Finanziamento bancario alle imprese in crisi
Nelle procedure concorsuali diverse dal fallimento e negli accordi sulla crisi d’impresa una questione essenziale è nell’acquisizione di nuova finanza per la gestione della crisi d’impresa. I piani di superamento della crisi dedotti negli accordi o nei concordati che non siano meramente liquidatori del patrimonio d’impresa prevedono sempre il finanziamento bancario all’attività. Nella legislazione recente si incentiva il finanziamento professionale delle imprese in crisi attraverso esenzioni dall’azione revocatoria, contenimento del rischio penale e riconoscimento della prededuzione per il credito in restituzione. Presupposta in queste misure è la meritevolezza del finanziamento; l’abusività dello stesso determina infatti responsabilità per concessione abusiva di credito e per interessenza gestoria nell’attività d’impresa: due fattispecie puntualizzate dalla recente giurisprudenza di legittimità contestualmente all’introduzione delle norme di favore. L’intervento legislativo e l’intervento giurisprudenziale si compongono nella complessa figura del finanziamento bancario alle imprese in crisi: sulla quale accanto ad acquisite certezze si addensano rilevanti problemi dogmatici ed applicativi.
Il finanziamento bancario costituisce un momento fondamentale dell’organizzazione d’impresa, integrando in rilevante misura il capitale di debito destinato all’attività; per naturale conseguenza, il ruolo svolto dalle banche nel finanziamento delle imprese è questione centrale del diritto negoziale della crisi d’impresa: ossia del settore integrato dalle c.d. soluzioni negoziali (contrattuali o concordatarie) della crisi d’impresa. Per illustrare l’assunto deve preliminarmente osservarsi che la crisi è occorrenza dell’attività: per la stessa dinamica della concorrenza, e dunque della selezione delle imprese sul mercato, è normale accadimento che nel suo svolgersi l’attività di impresa possa attraversare periodi di crisi che, ove non superati, ne cagionano la cessazione (come nel caso emblematico del fallimento). Conseguenza usuale della crisi dell’attività è lo stato di insolvenza dell’imprenditore: la difficoltà economica tende infatti ad evolvere in difficoltà patrimoniale e finanziaria; l’insolvenza definisce lo stato di grave difficoltà finanziaria in cui versa l’imprenditore (cfr. art. 5 l. fall.). Ciò posto, conservando la distinzione tra lo stato soggettivo dell’imprenditore (insolvenza finanziaria) e lo stato oggettivo della impresa (crisi di natura industriale o finanziaria) può concludersi che come il finanziamento bancario consente l’ordinaria attività d’impresa, così esso costituisce elemento (ancor più essenziale) di quella particolare fase dell’attività in cui si risolve la gestione della crisi d’impresa. Se si presta attenzione alla attività d’impresa e alla crisi come un modo di esser di quella attività, allora ci si accorge che così come deve essere strategicamente programmata l’attività d’impresa in generale, allo stesso modo deve programmarsi quella attività in occasione della crisi. Allo stesso modo della programmazione generale dell’attività così pure la gestione prospettica della crisi, finalizzata al recupero della normalità operativa, richiede una precisa formalizzazione. Essa è data anche in tale occasione in un piano o programma, il quale si caratterizza per la funzione: di ristrutturazione o di liquidazione dell’attività. Tale piano costituisce un prodotto della tecnica aziendale in cui si individuano le cause del problema, si predispongono le soluzioni e si sviluppa una previsione di risultato1. Le operazioni di ristrutturazione si articolano concettualmente intorno a tre fondamentali aree tematiche, che si concretizzano in apporti di variabile importanza nei casi che si presentano: i) riassetto industriale, o della formula imprenditoriale (Business restructuring); ii) interventi sul capitale investito (Asset restructuring) e iii) ristrutturazione della debitoria (Debt restructuring). Non solo la riorganizzazione della formula imprenditoriale e gli interventi sul capitale ma anche la ristrutturazione finanziaria in senso stretto raramente possono prescindere da apporti di nuova finanza per la realizzazione di tutti questi momenti strategici integrati nel programma di ristrutturazione. Così che l’imprenditore non può limitarsi all’accordo con i creditori, ma deve concludere contratti della più varia natura e soprattutto contratti di finanziamento2. La particolarità della concessione di credito all’impresa in crisi non è dunque nella rarità dell’evenienza ma nella elevata rischiosità di una attività contrattuale importante per il buon esito della ristrutturazione. L’elevata rischiosità è determinata dallo stato di insolvenza in cui versa l’imprenditore. Questo stato non fonda soltanto il rischio della mancata restituzione del finanziamento (rischio da inadempimento per insolvenza), ma anche rischi ulteriori dipendenti dalla natura commerciale dell’impresa e dunque dalla sua assoggettabilità a fallimento. Si tratta, in primo luogo, del rischio di revocatoria fallimentare delle garanzie del finanziamento e dei pagamenti in restituzione; e poi del rischio di responsabilità per il danno cagionato a terzi dalla concessione abusiva di credito all’impresa insolvente e per il danno da interessenza gestoria – tramite il finanziamento – nell’attività imprenditoriale. A fronte della evidente importanza della concessione di nuova finanza per il superamento della crisi di impresa operano pertanto tre ragioni di dissuasione: il rischio della mancata restituzione del prestato; il rischio della revocatoria delle garanzie o di ciò che è stato ricevuto in restituzione; il rischio della responsabilità per danni da fatto illecito (per concessione abusiva o per ingerenza gestoria).
