Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Tra il 1469 e il 1492, gli anni in cui Lorenzo de’Medici governa la città, Firenze vive una stagione artistica eccezionalmente felice, grazie all’attività degli scultori-pittori Andrea del Verrocchio e Antonio del Pollaiolo e a quella di un gran numero di pittori, da Botticelli a Leonardo. Sebbene molti di questi artisti realizzino fuori Firenze le loro maggiori creazioni, in città rimangono vive e operanti tendenze artistiche anche molto diverse tra loro, che vanno dalla vena narrativa di Ghirlandaio alla raffinata e dotta evocazione della mitologia antica di Botticelli.
Il mito dell’età dell’oro di Lorenzo il Magnifico
Tra il 1638 e il 1642 tre pittori toscani, Cecco Bravo, Francesco Furini e Ottavio Vannini, portano a termine la decorazione del Salone degli Argenti in Palazzo Pitti con una serie di affreschi che celebrano Lorenzo de’Medici (1449-1492) quale protettore delle arti. Gli episodi raffigurati, tra i quali Lorenzo accoglie Apollo e le Muse, Lorenzo nell’Accademia Platonica e Lorenzo tra gli artisti, pongono la figura del Magnifico su un piano mitico, leggendario. Fin dal Cinquecento, infatti, i Medici guardano all’età di Lorenzo come a un’irripetibile età dell’oro, straordinaria non solo per i successi politici, ma soprattutto per quelli culturali e artistici. La critica ha in parte ridimensionato il mito del mecenatismo del Magnifico, senza peraltro negare l’eccezionale fioritura delle arti a Firenze negli anni del suo governo. Nato nel 1449, Lorenzo diviene il signore de facto della città alla morte del padre, Piero, nel dicembre del 1469: per quasi 25 anni, fino alla morte nel 1492, egli governa abilmente Firenze, servendosi degli artisti come di uno strumento di propaganda politica.
Lorenzo de’ Medici
Comento de’ miei sonetti
Proemio
Dante, il Petrarca e il Boccaccio, nostri poeti fiorentini, hanno, nelli gravi e dolcissimi versi e orazioni loro, mostro assai chiaramente con molta facilità potersi in questa lingua exprimere ogni senso. Perché, chi legge la Comedia di Dante vi troverrà molte cose teologiche e naturali essere con grande destrezza e facilità expresse; […]. Chi negherà nel Petrarca trovarsi uno stile grave, lepido e dolce, e queste cose amorose con tanta gravità e venustà trattate, quanta sanza dubio non si truova in Ovidio, Tibullo, Catullo, Properzio o alcuno altro latino?
[…] E considerando l’opera sua [del Boccaccio] del Decameron, per la diversità della materia, ora grave, ora mediocre e ora bassa, e contenente tutte le perturbazioni che agli uomini possono accadere, d’amore e odio, timore e speranza, tante nuove astuzie e ingegni, e avendo a exprimere tutte le nature e passioni degli uomini che si trovono al mondo, sanza controversia, giudicherà nessuna lingua meglio che la nostra essere atta a exprimere. E Guido Cavalcanti […] non si può dire quanto commodamente abbi insieme coniunto la gravità e la dolcezza […].
E forse saranno ancora scritte in questa lingua cose subtili e importante e degne d’essere lette, maxime perché insino a ora si può dire essere l’adolescenzia di questa lingua, perché ogni ora più si fa elegante e gentile.
Lorenzo de’ Medici, Opere, a cura di T. Zanato, Torino, Einaudi, 1992
Lorenzo de’ Medici
Canzona di Bacco
Quanto è bella giovinezza,
che si fugge tuttavia!
Chi vuol esser lieto, sia,
di doman non c’è certezza.
Questo è Bacco e Arïanna,
belli e l’un dell’altro ardenti:
perché el tempo fugge e inganna,
sempre insieme stan contenti.
Queste ninfe e altre genti
sono allegri tuttavia.
Lorenzo de’ Medici, Opere, a cura di T. Zanato, Torino, Einaudi, 1992
Lorenzo de’ Medici
Corinto
Eranvi rose candide e vermiglie:
alcuna a foglia a foglia al sol si spiega,
stretta prima, poi par s’apra e scompiglie;
altra più giovenetta si dislega
a pena dalla boccia; eravi ancora
chi le sue chiuse foglie all’aire niega;
altra, cadendo, a piè il terreno infiora.
