Finanziamento pubblico dei partiti
L’emersione di gravi fenomeni di sperpero e di corruzione nella gestione delle risorse pubbliche destinate ai partiti politici ha condotto all’approvazione di una legge (l. 6.7.2012, n. 96) che ha introdotto alcune rilevanti novità in tema di finanziamento pubblico delle attività politico-partitiche. Esse consistono non solo nella riduzione complessiva dell’ammontare dei finanziamenti da erogare a tali fini, ma anche nella predisposizione di un complesso strumentario di limiti, vincoli e controlli cui si aggiunge un inedito organismo, la “Commissione per la trasparenza e il controllo”, e un primo tentativo di statuto legislativamente disciplinato dei partiti politici.
Per comprendere appieno il senso e le ragioni che hanno mosso il Parlamento ad approvare nel 2012 la l. 6.7.2012 n. 96 in materia di finanziamento ai partiti politici, è necessario dare uno sguardo all’evoluzione della disciplina precedentemente in vigore e ai problemi che da questa erano derivati. In via generale, il finanziamento ai partiti in Italia è stato un tema venuto all’attenzione della discussione pubblica o a seguito degli scandali emersi nelle cronache politiche oppure a causa dei referendum abrogativi promossi sulla relativa disciplina legislativa. Dal primo punto di vista, al cosiddetto scandalo “petroli” seguì la rapida approvazione parlamentare della prima legge in materia di finanziamento ai partiti, la l. 2.5.1974, n. 195. Questa legge, che introduceva il tuttora vigente reato di finanziamento illecito, prevedeva due tipi di contributi pubblici: quelli per l’attività ordinaria dei partiti (assegnati, in vero, ai Gruppi parlamentari, ma da questi ultimi devoluti ai partiti) e quelli attribuiti a titolo di rimborso delle spese elettorali. Si prevedevano, conseguentemente, norme in materia di pubblicità sia dei bilanci dei partiti, che dei contributi privati, così come un controllo sulla redazione dei bilanci da parte dei Presidenti delle Assemblee parlamentari. La questione dell’opportunità di un finanziamento pubblico ai partiti fu presto oggetto di un referendum abrogativo, ma la legge del 1974 superò la prova della consultazione indetta 1978. Quasi rafforzata dal favorevole giudizio popolare, la presenza del finanziamento pubblico venne ribadita e incrementata nel 1981 dalla l. 18.11.1981, n. 659. Questa estese i contributi pubblici alle elezioni regionali e europee, rafforzando peraltro le disposizioni sanzionatorie e quelle relative al contenuto obbligatorio dei bilanci.
La gravissima crisi che investì la classe politica agli inizi degli anni Novanta contribuì al successo di una nuova iniziativa referendaria che nel 1993 comportò, con voto plebiscitario, l’abrogazione di una parte consistente della legge del 1974. Questa fu amputata nelle disposizioni relative al finanziamento della attività ordinaria dei partiti, mentre sopravvisse la contribuzione erogata a titolo di rimborso delle spese elettorali. Così, volendosi dare seguito all’esito normativo che tecnicamente era emerso dal quesito parzialmente abrogativo, il Parlamento pervenne alla rapidissima approvazione della l. 10.12.1993, n. 515 che ridefinì la disciplina del finanziamento pubblico nell’ambito di una più ampia normativa delle campagne elettorali e referendarie. In breve, si mantenne il meccanismo del finanziamento pubblico per il cosiddetto rimborso delle spese elettorali, stabilendo nel contempo i limiti delle spese effettuabili, l’obbligo di rendicontazione, l’intervento di appositi organi di controllo (i Collegi regionali di garanzia elettorale e quello presso la Corte, e specifiche sanzioni in caso di irregolarità e inottemperanze.
In verità, circa il cosiddetto rimborso delle spese elettorali, si prevedeva l’accesso a appositi fondi ripartiti in proporzione ai voti conseguiti e in caso di superamento di determinate soglie nei risultati elettorali. E l’ammontare dei fondi era calcolato non in relazione alle spese effettivamente spese e rendicontate, ma con riferimento ad una semplice moltiplicazione tra un certo importo e il numero degli abitanti risultanti nell’ultimo censimento (poi divenuto, con la l. 3.6.1999, n. 157, il numero dei cittadini iscritti nelle liste elettorali della Camera). Insomma, il collegamento con le spese elettorali effettivamente sostenute, come è stato sottolineato anche dalla Corte dei conti in sede di verifica, è sempre stato puramente fittizio.
In seguito, la l. 2.1.1997, n. 2, oltre a talune innovazioni soprattutto in materia di rendicontazione delle spese elettorali, ha escogitato un ulteriore canale di finanziamento pubblico, il cosiddetto “quattro per mille”. La stessa legge del 1997 introdusse, come incentivo al finanziamento privato dei partiti, la detraibilità fiscale di una quota delle erogazioni liberali, e stabilì una disciplina più articolata della rendicontazione dovuta dai partiti circa il bilancio e il patrimonio.
