FIRENZE (A. T., 24-25-26)
Città capitale della Toscana, una delle più importanti città d'Italia, e per i ricordi storici, per i tesori artistici che racchiude, nonché per la vaghezza della sua posizione, una delle più celebrate città del mondo.
Sommario: Geografia: Situazione (p. 435); Clima (p. 436); Sviluppo edilizio della città (p. 436); Popolazione (p. 438); Aspetto attuale della città (p. 439); Divisione amministrativa del comune (p. 440); Igiene e servizî pubblici (p. 440); Assistenza e beneficenza (p. 440); Industria e commercio (p. 440); Uffici (p. 441). - Storia: Età antica (p. 441); Età medievale e moderna (p. 442). - Fonti (p. 447). Le istituzioni (p. 448). - Arti figurative: Architettura (p. 449); Scultura (p. 454); Pittura (p. 455); Arti minori (p. 458). - Musica (p. 458). - Letteratura e teatro vernacolo (p. 459). - Folklore (p. 459). - Istituti di cultura: Istituti d'istruzione (p. 460); Società culturali (p. 460); Gallerie e Musei (p. 461); Biblioteche e Archivî (p. 461). - Arte della stampa (p. 462). - Provincia di Firenze (p. 462). - Bibliografia (p. 462).
Situazione. - Firenze giace sulle due rive dell'Arno, quasi al centro del piano che la valle del fiume forma tra la stretta dell'Incisa e quella della Gonfolina. La sua posizione geografica riferita alla cupola del duomo è di 43° 46′ 22″ lat. nord e 11° 15′ 30″ long. est da Greenwich (pari a 1° 11′ 44″ ovest da Monte Mario). L'Arno la divide in due parti ineguali, delle quali la maggiore, che si estende sulla riva destra, giace tutta in piano all'altitudine media di 50 m. lievemente elevandosi con i suoi quartieri periferici sino a lambire i piedi delle colline fiesolane, che ricingono il piano stesso da nord; laddove l'altra parzialmente risale le pendici delle colline che scendono quasi con le loro radici al fiume. Alla Porta S. Giorgio, che nell'ambito delle antiche mura urbane rappresenta il punto più elevato, l'altitudine supera i 100 m.
Clima. - Per la sua posizione geografica e topografica, a meno di 100 km. dalla costa del Tirreno di cui pur risente gli effetti mitigatori e a ridosso delle alture del Subappennino, che con la cresta principale dell'Appennino retrostante la difende in parte dai venti freddi del nord, Firenze gode di un clima temperato, cui sono ignoti i rigori invernali dell'adiacente valle del Po, mentre i calori estivi, specialmente nei quartieri periferici, trovano un refrigerio nei venti e nella vegetazione che da ogni parte avvolge la città. Dalle osservazioni che per oltre un secolo (1813-1930) si eseguirono nell'Osservatorio Ximeniano degli scolopî, si deducono i seguenti valori normali. Pressione: media annua mm. 755,67; dell'inverno 755,95; della primavera 754,32; dell'estate 756,19; dell'autunno 756,32. Temperatura: media annua 14°,9; dell'inverno 6°,4; della primavera 14°; dell'estate 24°; dell'autunno 15°,5. Il mese più freddo è il gennaio con 5°,47 di media; il più caldo il luglio con 25°,10. Gli estremi assoluti nel periodo considerato si ebbero: per la massima il 13 agosto 1861 con 40°; per la minima il 13 dic. 1850 con - 12°,9. Pioggia: media annua mm. 821,1 con 120 giorni piovosi; le medie mensili dànno una massima in novembre con mm. 99,4; una minima in luglio con mm. 36,0. Nel periodo trentennale 1889-1918 il massimo di pioggia si ebbe nel 1910 con mm. 1200,30 e il minimo nel 1894 con mm. 433,68. La neve cade in media per 4 0 5 volte nell'anno, ma si hanno anni in cui non la si vede affatto. I giorni di gelo sono in media 14; la frequenza della grandine è di 3,7 volte all'anno. Per quanto riguarda il regime dei venti si ha nel complesso un'assoluta prevalenza durante la primavera, l'inverno e l'autunno dei venti dell'est, specialmente del grecale, nelle ore antimeridiane e di quelli dell'ovest nelle ore pomeridiane; nell'estate invece prevalgono i venti dell'ovest.
Sviluppo edilizio della città. - La città primitiva dovette sorgere proprio nel punto corrispondente al centro della Firenze attuale, lungo la via cioè che da Fiesole conduceva a Volterra e in corrispondenza del punto in cui l'Arno si restringe, rendendo più facile il traghetto e più tardi la costruzione di un ponte. Non sembra invece accettabile l'ipotesi di una città etrusca, sempre sulla destra dell'Arno, ma alquanto più a monte dell'attuale, come l'esistenza di antichi avanzi, di origine non bene accertata, aveva fatto supporre. La primitiva città da ritenersi preromana, aveva forma quadrata con i lati di circa 350 m. perfettamente orientati secondo i punti cardinali, come era costume degli Etruschi non meno che dei Romani: il decumano e il cardo s'incontravano nella Piazza del Mercato Vecchio, scomparsa nel recente riordinamento del centro e compresa nell'attuale Piazza Vittorio Emanuele. La colonizzazione romana, che nel piano già palustre ma ormai prosciugato venne intrapresa sotto il primo triumvirato, pochi decennî prima dell'era volgare, ne provocò lo sviluppo, determinatosi sul lato orientale, onde la città assunse la forma rettangolare riaccordando la sua rete stradale con quella della centuriazione dell'agro, la quale per ragioni di carattere topografico aveva un orientamento diverso da quello astronomico. Fu entro questi limiti lievemente accresciuti, ehe nella seconda metà del sec. XI la città venne recinta da mura costituenti la prima cerchia. Per altro già sino dall'età romana Firenze doveva estendersi oltre i limiti anzidetti, come dimostra l'esistenza di un antico anfiteatro (il "Parlascio") la cui primitiva struttura appare evidente nelle costruzioni che sorgono a ponente della piazza S. Croce; come pure un sobborgo doveva essere sorto sulla sinistra dell'Arno, congiunto al nucleo principale da un ponte in sostituzione dell'antico traghetto; ponte che fu dapprima in legno e che, ricostruito poi in muratura, conserva ancora il nome di Ponte Vecchio. Ma il progredire della città con lo sviluppo delle sue industrie e dei suoi traffici aveva già nel sec. XII determinato il prolungamento delle sue costruzioni lungo le vie uscenti dalle porte della cerchia murata; vie che presero e ancor oggi conservano il nome di borghi. Si rese quindi necessaria la costruzione di una nuova cerchia, che fu iniziata nel 1172, conservando alla città la primitiva forma quadrangolare ma invertendone gli elementi, in modo che i lati venivano in corrispondenza degli spigoli, come comportava la necessità di racchiudere nella nuova cerchia, con il minimo di estensione, i nuovi borghi. La nuova cerchia si estese anche parzialmente sulla sinistra dell'Arno, onde s'impose la costruzione di nuovi ponti; uno a valle del Ponte Vecchio, che si disse il Ponte Nuovo e poi alla Carraia (1220); l'altro a monte, detto Rubaconte o alle Grazie (1237); a questi s'aggiunse un altro ponte, intermedio tra il Ponte Vecchio e quello della Carraia, il Ponte S. Trìnita (1252). Ma in meno di un secolo il progredire costante della città richiese un nuovo e assai più esteso ampliamento. Fu questa la terza cerchia, quella del tempo di Dante, di cui la costruzione iniziata nel 1284 fu ultimata nel 1333. Alle concepite speranze per il crescente sviluppo della fortuna cittadina non corrisposero però i fatti: l'ampia cerchia che racchiudeva un'area di 630 ha., otto volte quella della cerchia precedente, non solo per altri cinque secoli non richiese ulteriori ampliamenti, ma continuò a racchiudere nel suo ambito vaste estensioni di aree occupate da orti e da campi.
Salvo parziali ampliamenti e sistemazioni stradali, la topografia cittadina può dirsi rimanesse immutata a partire almeno dal sec. XVI, come appare dal confronto fra la pianta di Stefano Buonsignori (1584) e quella di Francesco Magnelli (1783). Fu solo durante il periodo francese che si cominciò a pensare all'apertura di nuove vie e piazze nelle aree scoperte della parte a nord della città, propositi che ebbero poi un principio di attuazione dopo la Restaurazione. Si procedette così all'ampliamento e sistemazione della Piazza del Duomo; all'allargamento delle vie Calzaioli, de' Cerretani, Tornabuoni; all'apertura di un primo tratto dei Lungarni; alla costruzione di due nuovi ponti sospesi sull'Arno, uno a monte l'altro a valle della città, e successivamente alla costruzione del nuovo quartiere di Barbano (Piazza dell'Indipendenza) e delle vie adiacenti.
L'impulso nuovo dato a tutta la vita italiana dall'unificazione del regno ebbe la sua ripercussione anche nell'edilizia fiorentina; ma questo assunse poi ben più elevate proporzioni allorché fu decretato il trasferimento della capitale da Torino a Firenze. Per poter corrispondere a questo nuovo ufficio occorreva provvedere a un ampliamento della città capace di accogliere la popolazione che con il trasferimento degli uffici centrali vi sarebbe accorsa. Un vasto piano di ampliamento fu studiato e genialmente concepito dall'architetto Giuseppe Poggi. Per esso, sarebbe rimasta per il momento inalterata la parte centrale della città compresa nella cerchia di mura trecentesche: queste però sarebbero state abbattute e sostituite da ampî viali alberati, nella zona esterna ai quali sarebbero sorti i nuovi quartieri. Il collegamento della parte antica con quella moderna si ottenne mediante ampie piazze, decorate di costruzioni simmetriche e decorose e adorne di giardini e fontane. Questo per quanto riguarda la parte della città sulla destra dell'Arno; quanto a quella sulla sinistra, di cui, data la struttura topografica, non si prevedeva almeno prossimo l'ampliamento, le antiche mura furono lasciate intatte, mentre sui colli adiacenti venne sviluppato un viale di circonvallazione che offre una passeggiata ammirevole con la veduta di tutta la città sottostante e dei suoi impareggiabili dintorni. Il grandioso piano soltanto parzialmente poté essere mandato a esecuzione nel breve periodo in cui Firenze rimase capitale e fu completato ed esteso nei decennî successivi.
La sua attuazione aveva intanto richiesto l'ampliamento del territorio comunale, che dall'istituzione del comune di Firenze (1781) era stato limitato soltanto all'area racchiusa dalla terza cerchia. Il nuovo territorio aggregato al comune di Firenze, sottraendolo ai comuni soppressi del Pellegrino, di Careggi, di Rovezzano e di Legnaia e a quelli di Bagno a Ripoli, di Fiesole e del Galluzzo, venne a costituire una corona circolare intorno alle vecchie mura, larga circa 3 km. in media. L'area del comune in questi suoi nuovi limiti venne portata così da kmq. 6,30 a kmq. 44,43 e rimase inalterata sino al 1° gennaio 1911, allorché, in seguito all'aggregazione delle frazioni di Rovezzano, Careggi, Settignano e Trespiano (kmq. 18,28), essa salì a kmq. 62,71.
I lavori di ampliamento iniziati nel breve periodo della capitale subirono un notevole ristagno in seguito alla crisi economica determinata dal trasferimento, ma dopo un decennio, ripresi con nuova energia, poterono essere continuati e mandati a compimento, mentre si dovette pure pensare al necessario riordinamento di quel centro della città corrispondente alla primitiva città quadrata divenuto un lurido insieme, che ragioni d'igiene, di moralità, di estetica e di circolazione imponevano di trasformare. Nell'intrapresa trasformazione, pur riuscendosi a salvare, collocandoli in apposito museo, quei pochi pezzi architettonici e di decorazione che conservavano un qualche pregio artistico o storico, le nuove costruzioni rispecchiarono lo stato di decadenza artistica del tempo, onde le proteste e le censure, forse anche esagerate, che le demolizioni compiute sollevarono. Altre parziali trasformazioni si compirono in altri punti della città dove maggiore appariva la necessità e minore il pericolo di offendere memorie storiche o pregi artistici, cercando anzi di ripristinare edifici pubblici e costruzioni private, liberandoli dalle deturpazioni subite. Ma troppi ancora rimangono i quartieri interni della città che richiedono opera di trasformazione e di risanamento.
Intanto con i primi anni del nuovo secolo, ripreso con nuovo vigore lo sviluppo economico e demografico e compiuta ormai l'attuazione del piano di ampliamento, si rese necessaria la redazione di un nuovo piano regolatore per ampliamenti successivi richiesto anche dalle aggregazioni dei nuovi territorî. Esso ha portato, specialmente dopo la guerra, all'ampliamento della città nel piano compreso tra il Mugnone e il Terzolle da un lato, sino a incorporare nel centro urbano l'abitato di Rifredi, e tra il Mugnone e l'Affrico dall'altro, mentre nuovi quartieri cittadini sorgevano nella parte piana adiacente alla vecchia città sulla sinistra dell'Arno, rendendo così necessaria la costruzione di un nuoio ponte in muratura, che s'intitolò alla Vittoria, in sostituzione di quello sospeso nel tratto a valle della città. Finalmente è da ricordare come con decreto-legge del 1° novembre 1928 vennero aggregate al comune di Firenze alcune frazioni dei comuni limitrofi di Bagno a Ripoli, del Galluzzo, di Casellina e Torri, di Brozzi e di Sesto Fiorentino, estendendone il territorio a nordovest e a sud e portandone l'area a kmq. 106,45.
Popolazione. - La città di Firenze nel periodo del suo massimo fiorire avrebbe avuto, in base ai calcoli di M. Lastri, che li dedusse dal numero delle nascite, una popolazione di 130.000 ab. La terribile pestilenza che funestò la città nel 1348 grandemente la ridusse; né da allora in poi, anche per le ragioni di decadenza economica che la colpirono, poté più ritornare all'importanza demografica di un tempo. Un primo calcolo della sua popolazione compiuto sotto Cosimo I nel 1561 dette 59.023 ab. Quasi un secolo dopo (1632) essa sarebbe salita a 68.692; nel 1738 a 77.835; nel 1806 a 78.093. Istituito un regolare servizio di stato civile nel 1817, si ebbe nel 1818 un novero di 81.956 ab. e di 92.362 nel 1828; mentre un regolare censimento eseguito nel 1847 dette 102.154 ab. Secondo il primo censimento generale del regno eseguito nel 1861 il comune di Firenze, circoscritto ancora nell'ambito della terza cerchia delle mura, contava 114.363 ab. Dieci anni più tardi, mentre si può dire non fosse ancora iniziato il trasferimento della capitale a Roma, il comune, ampliato come si è veduto dei territorî suburbani, ne contava 167.093, dei quali 30.000 rappresentavano la popolazione dei nuovi territorî aggregati. Nel 1881 si ebbe un arresto, onde la popolazione censita fu di soli 169.000 ab. Ma nel ventennio successivo lo sviluppo riprese rapido portandola a 205.589. Nel 1911 (10 giugno), dopo le annessioni delle frazioni già fiesolane, la popolazione presente risultò di 232.860 ab., di cui 8679 per le nuove frazioni aggregate. Il periodo bellico e la grande mortalità che ne seguì per l'epidemia del 1918 non arrestò questo movimento ascendente tanto che al censimento del 1921 la popolazione presente risultò di 253.565 abitanti e quella residente di 247.455 e, tenendo conto delle nuove aggregazioni del 1928, rispettivamente di 287.579 e di 281.318. Con l'ultimo censimento (aprile 1931) il comune di Firenze nei suoi limiti attuali raggiunse una popolazione rispettivamente di 316.286 e 305.447 ab. Dei presenti, aggruppati in 78.531 famiglie e 521 convivenze, 148.113 erano maschi e 168.173 femmine. Riguardo alle religioni professate i non cattolici risultarono 8101, dei quali 4069 evangelici (di cui circa 800 valdesi), 2604 israeliti, 213 greco-scismatici, 52 appartenevano ad altre religioni e 1163 dichiararono di non professare nessuna religione o non fecero dichiarazioni in proposito. L'aumento nell'ultimo decennio è dovuto in parte all'eccedenza dei nati sui morti, in parte a un movimento immigratorio anch'esso in eccedenza rispetto a quello emigratorio. Nell'anno 1930 si ebbero per la popolazione presente, 4732 nati e 4047 morti; 9631 immigrati e 6292 emigrati, onde un aumento complessiv0 di 4021 ab. Non essendo ancora noti i resultati analitici del censimento del 1931, aggiungiamo alcuni dati sulla composizione della popolazione del comune di Firenze tolti da quello del 1921 e riferibili perciò al territorio comunale prima delle aggregazioni del 1928. Del totale della popolazione presente censita a quella data (253.565 ab.) 247.791 ab. appartenevano al centro urbano; 2812 erano distribuiti nei villaggi del territorio e cioè: 1699 a Settignano; 408 a Trespiano; 338 alla Lastra; 235 alla Ruota; 89 al Pian di S. Bartolo e 43 al Pino; e 2962 abitavano case sparse nel territorio comunale. Riguardo alla istruzione del totale della popolazione di età superiore ai 6 anni il 91% degli abitanti (92% pei maschi e 90% per le femmine) sapeva leggere. Riguardo alle occupazioni, degli abitanti di età superiore ai 10 anni 47.746 erano addetti all'industria; 18.301 al commercio; 16.082 all'amministrazione pubblica e privata; 11.248 ai servizî domestici; 9335 alle professioni liberali e al culto; 4703 all'agricoltura, caccia e pesca; 114.863 risultarono di condizioni non professionali (proprietarî, benestanti, pensionati, ecc.) e fra questi erano comprese 72.827 donne attendenti alle cure domestiche. I proprietarî di beni immobili erano in tutto 5739, di cui 484 di soli terreni, 2685 di soli fabbricati e 2570 di terreni e fabbricati insieme. Gli stranieri censiti furono 3435, di cui 1731 con dimora abituale. Del complesso degli stranieri presenti 944 erano inglesi, 508 svizzeri, 506 degli Stati Uniti, 296 francesi, 289 tedeschi e 892 di altra nazionalità.
Aspetto attuale della città. - Distrutto l'antico centro, Firenze ben poco conserva - salvo certi monumenti - di quanto si trovava entro la prima cerchia medievale, qualcosa più entro il secondo cerchio, specialmente in alcune vie, vicoli e chiassi da Calimala e da Porta Rossa fino al fiume, tra S. Firenze e S. Simone, o a fianco di borgo S. Iacopo, oltr'Arno. Qui rimangono ancora i palazzotti che hanno della fortezza, col paramento a bozze e a conci di pietra, rotto da semplici aperture ad arco ribassato, mentre al sommo si apre la loggia assolata, le torri scapitozzate, dalle muraglie chiuse, nude, unite, salvo qualche finestrella in alto; e le case mercantili, che spalancano sulla via gli ampî archi dei fondachi e delle botteghe. Qui ancora gli "sporti" aggettanti quasi chiudono i vicoli all'altezza del primo piano. Ma dell'aspetto che la città ebbe dal Trecento in poi, entro il terzo ed ultimo cerchio delle mura, molto rimane: il sito delle piazze principali, il corso delle strade, irregolari, spesso in leggera curva o intersecate in modo da offrire uno sfondo da ciascuno dei capi, per riposo dell'occhio e per riparo dal vento. E il carattere della città, quasi più che dai singoli e maggiori monumenti, si rivela nella massa degli edifici civili: palazzetti senza grandi pretese, case signorili o soltanto borghesi, e magari artigiane, che si vanno di continuo ritrovando al di sotto di tarde mascherature. Dal Duecento all'Ottocento offrono costanti caratteri di razionalità e di armonia nella logica, e perciò perfetta, distribuzione di pieni e di vuoti; nel comodo, e quindi felice, taglio di porte e di finestre; nello schietto profilo - e per questo solo, squisitamente decorativo - di sagome nei pietrami lavorati. Quando sul muro a filaretto o intonacato compaiano uno stemma, una targa, un sacro rilievo, in quella signorile semplicità, sembrano un gioiello. Neppure in pieno barocco si perde questa misura tutta fiorentina, che nel Quattrocento trova il massimo codificatore nel Brunellesco: colui che dà anche a Firenze il suo definitivo aspetto con l'agile e ardita mole del "cupolone".
