STORIOGRAFIA, FINO ALL'ILLUMINISMO
La narrazione delle gesta di Federico II e la rappresentazione della sua figura si fondano soprattutto, nei secoli successivi alla caduta della dominazione sveva, almeno fino al sec. XVIII, su alcune famose narrazioni coeve quali la Chronica di Riccardo di San Germano, la Cronica di Salimbene de Adam e la Cronica di Giovanni Villani (v. Cronachistica). Gli storici fanno spesso ricorso a materiale epistolografico, a documenti pontifici e al testamento di Federico come fonti per sostenere notizie e opinioni sulle vicende che riguardano l'imperatore, ma la trattazione concerne generalmente un arco di tempo più ampio, in cui figura complessivamente la dominazione sveva, non specificamente il periodo della sua vita o del suo regno. Di una biografia di Federico, o di un carme, che sarebbe difficile individuare fra i testi a noi noti, si ha notizia indiretta da un passo del De liberalitate di Giovanni Pontano (1999, cap. XII, p. 76), il quale lamentava che il duca di Milano non avesse voluto prestargli nemmeno uno dei due libelli che conservava di una narrazione delle gesta di Federico II. Con molta evidenza la storiografia segue alcune tracce delle antiche cronache e predilige alcuni temi, quali la crociata e lo scontro con i comuni, per inserirli in un disegno ideologico e valutare l'operato dell'imperatore soprattutto sul piano morale, e complessivamente il peso avuto dagli Svevi nella storia d'Italia. Per cui è utile tener presente talora, al di là della figura di Federico II, almeno quella di Manfredi, con la quale essa viene spesso accompagnata e confrontata.
In effetti si deve parlare di sfortuna di Federico e di Manfredi all'indomani della dominazione sveva e dell'avvento degli Angioini, specialmente nella storiografia del Mezzogiorno d'Italia: le loro figure vengono ora dimenticate, ora discusse e condannate; e non soltanto per tendenziosità guelfa, ma perché esse impersonano un'immagine del potere che s'intende esorcizzare in quanto tendenzialmente presente nella struttura politica del Regno.
Il dominio svevo era stato accolto dalla letteratura più altamente rappresentativa all'insegna della sacralità e della legittimità. Se Goffredo da Viterbo aveva consegnato l'immagine di Enrico VI come il perfetto sovrano che univa nella sua persona la forza delle armi e quella degli studi, potenza e sapienza secondo il modello biblico di Salomone, Pietro da Eboli (v.) aveva recuperato, a proposito della nascita di Federico II, il tema classico e cristiano dell'età dell'oro: "O fanciullo dei nostri voti, o età di rinnovamento […] La pace sorge con te e noi al tuo nascere siamo ricreati […] Sole senza nube, o fanciullo che non mai patirai eclissi, giorno che la reggia partorì nell'orbe del sole" (Pietro da Eboli, 1904-1910, vv. 1377-1390). Il carme ricalca ovviamente l'egloga IV di Virgilio e il concilio degli dei dell'Eneide, oltre che tutta la vicenda augustea, dalla clemenza verso i vinti allo smantellamento dell'esercito, alla vigilia della nascita di Federico, novello rampollo augusteo. Il poeta lucano proponeva un modello regale che rispondesse alle attese mistico-religiose dei nuovi tempi e alle attese dell'intellettualità laica imbevuta dei principi del risorto diritto romano. Importavano il problema della legittimità del potere svevo, l'obiettivo primario della pace, la fusione di giustizia e pietà, la clemenza, l'equità che talora deroga alla legge come accadde di fare a grandi personaggi quali Salomone, Alessandro e Cesare; l'aiuto divino era il segno della provvidenzialità dell'avvento degli Svevi rinforzata dalla nascita del secondo Federico.
La tendenza a fondare la sacralità del potere, nel caso degli Svevi, sull'idea della fortuna come segno del favore divino poteva appena funzionare fino a Federico II, del quale alcuni storiografi ricordano le sventure con le quali si conclude la sua vita. Con la caduta di Manfredi l'argomento doveva rovesciarsi a favore di Carlo d'Angiò, con l'avvento del quale la storiografia assumerà un atteggiamento critico, fino alla denigrazione, nei confronti della tradizione sveva. In effetti, proprio l'ideologia della vittoria e della fortuna come inconfondibili segni divini salvaguarderà in parte nei contemporanei la figura di Federico, laddove per Manfredi bisognò interpretare come il risultato provvisorio di una diabolica astuzia la sua fortuna militare e politica nei confronti del pontefice, e mostrare poi il tracollo finale come esemplare vicenda dell'uomo, che quanto più s'innalza ingiustamente, più tragicamente precipita.
