FINZIONE GIURIDICA
. Uno fra gli artifici della tecnica giuridica, largamente praticato da tutti gli ordinamenti, è quello per cui si dà come esistente o come inesistente un fatto, indipendentemente dalla preoccupazione dell'accertamento della verità e talora anche nel riconosciuto contrasto con questa, e ciò al fine di ricollegare alla sussistenza del fatto, o alla sua mancanza, le conseguenze giuridiche che ne deriverebbero qualora esse corrispondessero alla realtà, rendendo cioè possibile o escludendo l'applicabilità di una norma al rapporto dato. In altre parole, invece di modificare le norme esistenti, si modifica artificiosamente il fatto a cui queste dovrebbero applicarsi, fingendo inesistenti alcuni elementi che osterebbero all'applicazione di una norma, o fingendo sussistenti tali altri elementi che soli ne renderebbero possibile l'applicazione. Così, per trarre un esempio dal diritto romano - che fece larga applicazione delle finzioni -, nella fictio legis Corneliae, allo scopo di salvare la validità del testamento di chi fosse morto in prigionia del nemico, e di conseguenza in condizione d'incapacità, si fingeva che il testatore fosse morto all'atto stesso in cui era stato fatto prigioniero.
È questo della finzione, come si comprende, un artificio tecnico tanto più largamente usato in quegli ordinamenti che più si presentano tradizionali e conservatori, in quanto permette, senza nessuna formale modifica delle norme vigenti, di raggiungere gli stessi effetti che si conseguirebbero da un'espressa statuizione di norme nuove. Non ci si deve quindi stupire del largo uso che il diritto romano fece della finzione (v., per es., fictio legis Corneliae, fictio divortii, finzione codicillare, ecc.) e dell'importanza che questa ebbe come elemento di progresso giuridico, massime in quanto servì, attraverso le larghe applicazioni escogitate dal pretore, a temperare l'eccessiva rigidezza dell'ius civile adattandolo a nuove esigenze, e dando tutela a interessi che se ne presentavano degni (es. tipico l'actio publiciana).
È quindi facile osservare come l'introduzione di finzioni legali valga praticamente a soddisfare le stesse esigenze che si soddisferebbero con l'introduzione di norme nuove che richiamassero sotto l'impero di norme già statuite altri rapporti, per i quali non fossero dimostrati sussistenti tutti gli elementi che costituiscono il presupposto della loro applicazione. Sono chiari inoltre i nessi che intercorrono tra questo istituto della finzione e l'interpretazione analogica o la presunzione. Tanto la finzione quanto l'interpretazione analogica estendono in realtà l'impero della norma oltre le ipotesi di fatto previste, per applicarla anche là dove non concorrerebbero tutti i presupposti della sua applicazione. Ma, a prescindere da ciò, profonda diversità intercorre tra i due processi. Mentre l'interpretazione analogica può essere attuata dall'interprete in base all'indagine della ratio legis, che, dimostrata nell'ipotesi espressamente disciplinata e in quella non prevista dal legislatore una sostanziale identità di situazioni giuridiche, autorizza, anzi impone (quando non sia vietato a sensi dell'art. 4 disp. prel. cod. civ.), di colmare l'apparente lacuna, nella finzione giuridica è implicita la dichiarazione dell'irrilevanza d'uno di quegli elementi che pur sarebbero condizione essenziale per l'applicazione della norma, sì che l'applicazione di questa si rende possibile solo per la dichiarata volontà del legislatore che deve espressamente statuire la finzione.
Rapporti anche più intimi intercorrono tra la finzione e la presunzione quando si tratti di presunzione stabilita per legge e tale da escludere ogni possibile dimostrazione del contrario (presunzione iuris et de iure; v. presunzione). Se una differenza si può segnare tra i due processi (ed è qui singolarmente difficile e sottile una distinzione), sembra doversi dire che nella presunzione iuris et de iure, con particolare riferimento all'aspetto probatorio e quindi processuale, si alleggerisce l'onere di una prova dando senz'altro per dimostrata l'esistenza di taluni elementi che configurano la fattispecie prevista dal legislatore; nella finzione, invece, si afferma senz'altro come esistente un fatto che esclude l'applicabilità di norma diversa e opposta a quella che si vuole applicare. Così, per limitarsi al già fatto esempio della fictio legis Corneliae, non si erra certo affermando che essa introduce una presunzione di morte, mentre non fa che porre senz'altro come esistente un fatto (la morte all'atto della cattività) tale da arrestare l'applicabilità di quella nomia che condurrebbe necessariamente alla nullità delle disposizioni testamentarie. Considerata l'affinità esistente fra le due figure e la possibilità di raggiungere spesso con l'una o con l'altra indifferentemente lo stesso risultato, appare chiaro che il legislatore può bene spesso indifferentemente appigliarsi all'una o all'altra via.
Parlando di finzioni giuridiche non intendiamo qui discorrere né delle finzioni che possono essere escogitate dai dichiaranti nel negozio giuridico, al fine di conseguire effetti diversi da quelli che l'espressa dichiarazione di volontà manifesterebbe (simulazione), né delle cosiddette finzioni dogmatiche, attuate dalla dottrina al fine di poter dare una giustificazione logica a taluni istituti o al fine di facilitare, con spesso discutibili accostamenti, la loro costruzione dogmatica.
Bibl.: F. Bernhöft, Zur Lehre von den Fiktionen, in Aus röm. u. bürgerlich. Recht, E. I. Bekker z. 16. VIII. 1907, Weimar 1907, p. 241 segg.; G. Demelius, in Jahrbücher für die Dogmatik, Jena 1859, IV, p. 144 segg.; id., Die Rechtsfiktion in ihrer gesch. und dogmatischen Bedeutung, Weimar 1858; Bülow, in Archiv für civ. Praxis, LXII, p. 1 segg.; R. De Ruggiero, voce Finzione legale, in Dizionario di diritto privato.