L'arte del Rinascimento ha finito per dare alla città quell'aspetto che più o meno è riuscita a mantenere anche nelle nuove costruzioni, ispirate in generale a una sobria semplicità non disgiunta da una certa eleganza. Predominano in Firenze, specialmentc nella sua parte moderna, le costruzioni basse a uno o due piani sopraelevati sul terreno e i villini di modeste dimensioni intramezzati da giardini; ciò che è valso a darle un'estensione notevolmente superiore a quella che comporterebbe la sua popolazione, con vantaggio certo dell'igiene ma con aggravio considerevole per i pubblici servizî. I viali e le piazze alberate, i pubblici giardini di cui la città è largamente dotata, primi fra tutti il vasto parco delle Cascine che si estende su un'area di quasi 2 kmq. e il superbo Viale dei Colli, costituiscono un ornamento impareggiabile; ma già tutto un giardino può dirsi il territorio che la circonda, ricoperto di vigne e di oliveti e cosparso di ville ridenti e di parchi.
Divisione amministrativa del comune. - L'area della città entro i limiti in cui oggi si è estesa può dirsi ragguagli circa 10 kmq., quasi un decimo cioè dell'intero territorio comunale. La città e il territorio comunale adiacente si suddividono amministrativamente in quattro quartieri: di S. Giovanni, di S. Croce, di S. Maria Novella e di S. Spirito, il quale ultimo comprende tutto il territorio sulla sinistra dell'Arno. Entro i limiti che il comune aveva prima delle aggregazioni del 1928 si contavano 72 parrocchie, delle quali 6 appartenenti alla diocesi di Fiesole; delle 72 parrocchie 33 comprendevano il territorio entro le antiche mura e delle rimanenti 39 solo 21 rientravano totalmente nel territorio del comune fiorentino. Entro i limiti attuali (1931) il comune conta 1146 strade e 138 piazze, che coprono un'area di circa 4 kmq. Vi si contano 62.497 abitazioni, di cui 2305 non occupate. Nel 1921 le abitazioni occupate erano 50.389, comprendenti 260.952 stanze.
Igiene e servizî pubblici. - Le condizioni igieniche della città risultano abbastanza soddisfacenti, sebbene la tubercolosi rappresenti ancora una dolorosa piaga e ad essa si debbano circa 500 decessi all'anno, pari a un decimo della mortalità complessiva. Firenze è abbastanza provveduta di acque potabili, derivate dall'allacciamento di sorgenti nei colli adiacenti, da gallerie filtranti nell'alveo dell'Arno e da pozzi comunali che raccolgono in punti appropriati le acque freatiche. Le acque raccolte in appositi serbatoi sottoposte a un processo di sterilizzazione vengono distribuite agli utenti mediante una larga canalizzazione. Nel 1930 se ne distribuirono per uso pubblico e privato per circa 15 milioni di mc. L'illuminazione delle vie e piazze è fatta generalmente a luce elettrica con lampade ad arco e parzialmente con fanali a gas. Il consumo del gas ascese nel 1930 a quasi 12 milioni di mc., quasi tutto per uso privato; quello dell'energia elettrica a oltre 54 milioni di kWh, di cui 2 milioni per uso pubblico. Le comunicazioni interne sono imperfettamente assicurate da una rete tranviaria che entro il territorio del comune si sviluppa per 73 km. La rete tranviaria si estende anche nella zona periferica, collegando con Firenze i numerosi comuni limitrofi.
Per le comunicazioni esterne Firenze è uno dei principali nodi ferroviarî del regno, ove fan capo le linee da Roma, Bologna, Livorno e Faenza. La prossima apertura della linea direttissima Firenze-Bologna, che abbrevierà e alleggerirà notevolmente le comunicazioni dell'Italia settentrionale con quella centrale e meridionale, varrà a intensificarne il traffico ferroviario, che nel 1930 fu rappresentato dalla vendita di 76.000 biglietti di viaggiatori.
Assistenza e beneficenza. - L'assistenza e la beneficenza pubblica vantano in Firenze numerose e antiche istituzioni: ospedali, ricoveri di mendicità, asili, brefotrofî, ecc. Ricordiamo come la più antica e di alta benemerenza la Venerabile Arciconfraternita della Misericordia, la cui origine risale al sec. XIII e che continua la sua opera di assistenza circondata dall'universale estimazione.
Industria e commercio. - Sebbene Firenze non possa essere considerata un grande centro industriale e spente siano in gran parte le gloriose tradizioni del suo passato in questo campo, non potrebbe dirsi in modo assoluto che l'industria vi sia trascurata. Ma più che la grande industria, la quale pur vi conta stabilimenti importanti, siderurgici, meccanici, chimici, tessili e per i quali venne riserbato nel nuovo piano regolatore della città un apposito quartiere presso Rifredi, predomina in Firenze la piccola industria e l'artigianato, dove il gusto artistico e l'abilità manuale trova modo di applicarsi fornendo lavori di ebanisteria, di pelletteria, di oreficeria, di cartonaggio, di ricami e confezioni che godono larga reputazione. Firenze è un grande centro agricolo, come comporta la sua posizione nel cuore di una ricca regione produttiva di vini, di olî, di ortaggi e di fiori che alimentano un cospicuo commercio. Una considerevole parte della sua attività economica è rappresentata dal movimento dei forestieri attratti dai tesori artistici e culturali che la città racchiude, nonché dalla vaghezza del suo paesaggio. Nel 1930 soggiornarono in Firenze 177.171 visitatori italiani e 127.571 stranieri (nord-americani in grande maggioranza e quindi inglesi, tedeschi, francesi ecc.), che trovarono alloggio nei 237 alberghi e pensioni di cui la città è provvista.
Uffici. - Firenze sotto l'aspetto amministrativo, oltre ad essere capoluogo di provincia e sede pertanto di tutti gli uffici pubblici che le sono inerenti, è sede di Corte di Appello, di Comando di Corpo di Armata e di Provveditorato agli studî, che hanno tutti giurisdizione sull'intera Toscana, ed è altresi sede vescovile, elevata al grado arcivescovile nel 1420 e di cui sono suffraganee le diocesi di Borgo S. Sepolcro, Colle Valdelsa, Fiesole, San Miniato, Modigliana e Pistoia-Prato.
Storia.
Età antica. - L'antica Florentia era posta sulla destra dell'Arno menzionata, nella scarsa tradizione letteraria, da Tacito (Ann., I, 79) per una proposta fatta al senato nel 15 d. C., sventata dai Fiorentini, di incanalare il Chiana nell'Arno; ed altresì da Floro (II, 9, 27; cfr. Licinian., 36) durante la colonizzazione sillana dell'ager Faesulanus per cui ne ebbe, forse, il toponimo, sommergendo quello, a noi ignoto, del preesistente vicus Faesulanus, ma non così presto godette i diritti municipali. La continuazione della Cassia da Arezzo a Bologna nel 187 favorì il progresso del centro etrusco anonimo subordinato a Faesulae, che dominava la valle dell'Arno. Nell'espansione romana a N. dell'Arno, contro popolazioni liguri, riuscite superiori agli Etruschi, si affemma Florentia centro delle vie diramate dall'Appennino, dalla val Tiberina e dal Val d'Arno inferiore. Municipio, fu compresa nella Scaptia, la tribù di Fiesole, con la quale Florentia aveva, pur nell'autonomia, comunanza di culti e di sacerdozî, a ricordo della primitiva dipendenza. Colonia cesariana, fu murata con un perimetro di 2000 m., e area di 25 are, avente il centro presso la piazza Vittorio Emanuele, il cardo nelle vie dell'Arcivescovado e Calimala, il decumanus in quelle Strozzi, degli Speziali, del Corso. Il circuito murale, che conteneva una popolazione inferiore ai 10.000 abitanti, seguiva a E. piazza S. Firenze, via del Proconsolo; a N. Duomo, via de' Cerretani; a O. via Tornabuoni; a S. tra ponte S. Trìnita e gli Uffizî. I limiti del comune romano sono tracciati dalla circoscrizione della diocesi, confinante con Pistoia, S. Miniato e Volterra a O., Colle d'Elsa a S., Fiesole e Faenza a E., Bologna a N. Fu sede episcopale fin dalla 1ª metà del sec. IV (nel 313 un tal Felix a Florentia Tuscorum è presente a Roma per il sinodo contro i donatisti).
Età medievale e moderna. - Come per le origini romane, così per i tempi dell'alto Medioevo la tarda letteratura cronistica fiorentina non poté diversamente soddisfare la curiosità municipale dell'adulto Comune che colmando il vuoto dei secoli con i fantasiosi racconti della leggenda: Dante e il Villani attinsero a quelle narrazioni leggendarie, la cui compilazione non può risalire oltre il sec. XII. Sennonché, ai ripudiati racconti cronistici per i tempi anteriori al Comune non siamo in grado di sostituire un'autentica storia che vinca il silenzio del periodo barbarico: tutt'al più, frammentarie testimonianze, criticamente accertate, possono servire come corollario alla leggenda, rivalutandola come voce di tradizione, che alterni periodi di floridezza e di decadenza, nonché il secolare antagonismo tra la città del monte e la città del piano - Fiesole e Firenze -, ha adombrato col favoloso racconto di totalitarie distruzioni e di ardite ricostruzioni sulle ceneri del saccheggio barbarico.
Se Totila è il distruttore, nella versione accolta dal Villani - mentre Dante riferisce ad Attila quella rovina -, e se Carlomagno è il ricostruttore della nuova Firenze, bella di cristiani edifici, con anacronistica elargizione di autonomia comunale, ciò significa che il flagello barbarico si abbatté anche sulle rive dell'Arno e che albori di risveglio s'intravedono soltanto nel trapasso dalla dominazione longobarda a quella franca. Infatti, due volte la storia municipale s'inserisce in quella delle invasioni barbariche; e si tratta di Goti l'una e l'altra volta: Stilicone li batte alle porte di Firenze nel 405, quando li conduce Radagaiso; e anche gli orrori della guerra greco-gotica toccano da vicino la nostra città, perché Procopio vi dice stanziate le guarnigioni di un Giustino contro i Goti di Totila. Così, tanto l'uno quanto l'altro episodio può aver contribuito alla elaborazione della leggenda, che nella distruzione di Totila compendia tutte le rovine sofferte nell'età barbarica dallo "splendidissimo" municipio romano.
Firenze fu sotto la giurisdizione di un duca nel periodo longobardo - se ne ricorda uno di nome Gudibrando - e poi di un conte nel riordinamento franco dell'Italia. Ma ecco il nome di Carlomagno nella storia municipale e le provvidenze dell'Impero in favore di questo riconosciuto centro di cultura toscana, dove un più intenso ritmo di vita poté alimentare la fede di un'integrale e quasi leggendaria rinascita. Carlomagno fu a Firenze nel Natale del 786; Lotario nella Constitutio Olonensis dell'825 assegnò a Firenze una delle otto scuole stabilite per la gioventù che si avviava al sacerdozio; un focolare di cultura dovette essere il vescovado fiesolano quando lo resse l'irlandese Donato.
Le immunità ottoniane ai vescovi, le donazioni che contribuiscono alla grande proprietà ecclesiastica, le fondazioni monastiche aprono a Firenze il periodo storico, al limite della leggenda, e accendono fari di luce che rischiarano fin le penombre della vita cittadina. Ancora nessun accenno alla sua organizzazione, ma la scena si va popolando di grandi personaggi del mondo feudale ed ecclesiastico che balzano in piena luce. Sono i marchesi di Toscana, i vescovi simoniaci, i monaci riformatori: i rapporti del marchesato con l'Impero dànno riflessi di storia generale alla cronaca municipale; la lotta contro la simonia dà larga risonanza agli episodî locali come prodromi della riforma ecclesiastica e del conflitto per le investiture. Willa, Ugo, i due Bonifaci, le contesse Beatrice e Matilde riassumono, con la sola suggestione del nome, la storia del marchesato di Toscana, raccordando il periodo barbarico a quello comunale; allo stesso modo, Romualdo, Teuzo di Badia, Giovanni Gualberto, Pietro Igneo compendiano tutte le forze dell'ascetismo fiorentino, che è albore di vita novella nel primo secolo dopo il Mille e risveglio di cittadinanza, pervasa di passione religiosa e di fremiti di libertà. In mezzo a codesta folla, che fa la prima comparsa in una "Vita" del santo vallombrosano, passano le grandi figure della riforma, chiamate dagli eventi nell'ambiente fiorentino: i papi Vittore II, Stefano IX, Niccolò II, Alessandro II e S. Pier Damiani.
Ma conviene veder più da vicino codesto secolo fiorito che va dal marchese Ugo alla morte della contessa Matilde. La Badia fiorentina, l'abbazia di S. Michele in Marturi, l'Eremo camaldolese sono le grandi fondazioni monastiche che intorno al Mille testimoniano, a un tempo, lo zelo di un grande eremita di Romagna, S. Romualdo, e la liberalità dei primi marchesi di Toscana, Willa e il figlio Ugo, ricordato da Dante come il "gran barone" e dall'arte di Mino da Fiesole nel monumento della Badia. A codeste munificenze segnò una reazione il marchesato del primo Bonifacio, ma le tendenze mistiche ripresero il sopravvento, disposandosi al sorriso dell'arte rinascente, subito dopo la sua morte, allorché all'alba del nuovo millennio, sul colle che la leggenda vuol santificato dal martire cristiano, sorgeva la marmorea basilica di S. Miniato, quasi a simbolo di promettente avvenire per la sottostante città. La quale, nella deposizione del successore di Bonifacio, il marchese Ranieri, per la sua opposizione al nuovo imperatore Corrado II, e nel conseguente trapasso del marchesato alla potente casa dei Canossiani, anche questa presto ribelle all'Impero, dovette abituarsi a considerare la precarietà della giurisdizione marchionale e a spiare occasioni di libertà nei conflitti feudali. Tanto più scadde l'autorità dei marchesi quando Enrico III trasse come ostaggi in Germania Beatrice con la figlia Matilde, per la fellonia di Goffredo di Lotaringia, secondo marito della prima, e quando la posizione delle due donne fu discussa dal papa Vittore II in un concilio da lui tenuto appunto a Firenze.
Restaurato il governo marchionale di Beatrice e di Matilde, seguirono quelle agitazioni religiose che, provocate dalla simonia del vescovo Pietro Mezzabarba, infiammarono lo zelo ascetico di Teuzo di Badia e di Giovanni Gualberto, indussero il pontefice a tentare la pacificazione con la parola di S. Pier Damiani, condussero finalmente all'esperimento del fuoco del 1068, voluto dal popolo come giudizio di Dio tra le parti contendenti. La passione religiosa divampava con l'ardore delle grandi battaglie in questa Firenze, che agli albori della vita comunale sembrava divenuta la roccaforte della riforma: prima che pontefice riformatore, era stato vescovo fiorentino quel Niccolò II che aprì la strada a Ildebrando; la chiesetta del romitaggio di Vallombrosa, dove S. Giovanni Gualberto si temprava alla lotta, aveva avuto solenne consacrazione da Rodolfo di Paderborn, già monaco di Cluny, che con la sua persona sembrava collegare il moto toscano a quello francese e tedesco. Ma nel più clamoroso episodio di questa contesa, la prova del fuoco trionfalmente vinta da Pietro Igneo, c'interessano soprattutto le testimonianze che accennano al fanatismo del popolo: un popolo, che è ancora massa indistinta, ma che va acquistando consapevolezza della sua personalità e particolare rilievo sullo sfondo di una società a tipo feudale ed ecclesiastico. Infatti un ricorso al papa Alessandro II è redatto in nome del clero e del popolo fiorentino, mentre a quest'ultimo, come a "cives florentini", rivolge le sue epistole S. Pier Damiani.
Sedata la contesa locale, scomparso dalla scena del mondo il grande agitatore vallombrosano, rimasto il pacifico governo della Toscana all'ultima dei Canossiani, divampa in più vasto teatro la lotta delle investiture, a cui quella donna partecipa come il più valido campione del papato. È noto come al progresso delle autonomie comunali giovi codesto conflitto tra i due supremi poteri, che mobilita e logora tutto il mondo feudale, laico ed ecclesiastico. Anche le citta toscane conseguirono le prime autonomie nella seconda metà del sec. XI; ma non tutte col medesimo ritmo e con la chiara evidenza di un precoce regime consolare, perché fu più vantaggiosa la posizione di quelle cittadinanze che, ribelli a Matilde paladina del papa, ebbero solenne concessione di franchigie dalla suprema autorità dell'Impero. Così la libertà pisana e lucchese nascono con regolare diploma e precedono con legittima investitura l'autonomia di Firenze, fedele alla Chiesa e a Matilde, e perciò non partecipe al nuovo ordine di cose, che altrove creava il declinare della giurisdizione marchionale. Il che significa non soltanto una più lenta fioritura della libertà comunale a Firenze in confronto a Pisa, ma anche un diverso suggello all'ulteriore sviluppo di quelle libertà, quasi anticipandosi col riconoscimento imperiale il destino ghibellino di Pisa e preparandosi le ragioni estrinseche del suo antagonismo a Firenze; la quale vien temprandosi tacitamente al nuovo clima storico, con piena aderenza al guelfismo di Matilde, sotto il benevolo governo di lei, ultima marchesa di Toscana. Appunto codesto periodo estremo del regime marchionale segna l'inizio dell'autonomia fiorentina, non soltanto per la ragionevole ipotesi che Matilde tendesse a conciliarsi la cittadinanza non diversamente da quanto l'imperatore praticava con quella pisana, ma anche perché soccorrono sicure testimonianze della partecipazione dei più esperti fra i "cives" a una delle più importanti branche dei pubblici poteri: l'amministrazione della giustizia. Infatti i nomi di quei "boni homines" che ricorrono nei placiti matildini costituiscono già una élite della cittadinanza, che sarà domani classe di governo nella costituzione consolare. Altra palestra d'addestramento è la curia vescovile in sede vacante, quando persone del laicato cittadino ne amministrano i beni con titolo di "vicedomini".
Ma il segno più tangibile che nuovi interessi s'innestano ai conflitti feudali, e che finiscono col prevalere giovandosi della solidarietà fra la cittadinanza e Matilde contro le grandi casate feudali del contado, è fornito dalle fazioni guerresche che la prima annalistica registra come autentica storia di città. Nel 1107 l'oste fiorentina distrugge il castello di Prato, possedimento dei conti Alberti, presente la stessa Matilde; l'anno medesimo è assalito il castello di Monte Orlando, presso la Lastra a Signa, feudo degli Adimari, consorti degli Alberti; del 1110 è una fazione in Val di Pesa contro i Cadolingi, anche questi consorti degli Alberti; nel 1113 e 1114 si sferrano i primi attacchi al castello di Montecascioli in seguito alle contestazioni dell'eredità cadolingia. L'epilogo di quest'ultima impresa, con la distruzione del castello e con l'uccisione del vicario imperiale che lo difendeva, è del 1119, quando già da quattro anni era scesa nel sepolcro l'ultima dei Canossiani: il che mostra la continuità della politica cittadina pur nel trapasso tra le due età che sembrerebbero antitetiche: la marchionale e la comunale. Ma si è visto che l'antitesi non sussiste e che le autonomie tacitamente s'iniziano fin dagli ultimi decenni del sec. XI, mentre l'anno della morte della contessa Matilde (1115) segna soltanto il principio virtuale del Comune, con l'ovvia sostituzione di un governo cittadino a quello cessato, perché in seguito al testamento matildino, che costituiva la Chiesa erede di tutti i possessi, la Toscana diventa oggetto di contrastata giurisdizione tra il Papato e l'Impero e questo, con i suoi intermittenti rappresentanti, non riesce a fermare la disgregazione del marchesato, né a foggiare un simulacro continuativo di governo.
