FINANZA.
– Finanza e mercati finanziari. Tipologie di sistemi finanziari e alternative alla finanza di mercato. Bibliografia
Nelle sue Mémoires, Jean Monnet racconta il suo incontro con la f. all’inizio del 20° secolo attraverso una comparazione fra la comunità finanziaria di Londra e quella di New York. Nella City, afferma, «ho imparato una cosa: a farmi un’idea delle persone e a non cambiarla. Alla City sul cliente ci si forma un’opinione, e vi ci si attiene, che lo stato degli affari sia buono o cattivo. Non gli si toglie il credito. Questo non l’ho visto da nessun’altra parte. A Wall Street, dove ho ritrovato parecchi tratti della City – organizzazione, senso dell’azione collettiva – se la situazione si fa cattiva, il denaro prestato lo si fa rientrare» (J. Monnet, Mémoires, 1976, p. 46).
Poco importa se, a distanza di più di un secolo, la differenza fra le due piazze si sia ridotta, con un appiattimento della City su Wall Street. Ciò che conta è la possibilità, attraverso l’aneddoto, di pensare a due forme radicalmente diverse di intendere la f. e la peculiare forma di comunità che essa richiede.
La crisi finanziaria iniziata nel primo decennio del 21° sec. dovrebbe indurre a riflettere tanto sui limiti di una f. organizzata come insieme globalizzato di mercati del credito e della moneta quanto sulla possibilità di una f. alternativa.
Non si tratta di un esercizio teorico, ma della ricerca della forma più adeguata per la f. per assolvere il suo ruolo d’istituzione al servizio dell’economia reale.
La f. ha a che fare con una fondamentale solidarietà fra debitori e creditori (v. credito). Tale solidarietà presuppone una simmetria d’impegno delle parti nella risoluzione delle eventuali controversie legate alla concessione di credito. Creditore e debitore sono accomunati dall’interesse a che la relazione si concluda nel pagamento. La ‘fine’ che risuona nella radice della parola finanza (fr. finance, da finer «terminare, portare a termine») è la chiusura della relazione che si apre con la concessione del credito. In una f. all’altezza del suo compito, i debiti sono fatti in maniera da essere pagati. Perciò, della f. fanno parte integrante non soltanto l’obbligo del debitore di onorare i propri debiti, ma anche il compito del creditore di attuare preventivamente un’attenta valutazione del merito creditizio del debitore, nonché la responsabilità condivisa fra debitore e creditore di rinegoziare le condizioni del debito nel caso in cui, per motivi imprevedibili e indipendenti dalla volontà dell’uno e dell’altro, non sia possibile pagarlo nei termini prestabiliti. In termini ancora più generali, la f. dovrebbe costituire il luogo dell’incontro fra tutti i debitori e tutti i creditori.
Dovrebbe, ma non sempre lo è. Dipende dai principi sui quali si fondano le istituzioni finanziarie. I mercati finanziari sono una forma di f. che tende a rescindere il rapporto fra debitori e creditori, trasformandolo in una merce negoziabile e rinviandone indefinitamente la chiusura.
Finanza e mercati finanziari. – Il primo esercizio intellettuale consiste nel non sovrapporre f. e mercati finanziari, i secondi essendo una possibile incarnazione della prima, che però non ne esaurisce tutte le possibilità e che non ne costituisce forse nemmeno la forma più efficiente, nonostante sia quella che ha preso il sopravvento negli ultimi quarant’anni, caratterizzati da una crescente liberalizzazione dei mercati finanziari.
Tale liberalizzazione è stata attivamente promossa dai governi sulla base dell’assunto che il mercato potesse costituire, anche in ambito finanziario, il meccanismo più efficiente di allocazione delle risorse. Mercati finanziari deregolamentati, e dunque massimamente liquidi, sono in grado teoricamente di attirare quantità crescenti di risparmio e di convogliarlo verso le imprese più promettenti. I risparmiatori sono attratti dalle prospettive di rendimento che i titoli offrono in termini di dividendi, interessi e guadagni in conto capitale, senza pregiudicare la liquidità dell’investimento, ossia la possibilità di convertirlo prontamente all’occorrenza in denaro contante. D’altro canto, quella stessa liquidità, consentendo agli investitori di rivedere costantemente l’allocazione del loro portafoglio di titoli in base alle prospettive di rendimento, dovrebbe far sì che, attraverso i mercati finanziari, il denaro sia messo a disposizione delle imprese, dei governi, dei settori e dei Paesi più meritevoli.