Ma già agli occhi di coloro che assistono al trionfo di Federico e all'ascesa di Manfredi la prospettiva provvidenzialistica del potere andò scivolando verso la considerazione positiva della loro virtù politica. La cronaca che va sotto il nome di Niccolò Jamsilla (v.), che è chiaramente diretta a dimostrare la legittimità di Manfredi, la continuità, sancita perfino dall'etimologia del nome, di Manfredi rispetto al padre, comincia con l'asserzione che Federico era stato serbato al trono nella sventurata giovinezza dalla sola protezione della destra divina, per concludere che la sola virtù della sagacità lo sostenne, quando già era oppresso, ma non abbattuto da varie calamità per opera dei suoi nemici. E come in Federico veniva esaltato essenzialmente l'incontro di due qualità dell'etica aristotelica, il coraggio ("fuit magni cordis") e la sapienza, che intervenne a temperare la sua magnanimità intesa come audacia, così in Manfredi veniva anzitutto riconosciuta la magnanimità intesa come equilibrio del bonus rector (in quanto egli avrebbe associato "alla giustizia la misericordia, per non parere né in quella troppo severo, né in questa troppo indulgente"), come coraggio in senso cavalleresco ("posponeva la vita all'onore e alla gloria, e superava timori e pericoli d'ogni genere per il desiderio di vincere"; Niccolò Jamsilla, 1868, p. 113) e insieme come prudenza, ossia freno a quell'eccesso che è l'audacia ("reputava più gloriosa e onorevole cosa vincere con la prudenza che per l'audacia esser vinto"; ibid., p. 123), come sopportazione ("diceva che non dovessero fuggirsi ma desiderarsi i travagli per i quali si perviene alla gloria"; ibid., p. 115), come consapevolezza della propria superiorità, infine come disprezzo della pusillanimità. Tutte qualità, queste di Manfredi, che solo in parte coincidevano con quelle del padre e si potevano quindi far discendere da lui, ma che in effetti finivano per ridimensionare la figura di Federico II, cui mai si sarebbero attribuiti equilibrio morale, virtù cavalleresca e moderazione.
Una vera e propria deformazione, rispetto al codice morale e cortese, della figura degli Svevi, in primo luogo di Federico ma anche di Manfredi, cui proprio nel confronto col padre era stata attribuita la magnanimità verso i sudditi e perfino una sorta di galanteria, si registra a partire dalla Cronica di Giovanni Villani. Confluiscono allora nelle memorie letterarie i temi di una storiografia classicheggiante prevalentemente antitirannica e tendente a individuare nel principe la sfrenatezza e la scelleratezza. Non è un caso che la virata riguardi un cronista di formazione fiorentina. Tuttavia una cronaca coeva di matrice ecclesiastica come quella di Saba Malaspina (v.), decisamente ostile a Federico II, anch'essa collocabile nell'area meridionale in quanto l'autore, vescovo in Sicilia, scriveva per informare il pontefice sulle vicende del Mezzogiorno, si mantiene su un terreno schiettamente politico. Il giudizio morale sulla nequizia dimostrata dall'imperatore nel tentativo di uguagliare la sua natura ai celesti, la cupidigia di onore e di gloria dimostrata da Manfredi e il suo senso eccessivo della discendenza imperiale appreso nell'aula sveva paiono al cronista errori d'imprudenza politica. Non tanto di orientamento guelfo si tratta, quanto di condanna delle fazioni che dilaniano le città per la mancanza di azione mediatrice da parte dei regnanti. Il punto di vista dell'ecclesiastico emerge nel complesso profilo di Manfredi, che è una sorta di rappresentazione in controluce di Federico II, in quanto vi risuona il rimpianto per quello che il figlio, dotato di virtù adeguate a un buon governante, avrebbe potuto fare per emendare gli errori del padre. Il punto era la mancata riconciliazione con la Chiesa e quindi la continuazione dell'atteggiamento dell'imperatore svevo, causa dell'avvento degli Angioini con i loro non minori difetti.
L'immagine di Federico II come principe giusto, nonostante la severità, fu pur coltivata dalla letteratura coeva, specie dai poeti salentini di lingua greca, ed era presente, piuttosto che nella storiografia dell'età angioina o aragonese, nella quale si registrano il silenzio su tutta l'età sveva e la preferenza per la narrazione della storia contemporanea che permetteva la glorificazione dei regnanti attuali, in ricostruzioni letterarie come quella dei Diurnali di Matteo da Giovinazzo, che nei primi decenni del sec. XVI si spacciavano per una cronaca più antica, coeva ai tempi dell'imperatore. Il modello era più novellistico che propriamente storiografico e l'intenzione era ideologica e letteraria, e tuttavia l'aneddoto che metteva in evidenza la saggezza e l'equità di Federico II potrebbe pur risalire a una consolidata tradizione: il saraceno che aveva violentato la moglie di un gentiluomo di Trani non viene punito col taglio della testa, come sarebbe sembrato giusto, perché Federico rispetta il principio secondo il quale le leggi vanno applicate tenendo conto delle consuetudini etniche, e risponde a chi protesta affermando saggiamente che la violenza non apporta vergogna. Al limite fra la cronaca e la novellistica viene testimoniata fra Due e Trecento la magnificenza di Federico II. Il Novellino lo ricorda in un aneddoto (II, 21) per questa virtù; la famosa rievocazione della corte federiciana fatta da Dante nel De vulgari eloquentia (I, 12) è un pezzo di storia della cultura non privo di significato storico-politico; nel Decameron di Giovanni Boccaccio un fuggevole accenno colloca Federico II all'origine di una serie di "magnifichi signori" d'Italia (I, 7); Salimbene de Adam e Giovanni Villani, pur animati da spirito critico nei confronti dell'imperatore ostile alla Chiesa e non amico di Firenze, ricordano le sue doti umane.