Così le vidi nascere e morire
e passar lor vaghezza in men di un’ora.
Quando languente e pallide vidi ire
le foglie a terra, allor mi venne a mente
che vana cosa è il giovenil fiorire.
Nostro solo è quel poco ch’è presente,
né il passato o il futuro è nostro tempo:
un non è più, e l’altro è ancor nïente.
Cogli la rosa, o ninfa, or ch’è ’l bel tempo!
Lorenzo de’ Medici, Opere, a cura di T. Zanato, Torino, Einaudi, 1992
Luigi Pulci
Marguette, e l’amore per il vitto
Morgante
Rispose allor Margutte: A dirtel tosto,
io non credo più al nero ch’a l’azzurro,
ma nel cappone, o lesso o vuogli arrosto;
e credo alcuna volta anco nel burro,
nella cervogia, e quando io n’ho, nel mosto,
e molto più nell’aspro che il mangurro;
ma sopra tutto nel buon vino ho fede,
e credo che sia salvo chi gli crede;
e credo nella torta e nel tortello:
l’uno è la madre e l’altro è il suo figliuolo;
e ’l vero paternostro è il fegatello,
e posson esser tre, due ed un solo,
e diriva dal fegato almen quello.
E perch’io vorrei ber con un ghiacciolo,
se Macometto il mosto vieta e biasima,
credo che sia il sogno o la fantasima […].
Luigi Pulci, Morgante, a cura di F. Ageno, Milano-Napoli, Ricciardi, 1955
Gli anni in cui Lorenzo sale al potere sono quelli che vedono attive in città un numero straordinario di botteghe di artisti e artigiani. È l’epoca di quella che André Chastel ha definito la “grande officina” dell’arte italiana, che vede lavorare fianco a fianco pittori, scultori e orafi, in un clima che stimola la crescita tecnica e intellettuale dei giovani artisti. Nel 1460 Botticelli entra nella bottega di Filippo Lippi, che più tardi, nel 1467-1469, impegnato agli affreschi dell’abside del duomo di Spoleto, si serve del figlio Filippino (1457 ca.-1504) come aiuto. Poco più tardi lo stesso Filippino è a sua volta documentato come allievo di Botticelli, mentre nell’orbita dell’attivissima impresa di Andrea del Verrocchio si muovono figure del calibro di Leonardo da Vinci, Pietro Perugino e Domenico Ghirlandaio. Quest’ultimo, infine, ha l’onore di avere come apprendista il giovanissimo Michelangelo, prima che lo stesso Lorenzo de’Medici lo sottragga al mondo delle botteghe fiorentine consentendogli di studiare i pezzi antichi della sua collezione e introducendolo al neoplatonismo di Marsilio Ficino. L’età del Magnifico è in bilico tra queste due realtà: quella industre e operosa delle botteghe artigiane e quella della cerchia più ristretta del signore, dove tra umanisti e filosofi si respira quella cultura eletta di cui Botticelli è l’interprete più raffinato.
L’epoca dei grandi cantieri pubblici, da Santa Maria del Fiore al battistero, è quasi al termine, e Lorenzo preferisce dedicarsi al collezionismo di oggetti di piccole dimensioni. Intorno al 1475 è databile ad esempio il bronzetto con Ercole che soffoca Anteo eseguito da Antonio del Pollaiolo per il suo signore (Firenze, Museo Nazionale del Bargello), testimonianza del gusto raffinato del Magnifico. Le opere monumentali dello scultore non vengono realizzate per il Magnifico ma per committenti fuori Firenze: nel 1484 il Pollaiolo si trasferisce a Roma, dove nell’arco di dieci anni porta a termine il monumento funebre bronzeo di Sisto IV e, tra il 1492 e il 1498, quello di Innocenzo VIII, entrambi in San Pietro. La vicenda del Pollaiolo ricorda da vicino quelle di molti altri artisti di primo piano lasciati partire da Lorenzo, o addirittura inviati alle altre corti italiane quasi in qualità di ambasciatori della cultura e della civiltà fiorentine.