Come e quando dalla concreta realtà locale emergesse la costituzione consolare non è detto dai documenti, ma la sostituzione doveva venire spontanea per l'analogo reggimento di Pisa e di Lucca. Certo, da questo momento comincia veramente la storia di Firenze: non soltanto perché la storia della città si differenzia dalla storia comune della Toscana marchionale, ma anche perché le forze che nella città operano hanno ormai una comune finalità che caratterizza la politica fiorentina nel primo secolo: la conquista del contado, strappato palmo a palmo alla giurisdizione feudale e sottoposto a quella cittadina. Questi progressi della politica esteriore sono particolarmente documentati, mentre rimane nella penombra la costituzione interna, che, del resto, è la costituzione consolare, con palese preminenza delle famiglie gentilizie (società delle Torri), concordemente sostenute dagli altri ceti più cospicui - mercanti di Calimala ed ecclesiastici -, perché il supremo obiettivo di dilatare il Comune nella campagna corrisponde all'interesse di tutti i consociati: la nobiltà cittadina consolida il possesso della terra, i mercanti vedono aperte le vie ai loro commerci, il vescovado rafforza la propria giurisdizione, in quanto viene a coincidere con quella civile del Comune che, riunendo alla città la campagna, mira all'equivalenza del contado con la diocesi. È quell'ambiente di concorde cittadinanza che fu esaltato dai cronisti in confronto all'età seguente e che Dante contrappose alla città dei tempi suoi come la Fiorenza di Cacciaguida.
Ma anche a estendere il Comune di poche miglia fuor della "cerchia antica" quante aspre fazioni contro la nobiltà incastellata, e quanto accorgimento per rompere con colpi alternati l'assedio di due potenti case comitali: gli Alberti e i Guidi! Con gli uni abbiamo visto iniziato il combattimento fin dai tempi della contessa Matilde; ma contro gli altri, nelle buone grazie di lei, convenne attendere piena autonomia di reggimento. Non troppo però, perché è del 1125 la guerra fiesolana, che con una definitiva sottomissione risolveva il leggendario duello e che, in effetto, più che a una rivincita sulla secolare rivale, mirava a colpire la potenza dei conti Guidi, là dove il Comune fiesolano, così acquisito alla giurisdizione fiorentina, si incuneava nei possedimenti feudali di quella casa. Prima d'infliggerle un altro colpo con una guerra tanto più dura, la cui importanza è ben calcata nei racconti annalistici - la guerra di Montedicroce dal 1143 al 1153 -, il Comune rivolgeva le sue armi agli opposti confini, nelle terre tra l'Arno e l'Elsa, che erano in soggezione dei conti Alberti. Ma dovunque l'oste comunale si dirigesse in quegli anni, riportava sicure vittorie che stroncavano, a un tempo, la potenza feudale e le velleità di una restaurazione imperiale. Infatti, se l'Impero teneva desta la questione dei beni canossiani e si ostinava a concedere nuove investiture del marchesato, codesti suoi improvvisati vicarî non avevano altro punto d'appoggio che nei feudatarî, nemici al Comune cittadino; sicché questo, vincitore di quelli, non guadagnava soltanto una più lata giurisdizione, ma definiva con più chiarezza la sua stessa personalità giuridica in confronto all'autorità dell'Impero. Il quale, in quella prima metà del sec. XII, durante i due imperatori che seguirono al conflitto delle investiture - Lotario II e Corrado III -, era piuttosto nella necessità di cercare adesioni fra i feudatarî, che nella condizione di soccorrerli contro le forze gagliarde del Comune.
La situazione si capovolse e quei progressi subirono un arresto quando cominciò la vigorosa offensiva di Federico Barbarossa contro i comuni italiani: la ricordata impresa contro i Guidi a Montedicroce chiude un primo periodo di fortunata espansione nel contado. Il Comune fiorentino era troppo giovane per figurare nel quadro delle forze coalizzate contro lo Svevo; ma la lotta ingaggiata in Lombardia impegnava l'avvenire di tutta l'Italia comunale, con diretta ripercussione sulla Toscana delle singole fasi di quel conflitto. Così la pausa nella politica espansionistica di Firenze rientra nei precisi termini cronologici che circoscrivono la potenza del Barbarossa: si erano ripiegati i vessilli fin dal momento della prima discesa; sono ricondotti vittoriosi in campo l'indomani della battaglia di Legnano. Nell'intervallo l'imperatore aveva fatto sentire la sua voce anche intorno a Firenze: per i feudatarî, confermando con nuovi diplomi le giurisdizioni feudali; per il Comune cittadino, disseminando nel contado quei diretti rappresentanti della suprema autorità che si dissero potestates teutonici. Deciso in Lombardia il clima storico della penisola, non solo sono richiamati in vigore i patti già imposti alla nobiltà comitale - e la finanza cittadina s'avanza nella campagna per una palese ricognizione dei diritti giurisdizionali -, ma sono di nuovo attaccati e più duramente sconfitti gli Alberti: nel 1182 è sottomessa a tributo Empoli, già tributaria dei conti e smantellato il castello di Pogna; nel 1184 quello di Mangona in Mugello: la prima fazione apre le vie di Pisa, la seconda di Romagna.
Alla fine del secolo è lecito misurare i progressi compiuti; anzi esattamente li misura, con precisa informazione documentaria, la lega guelfa del 1197, che segue da vicino la morte di Enrico VI, e che segna un punto di arrivo e un punto di partenza nella storia del comune fiorentino: a quel modo che motivo essenziale nel secolo XII fu la conquista del contado, così quel primo programma fu superato nel successivo con l'affermazione egemonica di Firenze sugli altri comuni di Toscana. Veramente un'ufficiale consacrazione del primo obiettivo raggiunto si era avuta nel 1187 col diploma di Enrico VI - l'originario diploma dell'autonomia fiorentina - che significa legalizzazione del fatto compiuto, anche se il riconoscimento, in forma di concessione graziosa, riflette solo parzialmente la realtà delle cose. Ma questa è chiaramente rispecchiata nelle stipulazioni fra le forze politiche toscane - città e feudatarî - per la lega e quasi federazione del 1197, in quanto i contraenti si riconoscono reciprocamente le conseguite giurisdizioni. Questa lega, per una solidarietà di difesa contro ogni tentativo di restaurazione imperiale, palesa, a un tempo, le nuove finalità della politica estera di Firenze, in quanto, come promotrice dell'alleanza, si costituisce al centro del nuovo sistema politico ormai generalizzato in Toscana. Non erano mancati conflitti con le città vicine anche nel secolo precedente, ma sembrano piuttosto inevitabili sconfinamenti della lotta antifeudale per il contado, come le guerre con Siena per Poggibonsi, mentre ora il conflitto per l'egemonia è motivo dominante nella storia esterna del sec. XIII. Sennonché, si erano compiute innovazioni anche nel campo costituzionale, come inizio d'incessanti rivolgimenti, che dànno, anch'essi, una precisa fisionomia al Duecento, con interferenze continue nella politica di predominio.
Sullo scorcio del primo secolo di storia comunale si palesò l'insufficienza del governo consolare alla cresciuta sfera di azione e alla più variata composizione della cittadinanza. Firenze cresceva anche materialmente, oltre la cerchia romana "tra Marte e il Battista" - cioè tra il Ponte Vecchio e il Battistero -, slargandosi nel più ampio tracciato del secondo cerchio. Il che è indizio di un forte incremento demografico, per effetto di una duplice immigrazione dal contado: di feudatarî, snidati dai castelli, costretti a risiedere entro le mura almeno per qualche mese dell'anno, e perciò inseriti nella cittadinanza come "cives selvatichi"; e immigrazione di rustici, rifuggenti dalle servitù feudali e chiamati a vocazioni artigiane dalle forze operose del centro civico. Sono evidenti le ripercussioni del fenomeno nella composizione sociale della cittadinanza, ormai alterata nella primitiva fisionomia per la coattiva aggregazione della nobiltà di contado, naturalmente ostile al Comune, almeno in quanto lo rappresenta il ristretto ceto delle famiglie consolari, e per l'ingrossarsi delle falangi artigiane, che accelerano lo sviluppo associativo dei singoli rami d'industria (corporazioni delle Arti) sull'esempio della più antica organizzazione: l'arte di Calimala. Così viene a rompersi l'equilibrio sul quale riposava la costituzione consolare.
Appunto da queste mutate condizioni dell'ambiente sociale nasce la sostituzione della magistratura unica del podestà a quella collegiale dei consoli: sostituzione lenta, talvolta anche dissimulata con la contemporaneità delle due forme di reggimento, ma tuttavia indeprecabile dopo il primo podestà comparso il 1193 nella persona del fiorentino Gherardo Caponsacchi, e pienamente maturata nel 1207 col primo podestà forestiero: e tale rimarrà in avvenire, a maggior garanzia d'imparzialità. Se l'indiscutibile pressione delle nuove forze feudali e i successivi rivolgimenti costituzionali della parte popolare definiscono il carattere aristocratico della nuova magistratura, è pur d'uopo riconoscere che essa segna un grado più avanzato di maturità nella figura giuridica del Comune; che codesta riforma implica un più lato concetto di rappresentanza di tutti i ceti; che, nell'apparente concentrazione dei poteri, significa un effettivo allargamento di base, perché la novità costituzionale non si limita alla massima gerarchia della società comunale, ma si estende allo sviluppo conseguito dalle assemblee cittadine.
Ciò nelle forme della costituzione. Nella realtà della vita diviene normale l'urto delle forze eterogenee, che il Comune compendia e che il dualismo guelfo-ghibellino - introdotto a Firenze nel 1215 e ricondotto alle radici degli odi consorteschi dal racconto cronistico - organizza in una lotta di parti, con forti aderenze alla situazione esterna nazionale e regionale. L'avvenire della città, coerentemente agli esordî della sua autonomia all'ombra del governo marchionale, riposa sulle fortune del guelfismo, che dentro significa, nella sua ultima fase e nei suoi termini essenziali, costituzione di popolo contro la reazione della feudalità ghibellina, e fuori egemonia di Firenze contro le resistenze delle città rivali, e perciò di parte imperiale. Del resto, più d'una volta l'unità dei fini armonizza le due fasi della lotta e costituisce un obiettivo sicuro all'azione dei guelfi; ogni sbandimento avvicina gli avversarî di dentro a quei di fuori e sospinge i ribelli nelle prime file dell'oste nemica, così di Siena come di Pisa e di Arezzo.
Lo schieramento nelle due parti dei ceti magnatizî - e di questi soltanto - obbedisce indubbiamente a motivi di ordine locale, prescindendo da un diretto cointeressamento della cittadinanza alle ragioni del conflitto riacceso tra l'Impero e il Papato; ma l'adesione ai due massimi antagonisti, per guadagnare il vantaggio degli esterni soccorsi, inquadra le fasi di quel dualismo fazioso nell'universale conflitto, che copre con parvenze uniformi la molteplice varietà delle storie municipali. E gli accadimenti decisivi in queste ultime, con alternati sbandimenti di ghibellini e di guelfi, appaiono legittimo corollario di bruschi cambiamenti nella situazione generale. Così dopo lungo battagliare tra le due parti fiorentine, nel 1248, intervenendo gli aiuti diretti di Federico II, i guelfi prendono le vie dell'esilio; ma ne ritornano a vessilli spiegati nel 1250, l'indomani della catastrofe imperiale. Nella vacanza dell'Impero il ghibellinismo rimane depresso, fino a quando non venga l'aiuto di Manfredi a ristorarne le forze in Toscana.
Tra l'uno e l'altro rivolgimento la storia fiorentina registra un periodo decennale di preminenza guelfa, che è anche partecipazione di popolo al governo nel nuovo ordine costituzionale, che i cronisti appunto definiscono come costituzione del "Primo Popolo" o del "Popolo Vecchio". Abbiamo detto che la divisione in guelfi e ghibellini, fin dall'uccisione del giovane Buondelmonti che insanguinò la Pasqua fiorentina del 1215, fu scissione di nobiltà solamente: ma, se una linea può segnarsi nell'azione politica delle due parti, oltre le rivalità consortesche che sono alle radici della discordia, è facile ravvisare nei ghibellini una reazione feudale ai progressi del Comune e riconoscere le forti simpatie popolari per la parte guelfa. Prima del suo decadimento, nel 1248, sembra che i ceti mercantili e artigiani in via subordinata profittassero delle vocazioni militari dei reggitori del Comune - in guerra con Pisa nel 1218-22, con Siena nel 1228-35 - e che proprio da questo tempo, dal 1224, portassero il peso dei loro suffragi nei pubblici consigli. Ma codesta oscura collaborazione tra popolo e guelfi matura più visibili frutti nel 1250, quando la vittoria dei guelfi è anche vittoria di popolo e imprime un vigoroso indirizzo alla politica di espansione.
Appartengono a codesto decennio nuove guerre con Pisa, con Siena, con Pistoia; ma più c'interessano le riforme della costituzione interna, col nuovo ufficio del capitano del popolo. Al solito, come per l'introduzione del podestà, la riforma non si esaurisce nella persona del nuovo magistrato, ma si allarga all'istituzione di un altro tipo di consigli - che a lui fan capo con più decisa partecipazione di popolo -, all'ordinamento della sua curia, all'organizzazione armata delle forze popolari. Parve, ed è effettivamente, uno sdoppiamento del Comune; il Comune maggiore col podestà e il Comune del popolo col capitano: quello pretende a un'universale rappresentanza della società comunale; ma nel seno della medesima il popolo s'individua e contrappone una sua organizzazione a quella tradizionale. Sembra un regresso nell'evoluzione del concetto di stato; sennonché è fase transitoria, che sarà presto superata con i progressi del popolo, il quale si avvia a ricomporre nel governo centrale delle Arti l'unità del Comune, esautorando podestà e capitano, che rimarranno come due supreme magistrature tradizionali, ma, in effetto, come due giusdicenti forestieri. Sennonché, prima che questo avvenga, il capitanato del popolo sopporta un'interruzione e la costituzione del Primo Popolo totalmente rovina.
È quanto fu preannunziato con l'effimera ripresa del ghibellinismo, forte degli aiuti di Manfredi. Un capitolo di storia italiana, regionale e fiorentina è la battaglia di Montaperti del 1260, in quanto segna la riscossa dell'ultimo Svevo di Sicilia, capovolge la situazione toscana con la vittoria senese, riconduce gli esuli ghibellini in Firenze - fra i quali primeggia il Farinata dantesco -, con l'eversione del Primo Popolo e con una pausa significativa nella politica espansionistica. In codesto periodo di reggimento ghibellino, quando la storia di Firenze sembra procedere a ritroso dei suoi destini, era battezzato al fonte di S. Giovanni Dante Alighieri, mentre ancora durava l'esilio di quella che sarà la sua parte. Breve esilio anche questo, perché la battaglia di Benevento (1266), segnava l'epilogo del duello tra gli Svevi e la Chiesa, e il trionfo del guelfismo italiano.
Mutato il clima storico della penisola, il Comune di Firenze, insieme col regno angioino di Napoli, diviene uno dei più saldi baluardi di parte guelfa e si giova della duplice aderenza, angioina e papale, per adempiere alla sua missione storica: l'organizzazione dello stato in Toscana. Il che avviene sotto un duplice aspetto: primato di Firenze nella regione e governo appoggiato alle organizzazioni artigiane, con felice conclusione dei due motivi operanti nella storia fiorentina del Duecento. I procedimenti verso il duplice obiettivo sono paralleli, mentre sembra disforme lo sviluppo del guelfismo nella politica interna e in quella con le altre città di Toscana. Infatti, la progressiva ascesa delle Arti mediante un nuovo orientamento del ceto dirigente, che alla solidarietà esclusiva della vecchia parte preferisce l'appoggio delle organizzazioni popolari, è conseguente alla pacificazione del cardinale Latino (1280), che, conciliando i ghibellini coi guelfi, reagisce all'oltracotanza di questi ultimi, monopolizzatori della vittoria, e spiana la via al priorato artigiano (1282), come organo centrale di governo. Al contrario, in politica estera, nonché allentare l'organizzazione del guelfismo, l'antico vessillo è riportato in campo, con intransigenza di fede e con salde aderenze, contro le sopravviventi opposizioni all'egemonia fiorentina: la battaglia di Colle, nel 1267, vendica contro Siena lo scempio di Montaperti; la sconfitta pisana alla Meloria, nel 1284, è vittoria genovese che reca copiosi vantaggi agli alleati di terraferma; la battaglia di Campaldino, nel 1289, consolida il primato di Firenze agli opposti confini contro Arezzo ghibellina.
Il ceto magnatizio, prezioso strumento di guerra, mentre perde terreno nel governo cittadino per il sicuro progredire delle forze popolari, medita una riscossa contro le ultime novità della costituzione, ormai basata su quelle forze; ma il popolo risponde, in un momento di eccezionale effervescenza democratica, auspice Giano della Bella, con quella che rimarrà la magna charta della sua libertà: gli Ordinamenti di giustizia. I quali, codificati nel 1293, non hanno quell'esclusivo significato antimagnatizio con cui l'interpretò una precedente storiografia, poiché in seguito fu mitigata l'obbligatorietà di un esercizio professionale per chi aspirasse al supremo collegio del priorato; ma soprattutto fissano il tipo della costituzione, basata sulle organizzazioni artigiane, con precisa definizione della gerarchia delle singole Arti, giuridicamente riconosciute come fatto sociale e politico. Ne deriva, dopo la reazione antidemagogica che portò all'esilio di Giano della Bella (1295), la preminenza politica di un'oligarchia artigiana, costituita dalle sette Arti maggiori, che classificano le massime attività professionali e i diversi rami dell'industria esportatrice; giudici e notai, medici e speziali, mercanti di Calimala, cambiatori, lanaioli, setaioli, vaiai. E il ceto plutocratico, dei mercanti e dei banchieri, con interessi interferenti nelle sfere di attività economica ora ricordate che si prepara alla conquista dei posti di comando, come autentico Popolo grasso, che governerà per un secolo la repubblica, dopo un più deciso isolamento dai ceti più eterogenei nella nuova lotta combattuta col nome di Bianchi e di Neri.
Non è facile determinare il significato sociale della scissione di parte guelfa - a partire dal calendimaggio del 1300 -, mentre è chiaro l'atteggiamento politico delle due fazioni, come quelle che professano diversamente il guelfismo: più intransigenti i Neri, più moderati i Bianchi, anche per un geloso sentimento d'indipendenza municipale contro il protettorato angioino e papale. Ma appunto per questo i Neri hanno il sostegno di codeste forze esterne del guelfismo, e sono in grado di sviluppare una politica di più larghe vedute e più coerente alla tradizione guelfa. Perciò, nonostante le complicazioni che nello schieramento delle parti sono effetto di rancori cittadineschi e di rivalita bancarie - così nelle persone di Vieri de' Cerchi e di Corso Donati, rispettivi protagonisti dei Bianchi e dei Neri -, la fazione dell'intransigenza, più omogenea e più compatta, è sostenuta da quell'aristocrazia bancaria e mercantesca che si prepara a divenire partito storico di governo, mentre nell'opposta fazione dei Bianchi si coalizzano tutte le opposizioni a quella trionfale ascesa del Popolo grasso: anzi lo "scomunamento di popolo" è in prima linea e cominciano a palesarsi divergenti interessi tra le Arti maggiori e la massa dei minori artigiani e dei salariati. È l'epilogo della lotta che chiarisce queste posizioni, quando il trionfo dei Neri assicura la fortuna politica dell'oligarchia mercantesca, soverchiando le estreme frazioni della cittadinanza: i magnati, ribelli agli Ordinamenti di giustizia, e il popolo minuto.
