetari e valutari. Né possiamo ignorare che i derivati vengono usati anche per aggirare norme fiscali e vincoli amministrativi.
Per 'finanza dei derivati' si deve perciò intendere l'intera problematica sollevata dall'uso privato e pubblico di questi strumenti, e non limitarsi ai soli aspetti riguardanti i servizi resi all'attività produttiva e l'uso fattone dalla speculazione.
2. Caratteristiche strumentali e funzionali dei derivati
È stato sostenuto che i derivati hanno radici nella notte dei tempi. William F. Sharpe (v., 1985) ricorda, tra il serio e il faceto, che Giacobbe acquistò da Labano, in cambio di sette anni di lavoro, l'opzione di sposare la di lui figlia Rachele. Non essendoci quelli che oggi chiamiamo 'organi di controllo', alla scadenza convenuta Labano 'rifilò' a Giacobbe un altro asset, cioè la figlia maggiore Lia. Nonostante ciò, Giacobbe stipulò una nuova opzione per Rachele, accettando di lavorare per altri sette anni in quanto, evidentemente, riteneva il valore del primo asset compensativo di 14 anni di lavoro ai quali si era impegnato e della relativa attesa (ammesso e non concesso che il secondo asset, Lia, non avesse alcun valore).
Saltando a piè pari un numero indefinito di millenni durante i quali i contratti derivati si sono affinati, si è giunti a una loro ramificazione logica che diparte da alcune categorie generali di tipo strumentale e funzionale. Solitamente la distinzione viene fatta sulla base delle caratteristiche degli strumenti usati nei contratti derivati (future, forward, option, swap e repo: v. Barone, 2002), ma è altrettanto importante soffermarsi sulla funzione da essi svolta (hedging, substitutabilty e leverage: v. Vrolijk, 1997) per comprendere gli effetti da essi generati sul mercato monetario, finanziario e reale, e sulle politiche economiche.
I contratti future e forward obbligano i contraenti a scambiarsi a termine un'attività o passività finanziaria o un bene reale a un prezzo specificato. La differenza tra i due consiste negli assetti istituzionali presenti e nei tempi di liquidazione: i futures sono contratti che maturano nei mercati ufficiali e prevedono il regolamento giornaliero presso una clearing house, mentre i forwards sono contratti stipulati fuori dai mercati ufficiali (detti OTC, Over The Counter), di solito con l'assistenza di un agente (dealer), e i profitti e le perdite vengono realizzati alla chiusura del contratto. L'adempimento del contratto avviene liquidando le sole perdite/guadagni oppure con lo scambio materiale dei titoli o dei beni. I rischi in questi contratti sono simmetrici. La perfetta coincidenza teorica tra le due forme si ha quando il tasso dell'interesse considerato dagli stipulanti è nullo, costante o funzione del tempo (condizione di 'non arbitraggio'), e quando non è correlato con il valore oggetto del contratto (ad esempio, il prezzo di commodity o indici di borsa).
Un contratto option attribuisce la facoltà di acquistare o vendere (call o put), contro corrispettivo di un premio, una data attività reale o finanziaria a un dato prezzo fissato a una data futura, oppure la facoltà di stipulare un altro contratto principale o derivato. I rischi in questi contratti sono asimmetrici dato che, nel caso di corsi in ascesa per l'opzione call e flettenti per l'opzione put, il guadagno dell'acquirente è illimitato e la perdita limitata dal premio fissato, mentre l'opposto vale per il venditore anche nel caso di corsi invariati (v. Hull, 19994).
Un contratto swap obbliga a scambiarsi una data attività reale o finanziaria, ivi inclusi flussi futuri di cassa, sulla base di variazioni nei relativi prezzi.
I repos, o contratti 'pronti contro termine', sono operazioni in cui le parti si impegnano a comprare a pronti un'attività di portafoglio e a rivenderla a termine. Tali operazioni sono effettuate su larga scala dalle banche centrali che, attraverso questo strumento, regolano la creazione di base monetaria per controllare la quantità di moneta. Se non fosse per questa particolare funzione, i repos potrebbero essere fatti rientrare, come fanno numerosi autori, nella prima categoria di strumenti.