Tali virtù attribuite ai mercati finanziari hanno indotto alcuni osservatori a descriverli come un ‘senato virtuale’, capace di realizzare una ‘democratizzazione della finanza’. In verità, tale caratterizzazione è discutibile sul piano sia della giustizia sia dell’efficienza. In effetti, è difficile definire democratico un regime, come quello dei mercati finanziari, in cui a ‘votare’ non sono le persone ma i soldi, ovverosia le persone nella misura in cui sono dotate di soldi. D’altro canto, non altrettanto facile da contestare, ma non meno problematica è l’ipotesi di efficienza dei mercati finanziari, secondo la quale i prezzi dei titoli rispecchierebbero sempre la solidità dell’emittente.
Certo, le fluttuazioni periodiche cui sono soggetti i mercati finanziari, a cominciare dal crollo del 1929, sono sufficienti a indurre il sospetto che essi non siano sempre in perfetto equilibrio. Tuttavia, come rilevò già John M. Keynes negli anni Trenta, il problema non è congiunturale, bensì strutturale. Nel cap. 12 di The general theory of employment,interest and money (1936), Keynes ne identificò la radice proprio in quella che è considerata normalmente, e sempre di più negli ultimi decenni, una caratteristica desiderabile dei mercati finanziari: la liquidità.
La liquidità, secondo Keynes, è responsabile innanzi tutto di uno scollamento delle quotazioni dei titoli dai cosiddetti fondamentali, ossia dalle prospettive di redditività di lungo periodo degli investimenti sottostanti. Infatti, poiché il prezzo dei titoli sul mercato è determinato dall’andamento della domanda e dell’offerta, gli operatori finanziari, anche e soprattutto i più avveduti, non hanno alcun incentivo ad acquistare, per es., le azioni di una società che promette di realizzare buoni utili a fine anno se hanno motivo di ritenere che, nel frattempo, il loro prezzo possa essere spinto al ribasso da notizie capaci di ispirare un sentimento ribassista nella generalità degli investitori.
La possibilità di comprare e vendere agevolmente e continuativamente i titoli sul mercato induce, dunque, gli investitori a concentrarsi sulle prospettive di guadagno a breve termine in conto capitale, anticipando i cambiamenti dell’opinione comune, anziché a impegnare le proprie energie per valutare l’effettiva produttività degli investimenti nel lungo termine. La liquidità è, quindi, alla base di quella che è opportunamente chiamata la miopia dei mercati (short-termismo).
Non è affatto detto che le fluttuazioni di prezzo derivanti da simili comportamenti siano destinate a convergere verso un equilibrio. Anzi, i meccanismi di mercato, applicati ai titoli finanziari, hanno piuttosto la tendenza ad amplificare le oscillazioni, essendo governati da aspettative che si auto-realizzano. Infatti, il mercato finanziario funziona al contrario di ogni normale mercato. Se il prezzo di un bene di consumo aumenta, la domanda diminuisce, poiché si orienta verso altri beni sostitutivi. Viceversa, se è in ascesa il prezzo di un titolo, la domanda ne risulta sollecitata dalle prospettive di guadagno. D’altro canto, se si acquista un titolo nell’aspettativa che il suo prezzo aumenti, si contribuisce a farne aumentare effettivamente il prezzo sostenendone la domanda.