Certo la testimonianza di Salimbene, che racconta di aver incontrato da piccolo l'imperatore, ma ha modo di parlarne ripetutamente nella sua Cronica messa insieme negli anni Ottanta del sec. XIII, rappresenta uno dei documenti ideologici di maggiore interesse, sia per l'appartenenza del cronista al ceto religioso, sia per la sua origine parmense cui si deve l'ampio resoconto dell'impatto di Federico II con il comune ostile dell'Italia settentrionale. Nell'arco della lunga narrazione spiccano da una parte la presentazione iniziale fatta per illustrare il momento della sua ascesa e il significato della sua presenza deleteria in un quadro di grande splendore della Chiesa che aveva visto Innocenzo III dominare su tutti i principi della terra ("Ipse vero Fridericus fuit homo pestifer et maledicus, scismaticus, hereticus et epycurus, corrumpens universam terram, quia in civitatibus Ytalie semen divisionis et discordie seminavit"; Salimbene de Adam, 1942, I, p. 41), dall'altra l'idealizzazione delle sue qualità positive, sviluppata brevemente nel momento di raccontarne la scomparsa, pur dopo averne ribadito l'ostilità preconcetta verso la Chiesa ("dilexit habere discordiam cum Ecclesia"), l'infedeltà religiosa ("De fide Dei nichil habebat"), l'indole maligna ("callidus homo fuit, versutus, avarus, luxuriosus, malitiosus, iracundus"). Le sue buone qualità e la sua gentilezza appaiono una sorta di rivestimento per ottenere l'ammirazione, alla quale il cronista confessa di aver anche ceduto: "Et valens homo fuit interdum, quando voluit bonitates et curialitates suas ostendere, solatiosus, iocundus, delitiosus, industrius; legere, scribere et cantare sciebat et cantilenas et cantiones invenire; pulcher homo et bene formatus, sed medie stature fuit. Vidi enim eum et aliquando dilexi" (ibid., II, p. 505). E tuttavia Salimbene non gli perdona mai la persecuzione ai danni della Chiesa, tale da annullare le sue stesse buone qualità, e l'ingratitudine.
Salimbene raccoglie le dicerie su Federico, come la notizia della sua nascita da un beccaio di Iesi (ibid., I, p. 57), essendo la madre Costanza troppo anziana quando aveva sposato Enrico VI (e il cronista tiene anche ad avvalorare la notizia ricordando la consuetudine delle donne di fingere la gravidanza e adottare un figlio non proprio, la profezia del mago Merlino che aveva previsto un mirabilis ortus e l'improvvisa imprecazione di Giovanni di Brienne che, nella sua lingua francese, aveva chiamato Federico "beccarii filium"); o come la crudeltà usata da Federico verso il notaio che aveva scritto Fredericus per Fridericus. Ma nel profilo di Federico tracciato da Salimbene prevale soprattutto la crudeltà da lui usata perfino verso le persone amiche, indotto dal sospetto di essere tradito (e qui s'inserisce anche l'episodio di Pier della Vigna; ibid., p. 285), o dalla miserabile avidità di appropriarsi dei beni altrui. Sull'esempio biblico il cronista enumera sette colpe fondamentali ispirate dalla sua crudeltà e tratte dall'aneddotica sul comportamento dell'imperatore e dieci infortunii (cui ne aggiunge altri due in modo da raggiungere il numero di dodici), che dimostrerebbero la punizione divina, fra cui l'essere stato abbandonato dal figlio Enrico che si schierò con i suoi nemici, la scomunica e la deposizione da parte del pontefice, con la conseguente ribellione da parte dei baroni, la sconfitta subita da parte della città di Parma (ibid., pp. 495-500).
Dal tema dell'ingratitudine comincia la narrazione di Giovanni Villani, che dedica a Federico II i primi quarantuno capitoli del libro VI della sua Cronica, inserendovi altre informazioni relative a vicende toscane quali la guerra fra fiorentini e pisani e le lotte fra guelfi e ghibellini. In particolare il cronista si sofferma sul dato della nascita senza ripetere la diceria tramandata da Salimbene; tratta dell'accordo con papa Gregorio IX per la crociata e del viaggio dell'imperatore in Oriente conclusosi con una pace precaria con il soldano e con il ritorno precipitoso in Italia dell'imperatore per sopire la ribellione fomentata dal papa e da Giovanni di Brienne; si occupa delle ostilità fra Federico II e il papa, della deposizione di Federico, del favore dato dall'imperatore ai ghibellini di Firenze, della vittoria riportata su Milano, della sconfitta subi-ta da parte del comune di Parma, della sua morte avvenuta a "Firenzuola" contro ogni sua previsione, convinto com'era ‒ in seguito a una profezia ‒ che la sua morte sarebbe avvenuta a Firenze, cosa che spiegherebbe la sua remora a entrare nella città toscana. Villani non si spinge a riferire vicende private, se non a proposito di Giovanni III Vatatze al quale Federico diede in sposa la figlia Costanza che il duca poi trascurò e maltrattò. È l'occasione che il cronista coglie per toccare un altro degli aspetti diabolici della personalità di Federico II: "Ma per opera del nimico dell'umana generazione, trovandosi Federico corrotto in vizio di lussuria, si giacque con la cugina della detta imperatrice e reina" (Giovanni Villani, 1823, VI, cap. XV, p. 21). A proposito dell'accordo col soldano il cronista condanna l'operato di Federico accusandolo di aver concluso una falsa pace, vanificatasi poco dopo il suo rientro con la riappropriazione da parte del soldano dei territori resi e con una situazione peggiore della precedente (ibid., cap. XVII, pp. 23-25). E se egli non manca di alludere alla riserva con cui sia da parte del papa sia da parte dell'imperatore si era stipulato il patto in vista della crociata, come i fatti avrebbero poi dimostrato, non manca nemmeno di cogliere l'occasione per giudicare più grave l'atteggiamento di Federico per la sua disobbedienza: "sempre di ciascuna parte rimase la mala volontà, e maggiormente nello 'mperadore, per la sua superbia" (ibid., cap. XVI, p. 23). Ma l'ostilità di Villani alla casata ghibellina si rivela soprattutto nella soddisfazione di poter constatare la punizione divina: egli raccoglie infatti la diceria sul parricidio, attribuito a Manfredi, che avrebbe affrettato la morte dell'imperatore malato soffocandolo con un cuscino per l'avidità di impossessarsi del tesoro e del Regno. Federico avrebbe pagato il male fatto alla Chiesa, nonché l'uccisione del figlio Enrico e della moglie con la deposizione, la scomunica, la prigionia del figlio, la miserabile morte. Eppure allo stesso Manfredi era attribuita la cura di un magnifico sepolcro su cui era intagliato il ricordo di insigni virtù: "probitas, sensus, virtutum gratia, census, nobilitas" (ibid., cap. XLI, p. 63).
