Finanza pubblica
Dopo i contributi di alcuni studiosi italiani alla letteratura sulla finanza pubblica nel periodo presmithiano (J.A. Schumpeter, History of economic analysis, 1954; trad. it. 1° vol., 1959, p. 248), la prima opera italiana significativa è il Trattato speciale delle imposte (1850) di Francesco Ferrara. Ma solo con l’affermarsi dell’analisi marginalista comincia l’elaborazione di un’organica teoria della finanza pubblica. Gli studiosi italiani, consapevoli della differenza tra scelte individuali e scelte pubbliche, della rilevanza del contesto politico e del ruolo dello Stato, impostano le loro analisi in larga misura sulla base della premessa che, anche in un sistema di mercato, nel campo della finanza pubblica, vi sia la necessità della coazione al fine della massimizzazione del benessere sociale.
Negli ultimi decenni dell’Ottocento, nell’ambito dell’analisi marginalista, si sviluppa in Italia una teoria della finanza pubblica largamente basata sull’approccio dello scambio volontario: le decisioni riguardanti l’ammontare della spesa pubblica, e la sua allocazione tra i diversi settori dell’economia, si ritiene che debbano riflettere le preferenze degli individui. Accanto ai beni privati, che soddisfano bisogni privati, vi sono i beni pubblici, che soddisfano bisogni pubblici. Le imposte, che sono il prezzo pagato dai contribuenti per i beni e servizi pubblici, devono essere neutrali, cioè non devono modificare l’equilibrio determinato dal mercato attraverso il sistema dei prezzi, che assicura l’ottima allocazione delle risorse. Nell’ambito dell’approccio dello scambio volontario, un ruolo rilevante è svolto da Maffeo Pantaleoni, Antonio De Viti De Marco e Ugo Mazzola che, insieme all’austriaco Emil Sax e agli svedesi Knut Wicksell ed Erik Lindahl, con i loro contributi teorici consentono alla finanza pubblica di raggiungere lo status di disciplina scientifica autonoma dall’economia politica.
Pantaleoni, nello scritto Contributo alla teoria del riparto delle spese pubbliche (1883), è il primo economista ad applicare la legge dell’eguaglianza delle utilità marginali per determinare l’equilibrio efficiente del bilancio pubblico, sia dal lato delle entrate sia da quello delle spese. La tassazione produce sia un costo sia un’utilità, poiché il pagamento delle imposte implica un trasferimento di risorse dall’uso privato allo Stato per il finanziamento della spesa pubblica. Vi è una chiara interdipendenza tra fattori economici e politici, perché, in ultima analisi, è il Parlamento che, interpretando le stime dei bisogni pubblici fatte dai cittadini, decide la distribuzione delle spese pubbliche, con l’obiettivo che la soddisfazione totale che ne deriva sia almeno eguale al sacrificio totale che scaturisce dall’imposizione.
Il primo importante tentativo di un’organica teoria del ruolo dello Stato nell’attività economica è dovuto a De Viti De Marco il quale, nel saggio Il carattere teorico dell’economia finanziaria (1888), sostiene che l’attività finanziaria è di natura produttiva, poiché trasforma le imposte in servizi pubblici che soddisfano i bisogni della collettività, generando un costo. Il rapporto tra soddisfazione e costo rappresenta l’essenza del calcolo finanziario. La vecchia idea di considerare lo Stato come un elemento perturbatore dell’economia privata è un’inadeguata spiegazione della realtà. Lo Stato può essere visto come una grande industria che trasforma parte della ricchezza privata in servizi pubblici (Il carattere teorico, cit., pp. 63, 90-91). Nel moderno Stato democratico, a differenza del vecchio Stato monopolista, tutti i cittadini sono, nello stesso tempo, produttori e consumatori di servizi pubblici, per cui lo Stato assume il carattere economico delle imprese organizzate in modo cooperativo. Il suo sistema di coazione mira solo a costringere i cittadini recalcitranti all’osservanza del patto sociale (pp. 94-96). Lo Stato moderno non produce servizi speciali, ma servizi generali; pertanto, scompare il fenomeno del prezzo e il costo dei servizi pubblici è finanziato dalle imposte (p. 103). Per la ripartizione del costo dei servizi generali, il principio economico che il consumo individuale dei servizi pubblici aumenta con l’agiatezza dei cittadini, addita il patrimonio, e, meglio ancora, il reddito netto, come l’indicatore più sicuro della capacità di domanda individuale dei servizi pubblici (pp. 135-36).
Prima della pubblicazione del saggio di De Viti De Marco, nel 1887 fu pubblicato il saggio di Sax, Grundlegung der theoretischen Staatswirtschaft. I due saggi hanno lo stesso contenuto, ma usano approcci differenti. Nel saggio di Sax, al centro dell’attività finanziaria sono gli individui (Pica 2003, pp. 45-48); nel saggio di De Viti De Marco, invece, al centro dell’analisi è lo Stato.