Un’ulteriore conseguenza della liquidità è che il pagamento, come momento della verità nella relazione fra creditore e debitore, scompare dall’orizzonte di entrambi. Infatti, quando il credito prende la forma di un titolo negoziabile, il creditore, ossia il possessore del titolo, non ha più alcun interesse alla sua pagabilità, ma unicamente alla sua vendibilità. La liquidità rende difficile, invece di agevolare, l’incontro fra debitori e creditori, perché mette i creditori in posizione di potersi disfare in ogni momento del loro obbligo, semplicemente vendendo il titolo in loro possesso, ossia cedendolo ad altri. I quali, a loro volta, non si accollano più direttamente il rischio di credito, ma il rischio di liquidità inerente al titolo da essi acquistato, ossia il rischio di non riuscire a venderlo. La liquidità sposta dunque tutto il peso delle decisioni finanziarie dalla valutazione della pagabilità dei debiti alla previsione della negoziabilità dei titoli.
Si è parlato a giusto titolo di autoreferenzialità della finanza (Gallino 2011) per alludere al fatto che le decisioni finanziarie possono esser prese, e sono normalmente prese, senza tenere conto della situazione effettiva dell’economia reale. La ragione ultima di tale autoreferenzialità è il fatto che la f. prende sempre più la forma di un mercato finanziario basato sulla liquidità.
Tipologie di sistemi finanziari e alternative alla finanza di mercato. – Come anticipato, i mercati finanziari non sono tutta la finanza. Il sistema finanziario ha due principali componenti che assolvono in maniera diversa alla funzione di anticipazione: la borsa e la banca. Sulla base della prevalenza dell’uno o dell’altro si distinguono tradizionalmente due tipologie di sistemi finanziari: quello market-based che caratterizza i Paesi anglosassoni e quello bank-based che connota, invece, i Paesi dell’Europa continentale.
La banca, come la borsa, svolge un’attività d’intermediazione fra risparmio e investimento. Tuttavia, a differenza del mercato finanziario, la banca, quantomeno nella sua forma originaria, esercita tale attività instaurando una serie di rapporti: da un lato, raccoglie i depositi dei risparmiatori e, dall’altro, eroga prestiti alle famiglie e alle imprese. A partire dagli anni Settanta del 20° sec., però, con la liberalizzazione finanziaria, anche l’attività creditizia delle banche è passata in misura crescente attraverso i mercati: sempre più, la raccolta è stata effettuata all’ingrosso, attraverso l’emissione di titoli, e gli impieghi hanno preso la forma di investimenti in titoli (azioni, obbligazioni e derivati). Si è parlato, in proposito, di un cambiamento di paradigma dell’attività delle banche, che le ha trasformate gradualmente in trader, fino al punto che persino la concessione di credito è stata subordinata alla produzione di titoli negoziabili (la cosiddetta cartolarizzazione dei mutui subprime, alla base dello scoppio della crisi nel 2008).
Accantonata la simmetria di obblighi fra debitori e creditori, la f. dei mercati finanziari ha accresciuto le dissimmetrie: nella sua fase di espansione, dagli anni Ottanta alla crisi del 2008, ha inondato le economie reali di liquidità, alimentando uno squilibrio che essa stessa rifinanziava generando così i presupposti della crisi; scoppiata la quale ha ritirato indiscriminatamente liquidità imponendo strette creditizie che si sono tradotte in depressioni reali.
Il caso europeo è piuttosto lampante: i mercati finanziari europei hanno potuto svilupparsi e integrarsi grazie all’unione monetaria e alla liberalizzazione dei movimenti di capitali. Questi ultimi hanno finanziato, nascondendoli, i crescenti squilibri commerciali intereuropei, i quali hanno potuto mantenersi, a vantaggio anche dei creditori, grazie al loro rifinanziamento apparentemente indefinito. Tuttavia, l’accumulazione di squilibri di bilancia dei pagamenti non poteva proseguire indefinitamente. Quando se n’è preso coscienza, l’inversione delle aspettative e le scommesse ribassiste hanno quindi precipitato l’eurozona in una crisi di debito, sfociata in una depressione economica di una gran parte degli Stati membri e in cui il riaggiustamento degli squilibri è stato addossato essenzialmente ai debitori, attraverso politiche assai pesanti di austerità fiscale.