Prima che a questa conclusione si giungesse, ebbe breve sopravvento la parte bianca, con una successione di priorati a cui appartennero Dante Alighieri e Dino Compagni: quello, nell'estate del 1300; questo, nell'autunno nel 1301; l'uno, in un momento di equa repressione con lo sbandimento dei più violenti, mentre con la missione del cardinale d'Acquasparta si palesava il subdolo intervento di Bonifazio VIII; l'altro, nell'ora della catastrofe, quando l'ultimo priorato di parte bianca capitolava davanti a Carlo di Valois, il falso paciere che il 1° novembre 1301 entrava in Firenze con le segrete istruzioni del papa di consegnare la città nelle mani dei Neri. Cominciarono le condanne, gli esilî, i disperati tentativi dei fuorusciti, a cui non giovò l'alleanza ghibellina, perché tutte le offensive si trasmutarono in "orribili disavventure". S'ingrandiva così il trionfo dei Neri, che all'interno sventavano l'insidia del capoparte - Corso Donati, aspirante alla signoria col favor popolare - e che all'esterno raccoglievano la sfida dei ghibellini e degli esuli, ai quali infondeva l'estrema speranza di un rivolgimento politico l'impresa italica di Arrigo VII di Lussemburgo.
L'imperatore scendeva con un programma di pacificazione, acclamato dai vinti delle contese antiche e recenti: ma Firenze l'attendeva con mente discordante da quella del suo maggior figlio in esilio. Quei mercanti ebbero parole sdegnose per gli ambasciatori di Arrigo VII e strinsero le forze guelfe di tutta Italia, dalle città di Lombardia al regno di Napoli, per contestare al nuovo Cesare i diritti d'impero, ormai prescritti dopo l'ultimo sovrano di casa Sveva. È merito di Firenze aver riconosciuto l'essenza germanica sotto il paludamento romano dell'impero, aver sollevato il guelfismo a un significato di resistenza nazionale, aver sostenuto l'attacco imperiale alle mura della terza cerchia. Arrigo VII, in quella stessa giornata d'Ognissanti che undici anni prima aveva condotto il Valois a Firenze, toglieva l'inutile assedio e sviava la marcia al fatale epilogo di Buonconvento.
A questo punto si chiude il periodo più glorioso nella storia dell'antica repubblica, perché, se continuerà la dilatazione dello stato cittadino nel più vasto stato regionale e cominceranno i rapporti interregionali col contributo di una preveggente valutazione fiorentina dell'equilibrio italiano, la storia costituzionale non registra variazioni sensibili fino all'egemonia medicea, salvo le irrequietezze democratiche contro il predominio oligarchico e le effimere signorie che a quelle si ricollegano. Intanto ai primi del Trecento la solidità del ceto dirigente, uscito trionfatore da una lotta politica secolare, giustifica l'eccezionale libertas fiorentina in confronto alla tirannia che si affaccia nelle minori terre di Toscana: a Pisa Uguccione della Faggiuola; a Lucca Castruccio Castracani. Contro codesti avviamenti Firenze difende il principio comunale, non soltanto perché è la sua essenza costituzionale, ma anche perché è la salvaguardia del suo primato contro l'accerchiamento signorile. Infatti, con una duplice sconfitta ebbe a sperimentare la cresciuta forza dei suoi vicini, organizzati in signoria: a Montecatini nel 1315; ad Altopascio, nel 1325: quella fu vittoria di Uguccione, questa di Castruccio.
La gravità della situazione militare reagisce sugli ordinamenti interni e il Comune deve limitare la sua libertà col protettorato forestiero, che naturalmente non può venirgli che da Napoli: prima, fin dalla minaccia di Arrigo VII, una generica signoria a re Roberto; più tardi, nel 1325, una più esplicita delega di poteri al figlio del re, a Carlo duca di Calabria; ma è sempre una signoria sui generis, che concilia col protettorato gli organi essenziali della costituzione e che dura finché urge il nemico. Nel 1328 la morte di Castruccio e di Carlo di Calabria libera Firenze dal doppio incubo della minaccia esterna e della protezione interna; segue una immediata riscossa per riguadagnare il terreno perduto in Toscana; precisi acquisti territoriali o trattati di accomandigia segnano la formazione di un'ampia zona distrettuale attorno alla Dominante: Pistoia nel 1331, Cortona nel 1332, Arezzo nel 1337, Colle nel 1338. Contro gli Ubaldini del Mugello e i Pazzi del Valdarno sono costruite le nuove terre di Firenzuola e di Terranuova. L'ambizione si allarga a più superbo obiettivo: l'acquisto di Lucca; ma Firenze ha il torto di declinare l'offerta dei mercenarî del Bavaro, che la mercanteggiano dopo il crollo della signoria di Castruccio, e di decidersi a comprarla a più caro prezzo da Mastino della Scala, quando è già passata per diverse mani. Di più, ne segue una guerra con Pisa, gelosa di quell'acquisto, sicché l'impresa di Lucca si risolve in una disavventura, sulla quale è il caso d'insistere perché getta il discredito sulla classe dominante, già compromessa nelle sue basi economiche dai fallimenti delle grandi case bancarie dei Peruzzi e dei Bardi, e perciò prudentemente disposta a sopportare la parentesi di una signoria forestiera nella persona di Gualtieri di Brienne, duca di Atene (v. brienne, gualtieri vi di).
È sempre la crisi militare che provoca l'esperimento signorile, ma questa volta è complicata con lo scadimento del ceto dirigente e con l'irrequietezza del popolo minuto e dei magnati, più inclini al governo normativo di un tiranno al disopra delle classi, e perciò reclamanti a una voce, nel parlamento dell'8 settembre 1342, la signoria vitalizia di Gualtieri, che i priori avevano concordato la sera innanzi per un anno solo e alle stesse condizioni con cui l'ebbe Carlo di Calabria. Il duca di Atene s'insediò nel palazzo dei priori e iniziò a Firenze l'eccezionale regime di un governo dispotico, che, forte del favor popolare avrebbe dovuto attuare un principio di uguaglianza, ignoto al Comune, parificando la condizione degli esclusi a quella dei privilegiati partecipanti ai diritti politici. Ma egli aveva pattuita la signoria con i ceti più discordanti: con gli uomini della precedente oligarchia, preoccupati soltanto d'eclissarsi in un momento di gravi responsabilità; con i vecchi magnati, impazienti di veder cancellati gli Ordinamenti di giustizia; col popolo minuto, nemico alla preminenza degli uni e degli altri. Nell'impossibilità di mantenere gl'impegni con tutti, è logico l'universale scontento e la contemporanea preparazione di più congiure, che insieme si fusero per un comune consentimento nella tradizionale libertà, rovesciando il tiranno il 26 luglio 1343.
Non poteva attecchire la signoria finché non erano esauriti i partiti, e a logorarli ci vollero ancora parecchi decennî di lotta infeconda. E possiamo definirla così, perché, dopo un vano tentativo di conciliazione sociale nella Balìa dei Quattordici, con equa partecipazione di grandi e di popolani; rintuzzate le ultime velleità dei magnati con una definitiva sconfitta, che li esclude per sempre dalla scena politica, il conflitto viene a culminare tra i due ordini popolani delle Arti maggiori e minori. Codesti gruppi, già dissenzienti fin dalla lotta dei Bianchi coi Neri, provocano un'alterna vicenda di pressioni democratiche e di reazioni oligarchiche, senza che quelle riescano a una continuativa conquista del governo e senza che queste valgano a deprecare il fatale declino di un ceto indebolito e discorde. Mentre le Arti minori salgono al priorato, è roccaforte degli oligarchi una vecchia organizzazione di partito, il capitanato di Parte guelfa, palladio di una tradizione gloriosa, ma che ora serve soltanto a colpire gli avversarî politici con speciose accuse di ghibellinismo, implicanti il divieto di salire ai pubblici uffici. Tali gli effetti della "legge dell'ammonire" del 1358: ormai la difesa troppo gelosa della tradizione di parte significava monopolio del concetto di patria, col fine ingeneroso di conservare l'esclusività del potere ai vecchi oligarchi.
E gli eventi si prestavano a codesta rivalutazione del guelfismo come arma di lotta politica, perché il mutato equilibrio sociale, con conseguenti infiltrazioni democratiche nel supremo collegio del priorato, aveva prodotto sensazionali capovolgimenti nelle direttive della politica estera. Non che subisse una pausa la gelosa difesa delle ragioni fiorentine in Toscana, perché nel 1364 la vittoria di Cascina trionfava dell'opposizione pisana e ricuperava al commercio le antiche franchigie; ma proprio in quel giro di anni s'invertivano le relazioni con l'Impero e con la Chiesa. Prima, nel 1355, Firenze aveva sollecitato i favori dell'imperatore Carlo IV e ne aveva avuti patti onorevoli che riconoscevano la legittimità del priorato, benché scaturito da interne rivoluzioni, e delle esterne conquiste sulle terre del contado e del distretto; più tardi, nel 1378, la città guelfa per eccellenza entrò in guerra aperta col papa Gregorio IX, perché la ricostituzione dello stato ecclesiastico nelle Romagne, conseguente alla missione dell'Albornoz, tornava ai suoi danni come accerchiamento del proprio territorio. Quella guerra, durante la quale Firenze sostenne fieramente l'interdetto, palesò le forti dissensioni interne fra gli oligarchi della Parte guelfa e le nuove correnti, meno ossequiose alla tradizione, che sostennero l'azione politica della Balìa di otto cittadini sui negozî di guerra, chiamati gli "Otto Santi" in dispregio del papa. Fu in quell'occasione che il furor popolare incendiò la casa dove era ospitata una santa pacificatrice, Caterina da Siena, nella sua fede ingenua inconsapevole strumento dei capitani di parte.
Codesta plebe in tumulto è il preannunzio dei Ciompi. La sedizione demagogica ha un valore di per sé, come estremo superamento della rivoluzione democratica: la storia sociale di Firenze compie il ciclo di tutte le esperienze, perché, dopo l'infiltramento delle Arti minori nel blocco oligarchico, il popolo minuto dei salariati nelle aziende delle maggiori Arti, e soprattutto della lana, non sopporta l'esclusione dai diritti corporativi e per conquistarli dà la scalata ai pubblici poteri, con un drammatico assalto al palazzo dei priori, dove il 21 luglio 1378 insedia gonfaloniere Michele di Lando. Ma, se il "popolo di Dio" non conosce più freni dopo avere strappato con la violenza tre leggi senza precedenti - imposta diretta progressiva, ripudio del debito pubblico, riconoscimento dei Ciompi come Arte organizzata -, codesto dramma meglio s'inserisce nella storia fiorentina considerando le più riposte cause che l'han prodotto: le crepe nel blocco oligarchico. Scadute le fortune mercantili del "popolo grasso", venuta meno con la solidarietà degl'interessi la solidarietà di partito, divenuta l'oligarchia piuttosto una élite di ottimati con larghe proprietà terriere che concorde preminenza di popolani trafficanti, era cominciata la guerra tra le famiglie per soverchiarsi, con una duplice tendenza: alcuni, come gli Albizzi, aspiravano a restringere sempre più il governo in poche mani, quasi a cristallizzare la costituzione oligarchica sul modello veneziano; altri, colpiti anch'essi dalle ammonizioni, cercavano un piedistallo nelle estreme frazioni democratiche, sempre escluse dalla vita politica, per colorire un sogno ambizioso di tirannia. Sono questi dissidenti dall'oligarchia dominante che dànno la prima spinta ai Ciompi in tumulto; che si ritraggono finché sale l'ondata secondo la legge di ogni sfrenata sedizione; che si riaffacciano al primo segno di temperata reazione. Infatti, questa procede per gradi, in quanto alla sconfitta dei Ciompi segue il quadriennale governo, moderatamente democratico, delle Arti minori, durante il quale si logorano quei dissidenti oligarchi che ebbero troppa fretta a tornare sulla scena per un'intempestiva realizzazione del favor popolare: Tommaso Strozzi, Giorgio Scali, Benedetto Alberti. Codesto regime, fatto di tirannia e di paura, per cui salirono il patibolo cittadini ragguardevoli, come Giannozzo Sacchetti, Piero degli Albizzi, Donato Barbadori, dimostrò l'insufficienza del popolo minuto a prendere il suo turno nel governo del Comune e segnò il definitivo tramonto della democrazia fiorentina.
La restaurazione oligarchica del 1382, consolidata nel governo dittatoriale di Maso degli Albizzi e dei suoi più stretti aderenti, Niccolò da Uzzano e Gino Capponi, preserva lo stato da ulteriori sovvertimenti fino all'egemonia medicea; ma la costituzione repubblicana è virtualmente esaurita, perché si è chiuso il ciclo delle esperienze con palese dimostrazione dell'insufficienza democratica e della debolezza oligarchica: la soluzione del problema statale non può venire da codesta vacillante oligarchia, che appunto con le sue discordie aveva generato la crisi del 1378-82. L'insufficienza degli ordini interni è tanto più evidente in confronto alla gravità dei pericoli che incombono dall'esterno: l'accerchiamento signorile, deprecato fin dal tempo delle incipienti tirannie del primo Trecento, stringe ora l'assedio intorno alla repubblica, e con forze tanto più preoccupanti, perché son quelle dei maggiori stati della penisola: prima un'offensiva dal nord, dallo stato visconteo, già cominciata a metà del Trecento dall'arcivescovo Giovanni e ora ripresa dal duca Gian Galeazzo col vasto programma di un'espansione nell'Italia centrale (1388-1402); più tardi (1409-14), è un'offensiva che risale la penisola dal regno di Napoli, personalmente condotta da re Ladislao. Conviene riconoscere al governo oligarchico il merito di una valida difesa, e anche di un agognato successo nell'intervallo tra le due offensive: la conquista di Pisa (1402-06). Giungeva a compimento la secolare aspirazione di portare Firenze sul mare, ma l'acquisto territoriale si risolveva in un aggravamento della crisi costituzionale. Infatti, si aggiungeva il dissidio tra la città dominante, retta dall'egoismo oligarchico, e la città sottoposta, rivendicante l'autonomia a ogni turbamento di quella. L'unità delle provincie in una più vasta creazione statale non poteva venire dai governi cittadini, perché gelosi dei privilegi della conquista: era missione storica del principato, ormai reclamato dagli esclusi di dentro, dai soggetti di fuori, e anche dallo squilibrio delle forze con cui Firenze repubblicana combatteva il ducato visconteo.
La lotta si era riaccesa con Filippo Maria Visconti e Firenze subì la sconfitta di Zagonara (1424), che non fu pieno trionfo per l'avversario, soccorrendo Firenze la solidarietà di Venezia, finora costante alleata per la comune difesa dell'indipendenza d'Italia contro il primato visconteo. Codesta indipendenza, come necessaria condizione allo sviluppo degli stati regionali contro ogni pericolo di egemonia, fu assicurata il giorno in cui Cosimo de' Medici, raccogliendo i frutti di una lenta ma sicura preparazione familiare - da Salvestro, che fu gonfaloniere alla vigilia dei Ciompi, al padre suo Giovanni d'Averardo, detto Bicci -, tornava trionfalmente dall'onorifico esilio veneziano (1434), per un rivolgimento interno operato dai suoi aderenti e analogo a quello che l'aveva sbandito l'anno innanzi: rovesciate le sorti, prendeva le vie di un esilio senza ritorno Rinaldo degli Albizzi, ultimo reggitore dell'oligarchia spodestata. La lotta politica, che un tempo si risolveva nell'esilio delle fazioni, ora si conchiudeva nel conflitto tra le famiglie, perché si erano logorati i partiti tradizionali e ne rimanevano soltanto i residui; i quali, senza possibilità di realizzare in proprio una conquista durevole, servirono di piedistallo all'incipiente signoria, per un secolo dissimulata nelle forme repubblicane, ma poi autentico principato. Era una soluzione originale della crisi politica, in quanto si affermava la signoria indigena di un banchiere, avanzatosi a un posto di prima luce dal fondo delle rivoluzioni cittadine.
Il nuovo signore (1434-64), accorto politico e gran mecenate, non ripeté l'errore del duca di Atene, d'insediarsi nel palazzo dei priori, ma dal suo proprio in via Larga governò senza darsene l'aria col prudente sistema delle imborsazioni e delle balìe, cioè scrutinî di gente sicura per le estrazioni agli uffici di una larvata repubblica e poteri dittatoriali, nelle forme del diritto consuetudinario, a straordinarî collegi di persone devote. Bastava il rafforzamento della costituzione per una più valida difesa contro le minacce esterne; le quali furono rintuzzate nel sistema dell'alleanza veneziana finché vennero dai Visconti, col vantaggio di estendere la giurisdizione al Casentino, quando con la battaglia di Anghiari (1440) rovinò la fortuna del conte di Poppi, del ramo guelfo dei Guidi, favoreggiatore del duca di Milano. Ma, cessati i pericoli da questa parte con la morte di Filippo Maria Visconti e scoperte nella guerra per la successione quelle ambizioni veneziane che rimasero motivo dominante di storia italiana per oltre mezzo secolo, Cosimo intuì il nuovo attentato alla comune libertà regionale e, staccatosi dalla tradizionale alleanza per soccorrere Francesco Sforza, ne rese possibile l'insediamento nel ducato milanese. Fu codesta politica che, assolvendo la missione già enunciata a giustificazione del principato, condusse a maturazione il principio dell'equilibrio italiano nella pace di Lodi (1454), intuito dal primo Medici come salvaguardia all'integrità dello stato fiorentino. E Cosimo è il fondatore di una quasi dinastia, perché la preminenza della sua casa, se parve compromessa nell'immediata successione del figlio, Piero il Gottoso (1464-69), salì alla più alta fortuna col nipote Lorenzo il Magnifico (1469-92).
Soltanto per una faccia della sua poliedrica figura il Magnifico appartiene alla storia politica di Firenze; la quale è ormai dominata da tali personaggi d'eccezione, che non è più il caso di svilupparla oltre lo schema dei suoi accadimenti conclusivi. Difficili gl'inizî dei giovinetti figli del Gottoso, Lorenzo e Giuliano, per le cospirazioni degli spodestati oligarchi, le quali ebbero esplosione drammatica nella congiura dei Pazzi (1478). La reazione popolare contro i congiurati è quasi plebiscitario riconoscimento di legittima signoria nella persona di Lorenzo, che solo scampò al pugnale dei sicarî. Ed egli, reduce da un colloquio con l'Aragonese per distaccarlo dalla lega che papa Sisto IV, corresponsabile nella congiura, aveva coalizzata contro Firenze, può trarre profitto dal recente attentato per sbarazzarsi degli avversarî e restringere la costituzione, creando il Consiglio dei Settanta come strumento d'illuminata tirannide.
Mentre la repubblica agonizza, l'azione di Lorenzo si allarga e si illustra nel più vasto quadro della politica italiana. Al virtuale equilibrio conseguito con la pace di Lodi, consacrato con la Santissima Lega dei cinque maggiori potentati, ma insidiato dalle non sopite ambizioni del papa e di Venezia, è effettivo sostegno la più concreta alleanza tra Milano, Firenze e Napoli, che il Magnifico forse divinò, come garanzia di libertà italica, fin dai primi contatti con l'Aragonese; che temprò con la guerra di Ferrara (1482-84) contro Sisto IV e Venezia; che preservò durante la congiura dei baroni, rattenendo l'intervento del nuovo papa nel Regno meridionale. Nei rapporti con questo pontefice, Innocenzo VIII, da cui ebbe il cappello cardinalizio per il figlio Giovanni, coronando il disegno politico di appoggiare al braccio della Chiesa la potenza della sua casa, il Magnifico si solleva a una visione completa dell'equilibrio italiano, nelle sue linee essenzialmente nazionali, con preveggente valutazione dei danni di un intervento francese. Finché visse fu contenuto il nuovo antagonismo tra Napoli e Milano, che poi scoppiò così pernicioso all'indipendenza d'Italia: le incipienti sventure, seguite alla sua morte, ne sembrarono la conseguenza immediata.
La discesa di Carlo VIII, nel 1494, ebbe ripercussione diretta in Firenze, dove la codardia di Piero de' Medici, troppo ligio al re di Francia, ebbe ardito correttivo nelle fiere parole di Pier Capponi, e diede occasione alla cacciata di quell'inetto figlio del Magnifico. Codesto esilio apre un'interruzione nella storia del reggimento mediceo, che con l'effimera ripresa dal 1512 al 1527 (prima della definitiva consacrazione principesca della famiglia nel 1531) apre a sua volta una duplice parentesi nella restaurata Repubblica: dal 1494 al 1512, dal 1527 al 1530. La storia dell'estrema libertà fiorentina è talmente connessa con le calamitose vicende della storia d'Italia in quel tempo, che quei confini cronologici sono segnati da avvenimenti di larga risonanza.