Un altro contributo di rilievo è il saggio di Mazzola I dati scientifici della finanza pubblica (1890). Per Mazzola, i bisogni collettivi sono una condizione necessaria per l’intervento dello Stato nell’economia e per stabilire l’oggetto della finanza pubblica. La cooperazione politica, ovvero la presenza sia del meccanismo di mercato sia del sistema politico, è essenziale per il soddisfacimento dei bisogni pubblici mediante i beni pubblici (I dati scientifici, cit., pp. 52, 59-62). I beni pubblici sono complementari ai beni privati; pertanto, la domanda di beni pubblici è strettamente legata alla domanda di beni privati (pp. 66-73). Per i beni pubblici si verifica il fenomeno del consolidamento dei bisogni: finché essi sono, in termini sia qualitativi sia quantitativi, appropriati ai bisogni dei cittadini, vi è la tendenza al consolidamento della loro utilità nella psicologia del contribuente, che si attiva per la loro fornitura solo nel caso di una loro mancanza (p. 37). Il carattere dell’indivisibilità dei beni pubblici, già delineato da Sax e De Viti De Marco, è chiaramente stabilito per la prima volta da Mazzola (p. 171), che pone anche in rilievo che il consumo indivisibile è la ragione tecnica per cui è impossibile la formazione di un prezzo unico, come nel caso dei beni venduti sul mercato. Poiché i consumatori di beni pubblici differiscono per reddito e per gusti, il prezzo è per ciascun consumatore determinato dal grado di utilità finale dei beni stessi (p. 171).
Il contributo di Mazzola alla teoria dei beni pubblici è criticato da Wicksell (Finanztheoretische Untersuchungen, 1896; trad. it. 1934, pp. 85-86), che ritiene che l’eguaglianza tra prezzi e utilità marginali dei beni pubblici sia di fatto impedita dal comportamento da free-rider: l’individuo non rivela le proprie preferenze per i beni pubblici, in quanto ne può fruire senza condividerne i costi. Questa critica, però, può essere mossa anche al ben noto modello di Lindhal (Die Gerechtigkeit der Besteuerung, 1919), discepolo di Wicksell. Pur non considerando la teoria di Mazzola soddisfacente, Wicksell, tuttavia, ritiene che contenga «un nocciolo di verità il quale si potrà sviluppare in modo fecondo per la teoria e la pratica della scienza finanziaria» (Finanztheoretische, cit., p. 86).
I contributi italiani, austriaci e svedesi alla teoria dei beni pubblici furono portati all’attenzione degli studiosi anglosassoni dall’articolo di Richard A. Musgrave The voluntary exchange theory of public economy (1939). Nei successivi anni Cinquanta questo articolo stimolò i contributi pionieristici sull’argomento di Paul A. Samuelson e dello stesso Musgrave che, da un lato, alla luce delle condizioni dell’ottimo paretiano, stabiliscono le condizioni marginali per l’efficienza allocativa nella fornitura di beni pubblici e nella distribuzione del carico fiscale; dall’altro, espongono certe caratteristiche dei beni pubblici, specialmente «offerta congiunta» (o «assenza di rivalità nel consumo», o «consumo collettivo», o «consumo congiunto») e «non escludibilità» (o «impossibilità di effettuare un razionamento mediante il sistema dei prezzi»). In particolare, la caratteristica della «indivisibilità» dei beni pubblici, già chiaramente posta in rilievo da Mazzola, trova un fondamento analitico nella definizione di Samuelson di «assenza di rivalità nel consumo» (R.A. Musgrave, The theory of public finance, 1959, pp. 61-89; R.A. Musgrave, A brief history of fiscal doctrine, 1985, trad. it. 1995, pp. 13-26). Ciò rappresenta una delle evidenze della connessione tra alcune delle maggiori idee proposte dalla tradizione italiana di finanza pubblica e la moderna teoria dei beni pubblici (Fossati 2003, p. 99).
A partire dalla fine del 19° sec., un importante gruppo di studiosi italiani cerca di costruire una teoria economica dell’attività finanziaria dando rilievo all’elemento politico-sociologico nell’esame delle ragioni e degli effetti della sostituzione delle scelte collettive di tipo coercitivo alle scelte individuali. L’approccio è fondato sull’idea che i fenomeni finanziari non possono essere esaminati soltanto sulla base del calcolo economico individuale. Il potere di decisione appartiene allo Stato che, come risultante di una serie di forze di natura sociologica, è l’espressione dell’equilibrio politico all’interno della società. Secondo gli studiosi che pongono l’enfasi sugli aspetti politici, le decisioni finanziarie, che dipendono dall’equilibrio di potere tra governanti e governati, sono poste in essere coercitivamente dalla minoranza governante che, esercitando il potere politico, è in grado di imporre le proprie scelte agli individui governati, anche contro le loro preferenze. Secondo gli studiosi che sottolineano la rilevanza dell’aspetto sociologico, il processo decisionale è governato da classi o gruppi sociali non omogenei che, operando in conflitto reciproco, causano le decisioni finanziarie.