Sulla falsariga del Villani era concepito il racconto della Cronaca di Partenope, arricchito dall'esperienza che i napoletani avevano avuto del duro assedio subì-to da parte di Corrado IV e della cattiva memoria del dominio svevo serbato dalla parte guelfa e angioina: "Lo preditto imperatore Federico, come a tiranno, fece prendere multi conti e baruni de lo Regno co loro mogliere e figliuoli, e di issi alcuni fece impendere et alcuni co' loro mugliere e figli fece ardere" (Cronaca di Partenope, 1974, pp. 125-126).
Ma a metà del sec. XV s'inserisce la monumentale opera di Flavio Biondo, che nel libro settimo della seconda Decade si distende per un buon tratto sulla storia di Federico dal momento in cui iniziano i preparativi per la crociata fino alla morte. I motivi sui quali si sosterranno il vituperio o la celebrazione appaiono attutiti nella sistematica narrazione che evidenzia ovviamente il trambusto provocato in tutta l'Italia e vede emergere, pur senza enfasi, la crudeltà dell'imperatore nel punire i nemici vinti, ma non accusa alcun interesse a dirimere questioni particolari, quali ad esempio la circostanza della morte: qualunque essa sia stata, è certo che Federico lasciò a Manfredi l'eredità del Regno, conclude Biondo, spingendosi a rintracciarne il motivo nell'affetto e nella stima particolari che il padre dovette nutrire per il giovane "ingentis spiritus acerrimique ingenii […] forma speciosissimum et literis exornatum" (Flavio Biondo, 1531, p. 296), raccogliendo cioè un motivo divenuto topico e che in effetti mette in ombra la figura di Federico II, pur riconoscendogli la scelta felice.
La storiografia fiorentina segue ovviamente le orme del Villani, e soprattutto Leonardo Bruni nelle Historiae Florentini populi inserisce nei primi due libri, composti già entro il 1419, il racconto dei fatti di cui fu protagonista Federico II nel quadro di un'Italia dilaniata dalle lotte intestine. Il libro I si chiude con una truce rappresentazione della brutalità dell'imperatore, il quale fa cavare gli occhi e mutilare gli arti a molti avversari che i suoi partigiani toscani gli mandarono prigionieri in Puglia per ingraziarselo. Ed egli li faceva uccidere dopo averli fatti torturare. Ma la vendetta ‒ conclude lo storico ‒ per questi misfatti non fu lunga a venire, perché entrambi, lui e suo figlio, fecero una cattiva fine. E la fazione, che in Toscana egli aveva perseguitata, prese le armi con l'obiettivo di distruggere la sua famiglia e, acquistando gloria, punì col sangue il male fatto da quella stirpe (Leonardo Bruni, 2001, par. 83, pp. 104-106). L'intervento di Federico II nelle cose di Toscana è contrassegnato per il Bruni da rabies, caedes, sanguis, immanitas: l'avo omonimo, pur nemico della Chiesa, alla fine si era umiliato, il padre Enrico aveva incrudelito allo stesso modo, ma non aveva toccato la Toscana, il nuovo imperatore invece aveva invaso la regione e aveva provocato gli odi di parte perché si era proposto di ridurre al suo dominio tutte le città aiutando i suoi amici a prendere il potere e perseguitando fino alla distruzione le parti avverse mandate in esilio.
Dal tema delle discordie interne prende le mosse Niccolò Machiavelli per mostrare come l'intervento di Federico II acuisse i travagli della repubblica fiorentina proprio per la sua politica contraria alla Chiesa: "E stette Florenzia in questi travagli infino al tempo di Federico II, il quale, per essere re di Napoli, potere contro alla Chiesa le forze sue accrescere si persuase; e per ridurre più ferma la potenza sua in Toscana, favorì gli Uberti e i loro seguaci: i quali con il suo favore, cacciarono i Buondelmonti, e così la nostra città ancora, come tutta Italia più tempo era divisa, in Guelfi e Ghibellini si divise" (Machiavelli, 1950, 4, p. 64). Non dunque le lotte interne, normali in una repubblica, danneggiarono il comune, ma l'intervento esterno di Federico che uniformò la situazione fiorentina a quella italiana introducendo la vera e propria guerra civile nella città. Ma la riorganizzazione militare e civile dovuta a queste vicende viene vista da Machiavelli come la fondazione della libertà fiorentina, messa in difficoltà proprio dagli Svevi e difesa dai guelfi, i quali "più che i ghibellini potevono, sì per essere questi odiati da il popolo per li loro superbi portamenti quando al tempo di Federigo governorono, sì per essere la parte della Chiesa più che quella dello Imperadore armata; perché con lo aiuto della Chiesa speravono perseverare la loro libertà, e sotto lo Imperadore temevano perderla" (ibid., pp. 66-67). E l'effetto della vittoria di Manfredi dopo la battaglia di Montaperti viene visto nell'annullamento delle magistrature sulle quali si fondava la "libertà".