Diremo il significato di quelle date dopo aver ricordato che una costituzione a più larga base non sopravvisse al rogo (1498) del generoso frate Gerolamo Savonarola, instauratore di una repubblica cristiana che fosse centro a una generale riforma disciplinare della Chiesa. Dopo codesto esperimento di governo, che significò reazione politica e religiosa al paganesimo della tirannide, riprendevano il sopravvento gli ottimati antimedicei, con l'illusione di ripetere le forme della costituzione veneziana nel gonfalonierato vitalizio, ma non giunto al suo compimento, di Pier Soderini, mentre con ben altra acutezza di sguardo scrutava la realtà dei tempi nuovi il gran segretario fiorentino: Niccolò Machiavelli. I Medici sono ricondotti a Firenze dalle armi della Lega santa, vincitrice dei Francesi, ed è spianata la via al cardinal Giovanni, imminente pontefice col nome di Leone X, dal sacco di Prato, finché un altro sacco, ben altrimenti famoso, quello di Roma nel 1527, sotto un altro papa mediceo - il figlio spurio del Giuliano della congiura dei Pazzi, col nome di Clemente VII - apre il triennio dell'estrema Repubblica.
In quei quindici anni, dal 1512 al 1527, sono i riflessi del triregno che dànno lustro alla declinante discendenza di Cosimo - Lorenzo, duca di Urbino, padre della futura Caterina de' Medici, e due illegittimi, Ippolito e Alessandro, sotto la tutela del cardinal Passerini -, avverandosi i presagi del Magnifico che la Chiesa avrebbe sorretto le fortune della cittadinesca casa dei Medici. E fu l'alleanza di Clemente VII con Carlo V, riconciliati dopo lo scempio di Roma, che rese vano l'eroismo della morente Repubblica, impersonato nel mercante soldato: Francesco Ferrucci. Gli amatori di libertà in codesta Repubblica, ancor lacerata da dissensi nei suoi tre estremi gonfalonierati - di Niccolò Capponi, di Francesco Carducci, di Raffaele Girolami -, non seppero unirsi che per morire. E fu morte eroica, illuminata dagli spiriti redivivi del Savonarola e del Machiavelli, nel fervore ascetico di quello, nelle milizie cittadine di questo; epilogo glorioso, che tramanda all'avvenire le grandi memorie dell'amor patrio e redime l'illusione di quegli sfortunati difensori di un'idea anacronistica.
Tanto più ai nuovi tempi era insufficiente codesta idea, in quanto a difenderla era rimasta pressoché sola la Dominante: in quella resurrezione degli spiriti repubblicani molte città del dominio si erano ribellate, riducendosi la storia dell'ultima repubblica a una storia prettamente cittadina. Ma il principato che deriva da quella rovina consolida le antiche conquiste giurisdizionali, le estende ad altre terre di Toscana, inizia una saggia politica a restaurare le fortune delle città di provincia. Questo aspetto del Granducato, che anche nel nome s'intitolerà alla Toscana, definisce gli ulteriori avvenimenti piuttosto come storia di regione (v. toscana) che come storia di Firenze; la quale ormai conseguisce dignità di città capitale, sede di una corte e centro di vita regionale, finché il nuovo concetto di stato non sarà a sua volta superato da quello di nazione.
Firenze, nel mite ma pigro governo dei suoi estremi granduchi, Ferdinando III e Leopoldo II (1824-59), diviene quel centro di vita intellettuale e di moderate aspirazioni liberali che la collocano a un posto di prima luce nella storia della nazione risorgente. Unita al regno di Vittorio Emanuele II con i plebisciti del marzo 1860, Firenze per un quinquennio (1865-70) ne fu città capitale: era il patrimonio delle grandi memorie che conferiva alla città principe di Toscana codesto onore di costituire una tappa luminosa nel viaggio verso Roma della monarchia unificatrice.
Fonti - È ovvio segnalare le serie documentarie, conservate nell'Archivio di stato di Firenze, come fonti essenziali per la storia di questa città: basti accennare alle serie archivistiche più cospicue - le pergamene del ricchissimo archivio diplomatico; i Capitoli del comune, che oggi si direbbero atti internazionali, le serie degli atti consiliari; i carteggi delle supreme magistrature - per riservare più particolareggiata notizia alle fonti edite. Primeggia, per le origini del comune, la raccolta di P. Santini, Documenti dell'antica costituzione del Comune di Firenze, Firenze 1895 (X dei Documenti di storia italiana). Interessantissima è la pubblicazione degli atti consiliari, curata per tempi diversi e con diversi criterî da A. Gherardi (Le Consulte della Repubblica fiorentina dal 1280 al 1298, Firenze 1896-98) e da B. Barbadoro (Consigli della Repubblica fiorentina dal 1301 al 1315, Bologna 1921-30). Oltre queste edizioni sistematiche, dovizia di materiali è offerta dai 4 volumi di Forschungen zur Geschichte von Florenz (Berlino 1896-1908), mn cui R. Davidsohn accompagnò la preparazione della sua storia di Firenze. Raccolte preordinate ad accogliere edizioni integrali di documenti sono le Fonti di storia fiorentina della Scuola per bibliotecarî e archivisti presso la R. Università di Firenze e i citati Documenti di storia italiana a cura della R. Deputazione toscana di storia patria. La quale, come continuatrice dell'Archivio storico italiano, fondato nel 1842 da G. P. Vieusseux, dà larga parte ai documenti d'archivio anche in questo quasi secolare periodico, che nella sua prima serie (1842-1851) fu esclusivamente riservato alle fonti.
La cronistica fiorentina ha un posto di prim'ordine nella storiografia del sec. XIII: è un'ininterrotta fioritura dalla prima annalistica del Duecento alle storie elaborate del Machiavelli e del Guicciardini e alla storia erudita dell'Ammirato. Gli Annales florentini I e II, i Gesta Florentinorum, testo perduto ma ricomponibile per ipotesi (v. Schmeidler, ed. di Tolomeo di Lucca, in Mon. Germ. Hist., 1931), sono i primi tentativi di una cronaca municipale, che si afferma già nella discussa cronaca dei Malispini (v.) e sale a grande altezza nel Trecento con Giovanni Villani e con Dino Compagni. Quest'ultimo occupa un posto a parte con la Cronica delle cose occorrenti ne' tempi suoi, edita da I. Del Lungo (Firenze 1879), mentre il Villani (di cui è ancor desiderata l'edizione critica) compendia i precedenti annalisti ed è punto di partenza ai successivi cronisti del Trecento. Tra i continuatori dell'opera sua, accanto a Matteo e a Filippo Villani, eccelle Marchionne di Coppo Stefani (edito da N. Rodolico, in Rerum Italicarum Scriptores, XXX, 1, Città di Castello 1910). Ancora in pieno Trecento Donato Velluti inizia un nuovo genere storiografico - le Ricordanze domestiche -, che si afferma nel secolo successivo coi nomi di Alamanno Rinuccini, Giovanni di Paolo Morelli, Buonaccorso Pitti. Ma fiorisce contemporaneamente la storiografia umanistica, di cui sono splendidi esempî la Historia florentina di Leonardo Bruni, dalle origini al 1402, e la Historia florentina di Poggio Bracciolini, che narra le guerre della repubblica dal 1350 al 1455. L'attenzione di codesti umanisti era prevalentemente rivolta alla storia esterna, né si allontanarono da codesta concezione Goro Dati (Istoria di Firenze, dal 1380 al 1406) e Neri di Gino Capponi (Commentari dell'acquisto di Pisa), continuatori del filone volgare, ma con intendimenti d'arte, che sollevano le loro narrazioni al disopra della comune produzione cronistica. Integrò la lacuna della storiografia quattrecentesca il Machiavelli con le sue Istorie fiorentine, che in un primo tempo pensò di riprendere dal punto a cui le avevano portate il Bruni e il Poggio; ma una più attenta disamina di codeste opere lo persuase che essi avevano troppo trascurato gli avvenimenti interni di Firenze, onde egli allargò anche agli anni anteriori, fin dalle origini, il racconto dei rivolgimenti del comune e delle loro cause e conseguenze. Così il Machiavelli è anche l'instauratore d'una storiografia politica criticamente intesa. È noto come codesta tendenza critico-politica portasse il Machiavelli ad alterare talvolta la sostanza e l'ordine dei fatti; sicché, quanto a esattezza storica, egli rimane inferiore alla parallela opera giovanile del Guicciardini - la Storia fiorentina che forma il vol. III delle Opere inedite -, mentre la vince per efficacia drammatica, per larghezza di concetti, per intuizioni geniali. Gli ultimi accadimenti, nel trapasso dalla repubblica al principato, ebbero narratori che occupano un posto cospicuo nella letteratura storica del Cinquecento e che potrebbero classificarsi secondo le loro inclinazioni politiche, nutrite di spiriti repubblicani o favorevoli al nuovo ordine di cose instaurato in Toscana con l'avvento di Cosimo I. Appartengono alla prima tendenza, ma con diversità di atteggiamenti rispetto alle correnti democratiche od oligarchiche nell'estrema repubblica, Iacopo Nardi e Bernardo Segni; mentre in diverso grado aderiscono al principato Giov. Battista Adriani, Filippo de' Nerli, Benedetto Varchi. Ma la Storia fiorentina di quest'ultimo, benché scritta per mandato ufficiale, è notevole per accento d'imparzialità e rimane fra le più autorevoli opere storiche del Cinquecento. Chiude il secolo la Storia fiorentina di Scipione Ammirato, pubblicata nel 1600; e lo chiude onorevolmente, perché tutte le vicende della città, dalle origini ai nuovi tempi, sono comprese nel disegno di quella storia, con larga indagine nei documenti d'archivio e nelle vecchie cronache. Compiuto il ciclo della storiografia fiorentina, comincierà la moderna letteratura, segnalata nella bibliografia, che con metodo critico rinnovato interpreterà queste fonti narrative e documentarie.
Le istituzioni. - Lo sviluppo costituzionale di Firenze ha una particolare importanza non già come sviluppo tipico d'un comune italiano - sotto questo aspetto molto più istruttiva è la storia di Milano - ma per la ragione opposta di avere avuto caratteristiche tutte proprie, specialmente nelle ultime fasi della sua storia. Nell'epoca marchionale alla testa di Firenze vi era un praeses (sec. XI), che veniva nominato dal marchese di Toscana e già sotto questi praesides sembra che Firenze cominciasse ad avviarsi verso l'autogoverno attraverso l'amministrazione della giustizia e cominciasse ad organizzarsi in associazioni d'arte. I primi documenti sicuri, che attestano l'esistenza d'un comune di Firenze governato da proprî cittadini col nome di consoli, sono del 1138, ma non è improbabile che i consoli esistessero anche prima, perché la morte di Matilde (1115) abbandonò a sé stesse le città toscane. I consoli dovevano condurre la guerra, concludere trattati, amministrare la giustizia, governare la città; essi dovevano essere nobili ed erano scelti quasi sempre nelle stesse famiglie, duravano in carica un anno, erano in numero non ben definito, ma sembra che prevalesse il numero di dodici, due per ogni sestiere della città. Tra i consoli due, detti consules priores, scelti a sorte, avevano volta a volta l'effettivo potere esecutivo. All'amministrazione della giustizia sopraintendevano tre dei consoli, scelti a turno per un mese, più tardi due per due mesi, ma essi non facevano che pronunziare la sentenza; la parte tecnica dei giudizî era formulata e preparata da un iudex ordinarius pro Comune, assistito da tre procuratori. Il Consolato era coadiuvato nella sua azione legislativa da un consiglio speciale chiamato "di credenza" o senato di 100 boni homines eletti ogni anno, e da un parlamento, cui teoricamente avrebbe dovuto partecipare tutto il popolo, ma le cui adunanze col tempo si fecero sempre più rare. Consoli e boni homines si riunivano in case private o in chiese i primi, sempre in chiese i secondi. Il parlamento si teneva in piazza o in qualche chiesa molto ampia come S. Reparata.
La reazione di Federico Barbarossa alle autonomie comunali si affermò nel contado, ma non riuscì ad imporsi a Firenze, che riuscì anzi ad ottenere da Enrico VI la concessione d'una giurisdizione geograficamente ben determinata nel contado (1187). Ma questi confini furono ben presto infranti dalla forza espansiva fiorentina, e questa forza impose tali problemi all'interno e all'estero da rendere necessaria l'istituzione d'un magistrato unico al posto d'una magistratura collegiale, come quella dei consoli, e d'un magistrato straniero, che desse garenzia d'imparzialità nelle lotte tra nobili vecchi e nobili nuovi provenienti dalle conquiste nel contado, tra le famiglie oligarchiche dominanti e le altre tendenti al potere, tra grandi e popolo in continuo sviluppo. Fu così creato l'istituto del podestà (1207), che doveva essere nobile, guelfo e forestiero e dar conto del suo operato alla fine della sua carica, che durava un anno. I consoli sparvero, dopo una breve riapparizione nel 1211-12, dalla vita pubblica fiorentina. A fianco del podestà vi erano due consigli, uno speciale di 90, uno generale di 300 membri. Fu costruito un palazzo apposta per il podestà.
Questa seconda costituzione di Firenze durò fino al 1250, allorché il popolo raggiunse per la prima volta il potere dopo la vittoria sui ghibellini. Trentasei caporali, sei per sestiere, furono allora incaricati di fare la nuova costituzione. A fianco del podestà con i suoi due Consigli, sorse il Capitano del popolo con due altri consigli, uno speciale di 80 e uno generale di 300 membri. Anche il capitano doveva essere guelfo, nobile e forestiero. Si ebbe così una specie di diarchia e un debole punto di collegamento era rappresentato dagli Anziani, in numero di 12, due per ciascun sesto, assistiti da un consiglio di 36 boni homines.
La caduta del guelfismo a Montaperti (1260), segnò se non la fine, la decadenza del Primo Popolo del glorioso decennio: non più si sentì parlare del Capitano del popolo e i ghibellini tornarono vittoriosi. Disfatto alla sua volta il ghibellinismo, Firenze ritornò nel 1267 alla costituzione del 1250, ma, poiché dovette consentire a Carlo d'Angiò una ingerenza nell'elezione del podestà, per tenere in iscacco il podestà angioino, portò il Consiglio degli anziani da 36 a 100 membri e decretò che nulla si potesse fare senza il suo parere. Di modo che i provvedimenti legislativi seguivano questo procedimento: proposti dagli Anziani al loro consiglio di 100 boni homines, da questo passavano ai due consigli del Capitano del popolo e infine giungevano ai due consigli del podestà. Il trionfo di parte guelfa portò anche un'altra innovazione: l'istituto di parte guelfa, oltre il compito di amministrare i beni sequestrati ai vinti ebbe anche quello di vigilare a che nessun ghibellino s'insinuasse nelle cariche pubbliche.
Col 1282 le Arti maggiori raggiunsero il potere, e, pur sussistendo podestà e capitano del popolo, il vero governo centrale fu tenuto da sei priori, provenienti dalle Arti maggiori (calimala, cambio, lana, medici e speziali, seta, vaiai e pellicciai). Ma si mantenne sempre il criterio topico di avere un priore per sesto.
Il potere delle Arti si affermò e si assicurò giuridicamente da ogni reazione magnatizia con gli Ordinamenti di giustizia (18 gennaio 1293), temperati nel luglio 1295. Nessuno che non fosse iscritto alle Arti maggiori avrebbe potuto aspirare alle cariche pubbliche: quindi i magnati erano tagliati fuori dal governo. Ogni nobile doveva avere la malleveria d'un altro, che si obbligava a pagare per lui per ogni atto di prepotenza, sopruso, omicidio, offesa egli facesse a un popolano. Le pene ai nobili nel caso di danni da loro arrecati ai popolani erano superiori a quelle comuni. Un gonfaloniere di giustizia, eletto ogni due mesi dai Priori, dal Capitano del popolo, dalle Capitudini (i capi delle Arti) e da due savî per sesto, doveva vigilare all'esecuzione degli ordinamenti, assistito da una forza armata di 1000 popolani. Il gonfaloniere doveva essere ogni anno di un sesto diverso.
Unica roccaforte magnatizia restò la parte guelfa, ma anche questa il popolo invase nel 1323 allorché fu decretato che a fianco dei tre capitani nobili, che amministravano la parte, vi fossero tre popolani. Una breve riscossa magnatizia si ebbe dopo la cacciata del duca d'Atene alla quale i magnati contribuirono, ma il popolo contrattaccò, rimettendo in pieno vigore gli Ordinamenti di giustizia e preferendo piuttosto far partecipare al potere le quattordici Arti minori.
Il governo delle Arti quindi continuò, ma un tentativo di allargare le basi sociali del comune (tumulto dei Ciompi, 1378-82) fallì e non concluse ad altro che all'aggiunta di due altre Arti (farsettai e tintori) a quelle minori con gli stessi diritti. Con questo tumulto cessa il graduale allargamento delle basi costituzionali fiorentine: la storia costituzionale seguente è invece caratterizzata dalla lenta evoluzione della signoria medicea attraverso gli organi legali del comune. Le armi di cui i Medici si servirono furon quelle di mettere persone loro fidate nella Balìa e negli accoppiatori, incaricati l'una di rimaneggiare le istituzioni dello stato, gli altri di scrutinare i nomi degli eleggibili alle cariche pubbliche. Con la riforma del 1458 gli accoppiatori di fede medicea poterono perpetuarsi, perché si decretò che essi dovessero essere scelti sempre fra quelli che anteriormente avevano coperto tale ufficio; inoltre venne creato un consiglio di 100 uomini, eletti dagli accoppiatori, incaricati di approvare le leggi più importanti che si riferiscono ad statum, ad scrutinea, ad onera e le elezioni. Per tutti gli altri affari sono sempre competenti i Consigli del capitano e del podestà. Un'altra importante innovazione fu fatta da Lorenzo dei Medici nel 1471 con la creazione del Maggior Consiglio, composto di 40 membri, eletti da cinque accoppiatori e dalla Signoria, e di 50 cittadini per ogni sesto, designati dai 40. Al Maggior Consiglio fu dato l'incarico di scrutinare gli eleggibili e di dare valore esecutivo alle deliberazioni della Signoria. Ai Cento fu concesso di promulgare leggi, senza ulteriori approvazioni dei Consigli del capitano e del podestà. Infine nel 1480 un altro consiglio, il Consiglio dei settanta, venne a completare la trasformazione medicea dello stato. I Settanta eleggono la Signoria; nel suo seno si eleggono gli Otto di Pratica, che attendono alla difesa del dominio e alla politica estera e gli Otto procuratori, che amministrano il debito pubblico ed hanno in mano le finanze. Il Consiglio dei Settanta fu in pratica riconfermato in carica ogni cinque anni; e ad esso si addossarono gli affari più importanti, riguardanti le elezioni, le gabelle, il Monte. I Cento sanzionavano ciò che i Settanta esaminavano e approvavano per primi. Il Consiglio maggiore, che aveva avuto l'incarico di creare quello dei Settanta, sparisce. Ai Consigli del podestà e del capitano restano le petizioni dei privati, le concessioni di grazia e di privilegi, i diritti di cittadinanza, le corporazioni, le esenzioni e i diritti delle comunità del dominio, l'amministrazione del contado. Caduti i Medici, caddero le assemblee dei Cento e dei Settanta, che erano state il fulcro del loro dominio, e riacquistarono più larghe competenze i Consigli del capitano e del podestà (1494). Venti accoppiatori furono incaricati di eleggere la Signoria e il Gonfaloniere e con la Signoria di formare, dopo lo squittinio, i Consigli del podestà e del capitano. Risorse il Consiglio maggiore, ma su basi più larghe, fino a comprendere tutti coloro che avessero diritti politici e avessero 29 anni, di modo che comprendeva da 600 a 1000 membri. A questo Consiglio si finì col dare le maggiori attribuzioni: le elezioni agli uffici, la sanzione delle leggi più importanti, gli squittinî, ecc.