Gli studiosi italiani che pongono in rilievo gli aspetti sociologici dell’attività finanziaria fanno riferimento al pensiero di Vilfredo Pareto, nonostante questo studioso consideri tutti i tentativi di costruire un’esauriente teoria della finanza pubblica volti a coprire, con apparenti formulazioni logiche, meri interessi di ben definite forze sociali (Trattato di sociologia generale, 19232, p. 432).
La drastica posizione di Pareto non ha impedito a Gino Borgatta di ritenere che la teoria dell’equilibrio sociologico costituisca un valido supporto per un’analisi specifica dei fenomeni finanziari. Borgatta, dopo aver riassunto, in Lo studio scientifico dei fenomeni finanziari (1920), i principali punti della sua visione sociologica della teoria della finanza pubblica, negli anni successivi volge il suo interesse verso l’usuale analisi economica dei problemi di teoria finanziaria. Nel suo maggior saggio sui problemi della finanza straordinaria, La finanza della guerra e del dopoguerra (1946), riaffermata la propria convinzione della generale natura sociologica dell’attività finanziaria, sottolinea le cause economiche e la rilevanza dell’elemento politico in tema di finanza straordinaria.
Anche Guido Sensini (in Studi di scienze sociali, 1° vol., 1932) pone l’accento sull’equilibrio sociologico. Nel campo della finanza pubblica, la maggior parte delle azioni rientrano tra le azioni miste, che derivano sia dal ragionamento logico sia da meri istinti, desideri e così via. Ma la componente non logica largamente eccede quella logica, poiché i fenomeni finanziari sono strettamente connessi con gli eventi politici. Pertanto, per l’accertamento delle loro similarità e differenze, si deve ricorrere alla sociologia.
Amilcare Puviani, Giovanni Montemartini, Carlo Angelo Conigliani, Roberto A. Murray, Achille Loria, Benvenuto Griziotti e Cesare Cosciani sono studiosi che, da vari angoli visuali, pongono l’enfasi sul fattore politico nelle scelte finanziarie, considerando al centro dell’analisi il rapporto tra l’individuo e lo Stato.
Il saggio di Puviani, Teoria della illusione finanziaria (1903), nonostante abbia elementi di grande originalità, è stato a lungo negletto, prima del suo riesame da parte di Mauro Fasiani (Principii di scienza delle finanze, 1941, 1° vol., pp. 65-171). Puviani definisce l’illusione finanziaria come una valutazione erronea (sovrastima o sottostima) degli individui del sacrificio causato dall’onere fiscale e del beneficio derivante dalla spesa pubblica. L’illusione finanziaria è parte dell’illusione politica, cioè dei giudizi politici erronei delle masse sociali intorno ai fini dello Stato e agli effetti della sua attività (Teoria della illusione finanziaria, cit., pp. 7-11). Le illusioni finanziarie, dal lato sia delle entrate sia delle spese, che distorcono la percezione da parte del contribuente dell’equilibrio tra sacrificio e utilità, sono un mezzo attraverso cui lo Stato può raggiungere i suoi fini. La maggior parte delle illusioni finanziarie operano o offuscando il costo reale di beni e servizi pubblici, o sovrastimando la loro utilità (illusioni ottimistiche). Il caso opposto (illusioni pessimistiche) è poco comune.
Montemartini costruisce una teoria della finanza pubblica concependo lo Stato come un’impresa industriale che ripartisce in modo coercitivo i costi dei servizi pubblici tra la comunità. Montemartini (in Le basi fondamentali della scienza finanziaria pura, 1900, p. 561) ritiene necessaria la coazione, poiché ogni comunità organizzata politicamente non può essere vista come una cooperativa di produttori e consumatori, in quanto in ogni società vi sono sempre differenti gusti e differenti bisogni, maggioranze e minoranze. Il maggior interesse di Montemartini è la municipalizzazione dei servizi pubblici che comporta una redistribuzione coercitiva del reddito a beneficio dei consumatori dei servizi prodotti e dei lavoratori delle imprese municipalizzate. Dall’analisi di questi problemi, Montemartini (Municipalizzazione dei pubblici servigi, 1902, pp. 347-49) trae due fondamentali conclusioni: ogni classe tende a far considerare i suoi bisogni come bisogni pubblici, addossandone i costi alla collettività; ogni classe, al fine di minimizzare il suo carico fiscale, cerca di porne la maggior parte dell’onere sulle altre classi.
Per Conigliani (in Studi di teoria finanziaria, 1894, rist. 1903, pp. 445-52), l’elaborazione di una teoria della finanza pubblica presuppone che il fenomeno economico della spesa sia mantenuto separato dal fenomeno politico delle entrate. Per la spesa, è la comparazione dell’intensità dei vari bisogni pubblici che fornisce i criteri per stabilire il loro ordine di importanza, e determina quelli che non possono essere soddisfatti per il limite derivante dalla tassazione, che comporta un atto economico di coazione politica.