Nel 1478, all’indomani del fallimento della congiura, ordita dai Pazzi con l’approvazione di Sisto IV, per uccidere Lorenzo – che si salva per miracolo, al contrario del fratello Giuliano –, scoppia la guerra tra Firenze e il papa: alla sua conclusione i maggiori pittori della Firenze del tempo, Botticelli e Ghirlandaio, si trasferiscono a Roma per lavorare agli affreschi delle pareti laterali della Cappella Sistina.
Ancora più illuminante è l’episodio che ha per protagonista Filippino Lippi. Impegnato agli affreschi della cappella Strozzi in Santa Maria Novella, nel 1488 il pittore lascia interrotto il lavoro per andare a decorare la cappella Carafa in Santa Maria sopra Minerva a Roma: è Lorenzo in persona, che ha bisogno dell’appoggio di Oliviero Carafa per ottenere la nomina a cardinale del figlio Giovanni, a richiedere la partenza di Filippino per Roma. Ed è sempre grazie alla mediazione del Magnifico, probabilmente, che Leonardo da Vinci, già aiuto di bottega del Verrocchio, è invitato a Milano da Ludovico il Moro nel 1482. La partenza di Leonardo è certo la più grave di tutte: è infatti a Milano, accanto a Donato Bramante, che il grande artista pone le premesse per il Rinascimento maturo del primo Cinquecento.
La committenza pubblica e borghese
Nel 1469 Lorenzo, insieme a Giuliano de’ Medici, commissiona a Verrocchio la sepoltura congiunta del padre Piero, appena deceduto, e dello zio Giovanni, scomparso nel 1463: l’opera, terminata nel 1472 (Firenze, Basilica di San Lorenzo, Sagrestia Vecchia), segna la consacrazione dell’artista come scultore prediletto da Lorenzo. Per lui, Verrocchio realizza anche il Fanciullo col delfino per il giardino della villa di Careggi (oggi a Palazzo Vecchio).
L’ammirazione del Magnifico favorisce l’artista, che domina anche le commissioni pubbliche della città: a partire dal 1467 lavora alla grandiosa Incredulità di san Tommaso per una delle nicchie di Orsanmichele. Alla serie di figure di santi già scolpite o fuse, tra gli altri, da Lorenzo Ghiberti (1378-1455), Nanni di Banco, Donatello, si affianca per la prima volta una “storia”. L’opera costituisce un tour de force eccezionale per la complessità del panneggio che cattura la luce, ed è un capolavoro di genialità compositiva. La figura di Tommaso, per metà fuori dalla nicchia, introduce quasi lo spettatore a entrare, attraverso di lui, in comunicazione diretta con il Salvatore. Il lavoro di fusione delle due statue impegna la bottega di Verrocchio fino al 1483, anno in cui il maestro parte alla volta di Venezia per realizzarvi il monumento al Colleoni.
Anche Leonardo parte da Firenze, lasciandovi incompiuta un’ Adorazione dei Magi che si stenta a credere dipinta nel 1481. Le figure raccolte intorno alla Vergine col Bambino esprimono, attraverso i loro gesti concitati, i “moti dell’animo”, assolutamente inediti per la pittura fiorentina dell’epoca, abituata alla pacata narratività del Ghirlandaio.
A misurare la novità del dipinto leonardesco è poi il confronto con un’altra recente Adorazione dei Magi, quella dipinta da Botticelli intorno al 1475. Questa pala d’altare costituisce in realtà già una novità rispetto al più abusato schema che prevede la Madonna con il Bambino da un lato e la processione dei Magi e del loro seguito in atto di avanzare verso di lei. Ma Leonardo ribalta completamente lo schema botticelliano, portando la Madonna con il Bambino in primo piano, e collocando tutte le altre figure a emiciclo intorno a loro. Il fedele viene così messo in rapporto diretto con la Vergine, come non era mai accaduto prima.