Per rafforzare il potere esecutivo venne creato il gonfalonierato a vita nel 1502, ma col ritorno dei Medici nel 1512 questa istituzione sparì. Una balìa, come al solito, riformò l'organismo del govemo; e stavolta durò con poteri eccezionali fino alla nuova cacciata dei Medici nel 1527; essa nominava gli accoppiatori, provvedeva alla difesa dello stato, cioè alla conservazione della propria fazione, ecc. Furono ripristinati i Consigli dei Settanta e dei Cento presso a poco con le stesse attribuzioni di prima, e i Consigli del podestà e del popolo ritornarono alle funzioni limitate che già avevano assolte durante il primo periodo mediceo.
Col tumulto del 1527 si tornò al Consiglio maggiore, formato di tutti i beneficiati di età non minore dei 24 anni. Esso eleggeva il Consiglio degli Ottanta, al quale spettava di votare le imposte prima che passassero al Consiglio maggiore stesso, e sceglieva inoltre i Dieci di balìa e gli ambasciatori e commissarî della repubblica. Il Gonfaloniere riacquistò tutto il suo prestigio ed era eletto dal Consiglio maggiore, ma non più a vita: dapprima fu riconfermabile, poi dal 1529 si vietò la riconferma.
Questa nuova costituzione durò tre anni. Con la restaurazione dei Medici gli organi costituzionali si avviano ad assumere un aspetto nuovo e la storia fiorentina si dissolve nella storia della Toscana (v.).
Arti figurative.
Architettura. - Quando non si assegni al sec. V, come alcuni vogliono, ma al sec. XI il Battistero di S. Giovanni, i più antichi monumenti architettonici di Firenze pervenutici sono assai tardi, almeno in confronto con altre città. Del periodo romano rimangono soltanto, nel sottosuolo, le fondazioni del campidoglio, del pretorio, del teatro, delle terme; e qualche frammento decorativo al Museo archeologico. Di quelli neo-cristiano, bizantino, longobardo e carolingio ci restano soltanto i titoli di chiese come S. Lorenzo e Santa Felicita, S. Apollinare e S. Rofilo, S. Michele Bertelde e S. Pietro in ciel d'oro, S. Martino e S. Remigio, poi sostituite da altre che spesso ne conservarono il nome. Nel secolo XI Firenze partecipa originalmente al magnifico fiorire dell'architettura romanica, anche lasciando a parte il Battistero, con S. Miniato al Monte, costruzione ispirata all'antichità classica, quanto le chiese che allora si rinnovavano in Roma, anche per l'uso delle colonne (come in Ss. Apostoli e in quanto rimane di S. Piero Scheraggio); caratteristica schiettamente fiorentina, in questa architettura, è la decorazione marmorea a disegni dicromico-geometrici, come poi nelle facciate dugentesche di S. Salvatore al Vescovo e della Badia fiesolana, e nel portale di S. Stefano; mentre S. Iacopo sopr'Arno ha sulla facciata un porticato a colonne trasferitovi da S. Donato a Scopeto.
Il Battistero fu consacrato nel 1059; nel sec. XIII mutò la primitiva abside circolare nell'attuale tribuna rettangolare ed ebbe l'attico e la lanterna.
S. Miniato al Monte, rinnovato dal 1018, fu consacrato nel 1059, compiuto ai primi del sec. XIII. La facciata è un po' frammentaria perché iniziata alla fine del sec. XI e ultimata al principio del XIII; ma offre schietti caratteri classicheggianti, come, e più, l'interno.
Certi caratteri dell'architettura romanica fiorentina - spirito classico e dicromismo geometrico - rimasero anche quando le forme della cosiddetta architettura gotica - giunte verso la metà del secolo XIII alle porte della città, coi cisterciensi ricostruttori della Badia di S. Salvatore a Settimo - s'imposero più decisamente, fino dalla seconda metà del Duecento, nella costruzione di S. Maria Novella e di S. Croce, di Santa Trinita e di S. Remigio, di S. Maria Maggiore e di S. Carlo, e del torrione di Orsammichele; ma con maggiori resistenze e permanenze romaniche in quella del duomo; mentre tra l'altro al pilone a fascio, di derivazione romanica (S. Maria Novella) si andava sostituendo genialmente il semplice pilastro quadrato (S. Maria Maggiore e Orsammichele) o ottagonale (S. Croce), che più ricordavano la colonna; e mentre anche, fino al Rinascimento, l'arco a pieno centro (romanico e classico al tempo stesso) contrastava - nella struttura - il diffondersi dell'arco acuto, anche se lo stile ogivale predominava nella decorazione architettonica.
La città, tra lo scorcio del secolo XIII e i primi del XIV, si arricchisce anche di edifici civili, mentre si alzano le nuove mura, quelle del terzo cerchio, ancora ricordate dalle massicce porte lungo i viali, e, oltr'Arno, anche da qualche tratto di cortina. Sorgono così il Palazzo del Podestà, il Palazzo della Signoria, la Loggia dei Signori, che apre sulla piazza tre grandi arcate a tutto sesto, come, di contro al Battistero, la così detta Loggetta del Bigallo, fatta murare alla metà del secolo dalla Compagnia della Misericordia. E si costruiscono palazzi signorili come quelli dei Davanzati, dei Ferroni, dei Capponi, dei Bardi, e gli altri numerosi, ruinati pel malaugurato rifacimento del centro cittadino, e nei quali una rude severità quasi escludeva ogni gotica leggiadria.
Tra gli architetti, un solo nome di prima grandezza: quello di Arnolfo di Cambio, cui si può attribuire con sicurezza soltanto l'inizio della costruzione del duomo (non Palazzo vecchio, S. Croce, S. Maria Maggiore), sostanzialmente modificata nel proseguirla, ma con qualche fedeltà al concetto ispiratore. Gli succedono architetti che ormai accolgono fiorite forme dell'architettura ogivale: Giotto pittore, che, dandone probabilmente il disegno, inizia la meraviglia del campanile del duomo; Francesco Talenti, continuatore del duomo e del campanile e forse iniziatore di Orsammichele; Benci di Cione costruttore (insieme con Neri di Fioravante, di cui è probabilmente il Ponte Vecchio) della chiesa di S. Carlo, del cortile, con la scala e la loggia, e del salone del Palazzo del Podestà, e (con Simone Talenti) della Loggia della Signoria; e pur continuatore (col Fioravanti) di Orsammichele, terminato da Simone Talenti.
Santa Maria Novella, iniziata nel 1278, in luogo di una chiesetta omonima del sec. XI, dai domenicani Fra Sisto e Fra Ristoro (ma la tradizione è oggi discussa), fu compiuta circa il 1360 da Iacopo Talenti da Nipozzano, autore anche del campanile. La facciata, iniziata circa il 1300, offre una parte inferiore romanico-gotica con paramento dicromico, portali laterali ed "avelli" a sesto acuto; e una superiore, ripresa, insieme col portale mediano, da Giovanni di Bertino (1456-70) sui disegni di L. B. Alberti. L'interno, a tre navate divise da pilastri polistili che sostengono archi e vòlte ogivali, ha schietto carattere d'italianità; così, all'esterno, gli archi rampanti sono sostituiti da speroni nascosti fra il tetto e le vòlte delle navi minori.
Santa Croce, già chiesetta francescana costruita nel 1228, fu presa a ricostruire più ampia nella seconda metà del sec. XIII, continuata nella seconda metà del XIV, consacrata solo nel 1443. Michelozzo vi aggiunse il noviziato (1434); il Brunelleschi costruì nel primo chiostro la cappella Pazzi (1430, ma continuata poi fino al 1470); un brunelleschiano aggiunse il secondo chiostro (terminato nel 1453). La mediocre facciata è moderna (1857-63) su disegno di N. Matas; l'interno, a tre navate divise da svelti pilastri ottagonali che sorreggono ardite arcate ogivali; il campanile è moderno (1865) su disegno di G. Baccani.
Santa Trinita, chiesa dei Vallombrosani, fu ricostruita in forme ogivali nella seconda metà del sec. XIII, ampliata nel XIV. Facciata barocca di B. Buontalenti (1593); interno a tre navate, divise da grossi pilastri sorreggenti slanciati archi a sesto acuto e vòlte a crociera ogivale.
Orsammichele (San Michele in orto), iniziato nel 1337 come loggia per il mercato del grano probabilmente da F. Talenti, cui successero Neri di Fioravante e Benci di Cione, e terminato nel 1404 a guisa di palazzo. La loggia del piano terreno fu chiusa (1366-1380) da Simone Talenti con trifore elegantissime.
Duomo (S. Reparata; dal 1412 S. Maria del Fiore), iniziato da Arnolfo nel 1296 nel luogo dell'antica chiesa di S. Reparata, interrotto alla morte di questi; ripreso nel 1331 e poi nel 1357, essendo capomastro Francesco Talenti con Lapo Ghini; coperto dalle vòlte nel 1380, mentre le tribune della croce venivano poi innalzate (1380-1421) fino al tamburo della cupola, costruita più tardi (1420-1434) dal Brunelleschi (ma la lanterna è del 1461), consacrato nel 1436. Il campanile, ideato e iniziato da Giotto (1334-1337), continuato da Andrea da Pontedera, fu compiuto (circa 1360) da F. Talenti. La facciata, cominciata da Arnolfo, poi condotta ad un terzo dell'altezza e decorata di statue fino verso il 1420, fu demolita nel 1588; l'arch. Emilio De Fabris ideò e costruì l'attuale (1866-1887).
Palazzo del Podestà (o del Bargello), fu cominciato nel 1255. Neri di Fioravante e Benci di Cione (1345-1367) vi costruirono la scala con la loggia del cortile e il salone. Manomesso a cominciare dal sec. XVI, fu restaurato dall'arch. F. Mazzei (1857-1865).
Palazzo della Signoria (o Palazzo Vecchio) costruito nel nucleo principale (merlato) tra il 1298 e il 1314; aumentato nel 1343, 1495 (salone dei Cinquecento) e 1511; ingrandito notevolmente da Battista del Tasso e Bernardo Buontalenti (1549-98) rinnovato nel primo cortile da Michelozzo (1454); riadattato abilmente e decorato all'interno da G. Vasari (1554-1573).
Le accennate permanenze romaniche ed i contrastati influssi ogivali aiutarono l'opera innovatrice di F. Brunelleschi, iniziatore dell'architettura del Rinascimento. Fino dal principio del Quattrocento il Brunelleschi cambiò il gusto architettonico dei Fiorentini, liberandoli da ogni predilezione goticheggiante, e dando alla città un suo carattere, specialmente con la cupola famosa. Ispirandosi alle forme del Battistero - che anch'egli riteneva romano - studiando e misurando a Roma le rovine affioranti dal suolo, il Brunelleschi creò uno stile tutto sincerità ed armonia, classico e nuovo ad un tempo, e che ebbe fortuna grandissima in Toscana, ma specialmente a Firenze, fin quasi alla metà del Cinquecento. Cominciò il Brunelleschi col salone del nuovo palazzo di Parte Guelfa, con la sagrestia vecchia di S. Lorenzo, e con l'ospedale degl'Innocenti (proseguito da Francesco della Luna), e continuò con la cappella Pazzi nel primo chiostro di S. Croce, mentre attendeva alla cupola del duomo; per iniziare finalmente il tempio degli Scolari (o S. Maria degli Angioli: "il Castellaccio") rimasta interrotta, e che con la sua pianta centrale sembra volere anticipare le creazioni bramantesche. Intanto altri terminavano sui suoi piani la basilica di S. Lorenzo; ma solo sullo scorcio del secolo si compiva, pure sui suoi disegni, la chiesa di S. Spirito.
Il ritorno agli spiriti e alle forme dell'architettura classica la mirabile misura - tutta fiorentina - e specialmente la severa armonia dei motivi architettonici, in pietra serena, sullo scialbo delle pareti, affascinarono gli architetti contemporanei e successori: da Michelozzo Michelozzi (convento di S. Marco e noviziato di Santa Croce) a Giuliano da Sangallo (S. Maria Maddalena dei Pazzi e sagrestia e vestibolo di S. Spirito) ed al Cronaca (S. Salvatore al Monte), per quanto in questi due già preludano al Cinquecento maggior vigoria di sagome ed una qualche sontuosità decorativa. Perfino Michelangelo non saprà discostarsene nella sagrestia nuova e nella biblioteca di S. Lorenzo.
Anche se il Brunelleschi diede soltanto i piani del primitivo palazzo Pitti, e quello Pazzi-Quaratesi si vuol oggi assegnare a un seguace (Giuliano da Maiano) a lui risalgono effettivamente i tipi del palazzo fiorentino del Rinascimento: il tipo munito (palazzo Pitti), rude, a bugnato (v.), e dove continua la tradizione di quello massiccio e disadorno del Due e del Trecento; e il tipo che diremmo fiorito (palazzo Pazzi-Quaratesi) dove la membratura e la decorazione architettonica risaltano sulla muraglia a filaretto o intonacata. Poiché al primo tipo si attengono fedelmente Michelozzo nel palazzo Medici e Benedetto da Maiano in quello Strozzi; e dall'uno e dall'altro traggono spiriti e forme Giuliano da Sangallo nel palazzo Gondi a S. Firenze e il Cronaca (più famoso per il cornicione e il cortile di palazzo Strozzi) in quello Guadagni a S. Spirito.
Più si distacca dal Brunelleschi Leon Battista Alberti, precursore degli architetti del Cinquecento, e specialmente di Bramante, nel palazzo Rucellai (costruitogli da Bernardo Rossellino, con la loggia antistante e la cappellina domestica a S. Pancrazio, romanica e brunelleschiana ad un tempo) ove crea quel motivo dei pilastri spartenti la facciata, che avrà fortuna per più di un secolo. E l'Alberti è pure un novatore, anche in confronto del Brunelleschi, nel riadattamento e compimento del prospetto di S. Maria Novella, con le colonne e le trabeazioni di classica vigoria che lo chiudono, e le volute laterali che lo completano, e che saranno imitate fino al Settecento; e nell'idea del coro dell'Annunziata, concepito come una rotonda con cupola emisferica, alla foggia dei romani antichi.
San Lorenzo, vetusta basilica consacrata da S. Ambrogio (363), restaurata in forme romaniche (sec. XI), distrutta da un incendio, ricostruita dal Brunelleschi (di lui la sagrestia vecchia e parte della crociera, 1421-46), ma proseguita e terminata con qualche arbitrio da Antonio Manetti (1447-60). Michelangelo aggiunse la facciata interna e la sagrestia nuova (1520-1533), sistemata dal Vasari dopo il 1550.
Santo Spirito, sorto in luogo di una chiesetta del sec. XIII (distrutta da un incendio nel 1371), sui piani del Brunelleschi (1436), ma forse iniziata, certo proseguita più tardi, non senza arbitrio, da Antonio Manetti, Giovanni da Gaiole, e Salvi d'Andrea. La sagrestia (1489-92) col vestibolo (1493) del Cronaca, sui piani di Giuliano da Sangallo; il campanile di Baccio d'Agnolo (circa 1506).
Ss. Annunziata, eretta quale oratorio nel 1250, ricostruita, insieme con gli annessi, da Michelozzo alla metà del sec. XV, con l'aiuto di Pagno Portigiani e di A. Manetti (per la cupola, del 1470-77, diede suggerimenti L. B. Alberti), compiuta nel 1481, ma rimaneggiata sensibilmente nei secoli successivi. Il portico esterno di Antonio da Sangallo (principio del sec. XVI) e Giov. Caccini (1599-1601).
Palazzo Pitti, iniziato per Luca Pitti nel 1458, forse, da Luca Fancelli, ma su piani del Brunelleschi, fu interrotto per la disgrazia politica del Pitti (1466); acquistato da Eleonora di Toledo, moglie di Cosimo I (1549), fu ampliato per lei da B. Ammannati (1558-1570), cui si deve il grandioso cortile; allargato nella facciata con tre finestre per lato da Giulio Parigi (circa 1620), prolungato nelle ali da Alfonso Parigi (circa 1640), fu completato con gli sporgenti rondò sui piani di G. Ruggeri (1764 e 1783-1819); e fu aumentato del quartiere della Meridiana (tra la fine del '700 e il principio dell''800) dagli arch. G. M. Paoletti e P. Poccianti.
Palazzo Medici Riccardi, costruito per Cosimo il Vecchio da Michelozzo (1444-1460), modificato al principio del sec. XVI, fu venduto (1659) da Ferdinando II ai marchesi Riccardi, che (circa il 1670-1720) lo ingrandirono dalla parte di via dei Ginori e ampliarono la facciata principale, per la larghezza di sette finestre, ripetendo il modello michelozziano.
Col Cinquecento la tradizione brunelleschiana accenna a interrompersi. Baccio d'Agnolo si ispira al Cronaca (palazzo Guadagni) nel palazzo Taddei in via de' Ginori, creando un tipo di costruzione signorile, che avrà fortuna per tutto il secolo; ma più tardi, in quello Bartolini a S. Trinita, scava nicchie e fa aggettare cornici e membrature con vigoria cinquecentesca, come nell'incompiuta torre di S. Miniato al Monte, mentre nel campanile di S. Spirito si era attenuto ancora alla semplicità del Brunelleschi. E a metà del secolo Giov. Battista del Tasso chiude tra robusti pilastri cinquecentescni gli archi brunelleschiani delle logge di Mercato Nuovo.
Ma già Raffaello ha dato i disegni per il palazzo Pandolfini di via S. Gallo, ove appaiono nuovi spiriti e nuove forme, non più fiorentine; e Michelangelo ha architettato la sagrestia nuova e la biblioteca di S. Lorenzo, fedele ancora al Brunelleschi nel giuoco armonioso della pietra serena e dello scialbo, ma più ardito nel muovere originalmente e robustamente gli elementi architettonici. E proprio a metà del secolo Mariano Folfi, col palazzo Uguccioni, offre in piazza della Signoria un bell'esempio di costruzione romana, ispirata a Bramante e a Raffaello.
Ormai i rapporti con Roma sono tali, che anche i migliori architetti toscani di questo secolo lavorano ugualmente sulle rive del Tevere e sulle sponde dell'Arno: Giorgio Vasari, che almeno in architettura tempera il suo devoto michelangiolismo con ricordi del Cronaca e di Giuliano da Sangallo, crea genialmente la fabbrica degli Uffizî, e non meno genialmente riatta e decora all'interno tutto quanto Palazzo Vecchio. Bartolommeo Ammannati, ispirandosi a Michelangelo e al Vignola, costruisce il cortile di palazzo Pitti, di brunelleschiana, ma più di romana severità; mentre edifica palazzetti signorili come quello Giugni in via degli Alfani, e getta sull'Arno la meraviglia del Ponte a S. Trinita; ma nella facciata di S. Giovannino già accenna al barocco. Bernardo Buontalenti, accentua questo nuovo gusto in quella di S. Trinita sbizzarrendosi specialmente nella decorazione architettonica, come aveva già fatto nel Casino di S. Marco, ancora severo nelle masse. E specialmente Giov. Antonio Dosio, movendo da Michelangelo, preannunzia il vicino Seicento nelle cappelle Gaddi a S. Maria Novella, e Niccolini a S. Croce, mentre nella palazzina Giacomini-Larderell in via Tornabuoni (che gli è attribuita) si ispira, oltre che a Baccio d'Agnolo, a Raffaello.