Di fronte al silenzio della storiografia umanistica fiorita nel Regno di Napoli sulla figura e le gesta di Federico II, è significativo l'atteggiamento di Pandolfo Collenuccio, che scrive nell'ultima decade del Quattrocento la prima storia in volgare del Regno (Del compendio dell'Historie del Regno di Napoli, 1591) per dimostrare la turbolenza atavica di quella realtà geografica e la necessità di un principato capace di tener testa alla disgregazione baronale, e allo stesso tempo per additare l'errore commesso dal contemporaneo re aragonese Ferdinando nel non essersi valso fino in fondo dell'aiuto di Ercole d'Este, signore di Ferrara, di cui lo storico era il celebratore. La rivalutazione di Federico II e di Manfredi, di cui almeno il primo non aveva mai compiuto errori del genere, si contrappone indirettamente all'inefficienza attuale dei re di Napoli, prossimi a perdere il Regno per l'incapacità di dominare la rivolta baronale. Nel profilo di Federico, Collenuccio raccoglieva le doti del principe del Rinascimento. L'umanista dava particolare rilievo, in quel profilo, al fatto che Federico "ebbe appresso di sé sempre uomini dotti" (Collenuccio, 1929, p. 147), che fu valoroso nelle armi e invitto d'animo, mentre citava, senza calcare la mano e quasi ad assolvere a un dovere di completezza, l'unico grande vizio "che fu troppo amatore di femmine" (ibid., p. 165). L'atteggiamento ideologico si ripercuoteva nell'elogio anche di Manfredi, per il quale, oltre alla famosa testimonianza dantesca della sua bellezza, viene messa in luce una gamma di attributi positivi, una vera celebrazione, quasi a ribadire nell'erede le virtù del padre senza tuttavia derogare alla diffidenza tradizionale che aveva sempre negato a Federico una celebrazione incondizionata: Manfredi sarebbe stato infatti dottissimo, affabile, animoso, gagliardo, astuto, liberalissimo.
Ricco di particolari, raramente postillato da giudizi morali, è invece ‒ come tutta la sua Historia di Milano pubblicata nel 1503, scritta alla fine del ducato sforzesco ‒ il racconto delle vicende di Federico II eseguito da Bernardino Corio. Lo storico milanese segue sostanzialmente un ordine annalistico che spezzetta la narrazione dei fatti dell'imperatore, ma anche quella relativa alla città lombarda che dovrebbe costituire il punto di vista privilegiato. In realtà è messa in evidenza la difficoltà, incontrata da Federico II, di essere incoronato a Milano, viene seguito minutamente il ripetuto impatto dell'imperatore con i comuni, vengono registrate le fasi della vicenda orientale, dalla stipulazione del patto per la crociata all'indugio, alla reazione papale, alla soluzione dell'impresa, senza allusioni o giudizi circa la buona fede dell'imperatore, di cui si prendono per buone sia la malattia che gli aveva fatto ritardare l'azione, sia la valutazione prudente delle forze cui sarebbe andato incontro e del pericolo per aver lasciato indifesi i territori italiani. Né la scomunica del papa viene accompagnata da alcun giudizio di merito. È un caso raro, e del resto scarsamente significativo, l'accenno dello storico alla "celata malizia" e alle "insidie" di Federico nel riferire le ragioni espresse nel campo avversario durante una consultazione (Corio, 1978, I, pp. 358-359). Emerge quasi improvviso, nel racconto della fine dell'imperatore, il giudizio più consueto sulle sue qualità negative, disposto retoricamente al termine dell'intera sequenza. Accolta la notizia della morte per soffocamento a opera del figlio Manfredi, il Corio sentenzia: "E questo fine hebbe il nephario e sevissimo tyranno, perpetuo inimico de sacerdoti, spoliatore di templi, contemptore de la pontificia maiestade, perturbatore de la italica quiete, auctore d'ogni exiciale discordia, dal quale puoi la sedizione crescendo le mortalitate insine nel mezo de le citade non sono anchora cessate" (ibid., p. 402), con un motivo comune al Bruni e al Machiavelli. Ma lo storico calca la mano anche sulla mancanza dei sacramenti e della sepoltura ecclesiastica che vedremo messa in dubbio da una tradizione diversa di origine siciliana.
Nel Regno aragonese la storiografia preferì cimentarsi con la storia contemporanea che consentiva la celebrazione della monarchia attuale, ma Giovanni Pontano non mancava di ricordare, in una veloce retrospettiva all'inizio del De bello neapolitano, il fastidio dato da Federico alla Chiesa e allo stesso tempo di elogiare l'imperatore nel De magnificentia per l'erezione dei castelli, dopo aver ripreso sul piano aneddotico, in Urania (1902, IV, pp. 132-133, vv. 541-581), la leggenda di Cola Pesce narrata da Salimbene come esempio di superstizione, per trasformarla tuttavia in un esempio di sfrenata curiosità naturale guidata da una inesorabile durezza regale. Proveniente dalla stessa scuola pontaniana, ma assuntosi il compito di narrare la storia del Regno di Napoli durante i primi anni della nuova dominazione spagnola per recuperare la tradizione cavalleresca e quindi la linea angioina e francese, Angelo di Costanzo quasi tace di Federico e non riconosce gli aspetti cortesi pur attribuiti a suo tempo dai cronisti al figlio Manfredi.