Nella sua Adorazione dei Magi, peraltro, Botticelli si preoccupa prima di tutto di mettere insieme una galleria di ritratti: la pala è commissionata da Guasparre Del Lama, uno dei maggiori sostenitori della politica medicea, che vi vuole celebrare la stirpe dei signori di Firenze. Il più anziano dei Magi, in ginocchio di fronte al Bambino, ha le fattezze di Cosimo il Vecchio; negli altri due, al centro in primo piano, sono ritratti Piero il Gottoso e suo fratello Giovanni, deceduti rispettivamente nel 1469 e nel 1463. Dietro di loro, in piedi e con lo sguardo assorto rivolto verso il basso, è Lorenzo il Magnifico, mentre il fratello Giuliano è all’estrema sinistra, armato di spada. A destra, infine, due uomini guardano in direzione dello spettatore: quello vestito di giallo è lo stesso Botticelli, mentre quello più anziano, vestito di azzurro, è il committente. Nei volti delle altre figure si celano probabilmente ritratti dei più potenti cittadini di Firenze appartenenti al partito filomediceo, che attendono ancora di essere identificati. La sfilata di personaggi contemporanei che si ammira nell’Adorazione dei Magi di Botticelli non è un caso isolato nella pittura di quegli anni: ancora più eclatante è la celebrazione della famiglia Medici che Ghirlandaio orchestra nell’Approvazione della Regola di San Francesco del ciclo della cappella di Francesco Sassetti in Santa Trinita, affrescato entro il 1485. Qui l’episodio è persino relegato in secondo piano, mentre sul proscenio vediamo salire da una scala Angelo Poliziano, illustre umanista e poeta di corte del Magnifico, nonché precettore dei suoi tre figli, che lo seguono: Giuliano (1479-1516), Piero e Giovanni, il futuro Leone X. Dietro di loro sono due ritratti straordinari, forse dei poeti Luigi Pulci e Matteo Franco, mentre in piedi all’estrema destra sono altre quattro figure: al centro Lorenzo, con il suo inconfondibile profilo, e il committente, più attempato e calvo. L’autocelebrazione della borghesia mercantile fiorentina, e dei Medici loro alleati, passa anche attraverso la lucida raffigurazione della città di Firenze. Dietro Innocenzo III che approva la regola di san Francesco, si apre la piazza della Signoria, con la Loggia dei Lanzi a fare da sfondo prospettico alla composizione. Grazie ad affreschi come questo, Ghirlandaio ottiene il favore di un’intera classe sociale, e porta a termine cicli di carattere narrativo in altre importanti cappelle, prima fra tutte quella grandiosa dei Tornabuoni in Santa Maria Novella. Egli non è solo l’erede più illustre della tradizione descrittiva e decorativa del primo Rinascimento, ma anche colui che per primo accoglie con convinzione le novità della contemporanea pittura fiamminga, che in quegli anni penetra in città grazie ai rapporti commerciali intrattenuti dai banchieri di Firenze con quelli di Bruges.
Nel 1483 giunge in città il Trittico Portinari (Firenze, Uffizi) di Hugo van der Goes, la cui lucidità descrittiva, sia nel paesaggio che nei potenti volti dei pastori in adorazione del Bambino, conquista i fiorentini. I due uomini sulla scala dell’Approvazione della Regola danno la misura delle capacità di ritrattista del Ghirlandaio, che nella pala con l’Adorazione dei Pastori per la stessa cappella arriva a citare pedissequamente l’analogo gruppo del dipinto fiammingo. E lo splendido paesaggio visto a volo d’uccello, con un orizzonte insolitamente alto, che continua fino a perdita d’occhio nel secondo piano del Martirio di San Sebastiano (1475 ca.) di Antonio e Piero del Pollaiolo sarebbe impensabile senza i precedenti fiamminghi. In questa grande pala d’altare, dipinta per un altro sostenitore dei Medici, Antonio Pucci, le figure degli arcieri sono colte in posizioni speculari, in uno sfoggio di scorci sempre diversi (si vedano in particolare i due uomini chinati in primo piano), che esaltano la resa anatomica delle figure. Se l’affresco del Ghirlandaio, con la sua ampia veduta prospettica, e la rassicurante raffigurazione della classe dirigente schierata in posa, è il ritratto sereno di una società ricca e appagata, la pala dei Pollaiolo è, al contrario, un’esplosione di vitalità, con l’energia guizzante della linea che definisce i muscoli tesi degli arcieri e il paesaggio in cui la luce calda evoca quasi il pulviscolo atmosferico.