1.1 Prassi operative e riforme legislative
L’attività programmata nel piano aziendale deve in buona misura essere attuata a mezzo di negozi giuridici: soprattutto, a mezzo di contratti. Proprio attraverso la contrattazione e la proposta di concordato si dà attuazione a un segmento fondamentale e immancabile del piano: la composizione del debito. Contratto e concordato si rivelano pertanto come momenti secondari e sovrastrutturali dell’attività di superamento della crisi d’impresa, realizzando l’attuazione giuridica di una ben determinata pianificazione di carattere aziendale, che costituisce invece la base razionale su cui si eleva, e rispetto alla quale si comprende, quella stessa attività giuridica3. L’attività contrattuale in occasione della crisi di impresa è tradizionalmente classificata con il riferimento al «concordato stragiudiziale », ossia all’accordo sulla debitoria stipulato tra l’imprenditore ed i suoi creditori. In realtà, e per quanto anticipato, la figura tradisce una eccessiva semplificazione della realtà; infatti la gestione della crisi di impresa assai raramente potrebbe riuscire fruttuosa attraverso interventi contenuti esclusivamente nella rinegoziazione del debito. Nella più interessante esperienza pratica del concordato stragiudiziale, integrata dalle cosiddette convenzioni bancarie di salvataggio, appare evidente come l’accordo dell’imprenditore con le banche non si limiti alla sistemazione della debitoria ma si estenda anche al finanziamento: non solo tramite la rinegoziazione dei contratti in esecuzione (cosiddetto finanziamento indiretto) ma anche attraverso la stipulazione di nuovi accordi4. Già nella prima tappa (d.l. n. 35/2005) la riforma fallimentare, oltre a disciplinare in forme più duttili il concordato preventivo, ha introdotto regole sui contratti per il superamento della crisi d’impresa. Sul presupposto che l’attività contrattuale, per essere razionale ed efficace, debba svolgersi in attuazione di piani aziendali di ristrutturazione sono stabilite due fattispecie: il piano attestato di risanamento e l’accordo di ristrutturazione dei debiti. Per la prima, è laconicamente disposto che gli atti esecutivi di un piano che appaia idoneo a consentire la ristrutturazione dell’impresa e la cui ragionevolezza sia attestata da un revisore legale sono esentati dall’azione revocatoria in caso di successivo fallimento dell’impresa debitrice (art. 67, co. 3, lett. d), l. fall.). Stessa protezione per gli atti esecutivi di accordi di ristrutturazione omologati dal tribunale (art. 67, co. 3, lett. e, l. fall.): ossia esecutivi di accordi raggiunti con i creditori rappresentanti almeno il sessanta per cento della debitoria complessiva (e vertenti su di un piano la cui attuabilità sia attestata dal revisore legale con particolare riguardo al regolare pagamento dei creditori rimasti estranei all’accordo) e omologati dal tribunale (art. 182 bis l. fall.). Le regole sui contratti per il superamento della crisi d’impresa fissano pertanto le condizioni per la protezione degli stessi dall’azione revocatoria in caso di insuccesso dell’operazione di risanamento e di successivo fallimento dell’impresa debitrice. Egualmente protetti dall’azione revocatoria sono gli atti esecutivi del concordato preventivo (art. 67, co. 3, lett. e, l. fall.). Nell’ultima tappa della riforma (d.l. n. 78/2010) è stata inserita una norma di portata sia chiarificatrice che innovativa sul contenimento del rischio penale, disponendosi che agli atti esecutivi di accordi e concordati omologati e di piani attestati di risanamento non si applicano le disposizioni sui reati di bancarotta (cfr. art. 217 bis l. fall.). Sempre in quell’occasione è stato introdotto nella legge fallimentare l’art. 182 quater sulla prededucibilità dei crediti nel concordato preventivo e negli accordi di ristrutturazione. Al fine di favorire le operazioni di ristrutturazione è attribuito il carattere di prededucibilità ai crediti derivanti da: i) compenso spettante all’attestatore del piano; ii) finanziamenti dei soci (benché solo nella misura dell’ottanta per cento dell’ammontare); iii) finanziamenti di banche e intermediari finanziari. Circa i finanziamenti, la prededuzione è riconosciuta in primo luogo a quelli realizzati in esecuzione di un concordato preventivo o di un accordo di ristrutturazione omologati dal tribunale; in secondo luogo è riconosciuta ai finanziamenti – di banche e intermediari finanziari – effettuati in funzione della presentazione della domanda di concordato o dell’accordo di ristrutturazione a condizione che gli stessi siano previsti come tali nel piano concordatario e nell’accordo di ristrutturazione e che la prededuzione sia disposta nel provvedimento del tribunale di ammissione al concordato o di omologazione dell’accordo. Il riconoscimento della prededuzione – ancorato a presupposti ampiamente coincidenti con quelli fissati per l’esenzione della revocatoria (deve trattarsi di finanziamenti effettuati nell’ambito di ristrutturazioni giudicate ragionevoli dal tribunale: infatti restano esclusi i finanziamenti dei piani attestati ma non sottoposti a omologazione) – contiene significativamente il rischio di inadempimento da insolvenza apportando un importate contributo alla più ampia ricostruzione di un regime protettivo per i partner contrattuali dell’imprenditore insolvente impegnato in una seria operazione di superamento della crisi d’impresa, come tale sempre esposta al grave rischio del fallimento. L’importanza dell’intervento bancario nella gestione della crisi d’impresa è testimoniata nelle soluzioni legislative di ordinamenti affini. Particolarmente significativo l’esempio francese, dove si registrano sia interventi su specifiche problematiche sia l’adozione di nuovi strumenti normativi calibrati esclusivamente sul contributo dei creditori finanziari. L’esigenza di incentivare il finanziamento alle imprese in crisi ha determinato l’art. 650-1 code comm. nel testo in vigore, che limita la responsabilità per concessione abusiva di credito alle ipotesi di comportamento fraudolento, di interferenze nella gestione della impresa e di ottenimento di garanzie sproporzionate rispetto al credito5. Successivamente, nella loi n° 2010-1249 du 22 oct. 2010 de régulation bancaire et financière, emanata in risposta alla crisi economica, è stata disciplinata una procédure de conciliation peculiarizzata quale procédure de sauvegarde financière accèlérée in cui si favorisce la negoziazione della crisi tra debitore e creditori finanziari, riuniti in appositi comitati, al fine della elaborazione di un piano di salvataggio preconfezionato da riversare nella successiva procedura, secondo lo schema operativo del prepackaged restructuring plan (v. 11 U.S.C. § 1129)6.
