Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Poco dopo la morte di Lorenzo de’ Medici nel 1492, Firenze attraversa una grave crisi politica, religiosa e culturale. Il frate domenicano Girolamo Savonarola, con le sue prediche contro l’inutilità dei beni e della felicità terrena, infiamma gli animi della città, tanto che nel 1494, al tempo della discesa in Italia del re francese Carlo VIII, Piero de’Medici è cacciato e viene proclamata la Repubblica. I dipinti di Botticelli, Filippino Lippi, Fra’ Bartolomeo e Perugino registrano, in modo molto diverso, l’inquietudine di quegli anni, e propongono nuove formule per la pittura devozionale.
La crisi politica e religiosa di fine secolo
L’ultimo decennio del Quattrocento a Firenze è segnato dalla figura di fra’Girolamo Savonarola da Ferrara, priore del convento di San Marco. Nella sua predicazione egli propugna un ritorno della Chiesa agli autentici valori cristiani, scagliandosi contro il lusso, gli eccessi, gli inutili sfarzi. In particolare i suoi strali sono diretti contro le opere d’arte profane, considerate lascivi veicoli di corruzione. Artisti come Fra’ Bartolomeo (1472-1517) e Lorenzo di Credi si mostrano particolarmente colpiti dalla parole del frate domenicano, tanto da distruggere alcune loro opere e bruciare in piazza i disegni di nudo in uno dei “roghi delle vanità” del 1497 e 1498.
Gli anni in cui più forte è l’influenza del predicatore sono gli stessi che vedono la cacciata di Piero de’Medici, succeduto nel 1492 al padre Lorenzo (1449-1492), e travolto nel 1494 dalla discesa in Italia di Carlo VIII di Francia e dal risentimento popolare alimentato dallo stesso Savonarola. Questi, scomunicato da Alessandro VI nel 1497, viene processato per eresia, e subito dopo impiccato e bruciato in piazza della Signoria il 23 maggio 1498. Il clima di crisi che si respira in città nel corso della breve, intensa stagione savonaroliana è repentinamente registrato dalla pittura fiorentina degli anni Novanta, che segna una brusca rottura con quella dell’età di Lorenzo il Magnifico.
L’ultimo Botticelli
Al 1495 circa è datata la Calunnia di Botticelli, una piccola, preziosa tavola di raffinatissima esecuzione. Il pittore, secondo il racconto di Giorgio Vasari, l’avrebbe donata ad Antonio Segni. È stato ipotizzato che l’opera fosse stata pensata per Piero de’Medici, magari come dono per assicurarsene la protezione. Il soggetto è tratto dalla descrizione di un perduto dipinto del pittore greco Apelle lasciataci da Luciano di Samosata. Un giovane innocente e nudo è trascinato di fronte a un giudice dalle orecchie d’asino mal consigliato dal Sospetto e dall’Ignoranza; a sinistra, trionfa la nuda Verità. L’episodio allegorico si svolge in un’aula ornata da statue e bassorilievi in finto oro, dipinti da Botticelli con la cura di un miniatore. Da un lato, quindi, un raro tema profano, l’ultimo nella produzione dell’artista, che rimanda alla Primavera e alle altre mitologie dipinte negli anni del governo di Lorenzo il Magnifico. Dall’altro una composizione inquietante, segnata da un sostanziale pessimismo (la Verità trionferà pure, ma l’espressione di dolore del giudice, e le orecchie d’asino in cui si insinuano calunnie e sospetti non lasciano ben sperare), e dal ritmo spezzato dei gruppi di figure (rade a sinistra, affollate a destra). La tensione culmina nel gesto speculare ma contrapposto delle braccia degli unici due uomini della scena, il Giudice e il Livore: una completa inversione di rotta rispetto alla musicalità della Primavera. E lo stesso horror vacui della decorazione architettonica, che stordisce anche l’osservatore più attento, in stridente contrasto con lo spoglio paesaggio in secondo piano, aumenta il senso di disagio trasmesso dal dipinto.