Botticelli e la committenza di Lorenzo il Magnifico
Il ventaglio delle opzioni stilistiche e culturali offerto ai committenti della Firenze del Magnifico era quindi ampio. Per la scultura, come abbiamo visto, Lorenzo si rivolge sia a Verrocchio sia a Pollaiolo, ma è soprattutto a un dipinto di Botticelli che sono legate, nell’immaginario collettivo, quella stagione culturale e la figura stessa del Magnifico. Si tratta della Primavera, un’opera generalmente datata al 1478 circa, e sul cui significato la critica non cessa di interrogarsi.
La Primavera occupa un posto eccezionale nella storia della pittura occidentale: si tratta infatti del primo importante dipinto di grandi dimensioni che raffigura un soggetto mitologico-allegorico non basato, sembra, su una fonte testuale antica. Sebbene, cioè, tutte le figure siano facilmente identificabili (da destra, nell’ordine, il vento Zefiro, che insegue la ninfa Cloris, e probabilmente Flora, la donna che sparge fiori; al centro Venere, e poi il gruppo delle tre Grazie e Mercurio; in alto, in volo, è Cupido), queste non prendono parte a un’azione riconducibile a un preciso episodio mitologico.
Due sono i filoni in cui è possibile raggruppare le numerose ipotesi interpretative che sono state avanzate negli anni. Da una parte c’è chi crede che il dipinto debba essere letto in chiave neoplatonica, e cioè in relazione agli scritti di Marsilio Ficino e di Pico della Mirandola, figure chiave dell’Accademia che si riuniva nella villa di Lorenzo il Magnifico a Careggi. Il valore civilizzatore della bellezza, rappresentato da Venere, cui l’anima deve aspirare per distaccarsi dai piaceri terreni, sarebbe quindi il significato ultimo del dipinto. Dall’altra parte c’è chi giudica queste letture delle sovrainterpretazioni, e invita a un sano scetticismo. Il dipinto, ad esempio, potrebbe più semplicemente raffigurare i tre mesi della primavera: da destra marzo, il mese dei venti freddi (il gruppo Zefiro-Cloris-Flora), poi aprile, a cui da sempre è associata Venere, e infine maggio, con Mercurio (figlio di Maia, da cui derivava il nome stesso del mese) che disperde con il caduceo le nuvole.
Nella Firenze del Magnifico nascono anche altri capolavori che appartengono allo stesso, inedito genere: nostalgiche rievocazioni della mitologia antica, imbevute di suggestioni letterarie per noi oggi, forse, irrecuperabili. Altrettanto enigmatica è infatti la perduta Educazione di Pan di Luca Signorelli che Vasari dice esplicitamente dipinta per Lorenzo. Come nella Primavera, anche qui non è raffigurato un episodio mitologico preciso, e anzi la composizione della tela, come in parte anche quella della tavola di Botticelli, sembra dipendere dalle Sacre Conversazioni, quasi che la neonata pittura mitologico-allegorica dovesse per forza trovare altrove i suoi modelli di riferimento.
Signorelli, nato a Cortona e a lungo attivo fuori di Firenze, non è culturalmente legato alla cerchia medicea come Botticelli, ma anche un altro pittore “forestiero”, il Perugino, esegue, probabilmente proprio per il Magnifico, un dipinto in cui si ritrova lo stesso sentimento elegiaco dell’Educazione di Pan. Si tratta di Apollo e Dafni, in cui Dafni, che suona ispirato come i protagonisti della tela di Signorelli, allude forse allo stesso Lorenzo, che in una sua ecloga aveva cantato la figura del mitico pastore. La piccola tavola del Louvre è un’opera assolutamente isolata nel contesto della produzione del Perugino, così come l’Educazione di Pan lo è in quella del Signorelli. I due dipinti sono quindi prima di tutto la testimonianza della suggestione della cultura elitaria fiorita intorno al Magnifico. E fanno rimpiangere ancora di più la perdita del ciclo di affreschi che ornava la villa che egli si era fatto costruire a Spedaletto, vicino a Volterra. Si trattava infatti di uno dei più antichi complessi decorativi di soggetto mitologico: vi avevano lavorato, fianco a fianco, Botticelli, Ghirlandaio, Perugino e Filippino Lippi, ma di quel complesso sappiamo solo che il Ghirlandaio vi aveva eseguito una Fucina di Vulcano.