1.2 Concessione abusiva di credito e ingerenza nella gestione dell’impresa
Talune operazioni tipiche nell’ambito delle convenzioni bancarie si prestano ad essere interpretate, in caso di sopravvenuto fallimento dell’impresa, secondo gli schemi della concessione abusiva del credito e dell’ingerenza gestoria (anche nelle forme della responsabilità per concorso con gli amministratori nel fatto illecito e dannoso). Così, immediatamente, l’immissione di nuova finanza; così pure, mediatamente, le operazioni di rinegoziazione del credito: se la banca, solitamente incline alla repentina revoca del fido ai primi segnali di allarme, conviene sulla rinegoziazione conservando l’apertura delle linee di credito, rischia di ingenerare nel mercato un significativo affidamento sulla solvenza dell’impresa. Osservatori terzi (compresi gli altri creditori dell’impresa), confidando su queste risultanze di merito creditizio, possono indursi o a non autotutelare il proprio credito verso l’insolvente (astenendosi dall’agire per il recupero forzoso) o a concedere nuovo credito. Il credito bancario erogato in violazione delle regole sul merito creditizio e sulla sana e prudente gestione dell’attività – e tale è sempre il credito erogato a soggetto in stato di irreversibile insolvenza e artificiosamente mantenuto sul mercato dal credito concesso – determinando l’errore del terzo e il conseguente danno patrimoniale da omessa autotutela espongono la banca a responsabilità per concessione abusiva di credito7. Vi è poi da considerare che le descritte attività si accompagnano a una forte ingerenza delle banche nelle decisioni strategiche dell’impresa: nei casi estremi, le banche si intromettono direttamente in tali scelte, comportandosi come amministratori di fatto; più frequentemente, la stessa redazione ed esecuzione del piano di risanamento implicano una attività di valutazione e controllo delle scelte dell’impresa, e dunque in ogni caso una ingerenza, sia pure intesa in senso lato. Diversamente da quanto normalmente avviene (anche nel finanziamento dell’impresa in crisi effettuato al di fuori di una convenzione di salvataggio), il sovvenuto non è libero di utilizzare come meglio crede il denaro ricevuto, ma deve attenersi alle direttive del piano. L’ingerenza bancaria, se materializzata in condotte di influenza positiva nella gestione, è prospettata come causa di responsabilità: o per concessione abusiva o per ingerenza gestoria8. Tutte le accennate attività sono articolate secondo schemi necessariamente elastici e idonei ad adeguare l’intervento al continuo mutamento della situazione concreta; lo spazio discrezionale della decisione accompagna le fasi dell’operazione, connotandola non solo in termini di produttiva adattabilità ma, se non condotta con l’alta professionalità che si richiede, anche secondo profili di rischiosa incertezza. In conclusione, in caso di fallimento sopravvenuto del debitore, per gli artefici ed esecutori del piano di risanamento e dell’accordo di ristrutturazione il rischio di essere convenuti per concessione abusiva del credito o per responsabilità gestoria si mostra elevato. Per di più, le numerose esenzioni dalla revocatoria introdotte dalla riforma spingono gli organi della procedura fallimentare e i creditori all’esperimento di azioni alternative e volte alla socializzazione del danno da fallimento: e anche da questa prospettiva il rischio della azioni per fatto illecito acquista una notevole pregnanza.
La contrattazione sulla crisi d’impresa si distingue nell’ambito della contrattazione con l’imprenditore insolvente per lo scopo finale che ripete dal piano aziendale di ristrutturazione. Questa finalità determina la peculiarità disciplinare dei contratti sulla crisi d’impresa. Mentre il contratto con l’insolvente è scoraggiato, e così pure il contratto con l’imprenditore commerciale insolvente, proprio quest’ultimo contratto è invece incoraggiato quando la crisi d’impresa non costituisce mera occasione del contratto, ma – come pure dimostra la dipendenza del contratto rispetto alla sottostante pianificazione aziendale – ne integra la funzione, indirizzandosi meritevolmente il contratto alla soluzione della crisi d’impresa9.
2.1 Giudizio di meritevolezza del finanziamento e tutela del contratto
Nella materia rilevante il giudizio di meritevolezza è concretizzato nella disciplina dell’azione revocatoria, che consente di discriminare i contratti immeritevoli di tutela (perché stipulati con l’imprenditore insolvente) dai contratti meritevoli di tutela (perché, ancorché stipulati con l’imprenditore insolvente, indirizzati al superamento della crisi d’impresa). Rispetto ai terzi mentre il contratto con l’imprenditore insolvente vale come fatto potenzialmente lesivo della garanzia patrimoniale – come tale non opponibile e perciò assoggettato a revocatoria (ma anche fonte di responsabilità extracontrattuale) – invece il contratto sulla crisi d’impresa (concluso per affrontare la crisi nel tentativo di superarla) può giovarsi di una speciale protezione. Non basta però che l’obbiettivo possa dirsi soggettivamente prefissato, dovendo apparire anche oggettivamente argomentabile: non rileva infatti la mera intenzione delle parti, il motivo del contratto (art. 1345 c.c.) ma la funzione oggettiva del contratto. Il che impone che l’obbiettivo del superamento della crisi costituisca la causa del contratto. Ma nemmeno a tal punto può escludersi l’abusività della contrattazione, occorrendo che l’obbiettivo del superamento della crisi si mostri anche ragionevolmente perseguibile (cfr. art. 67, co. 3, lett. d, l. fall.). Proprio il requisito di ragionevolezza e fattibilità esclude (già in astratto) la qualifica di abusività (e la colpa come elemento oggettivo del contratto quale fatto dannoso per il terzo e fonte di responsabilità risarcitoria ai sensi dell’art. 2043 c.c.). E in effetti, il ragionevole superamento della crisi – constatabile per essere il contratto attuativo di un piano aziendale ragionevole e fattibile – non solo non contrasta ma anzi soddisfa l’interesse dei terzi creditori10. Nella contrattazione sulla crisi d’impresa