L’approccio di Murray (sia in Le nozioni dello Stato, 1913; sia in Principi fondamentali di scienza pura delle finanze, 1914) è molto simile a quello di Conigliani. Murray, in una serie di lavori – ricchi di accorte osservazioni circa i fenomeni finanziari, anche se a volte prolissi e contraddittori –, sostiene, attraverso argomenti di tipo economico, giuridico e sociologico, che il trasferimento di ricchezza dalle classi dominate a quelle dominanti non può essere concepito in assenza del potere di coazione dello Stato.
L’interpretazione politica dell’attività finanziaria è particolarmente incisiva in Loria (Le basi economiche della costituzione sociale, 1886, 19134, pp. 349, 388-94), seguace della teoria del determinismo economico. Egli ritiene che la struttura fiscale di un Paese dipenda dal ruolo e dalla forza della classe sociale che lo governa economicamente, facendo ricadere esclusivamente, o prevalentemente, l’onere dell’imposizione sulle classi soggette. In altre parole, il sistema economico determina il sistema politico, e il sistema politico determina il sistema fiscale.
L’essenziale carattere politico dell’attività finanziaria è posto in rilievo anche nei primi lavori di Griziotti. Successivamente, per l’allocazione dell’onere dell’imposizione, egli considera anche necessaria la conoscenza dei concetti giuridici che informano le relazioni tra Stato e contribuenti e tra le istituzioni che formano il sistema giuridico. Il punto fisso di riferimento della sua visione diventa così la complementarità funzionale delle diverse discipline finanziarie (Lo studio funzionale dei fatti finanziari, 1940, p. 314).
L’applicazione della teoria della coazione all’attività finanziaria è molto articolata nell’analisi di Cosciani (come appare dai suoi articoli del 1938, 1943 e 1944) il quale ritiene che sia la coazione a dare alla finanza pubblica l’autonomia scientifica nei riguardi dell’economia politica. La classe dirigente fissa i modi e l’estensione dell’attività finanziaria in vista del conseguimento dei fini dello Stato, cioè dei bisogni pubblici concretamente determinati dalle scelte della stessa classe dirigente. La collettività, cioè il complesso degli individui oggetto del potere coercitivo della classe dirigente, fornisce i mezzi necessari. La classe dirigente cerca di minimizzare il costo dell’attività finanziaria e le reazioni della collettività – di tipo economico (evasione fiscale) e non economico (spinte a sostituire la classe dirigente) – razionalizzando la sua condotta attraverso un migliore adattamento dei mezzi ai fini e sfruttando il fenomeno delle illusioni finanziarie. L’attività finanziaria tende a muoversi più in direzione della posizione ottimale per la classe dirigente, che ha il potere di imporre le sue scelte mediante la coazione.
L’approccio degli studiosi italiani ai problemi dell’equità corrisponde al moderno principio dell’equità orizzontale, cioè individui identici sotto tutti gli aspetti rilevanti devono essere assoggettati allo stesso carico tributario. Pertanto, vi è un orientamento a favore di un’imposta generale che non comporta trattamenti discriminatori rispetto a un’imposta speciale.
De Viti De Marco (Principii di economia finanziaria, 1934, pp. 86-89), nel cercare di stabilire il concetto di imposta generale sul reddito, muove dalla considerazione che la ripartizione della tassazione è legata alla relazione di scambio tra imposte e servizi pubblici generali. Ma il consumo individuale di questi servizi è una quantità sconosciuta, per cui è necessario procedere sulla base di due premesse: il consumo dei servizi pubblici generali varia in funzione diretta dei redditi individuali; tutti i cittadini sono eguali di fronte alla legge in termini di tassazione. Da queste premesse sembrerebbe deducibile il principio della tassazione proporzionale, ma De Viti De Marco (Principii, cit., pp. 143-75) mostra l’impossibilità di una dimostrazione logica, in base alla teoria economica, di un’imposizione sia proporzionale sia progressiva. La scelta tra i due sistemi (proporzionale o progressivo) è legata, sia a vari fattori extra-economici (contrasti di interesse tra le varie categorie di contribuenti), sia a fattori economici (effetti sulla produzione e distribuzione del reddito e della ricchezza e accumulazione del capitale). Le teorie del sacrificio non giustificano la progressività dell’imposizione, perché non è possibile confrontare l’utilità di individui diversi.
Questo punto di vista coincide con quello di altri studiosi italiani di rilievo. Enrico Barone (Scienza delle finanze, 1912, rist. 1937, p. 149), per es., ritiene che le dettagliate analisi dell’utilità del reddito, oltre a essere prive di base, sono anche impossibili da tradurre in una legislazione concreta. Un sistema organico di tassazione non può basarsi, in modo arbitrario, sulla psiche degli individui. Luigi Einaudi afferma che i «principii del sacrificio sono di significato ignoto» (La vuota boria dei sommi principii utilitaristici dell’imposta, in Id., Miti e paradossi della giustizia tributaria, 1938, 19673, p. 170).
L’analisi della progressività è un chiaro esempio dell’approccio positivo che ha evitato ai maggiori studiosi italiani di impelagarsi nelle discussioni sui criteri di giustizia fiscale. Essi ritengono che la progressività possa giustificarsi solo con la riduzione dell’ineguaglianza, cioè con l’obiettivo sociale e politico della riduzione della disparità di opportunità economiche derivanti dalla distribuzione del reddito e della ricchezza (Fausto 2008).