La crisi dell’euro è una crisi del rapporto di collaborazione che potrebbe e dovrebbe intercorrere fra i Paesi membri, nei quali la riduzione degli squilibri esterni fra Paesi potrebbe, e dovrebbe, passare non solo per le riforme nei Paesi debitori ma anche per la spesa dei crediti dei Paesi creditori. In ultimo, anche per una revisione cooperativa dei rapporti di debito-credito. Anche in questo caso, la ridefinizione dei termini e dell’ammontare del pagamento dei debiti, in una parola la loro ristrutturazione, non è da considerarsi un atto extra-finanziario, ma un procedimento profondamente finanziario.
La storia tedesca mostra quanto questa istanza sia cruciale. Tutte le ripartenze tedesche del 20° sec. hanno alle spalle una cancellazione parziale dei suoi debiti, nel 1953, prima del miracolo economico, da parte degli alleati, e nel 1991, in concomitanza con la sua riunificazione. Viceversa, l’accanimento degli alleati a richiedere il pagamento integrale dei debiti tedeschi dopo la Prima guerra mondiale è ormai unanimemente ascritto fra le principali cause della grande crisi del 1929 e della presa del potere da parte di Adolf Hitler nel 1933.
Invece, alle crisi sempre più frequenti e devastanti che hanno costellato gli ultimi decenni di liberalizzazione finanziaria si è preferito rispondere non con la rinegoziazione dei debiti, bensì con il loro rifinanziamento. Di fronte a ogni minaccia d’insolvenza generalizzata si è assistito sistematicamente all’intervento delle banche centrali e del Fondo monetario internazionale (v.) in funzione di prestatori di ultima istanza. Alla crisi di liquidità si è fatto fronte con sempre più massicce immissioni di liquidità, con l’obiettivo di sostenere i mercati e i corsi dei titoli.
Ciononostante, è possibile ancor oggi riconoscere i limiti della f. di mercato fondata sul principio della liquidità e ammettere la possibilità di una f. basata su altri principi. Esistono, infatti, numerosi esempi di f. non di mercato. Innanzi tutto la cosiddetta finanza islamica, la quale si fonda sul divieto formale di fare mercato della moneta e del credito. Ma anche nella tradizione occidentale, dove pure il divieto del prestito a interesse è stato da tempo rimosso, permangono forme di f. che si fondano sul riconoscimento del rapporto solidale fra debitore e creditore, come, per es., le tradizionali banche cooperative. Anche alla frontiera dell’innovazione, per il finanziamento dello sviluppo di nuove tecnologie, si trova una forma di f., il venture capital, che prevede l’instaurazione di una relazione a lungo termine fra chi anticipa i soldi e chi li riceve, in cui l’anticipazione non prende la forma di un prestito.
Anche a livello internazionale si discute sempre più apertamente di misure volte a ridurre, anziché aumentare, la liquidità degli investimenti, per es., attraverso l’adozione di un’imposta sulle transazioni finanziarie (Tobin tax) o l’introduzione di restrizioni ai movimenti di capitali. In questo quadro in movimento, si può constatare che non tutta la f. è di mercato, e che tra forme differenti di f. è in atto un processo di integrazione e di concorrenza i cui esiti sono ancora aperti.
Bibliografia: M. Amato, L. Fantacci, Fine della finanza. Da dove viene la crisi e come si può pensare di uscirne, Roma 2009, 20122; C.M. Reinhart, K.S. Rogoff, This time is different. Eight centuries of financial folly, Princeton-Oxford 2009 (trad. it. Milano 2010); R. Rajan, Fault lines. How hidden fractures still threaten the world economy, London 2010 (trad. it. Terremoti finanziari, Torino 2012); L. Gallino, Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi, Torino 2011, 20132; F. Morin, A world without Wall Street?, London-New York 2011 (trad. it. Milano 2011); M. Amato, L. Fantacci, Salvare il mercato dal capitalismo. Idee per un’altra finanza, Roma 2012.