non è possibile distinguere il contratto non dannoso per il terzo creditore dal contratto a lui favorevole, e con effetto ‘protettivo’ del credito vantato. Nello stato di crisi d’impresa, l’unico modo di contrattare senza pregiudicare i terzi creditori è di contrattare per risolvere la crisi. La qual cosa si traduce in un automatico vantaggio per tali terzi creditori, non più assoggettati alle conseguenze sfavorevoli della crisi dell’impresa del debitore. Negli accordi di ristrutturazione omologabili questa connaturata protezione dei terzi, comune a ogni accordo ragionevole, è fatta oggetto di apposita menzione essendo elevata a espressa condizione di omologabilità dell’accordo. L’esplicitazione di un presupposto logico della figura ‘accordo di ristrutturazione basato su di un piano aziendale ragionevole e fattibile’ non costituisce però una implementazione, e non rende l’accordo omologabile in qualche modo diverso dall’accordo non sottoposto a omologazione ma pur sempre fondato su di un piano aziendale ragionevole e fattibile. Scopo della legge è solo di richiamare l’attenzione del giudice nella delicata sede della omologazione, dove è a lui rimesso un giudizio prognostico sul superamento della crisi. Può dunque anche affermarsi che nei contratti sulla crisi d’impresa, assoggettati o meno a omologazione, il limite di tutela dato dalla meritevolezza degli interessi perseguiti è segnato dagli effetti positivi per i diritti dei terzi creditori, i quali sono implicati nella progettazione e nella esecuzione di detti accordi. Se, in generale, è sufficiente alla tutela del contratto che esso non pregiudichi i diritti dei terzi, nel caso dei contratti sulla crisi d’impresa è logicamente necessario che il contratto, per non pregiudicare i terzi creditori, produca loro vantaggi indiretti. Tali vantaggi consistono esclusivamente nella recuperata capacità adempitiva del debitore, di cui ogni creditore naturalmente si giova11. Come anche il requisito di ragionevolezza aiuta a supporre, la protezione non può dipendere da caratteristiche del contratto, in quanto esso è stabilito per la realizzazione del piano. Le caratteristiche rilevanti devono perciò afferire non al contratto ma al piano. Dispone la legge che il piano deve essere ragionevole e fattibile ed essere attestato come tale dal revisore legale; fissa in tal modo due caratteri indefettibili del piano e ne affida l’attestazione all’esperto. Il programma è tutelato attraverso la stabilizzazione degli effetti dei contratti realizzativi. Poiché con tali contratti si dispone di un patrimonio incapiente, gli effetti rilevanti sono quelli verso i terzi. Il problema affrontato e risolto è pertanto quello della opponibilità del contratto ai terzi. L’opponibilità è determinata dalle regole sulla azione revocatoria fallimentare. Le esenzioni dei contratti sulla crisi d’impresa e degli atti esecutivi dall’azione revocatoria segna il limite della opponibilità. Questo limite è sistematico, e indispensabile per discriminare gli accordi tutelabili dal diritto da quelli non tutelabili12.
2.2 L’esenzione dall’azione revocatoria e l’esclusione della responsabilità per fatto illecito
L’effetto della tutela dei diritti dei terzi giustifica l’esenzione dalla azione revocatoria prevista per gli atti esecutivi di contratti, anche omologati (art. 67, co. 3, lett. d ed e l. fall.). La mancata tutela dei terzi creditori, invece, determinando l’immeritevolezza del contratto (infatti abusivo) e dunque la inopponibilità dello stesso ai terzi, lo espone alla conseguenza revocatoria. Se, inoltre, il contratto sulla crisi d’impresa si rivela dannoso per il terzo, si prospetta una responsabilità risarcitoria. Esclusa la responsabilità contrattuale (il terzo, in quanto tale, non è parte del contratto; nemmeno è destinatario di effetti favorevoli o di effetti meramente protettivi), rileva la responsabilità extracontrattuale: in quanto il contratto integri, rispetto al terzo, un fatto ingiusto fonte di obbligazione risarcitoria. Si ha dunque una ipotesi di responsabilità extracontrattuale da contratto: della responsabilità per conclusione di un contratto ai danni del terzo. Dunque, le esenzioni dalla azione revocatoria poste a tutela della esecuzione dei contratti attuativi di piani ragionevoli e fattibili, in quanto espressive di un giudizio di meritevolezza ai sensi dell’art. 1322 c.c., assumono un significato che trascende la materia della responsabilità patrimoniale (e dell’azione revocatoria) per sprigionare decisive influenze nella diversa materia della responsabilità aquiliana. Tra le azioni per responsabilità extracontrattuale spicca, nella teoria e anche nella prassi operativa, l’azione di responsabilità per concessione abusiva del credito. Per questa fattispecie il contratto di finanziamento vale, rispetto ai terzi, come fatto ingiusto fonte di danno risarcibile. L’antigiuridicità del fatto dipende dalle circostanze concrete in cui la contrattazione avviene: vagliabili, in primo luogo, in ordine alla sussistenza o meno di una strategia di impresa per la soluzione della crisi di cui la contrattazione deve esprimere la fase attuativa; e vagliabili, in secondo luogo, sulla ragionevolezza e sulla fattibilità del piano in cui è formalizzata detta strategia d’impresa e che costituisce il riferimento della contrattazione. Ragionevolezza e fattibilità integrano i parametri legali indiretti (perché direttamente riferibili non al contratto ma al piano) della meritevolezza della contrattazione con l’imprenditore insolvente. Il contratto in attuazione di un piano ragionevole e fattibile gode di tutela legale in punto di esenzione dalla azione revocatoria fallimentare. Per questa affermazione di meritevolezza, non potrebbe mai integrare il fatto antigiuridico e dannoso che secondo l’art. 2043 c.c. costituisce fonte della obbligazione risarcitoria aquiliana. Cosicché non solo negli accordi omologati, ma anche negli accordi non sottoposti a omologazione, la ragionevolezza e fattibilità del piano realizzano le condizioni di meritevolezza del contratto indispensabili per una piena tutela dell’atto, e dei suoi