Un altro problema di equità, largamente dibattuto tra gli studiosi italiani, è l’alternativa tra reddito e consumo come base dell’imposizione, in relazione al teorema della doppia tassazione del risparmio. A partire dal 1912, Einaudi (Saggi sul risparmio e l’imposta, 1941, 19652) si occupa dell’argomento in molti saggi, sostenendo che la tassazione del risparmio, oltre ad avere effetti negativi sull’attività economica, causa una doppia tassazione, in quanto finiscono per essere tassati anche gli interessi prodotti dal risparmio. Il criterio alla base di questa impostazione è che, in un sistema ideale di tassazione, l’osservanza del postulato dell’eguaglianza – due redditi eguali devono essere tassati allo stesso modo – richiede la tassazione del reddito consumato. Einaudi (Contributo alla ricerca dell’«ottima imposta», 1929, rist. in Id., Saggi sul risparmio e l’imposta, cit., pp. 451-68), nel suo sforzo di difendere l’esenzione del risparmio dall’imposizione, ricorre anche a ragioni di efficienza produttiva. Egli considera, infatti, la tassazione del reddito normale come approssimazione alla esclusione del risparmio dalla materia imponibile. La tassazione del reddito normale, inoltre, può essere vista come una forma di imposizione ottimale, perché in teoria ha l’effetto di far aumentare il reddito totale e il flusso di nuovo risparmio, portando così a una diminuzione del tasso di interesse.
Le argomentazioni di Einaudi, a favore dell’esenzione del risparmio dall’imposizione, sono state ripetutamente criticate da Umberto Ricci (nei suoi saggi Reddito e imposta, 1914; La taxation de l’épargne, 1927; Ancora la tassazione del risparmio, 1942), che ritiene il rendimento del risparmio una nuova ricchezza, che prima non esisteva, e prodotta, tra l’altro, anche grazie ai servizi pubblici forniti dallo Stato. Il contrasto, pertanto, non è tra un sistema fiscale che tassa il risparmio due volte e un altro che lo tassa una sola volta; ma tra un sistema che tassa tutta la ricchezza e un sistema, invece, che ne tassa una sola parte (Reddito e imposta, cit., pp. 57-58).
Rilevanti contributi alla teoria della tassazione sono dovuti a Barone, che applica, con perizia, l’analisi dell’utilità marginale agli effetti delle imposte sullo sforzo di lavoro (Di alcuni teoremi fondamentali per la teoria matematica dell’imposta, 1894); e, in un ampio saggio (Studi di economia finanziaria, 1912), articolato in tre parti, cerca di costruire una teoria della tassazione, esaminando i redditi e la pressione tributaria, la teoria generale dell’imposta e la traslazione delle imposte. Questo saggio è ritenuto da Schumpeter «un trattato […] di grande forza e originalità» (History of economic analysis, cit.; trad. it. 3° vol., 1960, p. 1163).
Anche altri studiosi italiani hanno apportato significativi contributi alla teoria della traslazione e incidenza delle imposte. Il primo lavoro sistematico è dovuto a Pantaleoni (Teoria della traslazione dei tributi, 1882). Rilevante è anche il contributo di Attilio da Empoli (Teoria dell’incidenza delle imposte, 1926), che integra la teoria della traslazione, comunemente accettata, con la considerazione della traslazione obliqua, secondo cui l’onere dell’imposizione da un settore della produzione può essere trasferito, totalmente o parzialmente, a un altro settore, cioè ai consumatori o produttori di settori non tassati. Sono anche da menzionare i contributi critici di Attilio Cabiati (Per riempire alcune ‘empty boxes’ finanziarie, 1928) e Renzo Fubini (Sull’influenza dell’imposta sulla domanda e sull’offerta, 1929) alla discussione della teoria dell’incidenza di un’imposta generale sul reddito.
La teoria tradizionale della traslazione e dell’incidenza delle imposte – basata sull’approccio teorico che riflette una visione dell’attività finanziaria come un consumo pubblico essenzialmente improduttivo – a lungo ha considerato esclusivamente la sottrazione di risorse agli usi privati dovuta al prelievo fiscale, trascurando i benefici derivanti dalla spesa pubblica. Pantaleoni (Teoria della traslazione dei tributi, cit., rist. 1958, p. 13) considera solo incidentalmente l’uso fatto del gettito dell’imposizione. In un saggio successivo, però, Pantaleoni (Teoria della pressione tributaria, 1887, rist. 1938, pp. 48, 68, 74-76) sostiene che l’onere dell’imposizione non comporta sempre un generale incremento dei costi di produzione, allo stesso modo di una taglia estorta da un bandito, perché, per effetto dei servizi pubblici, questi costi potrebbero ridursi, anche se il caso non è comune.