Alla fine del sec. XVI la varia natura delle opere storiografiche che fioriscono nel contesto del Viceregno spiega gli esiti diversi della fortuna federiciana. Se Tommaso Costo, tardo continuatore del di Costanzo, in difesa della tradizione napoletana, critica gli errori del Collenuccio e con spirito controriformistico giustifica la scomunica dell'imperatore; se ancor prima di lui Giovan Battista Carafa, nelle Historie del Regno di Napoli pubblicate postume nel 1572, si poggia addirittura sul racconto del Collenuccio per capovolgerne il senso, ridimensionando la figura di Federico col metterne in rilievo i vizi accanto alle virtù in un apposito medaglione (Carafa, 1572, p. 92) e insistendo sulla crudeltà e sulla fomentazione degli odi di parte mediante l'inganno a opera dell'imperatore, Giovanni Antonio Summonte, in un'opera fondamentalmente compilativa ed eclettica di sostanziale celebrazione della storia napoletana ‒ l'Historia della città e del Regno di Napoli, i cui primi due volumi furono pubblicati nel 1601 ‒ accoglie le opinioni favorevoli a Federico II in un'ottica nella quale quest'ultimo, cui è dedicato tutto il cap. VIII del libro II, figura come parte integrante, assieme a tutta la serie degli altri regnanti, della storia del Regno. Un esempio significativo è proprio il suo punto di vista a proposito della questione dell'impresa orientale, nella quale l'imperatore avrebbe portato a termine con onore il compito assunto perché "augmentarono molto le cose de' Cristiani per l'industria di Federico in Soria senza spargimento di sangue", nonostante che si dicesse il contrario (Summonte, 1675, pp. 94-95). Alle spalle del giudizio favorevole sulla famosa vicenda vi erano infatti le due decadi De rebus siculis di Tommaso Fazzello.
Comincia a emergere inoltre, nel racconto del Summonte, l'attività legislativa di Federico, positiva perfino nei confronti della libertà ecclesiastica (ibid., p. 98), con una documentazione di cui lo storico vanta la sua personale scoperta in libri manoscritti del Regio Archivio. Positivo è per lui anche il divieto fatto ai dotti del Regno di insegnare negli Studi delle città settentrionali che si erano ribellate all'imperatore. E mentre riporta la diceria accolta da Villani sulla morte per soffocamento a opera di Manfredi, ricalca ‒ come il Carafa ‒ il medaglione finale del Collenuccio e riferisce la notizia della morte per malattia, tenendo a riportare gli epitaffi celebrativi in latino, di cui rivendica la traduzione in versi italiani che, a suo dire, correva per le mani anonima.
Frattanto nel sec. XVI la storiografia ecclesiastica aveva consolidato l'immagine negativa dell'imperatore svevo colpevole soprattutto verso la Chiesa. Il punto era la questione della crociata, a proposito della quale il continuatore degli Annales ecclesiastici di Cesare Baronio, Odorico Rinaldi (1646), nei primi decenni del sec. XVII, intende dimostrare col nuovo metodo della minuta documentazione l'astuzia e la malizia di Federico II, confrontando la forma con la quale dava a credere di voler proseguire la guerra sacra e l'effettivo comportamento che denunciava il contrario. La falsità, la falsa forma di religione, la doppiezza e la pertinacia nel perseguire a ogni costo il proprio utile divengono così il carattere distintivo del diabolico sovrano nemico della Chiesa. Federico inganna il pontefice, e intanto mostra di secondarlo nella speranza di ottenere il suo aiuto contro i lombardi. La crociata non è un insuccesso dell'imperatore o una vicenda interrotta per colpa del complotto papale, ma un'azione intrapresa in mala fede, con intenzione diversa da quella apparente di una guerra sacra. Ma a proposito della morte di Federico gli Annales riferiscono due differenti versioni, quella del soffocamento per mano di Manfredi, che non gli avrebbe permesso alcuna salvezza, e quella segnata dalla riconciliazione con la Chiesa, mediante i sacramenti ricevuti dal vescovo di Palermo e la restituzione a essa dei beni all'atto del testamento, che equivaleva a una vittoria di Dio sull'ostinato nemico.
Non conosceva questa seconda versione, ma soltanto quella di una miserabile morte, per veleno o per soffocamento a opera del figlio pur gratificato nel testamento, uno storico come Carlo Sigonio, il quale scriveva già anche lui nell'orizzonte della riforma cattolica, collocandosi tuttavia sulla linea umanistica sia per quel che riguarda la scelta dello strumento linguistico latino e della struttura liviana (a Federico II sono dedicati i libri XVII e XVIII degli Historiarum de Regno Italiae libri Viginti pubblicati nel 1574), sia per quel che riguarda l'insistenza sulla responsabilità di Federico nell'aver provocato o approfondito le di-scordie politiche nella penisola. Sembra un preciso richiamo alle pagine del Bruni il parallelo iniziale con il nonno Barbarossa e il padre Enrico, l'uno pari, l'altro superato nell'offensiva portata contro la Chiesa e i comuni (Sigonio, 1732, col. 914). Fra l'altro con una classica formula, che ci riporta al momento critico della storia romana precedente alla caduta della repubblica, si apre il libro XVIII, con cui si direbbero anticipate le origini della futura perdita della libertà italiana indicate dal Guicciardini ("Sequenti libro bellum omnium maximum scripturus sum, quod aut Ecclesia cum Imperio, aut Civitates cum Regibus, aut ipsi inter se populi gesserint, vel si clades ultro citroque allatae, vel si ipsa malorum, quae inde profecta sunt, initia perpendantur, quae tanta, ac tam multa fuere, ut haec una perdendis Italiae urbibus ac tyrannis in eas inducendis aditum aperuerint"; ibid., col. 995). Lo storico non manca tuttavia di inserire anche le ragioni di Federico, riportando, alla maniera umanistica, il discorso tenuto da Pier della Vigna all'assemblea convocata dall'imperatore a Padova, dal quale risultava che questi avrebbe dovuto lagnarsi del trattamento ricevuto nonostante il suo giustissimo governo e che in ogni modo era disponibile a riconoscere le sue colpe, se ce ne fossero state.