Le options attribuiscono al titolare la facoltà di esercitare un diritto sui valori indicati contrattualmente; tutte le altre categorie ( future, forward, swap e repo) comportano invece un obbligo a fare.
Nelle rare presentazioni in cui i derivati sono distinti per funzioni svolte, vengono evidenziate le finalità perseguite di trasferimento dei rischi (hedging), quelle di arbitraggio tra assets di portafoglio (substitutability) e quelle di accrescimento della leva finanziaria (leverage) per ottenere una riduzione del costo del capitale o altri vantaggi. Queste funzioni si possono trovare riunite in derivati complessi, che presentano un intreccio tra strumenti usati per finalità omogenee o diverse tra loro.
Vi sono inoltre combinazioni tra contratti principali e derivati che, oggetto di negoziazioni congiunte, creano 'attività sintetiche' (synthetic assets), le quali generano un asset 'teorico', che non esiste nella sua materialità ma riconosce al titolare eguali diritti. La materialità è una caratteristica tipica dei titoli di credito messa in dubbio dalle innovazioni finanziarie; esse infatti creano non solo titoli 'atipici', cioè non previsti dai codici commerciali, ma anche diritti privi di questa loro proprietà (v. Predieri, 2001). Ad esempio, se si innesta un future a 3 mesi su un'obbligazione a lunga scadenza e si negozia questo derivato, si 'crea' un deposito bancario 'sintetico' a 3 mesi; infatti, se alla scadenza le parti decidono di non rinnovare il contratto, l'avente diritto riceverà una somma in danaro o, più probabilmente, un accredito bancario sotto forma di deposito a tre mesi.
In Italia, il riferimento normativo di questi contratti si può rinvenire nel d. l. 23 luglio 1996, n. 415, emanato in attuazione delle direttive comunitarie 93/22 e 93/6/CEE.
3. Fonti e conoscenze statistiche del fenomeno
Solo in epoca recente, al diffondersi dei derivati, sono state raccolte informazioni sistematiche su questi contratti, ma siamo lungi dall'avere una dovizia e una precisione statistiche simili a quelle raggiunte per le altre variabili del sistema economico. I derivati sono espressi sia a 'valori nozionali' (notional value), ossia ai valori nominali delle attività coinvolte, sia a valori lordi di mercato (gross market value), cioè ai valori effettivi in cui si concreta il contratto derivato. È relativamente più facile conoscere l'importo nominale del valore coinvolto che non il contenuto della sua liquidazione finale, anche perché questa può non realizzarsi secondo l'impegno iniziale e dare luogo a un rinnovo del contratto in forme nuove (v. Tavakoli, 20012).
Esistono certamente delle difficoltà nella raccolta di informazioni sulle miriadi di contratti che quotidianamente vengono stipulati. Tali difficoltà possono essere raggruppate in due categorie: per la diffusione dei contratti OTC, e per gli innumerevoli 'innesti e reinnesti contrattuali' che sono stati inventati e che rendono difficile l'individuazione dei diversi tipi di liquidazioni e di rinnovi. Le autorità dovrebbero chiedere ai dealers e alle clearing houses una maggiore collaborazione e alle imprese maggiori dettagli sui contenuti delle poste 'fuori bilancio' (off-balance sheets, cioè tra gli impegni e rischi iscritti nei conti d'ordine) per raccogliere più precise e tempestive informazioni in merito.
Secondo le stime della Bank of International Settlements di Basilea (BIS), a fine 2001 il valore nozionale dei derivati in essere era pari a 135 trilioni di US$ (dollari statunitensi) equivalenti, di cui 24 sui mercati ufficiali e 111 su quelli OTC. Essi si rapportavano a 5,4 volte il prodotto globale lordo di quell'anno. Alla stessa data, il valore lordo di mercato dei contratti stipulati sui mercati OTC era stimato pari a 3,8 trilioni di US$ equivalenti, ossia il 3,4° del valore nozionale. La larga maggioranza di questi contratti ha per oggetto i tassi dell'interesse e per valuta il dollaro statunitense (v. BIS, 1999 e 2002).