La prima esplicita e organica enunciazione della teoria che l’impiego del gettito fiscale dovrebbe essere considerato nello studio dell’incidenza della tassazione è dovuta a Einaudi (Intorno al concetto di reddito imponibile in un sistema di imposte sul reddito consumato, 1912, rist. in Id., Saggi sul risparmio e l’imposta, 19652, pp. 478-81), che ipotizza tre casi possibili: eguale, maggiore o minore utilità rispetto al caso in cui le risorse fossero state lasciate all’uso privato. Egli ritiene il terzo caso come il più probabile, ma non esclude che possa verificarsi il secondo. Riconsiderando l’argomento in un saggio sulla teoria della capitalizzazione dell’imposta, Einaudi (Osservazioni critiche intorno alla teoria dell’ammortamento dell’imposta e teoria delle variazioni nei redditi e nei valori capitali susseguenti all’imposta, 1919, rist. 19652, pp. 183-84) confronta le ipotesi della «imposta taglia» (continuata distruzione di ricchezza), della «imposta grandine» (imprevista distruzione di ricchezza) e della «imposta economica» (presenza dei benefici dei servizi pubblici finanziati dal gettito fiscale). Infine, nei Principi di scienza delle finanze (1932), Einaudi giunge alla conclusione che la moderna tendenza è verso l’«imposta economica», che produce «aumento del reddito, del consumo, del risparmio, dell’attività produttiva, diminuzione del saggio d’interesse e aumento dei valori capitali» (19524, p. 252).
Anche De Viti De Marco critica l’approccio tradizionale alla teoria dell’incidenza. A suo avviso, se si ammette che in generale i beni pubblici sono strumentali nella produzione e nell’uso dei beni privati, ne deriva che il precedente costo di produzione può risultare accresciuto, invariato o diminuito da un incremento delle imposte. «In teoria pura si deve dire che è diminuito» (Principii di economia finanziaria, cit., pp. 120-23).
I contributi di Einaudi e De Viti De Marco alla teoria dell’incidenza delle imposte suggeriscono che l’analisi dovrebbe essere formulata in un contesto di equilibrio generale, considerando gli effetti dell’intera attività finanziaria dello Stato.
Il problema del trasferimento dell’onere del debito pubblico sulle generazioni future è uno dei più vecchi e controversi argomenti nel campo della finanza pubblica. La prima analisi rilevante risale a David Ricardo (1772-1823), che espone due tesi. La prima – concernente la fondamentale equivalenza tra debito pubblico e imposta straordinaria – asserisce che per un individuo razionale dovrebbe essere indifferente pagare un’imposta straordinaria di 2000 una volta tanto, o, dato un tasso d’interesse del 5%, pagare in perpetuo un’imposta annua di 100, per finanziare il pagamento degli interessi di un prestito pubblico di 2000. In entrambi i casi, le generazioni future si troverebbero nella stessa situazione, perché non vi è differenza tra ereditare una ricchezza ridotta di 2000, o ereditare l’intera ricchezza, ma con un gravame annuo di 100, per finanziare il pagamento degli interessi del debito, poiché la capitalizzazione dei futuri pagamenti fiscali è esattamente eguale a 2000 (On the principles of political economy and taxation, 18213; trad. it. 1986, pp. 382-83). La seconda tesi, invece, da altro punto di vista, raggiunge la conclusione che, per le generazioni future, l’imposta straordinaria può essere preferita al debito pubblico, perché induce più del prestito alla riduzione dei consumi (The funding system, 1820; trad. it. 1988, pp. 77-79).
La tesi ricardiana dell’equivalenza tra debito pubblico e imposta straordinaria è stata ampiamente discussa dagli studiosi italiani, estendendo l’analisi a tipici gruppi di individui che rivestono differenti posizioni funzionali nella società (capitalisti, imprenditori, lavoratori ecc.).
De Viti De Marco (La pressione tributaria dell’imposta e del prestito, 1893, pp. 57-59; Principii, cit., pp. 378-80) sostiene che la sua validità, sia per i possessori di patrimonio sia per quelli che vivono del loro reddito personale, si basa sull’assunzione che professionisti e lavoratori paghino la loro quota di imposta straordinaria, capitalizzando, a un determinato tasso, il loro reddito di lavoro. Egli ritiene anche che il debito pubblico sia più economico per la collettività, perché consente la diretta utilizzazione del risparmio disponibile. Critica inoltre (Principii, cit., pp. 390-91) la tesi di Ricardo che l’imposta straordinaria può essere preferita al prestito, perché riduce maggiormente i consumi, in quanto contrasta con il principio che l’individuo massimizza la sua utilità quando è lasciato libero di distribuire il suo reddito tra soddisfazione dei bisogni attuali e soddisfazione dei bisogni futuri.
La tesi ricardiana dell’equivalenza tra debito pubblico e imposta straordinaria è criticata anche da Griziotti e Borgatta. Griziotti (in La diversa pressione del prestito e dell’imposta, 1917), dopo aver sottolineato che è basata sulla continuità tra le generazioni, pone l’accento su numerose circostanze (trasferimenti di ricchezza, fluttuazioni demografiche, cambiamenti nella legislazione fiscale) che possono portare il contribuente a preferire il debito pubblico. Per Borgatta (La finanza della guerra e del dopoguerra, cit., pp. 196-99), l’equivalenza tra debito pubblico e imposta straordinaria è valida solo in termini monetari, ma non di utilità, poiché l’imposta straordinaria, comportando il prelievo in un solo periodo, assorbe una maggiore utilità rispetto al sacrificio annuale dovuto all’imposizione necessaria per il pagamento degli interessi del debito pubblico.