Uscite nel 1600, le Istorie fiorentine di Scipione Ammirato, che concludevano una carriera di storico e di teorico dell'etica e della politica svolta alla corte toscana dei Medici, non potevano non insistere sulla responsabilità di Federico verso l'origine delle discordie toscane, che solo il principato mediceo avrebbe definitivamente sopite. Lo storico non crede che il fenomeno naturale dell'eclissi di sole del 1228 preannunciasse un cataclisma universale, né i travagli della Chiesa a opera di Federico, pur ritenendo senza alcun dubbio che "non solo alla Chiesa nocque l'imperator Federico, e a tutta Italia, ma specialmente a Firenze", e alla stessa Germania allora "non ancora infesta del tossico delle eresie" e anch'essa succube delle sue molestie (Ammirato, 1853, p. 180). Tuttavia lo storico avanza l'ipotesi della punizione divina, essendo il suo successo solo apparente, perché nei successori "la divina giustizia, che non va ratto, serbava forse d'avventar le saette della sua ira" (ibid., p. 181), oltre ad attribuire alla mano divina il fatto che Firenze fu ricompensata nella stessa epoca dalla presenza di un grande giurista come l'Accursio. Nel racconto che fa l'Ammirato delle efferatezze dell'imperatore nei confronti dei prigionieri politici fiorentini trasferiti in Puglia (ibid., p. 191) si avverte l'eco del Bruni, mentre sulla sua morte, considerata come una liberazione per Firenze, si ricorda soltanto la superstizione che gli impedì, inutilmente, di metter piede nel capoluogo toscano, perché morì ugualmente a "Ferentino terra di Puglia" (ibid., p. 197), come l'oracolo gli aveva preannunciato. Inoltre la vicenda della crociata permette allo storico di esprimere inequivocabili giudizi sulla malafede dell'imperatore, come quando riprende l'argomento del suo indugio, o attribuisce a una "sparsa fama", e quindi a un pretesto imperiale, la minaccia di un'invasione delle terre del Regno da parte del papa, e alle "fraudi" scoperte dai cristiani d'Oriente, e poi da tutto il mondo, il sostanziale fallimento dell'impresa.
Una revisione della storia federiciana si ripropone già nei primi decenni del sec. XVII con Francesco Capecelatro, che nella Storia del Regno di Napoli, data alla luce nel 1640, osserva che gli scrittori tedeschi sono "troppo appassionati" nei confronti del loro imperatore e gli italiani usano troppa "malevolenza" (Capecelatro, 1640, pt. II, p. 182). Perciò egli segue preferibilmente Riccardo di San Germano che visse proprio in quei tempi e Bernardino Corio perché può considerarsi abbastanza antico, e vanta di aver utilizzato manoscritti autorevoli contenenti il testamento e la corrispondenza fra papa e regnanti. E mentre ridimensiona notizie di portenti miracolosi riconducendoli a cause naturali, come quando attribuisce il cielo infiammato di Napoli alle esalazioni del Vesuvio (ibid., p. 166), indugia sull'incontro fra Federico II e Francesco d'Assisi sostenendo il devoto ricordo della camera del castello che avrebbe ospitato il santo. Per altro il Capecelatro registra alcune azioni discutibili dell'imperatore come lo stanziamento dei saraceni a Lucera, causa di gravi danni futuri, o la crudeltà usata nell'assedio di Brescia verso i prigionieri, ma lo difende dall'accusa di essersi comportato in modo vile in occasione della crociata, adducendo come prova, per sostenere la sua opinione diversa da quella più comune, il comportamento fiero dimostrato da Federico in altre occasioni ("Né par verisimile, anzi è impossibil cosa aver voluto egli sofferire dagli effeminati populi d'Egitto e da' vilissimi Arabi quei dispregi ed oltraggi che non soffrì né dai Lombardi, né dai Tedeschi, né da tante altre valorose nazioni, delle quali ottenne più volte nobilissime vittorie per tutto il tempo di sua vita"; ibid., p. 182).
Il momento terminale della vicenda ideologica che accompagna la storiografia su Federico II, ma che coinvolge tutta la dominazione sveva in Italia, facendo di Federico un simbolo e almeno di Manfredi una sorta di controfigura che integra e in parte corregge quel simbolo, è la Istoria civile del Regno di Napoli (1723) di Pietro Giannone, il quale contesta il limite principale della tradizione storiografica soggetta al secolare scontro fra spirito guelfo e spirito ghibellino. Il Giannone concepisce l'opera di Federico e di Manfredi come rivolta a creare un modello di stato moderno e vi riflette la sua immagine del potere e del buon governo anche in relazione con le esigenze a lui contemporanee di riorganizzazione del Regno meridionale lasciato dagli spagnoli dopo il secolare dominio dell'Impero cattolico. La ragione polemica di questo modello non risponde tanto al problema dell'accentramento del potere di fronte alle forze disgregatrici del privilegio baronale, quanto a un disegno anticuriale. Il Giannone recupera pertanto l'ottica ghibellina, ma la difesa della personalità politica e morale di Federico trova in realtà il suo nuovo fondamento nel principio della 'ragion di stato', ribadito soprattutto come giustificazione degli atti di potere nei confronti dei privilegi ecclesiastici: "se egli fu crudele contro alcuni prelati, e più contro frati e monaci, ben nel corso di questo libro si son vedute le cagioni di tanta severità, e le occasioni dategli d'usarla. Né deve riputarsi estraneo alla potestà del principe, quando si mova con giuste cagioni, e principalmente se lo faccia per ragion di stato, d'esiliare i vescovi, discacciargli dalle loro sedi, imprigionare i frati, ed incrudelire contro di essi, quando sono perturbatori dello stato e della publica quiete" (Giannone, 1723, p. 144).