effetti, rispetto ai terzi. Il discrimine tra finanziamento corretto e finanziamento abusivo è tracciabile sulla scorta del programma di ristrutturazione, e sulle sue caratteristiche in tema di ragionevolezza e fattibilità. Dietro la valutazione del programma, e della sua esecuzione, la banca deve orientarsi nella istruttoria sul merito creditizio e nel monitoraggio del finanziamento concesso: il quale deve revocarsi non appena sopravvenga – per ragioni endogene o esogene alla esecuzione del piano – la infattibilità di quest’ultimo (e perciò il manifestarsi della insolvenza dell’imprenditore finanziato). Ragionevolezza e fattibilità del piano costituiscono dunque i parametri rilevanti per il merito creditizio all’impresa in crisi. In tal modo, le regole positive sulle esenzioni dalla azione revocatoria trascendono l’ambito di stretta pertinenza, svolgendo una più comprensiva funzione di legittimazione dei contratti sulla crisi d’impresa nel nostro ordinamento. Le strette implicazioni in tema di legittimazione del contratto esistenti tra esenzione dalla azione revocatoria ed esclusione della responsabilità per concessione abusiva del credito (nonché delle responsabilità penali per concorso in bancarotta) si mostrano chiaramente nella fattispecie, ricorrente nella pratica, della concessione di finanza esterna allo scopo di ripianare precedenti esposizioni costituendo anche una garanzia formalmente attinente non a debito scaduto ma a debito contestuale. Al di fuori di una pianificazione per la soluzione della crisi d’impresa la finalità oggettivamente attribuibile al contratto è di frodare i creditori, mascherando vecchi crediti chirografari per nuovi crediti garantiti. L’operazione abusiva non resiste all’azione revocatoria fallimentare e nemmeno alla azione per concessione abusiva di credito. Invece, inserita quale tappa in una razionale strategia di superamento della crisi d’impresa, una simile operazione si classifica come ristrutturazione della finanza attraverso la trasformazione di debiti a breve in debiti a medio o lungo termine: ciò che è non solo legittimo, ma anche utile alla superiore finalità del superamento della crisi13.
In dottrina si dibatte sui limiti dell’esenzione dall’azione revocatoria. Una prima questione concerne l’estensione della esenzione prevista nell’art. 67, comma 3, lett. d) l. fall. rispetto agli atti che contribuiscono in qualche modo alla realizzazione del piano. Nella preoccupazione di favorire l’adozione di piani seri e credibili, si propone di considerare l’esenzione come estesa a tutti gli atti oggettivamente ‘esecutivi’ del piano, a prescindere dalla adesione del terzo al piano medesimo14. In realtà il piano integra non l’atto da eseguirsi ma la base aziendale della attività giuridica sovrastante e nell’ambito della quale si realizza il rapporto tra imprenditore-debitore e gli altri artefici della ristrutturazione (creditori, finanziatori, fornitori, ecc.). Se il carattere di ragionevolezza, nella misura in cui favorisce il superamento della crisi d’impresa, promuove in via di fatto la tutela del credito negli accordi attuativi sia per chi ne è parte sia per chi rimane estraneo, nondimeno la differenza di tutela tra queste due categorie di creditori emerge qualora il piano per fattori esogeni o per fattori endogeni volga all’insuccesso. In tal caso, infatti, solo gli aderenti all’accordo, e non anche i terzi, potranno giovarsi dell’effetto esentativo sugli atti compiuti. Come avverte la lettera della legge per gli accordi di ristrutturazione – ma come pianamente discende dalle considerazioni già svolte sui piani attestati quali basi aziendali di contratti oggetto di esecuzione – dichiarato il fallimento e attualizzata la possibilità delle azioni revocatorie, potranno giovarsi dell’esenzione esclusivamente gli autori di atti esecutivi degli accordi realizzati sulla base del piano aziendale. Esecutivi degli accordi possono essere solo atti in essi contemplati. Più precisamente, solo gli atti esecutivi delle obbligazioni che trovano fonte negli accordi: infatti solo le obbligazioni costituiscono impegno suscettibile di esecuzione. I soggetti della obbligazione, creditore e debitore, sono anche parti dell’accordo. Chi non è parte dell’accordo non è soggetto dell’obbligazione in esso stabilita, nel senso che mai può assumere la qualità di debitore o di creditore sulla base dell’accordo medesimo15. La seconda questione concerne l’estensione della esenzione prevista nell’art. 67, co. 3, lett. e), l. fall. Infatti, nel caso dell’accordo sottoposto a omologazione deve osservarsi che per la lettera della legge oggetto di omologazione è solo l’accordo con i creditori, e non anche la restante – e complessa – attività contrattuale pure esecutiva del piano aziendale di ristrutturazione. Potrebbe dunque sorgere il dubbio che l’esenzione, che concerne gli accordi omologati, si estenda anche ai contratti stipulati con soggetti diversi dai creditori. Se così fosse, emergerebbe una differenza tra atti esecutivi (dei contratti attuativi) dei piani attestati e atti esecutivi degli accordi di ristrutturazione che non sarebbe giustificabile: giacché anche gli accordi di ristrutturazione dei debiti presuppongono un ragionevole piano aziendale la cui esecuzione complessiva è necessaria per il recupero prospettico della solvenza: e dunque per la richiesta tutela dei terzi creditori estranei all’accordo. L’irragionevole differenza esporrebbe la legge a una censura di incostituzionalità. Nulla impedisce, tuttavia, di accogliere una interpretazione estensiva della regola, pur eccezionale, sulla esenzione: così da ricomprendere nell’area di quest’ultima tutti gli atti giuridici realizzativi del piano aziendale sottostante all’accordo di ristrutturazione dei debiti (atti unilaterali o contratti o atti esecutivi di tali negozi comunque realizzativi del piano)16. Questa ragionevole interpretazione appare sistematicamente impeccabile se si considera l’identità sostanziale tra accordi sottoposti e accordi non sottoposti a omologazione, quali atti comunque realizzativi di piani aziendali sul superamento della crisi d’impresa.