4. I metodi di valutazione dei derivati
Il primo tentativo di prezzare (pricing) i derivati risale all'inizio del secolo scorso, quando il francese Louis Bachelier (v., 1900), nella sua tesi di dottorato, propose un metodo di valutazione del prezzo equo di un'opzione su un titolo azionario. Egli ipotizzò che l'evoluzione temporale della quotazione potesse essere descritta da una distribuzione di frequenza normale (o campanulare) la cui media fosse pari alla quotazione iniziale. Sulla base di questa ipotesi, la valutazione dell'opzione coincide con il valore atteso del risultato economico alla scadenza.
Questo metodo è stato utilizzato fino agli anni sessanta, quando Paul A. Samuelson e Robert C. Merton (v., 1969) ipotizzarono che la distribuzione di frequenza delle quotazioni procedesse diversamente (secondo un tracciato lognormale), anche per tenere conto del fatto che il prezzo di un'azione non può essere negativo, condizione non esclusa nella formula di Bachelier. Inoltre, nel tasso di sconto usato nei calcoli essi introdussero le valutazioni dell'investitore relativamente al rischio intrapreso. Per il resto, il pricing dell'opzione si basa sempre sul valore atteso del risultato economico alla scadenza.
Il vero punto di svolta fu però opera di Fischer Black e Myron Scholes (v., 1973), il cui lavoro valse a quest'ultimo (Black essendo nel frattempo deceduto) il premio Nobel per l'economia nel 1997. Essi proposero un modello di valutazione univoco che non presupponeva la conoscenza della funzione di utilità degli investitori e che recepiva un metodo (detto 'di replica') capace di garantire lo stesso risultato economico nel caso di compravendita di un'opzione o del titolo stesso. In tal caso non esisterebbe nessuna possibilità di arbitrare tra soluzioni alternative. Un ulteriore vantaggio è che non occorre avere alcuna informazione riguardo la direzione dei futuri corsi azionari, ma è sufficiente conoscerne la volatilità, ritenuta più prevedibile della prima.
Il metodo di replica è un'ipotesi esplicativa che resta valida, come tutte le teorie, se si verificano le condizioni ipotizzate. Il modello di Black e Scholes presuppone infatti che i mercati finanziari siano perfetti, che sia possibile finanziarsi senza limiti al tasso privo di rischio, che questo tasso resti costante, che l'operazione non sia sottoposta a tassazione e che l'attività sottostante possa essere venduta allo scoperto senza alcuna restrizione. L'ipotesi più stringente è tuttavia che l'evoluzione dei prezzi azionari possa essere descritta da un andamento (corrispondente a un moto browniano geometrico) che non presenti discontinuità e la cui volatilità sia costante. Sotto queste ipotesi, utilizzando gli strumenti del calcolo differenziale stocastico, è possibile individuare un'unica replica perfetta e quindi un unico prezzo del derivato.
Negli anni immediatamente successivi alla pubblicazione della formula di Black e Scholes, Merton propose valutazioni alternative introducendo una volatilità variabile e un tasso di interesse privo di rischio che evolvono secondo schemi predeterminati nel tempo.
Il passo decisivo nella teoria del pricing dei derivati si è avuto, però, con la riconciliazione tra il metodo di replica à la Black e Scholes e quello basato sull'aspettativa del risultato economico à la Bachelier così come riproposto da John C. Cox e Stephen A. Ross (v., 1976). J. Michael Harrison e Stanley R. Pliska (v., 1981) hanno infatti dimostrato, attraverso strumenti elaborati dalla teoria dei processi stocastici, che valutare un derivato con il metodo di replica è equivalente a calcolarne il valore atteso alla scadenza contrattuale e scontare questo al tasso privo di rischio, ipotizzando che in media il prezzo dell'attività sottostante cresca a questo stesso tasso.