L’esperimento del quattro per mille durò poco, sia per i problemi che ne scaturivano in sede applicativa, sia – e forse ancor di più – per la ritrosia dei partiti a farsi “valutare” in corso di legislatura per il tramite delle indicazioni apposte dai cittadini nella denuncia dei redditi. Così tale disciplina venne repentinamente abrogata dalla già citata l. 30.4.1997, n. 157, che, oltre a talune innovazioni sostanzialmente volte a accrescere ed estendere le modalità del finanziamento pubblico (novità giustificate, in concreto, anche dal venire meno della quota del “quattro per mille”), introdusse il contributo pubblico anche a favore dei comitati promotori dei referendum in caso di superamento del quorum di partecipazione ai fini della validità della consultazione.
Le disposizioni incrementali del regime del finanziamento pubblico non sono cessate: nel 2002 la l. 26.7.2002, n. 156 ha riferito l’importo dei fondi non a tutta la legislatura, ma a ciascun anno, così praticamente facendolo moltiplicare per cinque; nel 2006 la l. 23.2.2006, n. 51 ha consentito di erogare la contribuzione prevista per tutta la legislatura anche in caso di scioglimento anticipato, a differenza di quanto disposto dalla precedente l. n. 157/1999; infine, sempre nel 2006, la l. 4.8.2006, n. 248 ha incrementato i fondi disponibili con riferimento alla Circoscrizione estero.
Nel complesso si è assistito ad un processo complessivamente espansivo dell’ammontare dei contributi statali erogati ai partiti politici. Così, una grande quantità di risorse pubbliche è affluita ai partiti e ai movimenti politici senza che a ciò sia corrisposta un’effettiva spesa effettuata a fini elettorali. E tutto ciò è avvenuto, evidentemente, senza una rete idonea di controlli e di verifiche sulla correttezza e sulla liceità dell’impiego delle risorse di provenienza pubblica, come è testimoniato dai gravi casi di malcostume e di illegalità che sono emersi con sempre maggiore intensità e frequenza, e sulla base di un assetto normativo alquanto magmatico e per alcuni aspetti pienamente comprensibile solo agli “esperti”.
Di questa situazione – foriera, tra l’altro, di un diffuso senso di sfiducia nei confronti dell’intero sistema politico e che facilmente può tramutarsi nelle forme più aspre della contestazione degli stessi principi democratici – i soggetti rappresentativi sembrano essersi resi conto soltanto negli ultimi anni, peraltro in coincidenza con una fase assai critica per la vita economica e per le finanze pubbliche. Per di più, la richiesta di gravi sacrifici ai cittadini, soprattutto in termini di politica dei redditi e di trattamenti fiscali, contributivi e previdenziali, ha reso sempre più impellente l’intervento legislativo, quanto meno per riportare ordine e sobrietà anche all’interno della frammentata e per molti aspetti disorganica disciplina vigente in materia di finanziamento pubblico dei partiti. In tal senso, si sono succeduti tre provvedimenti che hanno inciso sull’ammontare della contribuzione, ed esattamente: la l. 24.12.2007, n. 244, il d.l. 31.5.2010, n. 78 (conv. nella l. 30.7.2010, n. 122) e il d.l. 6.7.2011, n. 98 (conv. nella l. 15.7.2011, n. 111) che ha reso immediatamente cogente il principio della corresponsione dei contributi pubblici soltanto per la durata effettiva della legislatura. Complessivamente, le riduzioni risultanti da tali provvedimenti ammontano al trenta per cento di quanto risultava in precedenza.