3.1 (Segue) Concessione abusiva di credito e danno all’impresa decotta
Uno spinoso problema è suscitato dalla tendenziale commistione che può realizzarsi tra le fattispecie di responsabilità aquiliana della concessione abusiva e dell’interferenza gestoria. La ricaduta pratica del dubbio è nella difficoltà di distinguere gli spazi delle due azioni: come accade per l’azione a tutela del danno subito non direttamente dai creditori dell’impresa fallita ma da quest’ultima. Parte della dottrina sostiene la dannosità della concessione abusiva di credito per l’impresa finanziata. Le versioni più accurate della tesi si preoccupano di precisare che la concessione abusiva esprime una valenza plurioffensiva (colpendo non solo il patrimonio dei terzi ma anche il patrimonio dell’impresa finanziata) e che la concezione di ‘concessione abusiva’ da promuovere nel pubblico dibattito non sia quella tradizionale e consolidata, ma la concezione ritenuta più adatta alla efficace soluzione dei problemi che si presentano: la concezione in cui l’abuso è rinvenuto nel mero fatto della negligenza nella verifica del merito creditizio, e dunque in una generica contrarietà al diritto oggettivo della condotta del finanziatore (trascurandosi la condotta dell’impresa finanziata) a prescindere dalla valenza decettiva di tale comportamento (la quale, concernendo lo stato di solvenza dell’impresa finanziata, mai potrebbe esplicarsi nei confronti dell’impresa medesima). L’efficienza di questa visione è colta nella possibilità, che parrebbe consentire, di un’azione del curatore fallimentare (a tutela del patrimonio gestito) contro il finanziatore abusivo: con un accrescimento di effettività della tutela, altrimenti rimessa nella pratica attuazione esclusivamente alla iniziativa del terzo danneggiato17. Una obiezione, finora insuperata, concerne l’inefficienza della concessione di credito a produrre, in sé stessa, un pregiudizio al patrimonio del finanziato. L’erogazione del finanziamento si presenta come un fatto neutro nelle vicende dell’impresa, incapace di stabilirne da sola il destino18. La sovvenzione determina piuttosto l’obbligo di restituzione di capitale e interessi. Questo effetto sinallagmatico è ritenuto sufficiente per argomentare la dannosità del finanziamento: poiché l’impresa è in stato di insolvenza, si postula l’improduttività del finanziamento medesimo rispetto alla irreversibilità dello stato19. In questo ragionamento il finanziamento è concepito come contributo alla crisi d’impresa, come credito alla crisi; non si considera il finanziamento nel contesto dell’attività d’impresa in cui confluisce; si trascura, in particolare, la possibilità di utilizzo del finanziamento nelle strategie di gestione e superamento della crisi di impresa, secondo percorsi consolidati nella prassi (si pensi ancora all’esperienza delle cd. convenzioni bancarie di salvataggio) e oggi sanciti anche dal diritto oggettivo nelle figure del piano attestato di risanamento, dell’accordo di ristrutturazione dei debiti e del concordato preventivo. Proprio dalla decisione sull’utilizzo della nuova finanza dipende in importante misura il successo dell’operazione di superamento della crisi di impresa; di modo che il momento essenziale della fattispecie è nella scelta gestoria sul finanziamento ricevuto. Rispetto a quella scelta la concessione di credito costituisce un mero antefatto privo di autonoma rilevanza causale sul danno arrecato al patrimonio sociale, il quale dipende dal fatto di mala gestio degli amministratori. La condotta della banca nella concessione del credito assume in definitiva rilievo nell’ambito della fattispecie della responsabilità gestoria, per il concorso che può ipotizzarsi nel fatto imputabile agli amministratori o anche per il controllo sull’impresa finanziata esercitato attraverso il finanziamento20. Non è superfluo aggiungere che tra la concessione abusiva del credito propriamente intesa e il danno al patrimonio dell’impresa finanziata corre un rapporto, piuttosto che di estraneità, di vera e propria incompatibilità. Giuridicamente la concessione di credito si realizza in un contratto stipulato tra un finanziatore professionale e una impresa insolvente. Affermare che la concessione di credito produce un danno ingiusto all’impresa insolvente corrisponde ad affermare che l’esatto adempimento di un contratto determina un danno ingiusto nel patrimonio del contraente che riceve la prestazione. La difficoltà dell’opinione emerge considerando che la negligenza o il dolo nella istruttoria del merito creditizio non determinano l’invalidità del contratto, non rilevando né quale causa di nullità né quale causa di annullamento e nemmeno quale causa di rescissione. Di modo che l’ingiustizia del fatto si troverebbe a coesistere con la validità del contratto che quel fatto determina. In tal modo la concessione di credito acquisterebbe una duplice e contrastante rilevanza giuridica: quale prestazione in esecuzione di un valido contratto e, al contempo, fatto ingiusto in danno del destinatario della prestazione medesima. L’unico esempio di diritto positivo di danno da esecuzione di un contratto valido è dato dal dolo incidente, causa non di annullamento dell’atto ma soltanto di risarcimento del danno (art. 1440 c.c.): e qui l’antinomia è risolta da una precisa scelta del legislatore. La recente giurisprudenza commerciale, argomentando dalla ipotesi del dolo incidente (quale testimonianza della plausibilità di una responsabilità precontrattuale per conclusione di un valido contratto) sostiene una ulteriore ipotesi, integrata dal contratto di investimento concluso in violazione da parte del professionista degli obblighi informativi legalmente previsti a tutela dell’investitore. La validità del contratto, comunque riaffermata, non escluderebbe il risarcimento del danno subìto dall’investitore21. Quest’ultima fattispecie – illineare rispetto alla nostra tradizione dogmatica – è contestata non senza ragione dietro il rilievo che proprio il caso del dolo incidente, ponendosi come unica eccezione alla regola della irrilevanza del danno da esecuzione di contratto valido, dovrebbe indurre ad escludere la sussistenza di casi parimenti eccezionali e non disciplinati22. Ma anche se l’avviso giurisprudenziale superasse vittoriosamente la critica, non porterebbe argomento all’ulteriore eccezione alla regola generale data dalla validità del contratto di concessione abusiva di credito accompagnata dal diritto del sovvenuto al risarcimento del danno ingiustamente subìto. Si tratta infatti di fattispecie profondamente diverse: appartenendo la prima (sui servizi di investimento) al peculiare settore della contrattazione diseguale d’impresa, governato dal principio del consenso temperato dai molteplici rimedi all’asimmetria di potere contrattuale – tra i quali spiccano gli obblighi di informazione verso l’investitore –; e appartenendo la seconda (sulla concessione abusiva di credito) al