Ulteriori sforzi teorici sono stati profusi nel tentativo di allentare le ipotesi riguardo la perfezione dei mercati finanziari e di cogliere gli aspetti nuovi del mercato. Negli ultimi anni l'attenzione si è concentrata soprattutto sulla creazione di modelli che includano una volatilità anch'essa aleatoria, al pari dei prezzi che pure da essa dipendono, e sull'estensione del pricing ai casi in cui il sottostante non sia la quotazione di un titolo, ma un tasso dell'interesse, un rapporto di cambio o un altro derivato.
5. Impatto dei derivati sui mercati
Gli studi sugli effetti di mercato dei derivati hanno prevalentemente riguardato i meccanismi di trasmissione che coinvolgono tassi dell'interesse, rapporti di cambio e quotazioni di borsa. Non sono mancate ricerche sugli effetti causati dai derivati sull'economia reale (v. Vrolijk, 1997), ma essi sono quasi sempre trascurati per due principali motivi: perché i derivati coinvolgono direttamente le grandezze monetarie e finanziarie e solo indirettamente quelle reali, e perché i modi in cui gli impulsi si trasmettono al mercato sono ancora oggetto di dispute accese e non ancora conciliate tra economisti, tanto da essere citati in letteratura con la severa definizione di black boxes (scatole nere), ossia congegni complessi in cui, contrariamente a quanto accade nel caso delle scatole nere incorporate negli aerei, è difficile leggere dentro. Ad esempio, si discute tuttora se il tasso dell'interesse sia un fenomeno reale o monetario, o il risultato di un equilibrio tra i due (come nel celebre paradigma IS-LM). Nell'un caso, i tassi dell'interesse avrebbero diretti effetti sull'economia reale; nell'altro, gli stessi effetti sarebbero indiretti e, quindi, più difficili da valutare.
L'importanza assunta dai derivati sui mercati interni e internazionali imporrebbe che le conoscenze acquisite sui meccanismi di trasmissione all'economia reale degli impulsi monetari e finanziari indotti dall'azione delle forze spontanee di mercato o dalle scelte di politica monetaria e fiscale venissero reinterpretati tenendo conto di questa nuova realtà (v. Hunter e Marshall, 1999).
Le maggiori difficoltà analitiche sono legate al fatto che l'uso dei derivati nelle gestioni produttive e finanziarie si intreccia con operazioni puramente speculative e di aggiramento di regole istituzionali o con scelte di politica economica (v. Angeloni e Massa, 1994). Non è facile accertare se questo intreccio produca o meno effetti stabilizzanti sulle variabili coinvolte (tasso dell'interesse, cambio, quotazione di borsa, valore di un credito). Questo dilemma non è specifico dei derivati, dato che tra gli economisti non si è mai assopita la disputa se la speculazione apporti benefici all'economia produttiva per la sua potenziale capacità di neutralizzare le divergenze di valutazione degli operatori dando stabilità ai mercati, oppure se alteri in via transitoria o permanente le condizioni di domanda e di offerta, mantenendo in continuo squilibrio i mercati dei beni e dei servizi finanziari e non finanziari coinvolti, diminuendone l'efficienza.
Per la dimensione raggiunta e per l'uso fatto dei derivati nei momenti di più intensa speculazione internazionale si hanno motivi per ritenere - ma non per stabilire in modo inequivocabile, data l'assenza di statistiche adeguate - che su questo mercato prevalgano i moventi speculativi rispetto a quelli più strettamente connessi con l'attività produttiva. La letteratura sull'argomento propende comunque per un'interpretazione positiva degli effetti causati dai derivati, anche se ammette che essi hanno accresciuto la variabilità delle quotazioni di beni reali e di titoli di credito e, di conseguenza, il rischio dell'attività economica che lo strumento si prefigge di coprire, creando una circolarità di impulsi.