La preferenza di De Viti De Marco per il debito pubblico risulta anche da un fenomeno che egli considera come il suo ammortamento automatico. Con l’aumento del numero degli individui che cercano impiego ai loro risparmi mediante la sottoscrizione di titoli del debito, nei loro bilanci le imposte per il pagamento degli interessi sui prestiti finiscono per compensarsi con il credito derivante dagli stessi interessi. Con la diffusione dei titoli del debito pubblico tra tutti gli strati della popolazione, si ha una sua «democratizzazione», poiché può considerarsi estinto di fatto per la interazione tra debiti e crediti (Principii, cit., pp. 384-86).
Einaudi (nei Principi di scienza delle finanze, cit., 19524, p. 461) ritiene che, per verificarsi l’effetto psicologico dell’ammortamento automatico del debito pubblico, sia necessario che l’acquisto dei titoli sia compiuto da contribuenti prima incapaci di risparmiare o alieni dall’investimento negli stessi titoli.
La teoria dell’ammortamento automatico del debito pubblico è in antitesi con l’approccio classico, secondo cui il debito sottrae fondi all’investimento privato e comporta oneri sia per il pagamento degli interessi sia per il rimborso del capitale. Nella tradizione italiana, oltre a De Viti De Marco, anche altri studiosi non temono il pericolo di un debito crescente. Giuseppe Ricca Salerno (Teoria generale dei prestiti pubblici, 1879, p. 120) sostiene che, con l’incremento della popolazione e della ricchezza, il debito decresce e non si accresce, e che non bisogna confondere il caso di una società in debito con una parte di se stessa con il caso di un individuo in debito verso un altro individuo. Einaudi sottolinea «il mancato verificarsi delle lugubri profezie delle Cassandre, le quali di tempo in tempo predissero la rovina delle nazioni in conseguenza del crescente debito pubblico» (Fantasmi, illusioni ed eleganze dei debiti pubblici, 1938, 19673, p. 134).
Verso la fine del 19° sec., in Germania fu formulata da Adolph Wagner (Finanzwissenschaft, 18833, trad. ingl. 1967, pp. 1-8) la tesi della crescente espansione del settore pubblico. Questa tesi, basata sull’idea della complementarità tra attività economiche pubbliche e private, stabilisce che esiste una correlazione positiva tra il livello di sviluppo economico e la spesa pubblica, con il rapporto tra spesa pubblica e reddito che aumenta in termini sia assoluti sia relativi.
Molti studiosi italiani hanno fatto affermazioni simili a quelle di Wagner. Per Conigliani (L’aumento apparente delle spese pubbliche, 1890, rist. 1903, pp. 318-20), aumenti del reddito nazionale producono aumenti del gettito fiscale, per cui nuovi bisogni pubblici possono essere soddisfatti mediante la spesa pubblica. Per Ricca Salerno (Scienza delle finanze, 19213, p. 47), vi è un legame tra la distribuzione della ricchezza e la crescita della spesa pubblica, che è connessa alla crescente disparità economica tra le classi sociali. Secondo Borgatta (Appunti di scienza delle finanze e diritto finanziario, 1935, pp. 83-84), con lo sviluppo del reddito medio, gli aumenti della spesa pubblica non producono eccessive reazioni.
Sulle orme di Wagner, ma seguendo un proprio approccio personale, significativi contributi sono stati offerti da Augusto Graziani, Pietro Sitta e Francesco Saverio Nitti.
Il contributo di Graziani (Intorno all’aumento progressivo delle spese pubbliche, 1887, rist. 1956, pp. 166-96, 215-16) è un lavoro pionieristico in cui è posto in rilievo il fatto che bisogna tener conto della produttività nella fornitura dei servizi pubblici (Peacock, Wiseman 1979, p. 5). L’incremento della spesa pubblica deriva da cambiamenti nei bisogni dei cittadini che, a loro volta, presuppongono mutamenti in condizioni soggettive e oggettive, quali miglioramenti nella cultura, aumenti della ricchezza, sviluppo della popolazione, mutamenti tecnologici, aumenti dei prezzi dei beni di sussistenza. La dinamica di questi mutamenti ha un impatto sui bisogni, e quindi fa aumentare il prezzo dei servizi pubblici che, a sua volta, causa la crescita progressiva della spesa pubblica.
Sitta (L’aumento progressivo delle spese pubbliche, 1893, pp. 22-26), seguendo Mazzola, ritiene che i bisogni pubblici siano un riflesso di quelli privati. Pertanto, ogni incremento nella quantità e qualità dei bisogni privati implica più bisogni pubblici, con un corrispondente aumento della spesa pubblica. In pratica, quanto più aumenta la ricchezza nazionale, tanto più probabile è la crescita della spesa pubblica.