Da questo punto di vista la Calunnia ha un parallelo nella sovrabbondanza di motivi all’antica con cui Filippino Lippi, in uno straordinario impeto di visionarietà, gremisce l’altare di San Filippo esorcizza un drago nel Tempio di Hieropoli affrescato nella cappella Strozzi in Santa Maria Novella. L’artista inizia i lavori nella cappella nel 1487, ma il ciclo è compiuto solo nel 1502, dopo gli anni trascorsi a Roma dal pittore per affrescare la cappella Carafa nella chiesa di Santa Maria sopra Minerva. A Firenze Filippino importa quello che è stato definito lo “stile alessandrino” (dal nome di Alessandro VI Borgia) sovraccarico di grottesche e candelabre, che in quegli anni trionfa nelle opere romane di Pinturicchio. È proprio contro affreschi come questi, contro il dilagare di motivi profani all’interno dell’arte sacra, che si scaglia Savonarola. Il predicatore critica i ricchi fiorentini che si fanno seppellire in chiesa con tombe fastose come fossero santi – è il caso, appunto, di Filippo Strozzi, o anche di Francesco Sassetti – o che, peggio, si fanno raffigurare in affreschi e pale d’altare, all’interno delle storie sacre. I lavori nella cappella Strozzi, sebbene a rilento, vanno comunque avanti, e Filippino Lippi è pagato regolarmente tra il 1496 e il 1502. Nonostante la profonda influenza esercitata da Savonarola, i costumi in città non cambiano da un giorno all’altro.
Verso lo scadere del secolo, quando, a ritmo incalzante, si susseguono la caduta dei Medici e il rogo di Savonarola, e l’Italia è attraversata dalle truppe francesi, Botticelli vive una profonda crisi spirituale. La lunga iscrizione in greco riportata in alto nella Natività mistica inizia con queste parole: “Questo dipinto, alla fine dell’anno 1500, negli sconvolgimenti d’Italia, io Alessandro, nel mezzo tempo dopo il tempo, dipinsi...”. La precisa indicazione di un anno cruciale, il 1500, carica il dipinto di un significato millenarista. Il tono della tela è infatti quello di una profezia che annuncia l’imminente fine del mondo. In spregio alla più basilare tra tutte le regole della prospettiva, il gruppo centrale della Madonna col Bambino e san Giuseppe è più grande delle figure di angeli in primo piano, che si abbracciano rigidi e disperati.
Un ritorno al Medioevo, quasi, e comunque alle ragioni della fede a scapito di quelle dell’intelletto. In alto, gli altri angeli che danzano in cielo sono puro spirito, allungati fino all’inverosimile, mentre quelli sulla capanna sembrano sagome ritagliate: non si potrebbe immaginare niente di più lontano dalle conquiste dello sfumato leonardesco di questa Natività secchissima e volutamente arcaica. L’Adorazione dei Magi del 1475, dove Botticelli aveva ritratto i Medici sotto le mentite spoglie dei re e del loro seguito in un insieme festoso, è ormai un lontano ricordo. La natura stessa si piega alle regole della fede, e le rocce sostengono la capanna come fossero contrafforti; allo stesso modo nella Pietà dell’Alte Pinakothek di Monaco, del 1496-1497 circa, i blocchi di pietra disegnano quasi un portale, con tanto di chiave di volta al centro. Anche gli attori di questo dramma sembrano di pietra, tutti o quasi con gli occhi serrati in un dolore indicibile e incomunicabile.