Sulle proprietà previsive (price discovery) dei derivati abbondano le evidenze econometriche (come testimoniano i numerosi articoli pubblicati sul "Journal of derivatives"), ma la validità di molti dei risultati dipende, come è ovvio, da quella delle ipotesi di partenza: se si dimostra, ad esempio, che i futures hanno correttamente previsto tre mesi prima il tasso dell'interesse che si sarebbe affermato sul mercato, se ne trae la conclusione che il potere previsivo dello strumento è ottimo e, quindi, la sua funzione è stabilizzante. Ma questa resta pur sempre un'ipotesi, perché si può facilmente argomentare che, se il sistema funziona come indicato, ossia se tutti gli operatori, consci del potere previsivo dei derivati, orientano i loro comportamenti sulla base dei futures, l'evento previsto si realizzerà in ogni caso e, pertanto, i derivati determinano invece di ben prevedere. In breve, la speculazione in derivati ha il potere di influenzare il mercato plasmando o, quanto meno, contribuendo a plasmare i fondamentali.
Questo argomento è confermato da uno degli operatori in derivati più importanti sul mercato globale, George Soros, il quale, sulla base della sua esperienza, ha indicato che la speculazione in derivati determina i fondamentali e, pertanto, non sono questi a prevalere sui comportamenti del mercato, ma viceversa. Si consideri il caso di un forte attacco speculativo contro una moneta debole sul mercato dei cambi: se il deprezzamento va oltre il suo valore di equilibrio, e perdura, i contratti stipulati risulteranno influenzati nella loro dimensione; ad esempio, le importazioni diminuiranno e le esportazioni aumenteranno, influenzando la produzione e/o i prezzi interni. In tal modo i fondamentali si plasmeranno in funzione della speculazione e, quando questa cesserà di operare, le condizioni delle variabili coinvolte non saranno più le stesse di prima. L'ipotesi che l'attacco avvenga su una moneta 'debole' rende comunque giustizia anche alla tesi opposta, ossia che siano i fondamentali a muovere la speculazione e non viceversa, come insegna la teoria tradizionale delle crisi valutarie. Da queste considerazioni si può trarre la conclusione che, come nel caso di ogni altra variabile del sistema economico, i rapporti di causa ed effetto si realizzano simultaneamente e, in talune circostanze, la direzione muoverà dai derivati ai fondamentali e, in talaltre, opererà in direzione opposta. L'abilità dell'analista sarà appunto quella di intuire che cosa stia accadendo con l'aiuto di strumenti econometrici, ma senza attribuire a questi un ruolo dirimente nelle dispute interpretative che essi non possono avere.
Per le proprietà dei derivati sopraindicate, la tesi che tuttora prevale presso le autorità ufficiali è che ogni loro limitazione renderebbe meno efficiente il funzionamento dei mercati. La realtà è che gli operatori in derivati godono di una libertà che rasenta l'anarchia. Proprio per la natura monetaria e finanziaria dei derivati sarebbe opportuno estendere a tale mercato le normative prevalenti sugli analoghi mercati regolamentati. Anche per i derivati si ripete, quindi, il dibattito che a cavallo dei secoli XIX e XX si sviluppò intorno ai processi di creazione monetaria e si concluse con l'introduzione di 'briglie' alla loro espansione, attraverso regole in continua evoluzione per fronteggiare la ben nota capacità del mercato di aggirarle, inventando nuovi strumenti.
6. Impatto dei derivati sulla creazione monetaria
Non esistono dubbi sul fatto che l'uso dei derivati accresca la liquidità delle attività prese a riferimento dei contratti ma, nonostante l'attenzione dedicata al problema dalle banche centrali in sede BIS di Basilea, da questa osservazione non sono state tratte le dovute conseguenze per le gestioni monetarie ufficiali. I tesorieri delle banche e delle imprese sanno bene che tenere moneta significa avere un asset che non rende, rende meno di altri o costa di più delle loro liabilities. Per le banche l'esistenza di 'riserve libere' è necessaria al fine di gestire il sistema dei pagamenti per conto della propria clientela, ma per minimizzare il costo di opportunità sostenuto per tenere moneta occorre un'accorta gestione. In un assai noto e scherzoso sonetto, William Baumol assimilò queste riserve alla carta moschicida in cui le banche-mosche restano invischiate. Le imprese non commerciali non hanno normalmente pari necessità di tenere moneta, ma anche per esse il formarsi per un qualsiasi motivo di eccessi di liquidità comporta la ricerca di una gestione finanziaria che ne ottimizzi l'uso. I derivati sono un potente strumento per disfarsi di cassa o per averne quando necessario, minimizzando il costo di opportunità sopportato per tenere scorte monetarie, esattamente come si impone per ogni genere di scorta produttiva. Per la finanza di impresa i derivati sono diventati strumenti gestionali equivalenti alle tecniche just-in-time usate nei processi produttivi.