Le pagine più conosciute del manuale di finanza pubblica di Nitti (Principi di scienza delle finanze, 1903, 19225, pp. 84-116) riguardano la spesa pubblica. Secondo Nitti, gli incrementi della spesa pubblica, particolarmente ampi specie dalla metà del 19° sec., derivano dalla spesa militare, dalle grandi opere pubbliche, dalla crescita del debito pubblico, dallo sviluppo della legislazione sociale e dell’assistenza pubblica, dalla maggiore partecipazione della classe lavoratrice alla vita pubblica. Gettito fiscale e spesa pubblica sono interconnessi. Il gettito fiscale è determinato dal reddito nazionale e dalla distribuzione della ricchezza, mentre la spesa pubblica è principalmente determinata dalle peculiarità politiche e sociali di ciascun Paese.
Da menzionare, inoltre, sono i contributi teorici di Mazzola, Puviani e Pantaleoni. Per Mazzola (I dati scientifici della finanza pubblica, 1890, pp. 66-73), i bisogni pubblici sono complementari ai bisogni privati, per cui un aumento della produzione di beni privati implica la crescita della spesa pubblica. Puviani (Teoria della illusione finanziaria, cit., pp. 18-22) include tra le illusioni finanziarie anche le illusioni ottimistiche dal lato della spesa, ovvero situazioni in cui i cittadini possono sistematicamente sovrastimare i benefici della spesa pubblica, portando così a una crescita del settore pubblico. Pantaleoni (Di alcuni fenomeni di dinamica economica, 1909, rist. 1925, pp. 102-04) considera gli aspetti dinamici: più ricco diventa un Paese, più i costi pagati sulla base del consumo individuale si trasformano in costi finanziati mediante la tassazione, con crescita della spesa pubblica.
Gli studiosi italiani, che in generale non ritengono la società e il mercato fenomeni naturali, hanno complessivamente fornito significativi contributi alla teoria della crescita della spesa pubblica, connettendola al ruolo economico e sociale dello Stato (Fausto 2010).
Un rimarchevole aspetto della tradizione italiana di finanza pubblica è che lo Stato, attraverso la fornitura di beni e servizi pubblici, è un fattore di produzione che, come qualsiasi altro fattore di produzione, ha diritto a una remunerazione (Fausto 2004).
Il primo economista che chiaramente propone la nozione dello Stato come fattore di produzione è Pantaleoni (Economia politica, 1906, p. 474). La cooperazione dello Stato nell’attività produttiva comporta un costo, che deve essere compensato con una quota del prodotto proporzionale alla produttività marginale del fattore di produzione impiegato. La tassazione rappresenta la quota del prodotto che spetta allo Stato per i beni e servizi pubblici forniti.
Il legame tra beni e servizi pubblici e attività economica privata è analizzato in modo approfondito da De Viti De Marco (Principii, cit., pp. 86-89, 196) che – dopo aver posto in rilievo che quasi tutti i servizi pubblici generali hanno il carattere di beni strumentali alla produzione e necessari per il consumo dei beni prodotti dai privati – sottolinea che ciascuna parte del reddito prodotto, non importa quanto sia piccola, viene in esistenza gravata dal suo debito di imposta.
Si è espresso più volte in favore della teoria dello Stato come fattore di produzione Einaudi (Osservazioni critiche intorno alla teoria dell’ammortamento dell’imposta, cit., pp. 189-91; Se esiste, storicamente, la pretesa ripugnanza degli economisti verso il concetto dello Stato produttore, 1930, pp. 306-07; Del concetto di Stato fattore di produzione, 1942, pp. 301-26). Nell’ampio commento alla critica di Fasiani (Principii di scienza delle finanze, cit., 2° vol., pp. 299-301) all’approccio di De Viti De Marco, Einaudi (Del concetto di Stato, cit., pp. 305-25) sottolinea che la tassazione è una quota del prodotto totale sociale conferita allo Stato in cambio dei servizi pubblici che hanno un impatto diretto sulla produzione di ricchezza. Lo Stato è un fattore di produzione sui generis, compensato in modo diverso dagli altri fattori di produzione.
La tradizione teorica italiana di finanza pubblica, pertanto, è stata ben distante dall’approccio classico che nega la produttività dei servizi pubblici, limitando l’intervento pubblico solo ad alcuni casi di allocazione e distribuzione delle risorse per ragioni di equità e di efficienza. Questa visione, che ritiene l’attività finanziaria come attività di consumo pubblico, di natura essenzialmente improduttiva, è stata condivisa dagli economisti di tradizione anglosassone fino agli anni Cinquanta del secolo scorso, quando si è sviluppato un diverso orientamento, dovuto principalmente ai contributi di Samuelson e Musgrave. Per gli economisti italiani, invece, già nelle impostazioni iniziali, la teoria della finanza pubblica riguarda l’attività economica dello Stato che, di natura produttiva, è parte essenziale dell’operare del mercato, con effetti positivi sul benessere dei cittadini.
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