tradizionale settore della contrattazione simmetrica tra imprese, governato esclusivamente dal principio del consenso validamente prestato e nel quale nessun apprezzabile rilievo è riconosciuto a obblighi di protezione e di informazione della controparte oltre il doveroso rispetto dei dettami della buona fede contrattuale (artt. 1337, 1366 e 1370 c.c.). Né può sottovalutarsi che nel caso del credito imprudentemente concesso gli obblighi (non di correttezza ma) di diligenza violati, custoditi nella direttiva di principio della sana e prudente gestione, sono posti a tutela non della controparte contrattuale (come invece accade per gli obblighi di informazione nei contratti di investimento) ma della stabilità dell’impresa di credito e dell’intero settore bancario. Di modo che la violazione di quelle regole e di quei princìpi, pur escludendo una copertura giuridica della condotta – che infatti concorre a integrare le diverse fattispecie del danno ai terzi da concessione abusiva e del danno al finanziato e ai suoi creditori da ingerenza gestoria –, difficilmente potrebbe integrare una fattispecie di danno all’impresa finanziata quale parte del contratto di credito. La non predicabilità di un danno al patrimonio dell’impresa finanziata discendente dal mero fatto della concessione abusiva porta a escludere la sostenibilità di un generale danno subìto, in via riflessa, dai creditori concorsuali, pregiudicati nella garanzia patrimoniale generica sul patrimonio del debitore (senza considerare che la conservazione della garanzia patrimoniale è assicurata non da azioni risarcitorie e satisfattive ma da azioni conservative: azione revocatoria, surrogatoria, sequestro conservativo). L’esclusione di un danno da concessione abusiva di credito al patrimonio dell’impresa fallita e – conseguentemente – di un danno riflesso alla garanzia patrimoniale dei creditori concorsuali implica la carenza di legittimazione attiva dei gestori delle procedure concorsuali per le relative azioni risarcitorie; ed è questa la opinione pacifica in giurisprudenza.
3.2 (Segue) Prededuzione del credito da finanziamento e responsabilità da erogazione abusiva
Un classico problema della fattispecie della concessione abusiva è nel criterio di imputazione della responsabilità: sostenendosi da parte della dottrina la rilevanza soltanto del dolo, e da altri la rilevanza anche della colpa. L’argomento decisivo a favore della seconda tesi è dato dalla equivalenza, nella regola generale dell’art. 2043 c.c., del dolo e della colpa del danneggiante ai fini della responsabilità risarcitoria: salvi i casi previsti dalla legge, del fatto illecito si risponde non solo per dolo ma anche per colpa e mai per responsabilità oggettiva; poiché nessuna norma di settore deroga alla regola generale (limitando la responsabilità alle condotte dolose o estendendola nel senso della responsabilità oggettiva), essa deve valere nella sua interezza. Sul piano degli interessi tutelati questa appare essere l’unica soluzione soddisfacente, giacché l’interesse protetto (affidamento incolpevole del danneggiato sulla solvenza dell’impresa finanziata per osservazione dell’attività professionale di concessione del credito) resta pregiudicato nell’identico modo sia dal dolo che dall’errore del finanziatore, e reclama in entrambi i casi una eguale protezione23. La soluzione è avversata da parte della dottrina; recentemente, sull’argomento che il finanziamento professionale all’impresa in crisi è oggi a tal punto incentivato dalla legge da godere del favore della prededuzione nel caso in cui il piano posto alla base di un concordato preventivo o di un accordo di ristrutturazione dei debiti volga all’insuccesso (cfr. art. 182 quater l. fall.); cosicché in queste ipotesi sembra contraddittorio affermare la responsabilità per semplice negligenza nella concessione del credito di cui si ha diritto di restituzione preferenziale24. In realtà il dubbio, per come prospettato, non avrebbe ragione di porsi. Per un argomento preliminare, in quanto le discipline di accordi di ristrutturazione e concordati – a differenza di quanto vale per i piani attestati di risanamento – prevedono forme di pubblicità dell’iniziativa che fanno escludere la ricorrenza dell’elemento di fattispecie dato dalla falsa apparenza di solvibilità dell’impresa finanziata fonte di errore incolpevole dell’ignaro osservatore. Inoltre, per gli atti esecutivi di accordi e concordati omologati, e dunque positivamente valutati dal tribunale e dai creditori, il carattere abusivo della erogazione si mostra incompatibile con la positiva valutazione espressa dal tribunale e dai creditori sulla gestione della crisi d’impresa a mezzo di questi strumenti per come calibrati nel caso concreto. Lo stesso argomento può essere addotto per i finanziamenti realizzati in funzione dell’omologa dell’accordo di ristrutturazione o per la presentazione della domanda di concordato, per i quali la prededuzione è concessa dalla legge a condizione che sia disposta nel provvedimento del tribunale di ammissione al concordato preventivo o di omologazione dell’accordo (art. 182 quater, co. 2, l. fall.): e dunque condizionatamente all’esito positivo del vaglio giudiziale di meritevolezza del finanziamento. Pur accantonando questi rilievi – che portano a escludere la compresenza, nel caso concreto, del diritto alla restituzione in prededuzione del finanziamento erogato e della responsabilità per erogazione abusiva – la restrizione della fattispecie alle condotte dolose sarebbe comunque ingiustificata in quanto non potrebbe restituire coerenza al quadro ordinamentale. La contraddizione ravvisata tra diritto alla restituzione in prededuzione e abusività del finanziamento non sarebbe scongiurata, per le condotte colpose, semplicemente escludendo la ricorrenza della fattispecie (ristretta alle condotte dolose); mentre per le condotte dolose rimarrebbe comunque in piedi. In questo secondo caso occorrerebbe allora escludere – nonostante la previsione legale – il diritto alla prededuzione, come se il carattere abusivo del finanziamento ne determinasse per una sorta di sanzione civile la restituzione in chirografo; nel primo caso la coerenza sarebbe guadagnata premiando la banca negligente con la prededuzione e l’esclusione di responsabilità per concessione abusiva: ossia in una direzione contraria al sistema (rispetto al quale la soluzione si appaleserebbe del tutto incoerente). Senza contare che una primaria preoccupazione di coerenza deve riguardare la specifica fattispecie di responsabilità aquiliana per concessione abusiva di credito rispetto alla figura generale – e non derogata – di tale responsabilità, che ai fini dell’imputazione del fatto all’agente non consente di discriminare le condotte dolose dalle condotte colpose. Cosicché il recente riconoscimento legale della prededuzione per accordi e concordati non modifica la questione del criterio di imputazione rispetto al passato.