Non concorda con questa giustificazione dell'opera antiecclesiastica di Federico II, ma nemmeno indugia sulle sue crudeltà, Ludovico Antonio Muratori, il quale negli Annalidella Storia d'Italia (1744-1749) attribuisce molta importanza ai condizionamenti della fama negativa che le azioni dell'imperatore e il suo comportamento avrebbero creato forse in misura superiore al vero e comunque con conseguenze irreversibili nella memoria dei posteri: "Il cattivo concetto in cui era Federico facea, che solamente si pensasse e credesse il male di lui […]. Colla sua crudeltà, colla sua lussuria diede ancora frequenti occasioni di sparlar di lui, e principalmente la doppiezza sua, e il non attener parola, gli tirarono addosso la solita pena, che non gli era creduto né pur quando parlava di cuore da dovero. In somma lasciò egli dopo di sé fama e nome più tosto abominevole, di cui non si cancellerà sì di leggieri la memoria" (Muratori, 1753, p. 249). Gli aspetti positivi della sua personalità intervengono in sostanza a correggere questa fama, e fra essi emergono il grande intendimento e l'accortezza, i meriti verso la cultura, l'amore della giustizia che avrebbe suggerito i "bei regolamenti", mentre fra gli aspetti negativi da parte del Muratori non poteva mancare l'intenzione di "abbattere la libertà dei Lombardi". Perciò lo storico indugia sulle ragioni politiche e civili dello scontro fra Federico II e i comuni settentrionali, dovuto non tanto a un atto di ribellione all'Impero da parte delle città settentrionali quanto a una difesa dal disegno di "ridurre l'Italia tutta sotto un obbrobrioso giogo e mutar la Lombardia in una nuova Puglia" (ibid., p. 193). In Federico II il Muratori denuncia l'aspetto negativo della ragion di stato e l'identità del tiranno ("il perdonar di cuore a chi l'aveva offeso era cosa straniera nell'animo suo […] prendeva le leggi del mantener la fede e parola non mai dall'onesto, ma solamente dall'utile e dalla necessità"; ibid.), oltre che il fiscalismo che gli aveva alienato i comuni più di quanto non avesse fatto il Barbarossa. Frattanto il Muratori osservava con acume storico come la solidarietà dei comuni, normalmente in dannosa lotta fra loro, si fosse attenuata di fronte al pericolo svevo e fosse riesplosa dopo la morte dell'imperatore.
Nel corso del Settecento si dileguano in buona parte le ragioni ideologiche che avevano militato pro e contro l'immagine del potente imperatore ostile alla Chiesa e al baronaggio, e risaltano gli aspetti che lo avallano come principe illuminato soprattutto nei confronti dell'ordinamento giuridico e della cultura. È interessante l'esempio di Saverio Bettinelli, che non dimentica, in un'opera di storia della cultura come Il Risorgimento d'Italia nelle arti e nei costumi dopo il Mille, del 1775, "le guerre, gli scismi, gli errori" (Bettinelli, 1775, p. 131) dovuti anche a Federico II, ma tiene a sottolineare che quei turbamenti non impedirono un'opera illuminata come quella di erigere a Napoli l'Università, di favorire la Scuola medica salernitana, di promuovere la traduzione di libri scientifici dall'arabo e dal greco. E tuttavia al Bettinelli non sfugge l'occasione di condannare illuministicamente quei tempi in cui vigeva la falsa scienza degli oroscopi e i principi, come anche Federico II, si contornavano di vani astrologi e di impostori (ibid., p. 139).
Proprio sul rapporto fra la figura di Federico II e i suoi tempi ancora immersi, in Europa, nella barbarie medievale, si focalizza l'interesse di Voltaire, che dedica all'imperatore svevo innamorato dell'Italia, allora meno barbara ma non meno infelice per le sue cento guerre civili, il cap. LII degli Essais sur les moeurs et l'esprit des nations. Il filosofo francese era colpito dal disegno federiciano di cambiare il volto dell'Europa, "le noeud secret de toutes les querelles qu'il eut avec les papes" (Voltaire, 1769, I, p. 143). In questa contesa Federico avrebbe impiegato "flessibilità e violenza", ma gran parte del saggio voltairiano riguarda la schermaglia avvenuta al concilio di Lione, in cui Federico veniva contraddittoriamente accusato di incredulità e di maomettanesimo ("Come si può essere allo stesso tempo eretico e incredulo? E come in questo secolo si potevano formulare così spesso accuse di questo genere?"; ibid., pp. 546-547). E mentre lo storico registrava gli intrighi e le violenze dello scontro, corrispondenti alla consuetudine dei tempi, dichiarava i suoi dubbi sia sui tentativi del papa di avvelenare l'imperatore, sia sul parricidio perpetrato da Manfredi (ibid., p. 549). Così la sensibilità illuministica induceva il filosofo a riconoscere i meriti di Federico nella fondazione dell'Università, nella fioritura delle lettere e la nascita della lingua italiana, ma anche a registrare un fallimento: le resistenze che provocò avrebbero nociuto alle scienze come ai suoi stessi obiettivi politici. Si scorge in questa posizione, ancora abbastanza prudente, il nucleo dell'interpretazione di Federico II come antesignano dei nuovi tempi.
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