Savonarola e Fra’ Bartolomeo
Le ultime opere religiose di Botticelli sono generalmente considerate il paradigma dell’età savonaroliana, e in almeno un dipinto, la Crocefissione mistica del Fogg Art Museum (Cambridge, Mass.; 1497-1498 ca.), è possibile cogliere assonanze piuttosto precise con lo spirito delle prediche e degli scritti del frate domenicano. Ma quella di Botticelli è prima di tutto una crisi personale, che non può essere letta in un rapporto univoco con la predicazione di Savonarola. Da un punto di vista strettamente stilistico è difficile guardare alla Natività mistica e alla Pietà di Monaco come all’espressione della riforma della pittura religiosa auspicata da Savonarola. Il predicatore, infatti, vede nell’arte uno strumento di comunicazione per raggiungere coloro che non possono leggere e meditare le sacre scritture. I dipinti nelle chiese sono insomma i libri delle donne e dei bambini, in accordo con la celebre definizione di “Biblia Pauperum” che Gregorio Magno aveva dato delle immagini sacre in generale. Savonarola è quindi a favore di una pittura che stimoli la devozione, il raccoglimento, una pittura cioè priva della tensione e del dramma del tardo Botticelli. Ed è naturalmente a Fra’ Bartolomeo, cioè a colui che più si era avvicinato, anche personalmente, al predicatore domenicano, che si deve guardare per comprendere cosa avesse in mente Savonarola.
L’Annunciazione del 1497 per il duomo di Volterra, eseguita forse con la partecipazione di Mariotto Albertinelli, la prima opera certa dell’artista, è già un capolavoro di semplicità e chiarezza compositiva, addolcita da un chiaroscuro di derivazione leonardesca. I delicati motivi decorativi che ornano le paraste dell’edificio dove ha luogo l’episodio evangelico sono la risposta “riformata” alle paraste bizzarre di Filippino Lippi nella cappella Strozzi. In tutta la pala non c’è un solo guizzo, nessuno sfoggio di tecnica: il tono è pacato, come potrebbe essere quello di un Ghirlandaio depurato dalle sue doti di decoratore e vivace narratore. L’arresto e il processo a Savonarola terrorizzarono però a tal punto il pittore da convincerlo a entrare nel convento domenicano di Prato e ad abbandonare i pennelli: preso il nome di Fra’ Bartolomeo, egli torna a dipingere solo nel 1504. Dal 1509 al 1513 stringe di nuovo un fruttuoso sodalizio con Albertinelli, dando vita alla cosiddetta Scuola di San Marco, attiva nel convento di cui Savonarola fu priore dal 1491, e che già aveva visto fiorire l’arte del Beato Angelico.
Il successo di Perugino
Con la temporanea uscita di scena di Fra’ Bartolomeo e il ripiegare su se stesso di Botticelli, il maggiore protagonista dell’arte sacra fiorentina dell’ultimo decennio del Quattrocento rimane Pietro Perugino, che dal 1486 apre in città una bottega straordinariamente operosa. La Pietà degli Uffizi, databile al 1495 circa, ha alcuni elementi in comune con l’Annunciazione di Fra’ Bartolomeo: l’impaginazione chiara e leggibile, il sicuro inquadramento architettonico, l’esecuzione accurata e diligente. Ma tipiche di Perugino sono le espressioni languide dei santi, gli occhi levati al cielo, l’intonazione sentimentale. Davvero una pittura per donne e bambini, come avrebbe detto Savonarola. Abissale la distanza con la contemporanea Pietà di Botticelli, tanto complicata e chiusa quanto quella di Perugino è facile e aperta. Ma se l’adesione di Fra’ Bartolomeo ai precetti savonaroliani è cosciente e programmatica, la maniera tenera di Perugino trova terreno fertile nella Firenze di quegli anni senza che il pittore viva una crisi spirituale paragonabile a quella di Botticelli. Negli anni Ottanta, forse per lo stesso Lorenzo de’Medici, Perugino dipinge il raffinato, e per lui inconsueto, Apollo e Dafni del Louvre, dimostrando di saper interpretare i tempi e i desideri della committenza. Anche Filippino Lippi, negli stessi anni in cui lavora agli affreschi quasi paganeggianti della cappella Strozzi, esegue per Francesco Valori, acceso sostenitore di Savonarola, un’intensa e spoglia Crocefissione mistica (già a Berlino, Kaiser Friedrich Museum, distrutta nel corso della seconda guerra mondiale). Come nell’età del Magnifico, quindi, anche in quella di Savonarola convivono a Firenze tendenze stilistiche tra loro molto diverse, a riconferma della vitalità sempre eccezionale della città.