In particolare, il Governo Monti ha attribuito a Giuliano Amato l’incarico di fornire al Presidente del Consiglio “analisi o orientamenti” sulla disciplina dei partiti per l’attuazione dell’art. 49 Cost. e sul loro finanziamento, così sottolineando la cruciale necessità di intervenire su questo delicato aspetto dell’ordinamento. E dunque, con la recente l. n. 96/2012 il legislatore ha inteso rispondere in modo più compiuto alle pressanti richieste largamente presenti nell’opinione pubblica per una decisa correzione di quei meccanismi, non solo di carattere quantitativo, ma anche di rilievo istituzionale, che hanno determinato il grave stato di fatto sopra sintetizzato. Nel complesso, l’intervento legislativo del 2012 può essere considerato come una prima risposta alle predette esigenze. Da un lato, infatti, si è rifiutata la richiesta, fondata su considerazioni per così dire “antipolitiche” di chi intendeva sopprimere del tutto il finanziamento pubblico, dovendosi tenere conto, tra l’altro, dell’esperienza ormai comune agli ordinamenti democratico-rappresentativi; dall’altro lato, senza introdurre radicali cambiamenti di sistema, ci si è mossi sulla linea dell’accentuazione dei limiti e dei controlli in ordine alla contribuzione pubblica, e sulla promozione dell’autofinanziamento mediante le erogazione liberali. In particolare, in primo luogo, si è provveduto ad una riduzione del 50 per cento dei contributi a carico dello Stato a favore dei partiti politici, anche con riferimento ai contributi in corso di liquidazione. Tuttavia, poiché si sono abrogate le riduzioni di circa il 30 per cento già disposte negli ultimi anni, complessivamente può dirsi che il finanziamento pubblico sia stato ridotto di un ulteriore 20 per cento. Inoltre, si è stabilito un tetto massimo per la contribuzione pubblica, mentre in precedenza l’ammontare dei fondi era variabile. Ancora, si è prescritto che una quota del 70 per cento del finanziamento è disposta a titolo sia di rimborso delle spese per le consultazioni elettorali, che come contributo per l’attività politica ordinaria, così rimuovendo, almeno in parte, quell’ipocrisia che velava la precedente disciplina. In realtà, non si è scelta la strada più chiara e trasparente dei rimborsi veri e propri rispetto a spese già effettuate, ma, come vedremo, si è preferito rafforzare i controlli ex post sulla rendicontazione delle spese. La restante quota del 30 per cento sarà invece erogata a titolo di cofinanziamento, ovvero si è previsto che, entro determinati limiti, la contribuzione statale è commisurata al finanziamento privato che i partiti riescono ad ottenere, cioè è collegata alla loro capacità di autofinanziamento. Con questo meccanismo – che riprende quello utilizzato in altri ordinamenti – si intendono premiare le forze politiche che sono effettivamente collegate con la realtà sociale e economica del Paese, e che, insomma, non si limitano a sopravvivere mediante i fondi che giungono dalla contribuzione pubblica. In particolare, l’importo di tale cofinanziamento è pari alla metà delle somme che sono acquisite annualmente tramite le quote associative e le erogazioni liberali, entro un determinato limite massimo per ciascun soggetto erogatore. E ciò al fine di evitare che il cofinanziamento parametrato all’autofinanziamento avvantaggi in modo eccessivo le forze politiche già dotate di cospicui fondi privati. Circa le erogazioni liberali, poi, è stato aumentato l’importo della percentuale dell’importo detraibile, ed è stato diminuito il limite massimo e minino del contributo detraibile.
Al di là delle complesse tecnicalities che caratterizzano l’impianto normativo della legge in questione, e che in questa sede non possono essere dettagliatamente analizzate, vi sono alcune disposizioni che vanno sottolineate per la loro rilevanza complessiva nell’assetto ordinamentale. Vi è, infatti, un corposo pacchetto di disposizioni volte ai seguenti fini: accentuare i controlli sull’impiego della contribuzione pubblica ai partiti e ai movimenti politici; migliorare la relativa rendicontazione mediante il necessario ricorso a società di revisione; rendere più trasparente la situazione patrimoniale e reddituale dei tesorieri dei partiti; limitare, secondo criteri di proporzionalità collegati alle rispettive competizioni elettorali, le spese elettorali dei candidati; pubblicizzare nei siti internet dei partiti i rispettivi bilanci e la relazione delle società di revisione; vincolare la contribuzione pubblica alla sola “attività politica”; introdurre regole che contrastano specifici abusi verificatisi in concreto (ad esempio, proibendo l’investimento della contribuzione pubblica in strumenti finanziari diversi dai titoli di Stati membri della UE); infine, delegare il Governo all’adozione di un testo unico che raccolga le disposizioni in materia di finanziamento pubblico ai partito, data la molteplicità e la disorganicità delle fonti attualmente in vigore e la non facile comprensione della normativa vigente.
Sono state, poi, introdotte normative di favore per lo svolgimento delle attività elettorali e, più in generale, politiche. A tal proposito, è stata estesa l’aliquota Iva agevolata per l’acquisto dei messaggi politico-elettorali sui siti web, e si è riformulata la disciplina relativa alla possibilità che i Comuni e le Province mettano a disposizione appositi locali per lo svolgimento di attività politiche. Tra l’altro, a differenza di quanto originariamente proposto, si è mantenuta la disciplina relativa alla Circoscrizione estero. Viceversa, appare significativa – e sostanzialmente conforme agli orientamenti espressi dalla giurisprudenza costituzionale in tema di tutela “di genere” in ambito elettorale – la disposizione che prevede una riduzione del contributo pubblico (esattamente del 5 per cento) qualora nelle elezioni le liste siano composte per più di due terzi da candidati del medesimo sesso. A questa sanzione se ne aggiunge un’altra che va nel medesimo senso e stavolta pari al ventesimo del contributo complessivo annuo che il partito riceve, qualora non si rispetti l’obbligo di destinare almeno il 5 per cento di tale contributo complessivo alle «iniziative volte ad accrescere la partecipazione attiva delle donna alla politica». Inoltre, è stato fissato un criterio comune per l’accesso ai rimborsi elettorali, vale a dire aver ottenuto almeno un rappresentante eletto (condizione che in precedenza non sussisteva per il Senato).