Ma la misura - tutta fiorentina - non si perde neppure nei secoli XVII e XVIII. Tende se mai a una certa esuberanza Matteo Nigetti nelle facciate di S. Gaetano e di Ognissanti, e più nell'interno della Cappella Medicea a S. Lorenzo, d'una ricchezza pesante; mentre Pier Francesco Silvani dà un saggio di barocco sfoggiato, romano, nella cappella Corsini al Carmine. Ed al gusto barocco indulge ancora, al principio del Settecento, Ferdinando Ruggeri nella facciata di S. Firenze, e più, verso la fine, il riminese Gioacchino Pronti in quella meschina di S. Marco; mentre i Medici hanno fatto adornare sontuosamente la Galleria di palazzo Pitti da Pietro da Cortona e Ciro Ferri, e più tardi i Riccardi trasformano il palazzo mediceo con magnificenza inusitata. Ma nei prospetti dei palazzi signorili, gli architetti fiorentini si mantengono fedeli alla schietta e sobria eleganza tradizionale, da Gherardo Silvani, nel palazzo Marucelli-Fenzi in via S. Gallo e nei varî palazzetti di via Cavour, a Ferdinando Ruggeri in quelli da lui costruiti alla metà del Settecento, a Zanobi del Rosso che, sullo scorcio del secolo, nel prospetto centrale di S. Firenze torna alle schiette forme cinquecentesche, come fa allora Bernardo Fallani nel Casino della Livia in piazza S. Marco. Ed il prospetto del palazzo Pitti è stato ampliato da Giulio e da Alfonso Parigi (circa 1620-1640) con assoluta fedeltà al disegno brunelleschiano; e quello del palazzo Medici Riccardi quasi raddoppiato (circa 1700-1715) forse da G. B. Foggini, ripetendo il modello di Michelozzo. Soltanto nel palazzo Corsini Antonio Ferri e P. F. Silvani importarono, a metà del Seicento, sulle rive dell'Arno la fastosa grandiosità delle costruzioni principesche romane.
Ma sullo scorcio del Settecento Gaspare Maria Paoletti armonizzò felicemente le tendenze neoclassiche con la tradizione locale, tanto nel cortile del Poggio Imperiale quanto nel salone da ballo di palazzo Pitti e nella sala della Niobe della Galleria degli Uffizî; seguito da Giuseppe Cacialli e da Pasquale Poccianti, cui si debbono il freddo prospetto dell'Imperiale e più felici adattamenti in palazzo Pitti.
Tornò presto però a predominare la tradizione locale, cui si ispirarono i più degli architetti dell'Ottocento, da Gaetano Baccani nel palazzo Borghese in via Ghibellina a Giuseppe Poggi, che, oltre il vasto e geniale piano della nuova Firenze - col cerchio dei viali di circonvallazione e la mezza ghirlanda del viale dei Colli - diede perfetti saggi di costruzione civile nella Loggia del Piazzale Michelangelo e nella Villa Favard.
Troppo obbligato al Brunelleschi fu invece Luigi del Moro anche nel nuovo scalone della Galleria Palatina; mentre Emilio De Fabris, nell'ideare la macchinosa facciata di S. Maria del Fiore, s'era attenuto eccessivamente a una presunta fedeltà allo stile ogivale, vittima egli pure dello storicismo architettonico allora imperante.
Scultura. - Anche la scultura concorse a formare il carattere della città; almeno finché fu legata intimamente all'architettura ed ebbe carattere decorativo (distrutta facciata del duomo, campanile, Orsammichele, loggia della Signoria); e più tardi con qualche monumento isolato (statue equestri dei Medici, fontane, ecc.). Ma una vera e propria scuola fiorentina si formò assai tardi. Nel periodo romanico furono piuttosto gl'intagliatori e gl'intarsiatori del marmo quelli che, con reminiscenze classiche e bizantine, crearono uno stile facilmente riconoscibile; mentre dallo scorcio del sec. XIII anche in Firenze predominava la grande scuola pisana, con Arnolfo già aiuto di Nicola, ma che all'arte di lui aggiunse una grandiosità e monumentalità personalissime nelle statue sue (e di scolari) per la facciata del duomo. Ed il predominio continua con Giovanni Pisano, Tino di Camaino e Nino Pisano, tutti operanti a Firenze nella prima metà del sec. XIV; e continua pur con Andrea da Pontedera, detto anche Pisano, che però tanto nei bassorilievi marmorei del Campanile (in parte eseguendo disegni dello stesso Giotto) quanto nella bronzea porta del Battistero, introduce nello stile pisano, tutto ormai affollamento e movimento goticizzanti, una calma e una chiarezza schiettamente fiorentine, quasi classicheggianti, e di evidente derivazione giottesca. E in questa via lo segue Andrea Orcagna, che introduce nella scultura di bassorilievo il gusto pittorico, dando un capolavoro nel celebre tabernacolo di Orsammichele.
Poi, coi seguaci dei due maestri, che continuano specialmente la decorazione della facciata, delle porte e del campanile del duomo, la scuola fiorentina decade; appena i decoratori delle porte dei Canonici e della "Mandorla" (nella cattedrale) accennano a un rinnovamento, con un timido ritorno all'arte classica.
Ma col Quattrocento anche Firenze vede sorgere una scuola, che s'imporrà presto a tutta l'Italia. Se però il Brunelleschi e il Ghiberti, partecipando nel 1402 al famoso concorso per la bronzea porta del Battistero, iniziano una nuova epoca, è Donatello il rinnovatore della scultura fiorentina. Poiché il Brunelleschi e il Ghiberti, in quei primi saggi, sono ancora legati almeno alle forme dell'arte gotica, mentre quegli abbandona quasi subito la scultura, pur dando un modello nobilissimo nel Crocifisso di S. Maria Novella; questi, il Ghiberti, solo con la seconda porta del Battistero, terminata alla metà del secolo, offre la novità del bassorilievo pittorico, portato quasi alle estreme possibilità nell'urna di S. Zanobi (nel duomo). Donatello, invece, dopo le tragiche statue del campanile, si libera di ogni gotica rimanenza; crea il S. Giorgio di Orsammichele, lieto della sua forza, ed il S. Lodovico di S. Croce, beato della sua pace; dà nel David di bronzo (al Bargello) il primo nudo dopo l'antichità classica; e anima di uno spirito dionisiaco i putti tripudianti della cantoria dell'Opera del duomo. Solo dopo Padova, negli amboni di S. Lorenzo, sembra rifarsi a una specie di neogoticismo romantico, tutto tormento e passione.
La scultura, e non soltanto fiorentina, del Quattrocento, deriva quasi totalmente da Donatello. Ma i suoi seguaci diretti non lo seguirono - anche per questione di tempo - in ogni mutamento. I vecchi, più anziani di lui, come Niccolò Lamberti, Bernardo Ciuffagni, il Rosso e Nanni di Banco, il migliore, nelle statue per la facciata e per il campanile del duomo, e per Orsammichele, l'imitano alla meglio nelle forme ancora un po' goticheggianti; Michelozzo lo segue nella seconda maniera, classicheggiante; Bertoldo nell'ultima, quando non ripeta freddamente modelli antichi.
Intanto Luca della Robbia deriva da Donatello e dal Ghiberti uno stile suo, tutto umanità e gentilezza, e chiude le sue liete Madonne entro gioiose ghirlande di frutti e fiori. E la bottega, per opera di Andrea, nipote di lui, e di Giovanni d'Andrea, diffonde presto, per tutta la Toscana ed oltre, brillanti terrecotte invetriate, ricercatissime per gran parte del Cinquecento.
Dal Ghiberti, da Luca, ma particolarmente da Donatello derivano tutti quanti gli scultori fiorentini, operanti nella seconda metà del Quattrocento, pur subendo influssi dalla pittura contemporanea. Anche i maggiori sono facili e arguti riassuntori e continuatori degli spiriti e delle forme di quei grandi maestri; ma ciascuno con una sua schietta personalità: da Bernardo Rossellino, che nella tomba di Leonardo Bruni dà forma definitiva al tipo sepolcrale imitato poi per più di un secolo almeno per mezza Italia; e da Antonio Rossellino, cui oggi si assegnano molti busti già attribuiti a Donatello, tanto gli è vicino; a Desiderio da Settignano, scolaro e aiuto di Donatello, ma più sottile e spiritoso del maestro; a Mino da Fiesole, col quale la sottigliezza di Desiderio è portata fin quasi all'eccesso.
Ma Benedetto da Maiano è invece pieno e sodo nelle statuette e nei bassorilievi del pulpito di S. Croce; mentre gli orafi, e statuarî al tempo stesso, come il Verrocchio, e più Antonio del Pollaiolo, rivelano una qualche tormentata nervosità.
Sullo scorcio del Quattrocento sembra trionfare l'imitazione dei modelli classici: dopo i saggi di Bertoldo, vengono quelli più copiosi di Giuliano da Sangallo e di Benedetto da Rovezzano, e quelli di Michelangelo giovanissimo, dal bassorilievo dei Lapiti, alla statua di Bacco, che fu scambiata per antica. Ma per il Buonarroti questa è soltanto un'esperienza; venticinquenne crea il David, l'eroe giovanetto, calmo e sorridente dopo la dura vittoria. Un attimo di tormento e di agitazione anima poi l'abbozzo del S. Matteo; ma nelle figure delle tombe medicee a S. Lorenzo subentra una calma, tra pensierosa e serena, come di un altro mondo, e che ritroviamo nel gruppo della Vittoria in Palazzo Vecchio e perfino in quello della Pietà in S. Maria del Fiore.
Quelli che si affannano per imitarlo almeno, come Raffaello da Montelupo e Giovannangelo Montorsoli, sono quasi perduti. Per fortuna, alla michelangiolesca si oppongono due tendenze: la sansovinesca e la classica pura. La prima, feconda, muove da Andrea Sansovino, che riesce ad armonizzare la sottigliezza fiorentina con la grazia antica, ed ha tra i seguaci Iacopo Sansovino, il Tribolo, e il Giambologna, anche se questi indulga alcuna volta al michelangiolismo od al classicismo. La seconda, sterile, deriva da Baccio Bandinelli che, tornando all'accademica imitazione degli antichi, s'illudeva di poter superare il suo grande competitore, Michelangelo; ma vede invece staccarsi da lui, e seguir l'altro, allievi suoi, quali Vincenzo de' Rossi e Bartolommeo Ammannati. Tra costoro, s'intromette spavaldamente Benvenuto Cellini, tutto eleganza e grazia e signorilità; e dà al Perseo la preziosità di un gioiello e la misura di un monumento.
Poi comincia per la scuola fiorentina la decadenza, anche se buoni maestri sono i giambologneschi Pietro Francavilla e Pietro Tacca; mentre Giov. Battista Caccini accenna al barocco. Ma questo, come in architettura, non ha gran fortuna. Appena s'accosta al Bernini Ferdinando Tacca; e più all'Algardi, Giov. Battista Foggini.
Sullo scorcio del Settecento Innocenzo Spinazzi sembra anticipare Canova, che domina poi, coi suoi modesti imitatori, per oltre un trentennio; finché Lorenzo Bartolini ritorna decisamente agli spiriti e alle forme del Rinascimento, seguito parzialmente dagli eclettici, quali Aristodemo Costoli, Pio Fedi, Vincenzo Consani. Ma nella seconda metà dell'Ottocento, al verismo accademico di Giovanni Duprè, si contrappone il verismo spontaneo di Adriano Cecioni, per quanto poi un certo accademismo rimanga anche nelle opere dei migliori allievi o seguaci del Duprè, quali Augusto Rivalta, Raffaello Romanelli ed Emilio Gallori.
Col Novecento la scuola fiorentina, dopo le esperienze fatte nei primi anni del secolo, sembra ora voler riprendere e continuare con efficacia la grande tradizione paesana.
Pittura. - Anche riguardo alla pittura, la formazione della scuola fiorentina appare in ritardo in confronto della scuola pisana, di quella lucchese e di quella senese, che già fino dal principio del sec. XIII vantano artisti di molta rinomanza.
Ma nell'ultimo trentennio, anche la decorazione musiva della cupola del Battistero, cui da prima attendono mosaicisti romani e veneziani, contribuisce allo sviluppo della scuola locale; mentre si va formando Cimabue, riassuntore degli spiriti e delle forme della pittura romanica regionale, ancora bizantina ma già con accenti di toscanità.
Se pure Cimabue raggiunge con l'arte sua una grandiosità monumentale, una vigorosa plasticità e una drammaticità solenne (Madonna degli Uffizî e mosaici del Battistero) ignote ai suoi precursori ed emuli, egli chiude un'epoca, non ne inizia una nuova. Anche i contemporanei, a cominciare da Dante, videro invece un innovatore in Giotto, che facendo sue le conquiste di Cimabue e del romano Cavallini guardò anche alla vita, e si formò uno stile, ove lo spirito è fatto di umanità e di nobiltà, e la forma è sintetizzata negli elementi essenziali. Così nella Madonna degli Uffizî, Giotto rappresentò una madre dal corpo fiorente; ed anche nelle cappelle di Santa Croce attuò il suo nuovo modo di narrazione agiografica: semplicità di schema, chiarezza di racconto, aderenza alla vita, solida costruzione di figure, e composta espressione di sentimenti anche se profonda e acuta.
Da Giotto mosse una numerosa schiera di pittori, i quali operarono per gran parte d'Italia. Ma più vicini a lui furono naturalmente alcuni suoi scolari ed aiuti fiorentini, quali l'enigmatico Giottino, da identificare con Maso di Banco (autore degli affreschi di S. Silvestro in S. Croce); mentre un altro suo creato, Taddeo Gaddi, almeno nelle pitture della cappella Baroncelli in S. Croce, comincia a indulgere alla piacevolezza della scuola senese. D'altra parte i rapporti con questa furono quasi continui: nel 1285 Duccio già operava a Firenze - è controverso se appunto sia sua la Madonna Rucellai di S. Maria Novella - e tra il 1320 e il 1340 vi lavorarono a lungo Ambrogio e Pietro Lorenzetti.
Non fa meraviglia perciò che subito Bernardo Daddi (affreschi di S. Lorenzo e di S. Stefano in S. Croce) e Andrea, con Nardo Orcagna (pala d'altare e affreschi della cappella Strozzi in S. M. Novella) subissero influssi di questa scuola fiorentissima; mentre Giovanni da Milano conservava schiette alcune caratteristiche della scuola lombarda (affreschi della cappella Rinuccini in S. Croce).
Ma l'eclettismo fu anche più evidente nei piacevoli narratori e decoratori della seconda metà del sec. XIV: Andrea da Firenze (Cappellone degli Spagnoli), Agnolo Gaddi (coro di S. Croce) e Spinello Aretino (sagrestia di S. Miniato al Monte).
Col Quattrocento, anche per la pittura il predominio passa a Firenze. Non subito però. Nei primi decennî gli schemi giottesco-senesi si vanno esaurendo e stancando nelle botteghe dei Gerini e dei Bicci, ove giungono anche influssi di Lorenzo Monaco, squisito rappresentante del gotico fiorito. Ma col terzo decennio, dopo che Gentile da Fabriano (Adorazione dei Magi agli Uffizî, dell'anno 1423) e Masolino da Panicale (affreschi del Carmine) hanno portato sulle rive dell'Arno un riflesso delle gotiche eleganze della cosiddetta arte internazionale, Masaccio, tornando alla severa schiettezza ed alla robusta plasticità di Giotto, ma approfittando anche delle conquiste prospettiche del Brunelleschi, e di quelle plastiche di Donatello, crea il miracolo degli affreschi del Carmine, ove appare veramente un nuovo stile: solenne grandiosità, quasi classica, della composizione; profonda ed alta umanità dei personaggi; adeguata resa spaziale e prospettica del vero; plasticità delle forme ottenuta per mezzo del chiaroscuro, che è anche però in funzione pittorica.
Tutti i pittori, contemporanei e successori, subirono il fascino di questo stile, a cominciare da Masolino che era stato maestro a Masaccio; ma questi seguirono specialmente nelle conquiste spaziali e prospettiche. Cosi fece Paulo Uccello (affreschi del Chiostro verde di S. Maria Novella). Andrea del Castagno (Cenacolo di S. Apollonia) ne sviluppò specialmente le tendenze plastiche, derivategli però anche e direttamente da Donatello. Domenico Veneziano, maestro a Piero della Francesca, esaltò la luminosità del colore.
Intanto l'Angelico faceva pur sue le nuove conquiste; ed anche in quel mondo paradisiaco, che sembra distaccato da ogni realtà, si rivelava sicuro costruttore di forme, e prodigioso tessitore di armonie cromatiche (Convento e Museo di S. Marco). Sul Beato Angelico si forma fra' Filippo Lippi; ma rimane più aderente alla terra, per poi accostarsi a Masaccio e rinnovarsi (Galleria degli Uffizi e di Pitti, S. Lorenzo). Su lui si forma pure Benozzo Gozzoli, scolaro ed aiuto; meraviglioso narratore di sacre leggende (cappella dei Magi nel palazzo mediceo). Dal Lippi deriva Francesco Pesellino, di cui ben poco rimane (Galleria degli Uffizî).
Dopo la metà del sec. XV, nella nuova generazione dei pittori fiorentini, Alessio Baldovinetti, scolaro del Castagno (Uffizî, S. Ambrogio, Ss. Annunziata, S. Miniato al Monte); Piero e sopra tutti il fratello Antonio del Pollaiolo, anche orafo e scultore, accentuano l'energia dei movimenti (Uffizî, S. Miniato al Monte, Museo Bardini); Andrea del Verrocchio, pur orafo e scultore, come ben rivelano alcune sue creature pittoriche (Battesimo di Cristo, agli Uffizî), e che ebbe nella sua fiorente bottega anche Leonardo, dà un valore nuovo al chiaroscuro; Cosimo Rosselli, mediocre artista fu buon pratico (S. Ambrogio, Accademia ecc.); Domenico Ghirlandaio, fastoso e festoso narratore di sacre storie, sceneggiate con piacevole verismo (coro di S. Maria Novella e cappella Sassetti in S. Trinita), è capo di una scuola ove fu pur Michelangelo. A parte, come isolato in un suo mondo, sta Sandro Botticelli, scolaro del Lippi, formatosi anche sul Verrocchio e sul Pollaiolo, ma creatore di un proprio stile, pur sempre squisitamente fiorentino, in cui la modellazione è subordinata al ritmo lineare e il realismo all'empito lirico (Uffizî). Gli si avvicina Filippino Lippi, suo compagno e discepolo, almeno per una certa sottigliezza cerebrale e per quel che di agitato, di tormentato, d'inquieto è nell'arte ultima dei due. Intanto Luca Signorelli (v. Uffizî) e il Perugino (S. Maria Maddalena de' Pazzi, Uffizî), operavano a Firenze non senza influire sui fiorentini, mentre un gusto nuovo affermarono Leonardo e Michelangelo. A questi e ai precedenti grandi fiorentini sempre più riguardò Raffaello, pur ancora memore del Perugino, nel suo soggiorno a Firenze (Madonna del Granduca, Madonna del Cardellino, ecc.); Leonardo, di cui restano a Firenze soltanto opere del primo periodo (Uffizî), almeno nel campo della novità chiaroscurale, influì scarsamente sui fiorentini. Ne subirono il fascino, pur senza intenderlo a pieno, Filippino Lippi e Piero di Cosimo; almeno nei ritratti, lo imitò Ridolfo del Ghirlandaio; mentre Lorenzo di Credi gli aveva tenuto dietro per un po' e s'era quindi accontentato di un onesto eclettismo. In Fra Bartolommeo e in Andrea del Sarto il suo influsso si confuse con altri: specialmente da Raffaello e da Michelangelo.
Questi, anche se a Firenze lasciò, di pitture, soltanto il tondo della Santa Famiglia (agli Uffizî), ebbe maggior ascendente pur su artisti già formati, come i ghirlandaieschi Francesco Granacci e Giuliano Bugiardini, eclettico di scarso talento. Ma per buona fortuna, almeno fin quasi alla metà del Cinquecento, il predominio michelangiolesco non fu assoluto; ed i più si salvarono da una imitazione, più che pericolosa, funesta. A ciò riuscirono Fra Bartolommeo, che specialmente dopo il soggiorno veneziano mostrò maggior gusto per il colore; Mariotto Albertinelli, pur qualche volta robusto coloritore; e specialmente Andrea del Sarto, che tra influssi diversi riuscì a conservare una sua maniera, piacevolmente pacata di schemi, solida di forme, e gustosa di colorito (Annunziata, Scalzo, S. Salvi, Uffizî, ecc.). Derivano da lui il Pontormo, disegnatore formidabile ed audace risolutore del problema della forma e del colore (affresco della Villa del Poggio a Caiano); il Rosso, bizzarro sagomatore di forme e coloritore arrischiato; il Franciabigio garbato eclettico di scarsa levatura. Sta quasi a sé il Bachiacca, eclettico di talento e di viva fantasia (v. ai singoli nomi).