Possedere derivati che diano diritto ad avere moneta a una data scadenza (peraltro continuamente rinnovabile nei tempi desiderati) pone alle autorità monetarie problemi simili a quelli che Keynes aveva già individuato per la moneta intesa in senso proprio, e che chiamò "paradosso della liquidità": tutti si sentono liquidi perché con i contratti derivati hanno diritto ad avere moneta quando vogliono, ma il sistema nel suo complesso non lo è. Quando ciò avviene e la 'chiamata' per la soluzione del contratto, cioè per la consegna della moneta, eccede la possibilità dell'offerta di mercato, le autorità devono 'servire' l'eccesso onde evitare che il sistema entri in crisi. In breve, le autorità fungono da prestatrici di ultima istanza (lenders of last resort) anche di questo mercato, compito di cui hanno cercato di disfarsi in vari modi (proibizione alle tesorerie dello Stato di creare moneta, miglioramento dei mercati interbancari e di carta commerciale, creazione di fondi assicurazione depositi) per non perdere il controllo della creazione di base monetaria. A causa dei derivati le autorità possono perdere momentaneamente o per lunghi periodi il controllo della quantità di moneta, quando sono chiamate a fronteggiare crisi generate da singoli operatori che rischiano di estendersi all'intero sistema (chiamate appunto 'crisi sistemiche'). Si pone perciò lo stesso problema che si è dovuto affrontare per riportare sotto controllo l'offerta monetaria tradizionale: usare strumenti, come le riserve obbligatorie e/o i coefficienti di capitale, per controllare la quantità di moneta creata sotto forma di derivati (v. Savona e Maccario, 1998).
La reazione delle autorità a questa interpretazione dell'impatto dei derivati sulla creazione monetaria è stata finora quella di negare questa natura allo strumento, come già avvenne per l'eurodollaro decenni orsono (v. Deutsche Bundesbank, 1994). Savona e altri (v., 2000) hanno sottoposto a test econometrico la relazione tra l'uso di alcune categorie di derivati e taluni tassi dell'interesse, pervenendo alla conclusione che tale relazione è la stessa ipotizzata da Keynes per la domanda di moneta speculativa (liquidity preference): esiste cioè una relazione inversa tra domanda di derivati e tasso dell'interesse. Se non si avesse coscienza del fatto che taluni derivati 'sintetici' hanno la natura di depositi bancari, sono cioè moneta in senso tradizionale, questo risultato porterebbe ad attribuire natura monetaria anche ad alcuni derivati 'semplici'. Inquadrata nella teoria prevalente, ossia quella che lega la quantità di moneta ai prezzi, la conseguenza logica sarebbe che le banche centrali dovrebbero tenere conto dei derivati nella fissazione dei targets di crescita dell'offerta monetaria.
Questa non è, tuttavia, l'unica implicazione possibile per le politiche economiche. Un'altra riguarda il mercato dei cambi, dove da tempo immemorabile, prima ancora della recente diffusione dei moderni derivati, i governi, o per essi le banche centrali, hanno largamente operato e che oggi, sfruttando tecniche innovative raffinate, governano (o almeno provano a farlo) i rapporti internazionali tra monete, gettando talvolta le basi per gravi crisi valutarie, come quella che ha coinvolto il peso messicano (v. Garber, 1998) e il baht tailandese. Quando le conseguenze dell'uso dei derivati si estendono all'economia globale, le politiche di risposta desiderabili dovrebbero andare ben al di là di quelle suggerite dai consessi ufficiali, vale a dire porre ordine in casa propria e migliorare i meccanismi di controllo degli intermediari.