Inoltre, va segnalata la predisposizione di uno specifico organismo di controllo, ovvero la «Commissione per la trasparenza e il controllo dei rendiconti dei partiti e dei movimenti politici». Della Commissione fanno parte cinque alti magistrati che sono designati, rispettivamente, uno dal Primo Presidente della Corte di cassazione, uno dal Presidente del Consiglio di Stato e tre dal Presidente della Corte dei conti. Tra questi i Presidenti delle Assemblee parlamentari individuano il Presidente della Commissione. Alla Commissione sono attribuiti estesi e nutriti poteri di controllo sulla regolarità e legittimità delle attività di rendicontazione cui sono tenuti i destinatari delle contribuzioni pubbliche; e spettano corrispondenti poteri sanzionatori in caso di accertamento di inottemperanze o irregolarità, sanzioni che possono giungere sino alla decurtazione dell’intero importo della contribuzione. Non può non segnalarsi che l’ampiezza dei compiti attribuiti avrebbe consigliato l’attribuzione di tali funzioni a organi dotati di una struttura propria e soprattutto già attrezzati e sperimentati nello svolgimento delle attività di controllo sulla correttezza dell’uso dei contributi pubblici anche da parte dei soggetti privati, quale, ad esempio, la stessa Corte dei conti.
Infine, all’interno del corpus della l. n. 96/2012 è collocato un abbozzo di “statuto legislativamente disciplinato” dei partiti politici. Come noto, sinora è mancata nel nostro ordinamento l’attuazione dell’art. 49 della Costituzione, attuazione che presumibilmente è condizione necessaria per assicurare la coerente collocazione dei partiti politici all’interno dell’assetto democratico e rappresentativo in cui si muove la nostra forma di governo. Tale lacuna non è stata mai colmata, se non in modo sporadico e per specifici aspetti (quali la redazione dei bilanci o il rapporto tra i Gruppi parlamentari e i partiti politici), proprio dalla normativa che si è succeduta in tema di finanziamento pubblico dei partiti, e solo qualche cenno può essere riscontrato nella disciplina delle campagne elettorali e delle relative spese. E neanche la l. n. 96/2012, che pure poteva fornirne l’occasione, affronta in modo deciso il problema, se non con una disposizione di principio collocata nell’art. 5 della legge. Tale disposizione richiede, quale condizione a pena di decadenza dal diritto alla contribuzione pubblica che i partiti e i movimenti politici, così come le liste di candidati «che non siano espressione degli stessi», si dotino di un atto costitutivo e di statuto da trasmettere ai Presidenti delle Camere. La legge aggiunge quali debbano essere i requisiti per così dire minimi di tali atti: la forma scritta, e l’indicazione degli organi competenti all’approvazione del rendiconto di esercizio e alla gestione economico-finanziaria. E successivamente si specifica, circa il contenuto dello statuto, che questo «deve essere conformato a principi democratici nella vita interna, con particolare riguardo alla scelta dei candidati, al rispetto delle minoranze e ai diritti degli iscritti». La disposizione, per quanto in modo piuttosto sintetico, individua alcuni principi organizzativi di democraticità – si badi bene, interpretata soltanto dal punto di vista interno ai partiti, e non anche, come pure si è autorevolmente sostenuto, con riferimento alle modalità di azione esterna –, cui gli statuti dei partiti dovranno dunque adeguarsi. Di tali indicazioni di principio, però, rimane oscuro l’effettivo rilievo giuridico. Non sembra, infatti, che la sostanziale inosservanza di questi principi da parte degli statuti trasmessi dai partiti, possa essere rilevata dai Presidenti di Assemblea al fine, ad esempio, di sospendere o addirittura di negare l’erogazione della contribuzione pubblica. Forse, potrebbe ritenersi che gli appartenenti al partito siano divenuti titolari di un interesse collettivo, azionabile anche in via giurisdizionale, alla corretta applicazione dei predetti principi di organizzazione interna nell’ambito della disciplina statutaria. Si tratta, a ben vedere, di un primo tentativo di “statuto legislativamente disciplinato” dei partiti politici, la cui effettiva cogenza è rimessa alla successiva attività di interpretazione e attuazione; sarebbe, in definitiva, auspicabile che si possa giungere una disciplina legislativa finalmente compiuta dei partiti politici per dare piena attuazione al dettato costituzionale.