1 Cfr. Guatri-Sicca, Strategie, leve del valore e valutazione delle aziende, Milano, 2000, 21.
2 Cfr. Roe, Corporate reorganization and Bankruptcy (legal and financial materials), New York, 2000, 38 ss.; 106 ss.
3 Cfr. Di Marzio, Il diritto negoziale della crisi d’impresa, Milano, 2011, 89.
4 Cfr. Galletti, Tecniche e rischi del finanziamento all’impresa in crisi, in AA.VV., Autonomia negoziale e crisi d’impresa, a cura di Di Marzio e Macario, Milano, 2010, 315.
5 Cfr. Jacquemont, Droit des entreprises en difficulté. La procédure de conciliation. Les procédu- res collectives de sauvegarde redressement et liquidation judiciaries, Paris, 20064, 212.
6 Cfr. Grelon, La loi de sauvegarde revisitée par la loi n° 2010-1249 dite de « régulation bancaire et financière » en date du 22 octobre 2010, in Rev. sociétés, 2011, 7.
7 In dottrina cfr., per tutti, Nigro, La responsabilità della banca per concessione «abusiva» di credito, in AA.VV., Le operazioni bancarie, a cura di Portale, I, Milano, 1978, 301 ss. In giurisprudenza cfr. Cass., S.U., 28 marzo 2006, n. 7029, in Dir. fall., 2006, II, 323; Cass., S.U., 28.3.2006, n. 7030, in Corr. giur., 2006, 643; Cass., S.U., 28 marzo 2006, n. 7031, in Dir. fall., 2007, II, 195.
8 Cfr. Piscitello, Concessione abusiva del credito e patrimonio dell’imprenditore, in Riv. dir. civ., 2010, I, 655; Nigro, La responsabilità delle banche nell’erogazione del credito alle imprese ‘in crisi’, in Giur. comm., 2011, I, 305.
9 Cfr. Fortunato, Brevi note sulla «filosofia » della nuova revocatoria fallimentare, in Giur. comm., 2005, I, 721; Galletti, Le nuove esenzioni dalla revocatoria fallimentare, in Giur. comm., 2007, I, 182 ss.
10 Cfr. anche Macario, Insolvenza del debitore, crisi dell’impresa e autonomia negoziale nel sistema della tutela del credito, in AA.VV., Autonomia negoziale e crisi d’impresa, cit., 59 ss.; Vettori, Il contratto sulla crisi d’impresa, ivi, 237.
11 Se, infatti, si definisce ‘insolvenza’ l’impotenza a soddisfare regolarmente le obbligazioni assunte (cfr. art. 5. l. fall.), allora per ‘solvenza’deve intendersi la capacità di soddisfare regolarmente le obbligazioni assunte, ossia di ‘pagare regolarmente i creditori’ (cfr. art. 182 bis, co. 1, l. fall.).
12 Cfr. Stanghellini, La nuova revocatoria fallimentare nel sistema di protezione dei diritti dei creditori, in Riv. dir. comm., 2009, I, 93 s.
13 Cfr. Fortunato, La concessione abusiva di credito dopo la riforma delle procedure concorsuali, in Fallimento, 2009, Convegno ‘Dai piani attestati ai concordati giudiziali: finanziamenti e mercato delle crisi’, 65 ss.; Di Marzio, Sulla fattispecie ‘concessione abusiva di credito’, in Banca borsa tit. cred., 2009, II, 389 ss.
14 Cfr. Libertini, Accordi di risanamento e ristrutturazione dei debiti e revocatoria, in AA.VV., Autonomia negoziale e crisi d’impresa, cit., 375.
15 Cfr. Gentili, Accordi di ristrutturazione e tutela dei terzi, in AA.VV., Autonomia negoziale e crisi d’impresa, cit., 311.
16 Cfr. Rovelli, Un diritto per l’economia. Bilancio di una stagione di riforme. Una scelta di degiurisdizionalizzazione?, in AA.VV., La crisi d’impresa. Questioni controverse del nuovo diritto fallimentare, a cura di Di Marzio, Padova, 2010, 59.
17 Cfr. Piscitello, Concessione abusiva del credito, cit., 667 ss.
18 Cfr. Trib. Monza, 31.7.2007, in Banca borsa tit. cred., 2009, II, 375.
19 Cfr. Piscitello, Concessione abusiva del credito, cit., 668.
20 Ulteriori osservazioni in Di Marzio, Sulla fattispecie ‘concessione abusiva di credito’, cit., 396 ss.
21 Indirizzo inaugurato da Cass., 29.9.2005, n. 19024, in Danno e resp., 2006, 25, stabilizzato da Cass., S.U., 19.12.2007, nn. 26724 e 26725, in Contratti, 2008, 221.
22 Cfr. D’Amico, La responsabilità precontrattuale, in Trattato Roppo, V, Rimedi - 2, a cura di Roppo, Milano, 2006, 1008 ss.; 1010, nt. 3.
23 Cfr., nella letteratura recente, Piscitello, Concessione abusiva del credito, cit., 666 s.; Fortunato, La concessione abusiva di credito dopo la riforma delle procedure concorsuali, in Fallimento, 2009, all.1, 68.
24 Cfr. A. Nigro, La responsabilità delle banche nell’erogazione del credito alle imprese ‘in crisi’, cit., 311.