I derivati coinvolgono inoltre anche la politica fiscale in un senso più ampio di quello implicato dal governo del mercato dei cambi. Alcune tesorerie di Stato si sono infatti avvalse di essi anche per finalità particolari (v. Piga, 2001), ma nessuno si è spinto fino a trarne le implicazioni relative al mercato per una migliore definizione e conduzione di questa parte della politica economica.
7. Impatto dei derivati sugli equilibri di portafoglio
I derivati partecipano alla formazione dei portafogli di una nazione, in particolare di quelli degli intermediari bancari e finanziari e delle imprese, svolgendo funzioni di substitutability e di leverage. Nello studio dei meccanismi di trasmissione monetari e finanziari all'economia reale, uno dei problemi centrali è quello della più o meno facile sostituibilità tra attività e passività nei portafogli degli operatori. La teoria neoclassica la ipotizza perfetta (da cui trae la conseguenza di 'lasciar fare' al mercato), quella keynesiana imperfetta (da cui trae l'esigenza di un intervento pubblico che riattivi i meccanismi di trasmissione stimolando in tal modo investimenti, domanda aggregata e occupazione). I derivati non solo accrescono la sostituibilità tra assets di portafoglio, ma anche il loro ammontare allo scopo di ridurne il costo (effetto leva) o di soddisfare la funzione di profitto desiderata (effetto reddito). Come è accaduto per la stima dei parametri dei modelli polifunzionali negli anni sessanta, una nuova 'frontiera della conoscenza' è quella di stimare i coefficienti di substitutability e di leverage in presenza di derivati per migliorare le previsioni e per rendere più solide le basi decisionali della politica monetaria e, anche se in minor misura, di quella fiscale.
Tra i vari modi di affrontare il problema della sostituibilità vi è quello proposto da James Tobin, premio Nobel per l'economia nel 1981 (v. Tobin e Brainard, 1976), il quale ha individuato lo 'snodo' del problema nel parametro q, ossia nel rapporto tra il valore di mercato degli investimenti produttivi e il loro costo di rimpiazzo. Quando il rapporto è superiore all'unità esiste un incentivo a investire, ossia ad accrescere il capitale produttivo. Poiché il valore di mercato incorpora le aspettative circa la profittabilità futura degli investimenti, non può esservi dubbio sul piano teorico che la 'q di Tobin' sia influenzata dai contratti derivati, i quali di queste aspettative si alimentano costantemente, contribuendo a crearle.
Il problema della finanza dei derivati si intreccia, quindi, con quello più generale dei meccanismi di accrescimento del capitale produttivo, che sta al centro del problema dello sviluppo. Più specificamente, la sua decifrazione logica passa attraverso due livelli di risposta: in primo luogo si tratta di individuare il meccanismo di trasmissione degli impulsi monetari e finanziari all'economia reale, e, in secondo luogo, di accertare il ruolo dei derivati in questo meccanismo. La q di Tobin è un indicatore che ha il pregio di riassumere l'intera problematica, da quella in parte risolta a quella ancora oggetto di vive dispute. La determinazione del valore del capitale produttivo solleva infatti la questione tuttora insoluta della misurabilità del capitale. Se si desidera individuare anche il suo costo di rimpiazzo è necessario conoscere le regole di determinazione del tasso dell'interesse, dato che esso svolge un ruolo fondamentale nella determinazione della q di Tobin o, al di là di questo parametro, nel processo di accumulazione capitalistica. Se, come si è argomentato, i derivati influiscono sulla determinazione dei tassi dell'interesse, la finanza relativa svolge un ruolo importante non solo nella determinazione delle grandezze monetarie, ma anche all'interno del meccanismo di formazione del capitale produttivo secondo il paradigma di Tobin.
Precisato che quelle finora avanzate sono ipotesi che attendono una più precisa verifica empirica, sul piano logico la conclusione è che i derivati hanno il potere di accrescere la ricchezza in forma monetaria e finanziaria sia direttamente, ossia avvalendosi della loro proprietà funzionale di leverage, sia indirettamente, attraverso gli effetti che essi hanno (con lo hedging tra rischi) sui tassi dell'interesse e sui cambi, senza che peraltro sia possibile appurare la dimensione dell'effetto. I derivati, comunque, possono fungere da ponte tra il possesso di attività monetarie e finanziarie e attività reali, consentendo di cogliere il momento opportuno per tale trasformazione (substitutability) o di evitare di trovarsi invischiati in investimenti reali errati, sfuggendo così a quella 'distruzione creativa' insita nei fallimenti di impresa. Questa è la risposta del premio Nobel Franco Modigliani al nichilismo di Piero Sraffa circa la misurabilità del capitale: il suo teorema putty-clay (argilla-creta) afferma che la misurabilità del capitale è possibile finché esso resta in forma finanziaria, o 'di argilla', mentre il problema si pone quando si trasforma in 'creta', ossia in capitale fisico. I derivati, in particolare le options, consentono di vantare diritti sulla creta tenendo argilla, o di tenere creta prontamente trasformabile in argilla rendendo più elastica la gestione dei portafogli.
Esiste tuttavia anche una partenogenesi finanziaria del profitto dovuta alla speculazione monetaria e finanziaria, che è forse il punto debole dell'economia moderna; in questo processo i derivati sono un ulteriore motivo di complicazione dell'attività di generazione del reddito, dell'occupazione e della ricchezza reale, intorno al quale gli economisti si interrogano da secoli. Ad esempio, se i premi pagati per adempiere ai contratti derivati rigonfiano gli assets monetari e finanziari, non siamo di fronte a un profitto propriamente definito, ma a un diritto di impossessamento dello stesso acceso a carico della ricchezza o dell'attività produttiva corrente. Oppure, se, come si è detto, un insieme elevato di contratti derivati creasse il diritto ad avere moneta e la banca centrale fosse costretta a servire questa esigenza per evitare crisi sistemiche e senza la possibilità di sterilizzare questi flussi, allora si genererebbe un diritto aggiuntivo sulla ricchezza reale e sui flussi di reddito che esproprierebbe il potere d'acquisto creato con i meccanismi ortodossi della loro formazione in modo non dissimile da quello causato dall'inflazione.
Allo stato delle conoscenze, l'ipotesi più ragionevole è che le autorità monetarie includano i derivati nei targets monetari presi a base della loro azione, nella misura suggerita dalla necessità di servire la domanda di moneta nascente dalle liquidazioni di contratti derivati in essere, oppure ne scoraggino l'intrapresa entro certi limiti usando strumenti che ne accrescano il costo. Per svolgere un'azione corretta, le autorità monetarie devono perciò conoscere almeno il saggio di sostituzione in moneta degli assets finanziari indotto dai derivati. Così pure dovrebbero conoscerlo le autorità fiscali per una migliore efficacia delle loro politiche.
In conclusione, quando le autorità monetarie sono in condizioni di influire sulle aspettative del mercato e di indirizzarle verso obiettivi di stabilità e di sviluppo, i derivati contribuiscono allo stesso scopo distribuendo meglio i rischi, migliorando le informazioni e diffondendole a tutti gli operatori, riducendo costi e frizioni negli scambi e accrescendo così l'efficienza dei mercati, con effetti positivi sull'economia reale. Quando invece i derivati assumono il controllo delle aspettative di mercato sottraendolo alle autorità monetarie e muovono massicci attacchi speculativi sganciati dai fondamentali dell'economia, essi pregiudicano le capacità del mercato di garantire un uso razionale delle risorse, con effetti negativi sull'economia reale. Ciò accade quando prevalgono quelli che in gergo vengono chiamati noise traders, cioè operatori capaci di disturbare una corretta statuizione dei tassi dell'interesse, dei rapporti di cambio e dei valori di assets e liabilities per un tempo sufficientemente lungo da modificare talune macrograndezze (come le domande di moneta nazionale o estera, di credito, di esportazione e di importazioni) e da accrescere per partenogenesi il volume dei diritti monetari e finanziari sulla ricchezza reale. Quale che sia la valutazione che si dà dei derivati, la loro esistenza non può essere ignorata né nell'ambito della politica economica, né dai previsori, se vogliono che le loro prestazioni siano di buon livello.
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