Ma verso la metà del Cinquecento l'inadeguabile imitazione di Raffaello e peggio ancora di Michelangelo porta ad un manierismo accademico, cui indulgono un po' tutti, da Agnolo Bronzino e da Cecchino Salviati, mirabili però nei ritratti, a Giorgio Vasari, felicissimo sempre come decoratore (Palazzo Vecchio).
Sullo scorcio del secolo Santi di Tito, si rifece a Fra Bartolommeo e ad Andrea del Sarto, con in meno il gusto del colore; Bernardino Poccetti, si distinse per le sue squisite qualità decorative. Ma ormai la scuola fiorentina è entrata in uno stadio di mediocrità; e si mantiene fedele alla tradizione disegnativa, e quasi estranea alle novità che vengono da Roma, da Bologna, da Venezia.
Tra il Cinque e il Seicento il Poppi, l'Empoli e anche il Passignano, per quanto a Venezia si entusiasmasse specialmente dei Bassano, poco dicono di nuovo. Appena il Cigoli, dal Correggio e dal Baroccio, ma solo esteriormente dal Caravaggio, deriva una maniera più personale; e dei suoi seguaci, soltanto Cristofano Allori riesce a distinguersi, creando un capolavoro nella Giuditta della Galleria Palatina (v. ai singoli nomi).
Poi in pieno Seicento fiorisce la scuola di Matteo Rosselli, mediocre discepolo del Passignano, ma buon maestro tanto a Francesco Furini, Lorenzo Lippi e Iacopo Vignali, maestro a sua volta dello stucchevole Carlino Dolci, delicatissimi coloritori, quanto a Giovanni da San Giovanni (salone degli Argenti a Palazzo Pitti) e al Volterrano (cupola dell'Annunziata) decoratori, specialmente il primo, di molto talento (v. ai singoli nomi).
Intanto ai contatti più o meno intensi e interrotti con le scuole di Bologna, di Parma e di Venezia, si andavano aggiungendo le novità portate a Firenze da maestri forestieri: Pietro da Cortona, frescante le sale di Palazzo Pitti (1637-1647); Luca Giordano il soffitto della Galleria di Palazzo Riccardi (1682-83), e finalmente Sebastiano Ricci alcune sale del palazzo Marucelli (1706-07). E dietro a questi, almeno in piacevoli opere di decorazione, andarono un po' tutti; Alessandro Gherardini, Niccolò Lapi, Giovanni Camillo Sagrestani, Giovanni Domenico Ferretti e Vincenzo Meucci. Solo Anton Domenico Gabbiani rimaneva fedele alla tradizione della scuola.
Alla fine del sec. XVIII Tommaso Gherardini e Giuliano Traballesi rappresentavano ancora la tradizione sei-settecentesca; ma già Giuseppe Maria Terreni indulgeva, nelle decorazioni di Palazzo Pitti, al gusto neoclassico. Poco dopo l'Accademia trionfava con Pietro Benvenuti, seguace del David, e con Luigi Sabatelli, passato a Milano. Reagirono, entro un certo limite, all'Accademia tanto Giuseppe Bezzuoli, migliore ritrattista che pittore di quadri storici, di soggetto romantico, quanto Luigi Mussini seguace dei "puristi"; cui seguivano gli scolari del Bezzuoli: Enrico Pollastrini, Antonio Ciseri (ticinese), Antonio Puccinelli: tutti ancora accademici nei dipinti di soggetto sacro, biblico o storico, ma schietti e piacevoli nei ritratti. E con loro va ricordato Stefano Ussi, scolaro del Pollastrini, e pittore di storia rinomatissimo, ma preferibile nei sinceri e disinvolti studî fatti al Marocco (v. ai singoli nomi).
Ma ormai la reazione integrale all'Accademia e sue derivazioni, anche generistiche e decorative, andava acquistando terreno. La iniziarono verso il '50 gli scapigliati del Caffè Michelangelo; la compirono i così detti "macchiaioli", che vollero osservare spregiudicatamente il vero e renderne le impressioni con "macchie" di colore, ove i particolari delle figure e delle cose erano come sottintesi. La "macchia" dopo un decennio si andò attenuando; ma i "macchiaioli" rimasero fedeli al credo verista, pur comprendendo che ciascuno finiva con l'interpretare la natura a suo modo. I "macchiaioli" veri e proprî furono: Serafino de Tivoli, Cristiano Banti, Vito D'Ancona, Giovanni Fattori, Silvestro Lega, Vincenzo Cabianca, Giuseppe Abbati, Odoardo Borrani, e Telemaco Signorini (Galleria d'arte moderna). A loro va aggiunto lo scultore Adriano Cecioni, che fu anche pittore. Non tutti toscani (Cahianca e Abbati erano veneti, D'Ancona marchigiano e Lega romagnolo), furono in continuo contatto coi novatori delle altre regioni d'Italia: Domenico Morelli e Giovanni Costa, Antonio Fontanesi e Giuseppe De Nittis; e furono in rapporti coi pittori del '30 e con gli impressionisti francesi, per quanto il loro movimento appaia indipendente da quello impressionistico. Negli ultimi decennî del sec. XIX la scuola fiorentina, oltre che da "macchiaioli" superstiti, fu rappresentata dai loro seguaci, dei quali ricorderemo almeno Egisto Ferroni, Niccolò Cannici, Francesco Gioli e Cesare Ciani. Col nuovo secolo, dopo varie esperienze, la scuola fiorentina si è distaccata dalla tradizione ottocentesca, e ha dato Armando Spadini. Ma oggi, col tesoro delle esperienze compiute e delle raggiunte conquiste, essa tende forse al ritorno alla tradizione regionale.
Arti minori. - Anche, e più forse, nelle arti minori, Firenze ritarda generalmente fino al Quattrocento ad avere scuole importanti; e poi non tutte coltiva con uguale eccellenza; e solo in alcune si specializza per secoli. Per quanto riguarda le arti che si possono considerare più propriamente decorative, il commesso di marmi è già dal sec. XII vanto delle maestranze fiorentine (pavimento, coro e altare del Battistero; pavimento, transenne e pulpito di S. Miniato); e col nome di "mosaico fiorentino" diventa poi una famosa caratteristica dei laboratorî medicei (Cappella medicea a S. Lorenzo; tavole e mobili varî a Palazzo Pitti e agli Uffizî) trasformati alla fine del Settecento nel R. Opificio delle pietre dure, tuttora esistente, ma con altra attività. Arte affine, l'intaglio in pietre dure e preziose, che nel Quattrocento Lorenzo de' Medici promuove o almeno incoraggia, seguito da Cosimo I, per cui Francesco del Tadda ritrova il modo di lavorare il porfido, e dagli altri Medici, per i quali nei rammentati laboratorî s'intagliano vasi e coppe nelle materie più dure. Invece la glittica è scarsamente coltivata nel Quattro e Cinquecento; oltre il pisano Giovanni dalle Corniole, si possono ricordar solo i fiorentini Domenico di Polo e Michele Mazzafirri; mentre i Medici ricorrono anche ai più celebri glittici milanesi, veneti, emiliani. Alla fine del Settecento G. A. Santarelli di Chieti riporta in onore quest'arte quasi dimenticata.
Tra le arti decorative lo stucco ebbe in Firenze minor fortuna che altrove (Roma, Venezia, Genova), per quanto non manchino esempî notevoli del sec. XVI (pilastri del cortile di Palazzo Vecchio, vòlta della loggia di Poggio a Caiano) e dei successivi (palazzo Riccardi, Ss. Annunziata, ecc.). Ma nel Seicento sono romani gli stuccatori operanti a palazzo Pitti, ed alla fine del Settecento sono lombardi quelli che lavorano a palazzo Pitti e agli Uffizî.
Maggior fortuna ha invece il graffito parietale, fino a diventare nel Quattrocento e Cinquecento caratteristica tutta fiorentina, specialmente per opera di Maso di Bartolommeo, di Andrea Feltrini e Bernardino Poccetti (facciate diverse di palazzi, e cortili).
Il ferro battuto ebbe scarso favore; nel Trecento artisti senesi lavorarono per il Bigallo, per il duomo di Fiesole, per S. Miniato. Nel Quattrocento fu celebre soltanto Niccolò Grosso, detto il Caparra (lanterne di palazzo Strozzi). Il bronzo diventò nel Quattrocento specialità fiorentina; ma nel secolo precedente erano stati chiamati fonditori veneziani per la prima porta del Battistero. Tutti i grandi scultori del Rinascimento sono fonditori espertissimi: dal Ghiberti al Cellini, nel Seicento è famoso Cosimo Cenni. Ma nel più ristretto campo delle arti minori, al bronzetto si dedicano specialmente il Pollaiolo e Bertoldo, il Giambologna e l'Ammannati; seguiti nel Sei e Settecento da P. Tacca (cui si devono alcuni tipici picchiotti), G. F. Susini e M. Soldani; mentre la medaglia è coltivata da Niccolò Fiorentino e Domenico di Polo, Francesco da Sangallo e G. P. e D. Poggini, su cui sovrasta il Cellini, che alla medaglia fusa sostituisce la medaglia coniata e dà alla moneta valore di opera d'arte.
Anche nell'arte del legno per tutto il Trecento i più celebri maestri senesi sono chiamati a lavorare a Firenze insieme con gli emiliani; ma con la seconda metà del Quattrocento anche qui si forma, per opera di Francesco di Giovanni detto il Francione e di Giuliano da Maiano, una scuola di tarsia e d'intaglio che presto crea dei capolavori (palco e plutei della biblioteca Laurenziana, palchi e porta dell'Udienza in Palazzo Vecchio, armadî della Sagrestia del duomo, ecc.); e sostituisce le rivali anche a Pisa, Perugia, Roma. I più di questi intagliatori e intarsiatori sono architetti, come Baccio Pontelli, Giuliano e Antonio da Sangallo, Baccio d'Agnolo col figlio Giuliano, e G. B. del Tasso, di una casata di legnaioli rinomatissimi. Nelle opere decorative quest'arte subì naturalmente influssi diretti dall'architettura; ma li subì anche nel mobile, che pure in pieno barocco si distinse per schietta sobrietà, e specialmente nel cassone intarsiato o intagliato che fu caratteristica tutta fiorentina. Nell'Ottocento il senese Angiolo Barbetti e il figlio Rinaldo rinnovarono in Firenze l'arte dell'intaglio, che ancora continua, e il fiorentino Angiolo Falcini, col figlio Luigi, quella dell'intarsio, che ebbe minore fortuna.
Anche nell'oreficeria Firenze ebbe durante il Trecento concorrenti vittoriose Siena e Perugia; ma alla fine del secolo Leonardo di Ser Giovanni fu chiamato, con altri fiorentini, all'opera dell'altare d'argento di S. Iacopo nel duomo di Pistoia; e con Betto di Geri e Cristoforo di Paolo iniziò il celebre dossale argenteo di San Giovanni (al Museo dell'Opera) continuato poi nel Quattrocento da Bern. Cennini insieme con Michelozzo, il Verrocchio, il Pollaiolo: tutti scultori ed orafi al tempo stesso; mentre Miliano Dei e Betto Bettì, insieme col Pollaiolo, eseguivano per il medesimo dossale la magnifica croce d'argento. Nel Cinquecento furono espertissimi orefici Michele Mazzafirri, Paolo Sogliani, e i due Poggini; celebratissimo e imitatissimo il Cellini; ma sullo scorcio del secolo cominciarono ad aver favore orafi fiamminghi e tedeschi, chiamati e stipendiati dai granduchi medicei. Particolarità dell'oreficeria fiorentina furono anche lo smalto trasparente, e più ancora il niello, in cui raggiunsero celebrità Maso Finiguerra e Matteo Dei (paci al Museo Nazionale).
Le cosiddette arti del fuoco ebbero minor favore in Firenze; almeno la ceramica, prodotta scarsamente - se pure perfettamente - da ignote fornaci per tutto almeno il Quattrocento; poi, sul principio del Cinquecento, dalla celebre fabbrica medicea di Cafaggiolo, diretta dai Fattorini di Montelupo, ma che però ebbe breve splendore (1507-1530). Sullo scorcio del Cinquecento dal laboratorio mediceo del Casino di S. Marco uscirono ottimi saggi di porcellana, presto abbandonati. Solo nel 1735 il marchese Carlo Ginori iniziava a Colonnata la celebre manifattura di porcellane, che poteva gareggiare con quelle di Capodimonte, di Meissen, di Vienna, di Sèvres. Per il vetro, almeno dalla fine del Trecento e per tutto il Quattrocento, Firenze ebbe ottimi costruttori di vetrate istoriate (duomo, S. Maria Novella, ecc.) per le quali diedero cartoni i pittori più celebri.
Più fortunate le arti del tessuto e del ricamo, fino a raggiungere in qualche momento un predominio quasi incontrasto. Per quasi due secoli (1546-1737) l'Arazzeria medicea fiorì superbamente, gareggiando da prima con le manifatture fiamminghe e poi con le francesi (v. arazzo). I drappi broccati in oro e argento, i velluti, i damaschi fiorentini, specialmente dopo l'immigrazione dei tessitori lucchesi (1314), diventano ricercatissimi; nel Quattro e Cinquecento se ne esportano tanto nell'Europa occidentale quanto in Levante. Firenze vince allora la concorrenza almeno delle manifatture senesi e lucchesi. Col Seicento comincia la decadenza, se pur continua l'esportazione di rasi anche in Levante. Per le riforme di Pietro Leopoldo, il setificio fiorentino riprende vigore alla fine del Settecento; ed esporta ancora i suoi ricercati prodotti in Occidente ed in Oriente. Ma coi primi dell'Ottocento la decadenza ricomincia e continua. Nel Trecento i ricamatori fiorentini raggiunsero tale celebrità, che opere loro furono ricercate in Francia e in Spagna (paliotto della cattedrale di Manresa, di Geri Lapi fiorentino); e i pochi pezzi rimasti (paliotto di Iacopo Cambi a palazzo Pitti) testimoniano della loro eccellenza. Nel Quattrocento la tradizione continua (paramenti del Museo dell'Opera del duomo), ma cominciano ad immigrare anche ricamatori francesi e fiamminghi, che col Cinquecento quasi si sostituiscono ai maestri locali.
Per la miniatura (v. alla Bibl. Laurenziana il Museo della miniatura), incerta è l'identificazione di scuole - particolarmente conventuali, anche se non mancò qualche laico - fino almeno allo scorcio del Trecento, quando si rivela quella di S. Maria degli Angioli, diretta da prima dal senese don Simone, poi da Lorenzo Monaco, che fuse felicemente influssi fiorentini e senesi. O mai nel Quattrocento, se pur continuano a prosperare le scuole conventuali, fioriscono anche le botteghe, quali quella di Vespasiano da Bisticci, donde escono i celebrati codici, miniati in stile umanistico. Intanto, mentre la pittura influisce sensibilmente sulla miniatura, che tende a gareggiare con quella, perdendo a poco a poco il suo squisito carattere decorativo, si distinguono dai minori alcuni maestri: Zanobi Strozzi, che subisce specialmente l'Angelico; Filippo Torelli che crea certi suoi arnati minuti, a foglie ed a fiori; Francesco d'Antonio del Cherico, che inizia il tipo della grande illustrazione figurata, ancora legata però alla decorazione; seguito da Gherardo e da Monte del Fora, che alla figurazione dànno la massima importanza; mentre Attavante degli Attavanti cura assai di più la parte ornamentale; ed è seguito, nel Cinquecento, da frate Eustachio di S. Marco e da Boccardino Vecchio, che vanamente tenta un nuovo stile decorativo, di gusto floreale. Francesco Boccardino, suo figlio, torna ancora a gareggiare con la pittura. Ma alla metà del Cinquecento la miniatura, anche a Firenze, è finita.
L'incisione in rame, che una tradizione errata dice inventata dal fiorentino Maso Finiguerra, già dalla seconda metà del Quattrocento è squisitamente trattata in Firenze da maestri anonimi, che sembrano subire generalmente il fascino del Botticelli; ma non mancano influssi d'oltr'Alpe, dai quali si franca però Antonio del Pollaiolo, vigoroso e dinamico anche nelle sue rare stampe; mentre sul principio del Cinquecento indulgono ad un certo eclettismo tanto Cristoforo Robetta quanto Lucantonio degli Alberti, operante però a Venezia. Durante il sec. XVI Firenze sembra quasi estranea alle varie correnti dominanti in Italia: Marcantonio, Cort, Carracci, ecc. L'unico incisore fiorentino di qualche valore è Domenico del Barbiere che, spaesato, appartiene alla scuola di Fontainebleau. Col Seicento, dopo Antonio Tempesta operante specialmente a Roma, Firenze ospita il lorenese Giacomo Callot, che tanto influsso doveva avere sulla pittura e l'incisione italiana; e vanta tra i suoi seguaci Stefano della Bella, Giulio e Alfonso Parigi, Remigio Cantagallina, col pisano Ercole Bazicaluva. Ma col Settecento l'opera degl'incisori fiorentini diventa quasi mestiere da illustratori di monumenti, di antichità e di opere d'arte per pubblicazioni erudite. Poi Francesco Bartolozzi esula a Venezia, a Roma e a Londra, ove lo segue G. B. Cipriani. A Firenze rimangono soltanto pochi vedutisti attorno a Giuseppe Zocchi. Finché tra il Sette e l'Ottocento si forma in Firenze un gruppo di bulinisti, virtuosi riproduttori di dipinti, con Raffaello Morghen, Carlo Lasinio, Giovita Garavaglia, tutti immigrati, col fiorentino Antonio Perfetti. Solo sullo scorcio dell'Ottocento, col Fattori e col Signorini acquafortisti, tornerà in favore l'incisione originale.
Musica.
Nella storia della musica Firenze ha congiunto il suo nome soprattutto a due periodi del suo svolgimento: a quello che anche oggi si chiama dell'Ars nova florentina e a quello in cui ebbe origine il melodramma.
Nel primo che, iniziatosi verso la fine del Duecento, si protrasse oltre tutto il sec. XIV, la musica andò liberandosi, per opera dei maestri fiorentini, dalle pastoie dottrinali e scolastiche, si fece più libera, fu essenzialmente profana, mirò a rendersi espressiva e talora anche descrittiva, come mostrano le Ballate, le Cacce, le Canzoni, i Rondelli che ci sono stati conservati in varî codici. I principali di tali codici sono il Modenese, il Parigino, il Panciatichiano 26 e sopra tutti il Laurenziano 87, detto codice dello Squarcialupi perché poi appartenuto a questo celebrato organista. Ivi si trovano composizioni di Andrea, Giovanni e Lorenzo da Firenze, di Bartolo e di Gherardello, pur da Firenze, di Paolo tenorista, fiorentino, di altri, e, più illustre di tutti, di Francesco Landino, detto anche Francesco cieco o "il cieco degli organi" (1325-1397), insigne compositore e organista. Questa tendenza fiorentina verso il canto melodico ed espressivo, talora anche monodico, si manifestò, oltre che nella musica profana, anche in quella religiosa, specialmente nelle Laude che furono in principio anche omofone e che, quando pur divennero a più voci, non furono vera polifonia, in quanto che il canto rimase affidato alla voce soprana, assumendo quindi l'aspetto di arie armonizzate da altre voci invece che da strumenti. Tra i Fiorentini emerse in tal genere di composizioni Giovanni Animuccia che, recatosi poi, per invito del concittadino S. Filippo Neri, a Roma, ivi diede alla Lauda quel più ampio sviluppo da cui derivò l'Oratorio.
Tra le manifestazioni musicali fiorentine sono pure da ricordare i Canti carnascialeschi, i Trionfi, i Carri, le Mascherate, che andarono per le vie di Firenze ai tempi di Lorenzo il Magnifico e le popolaresche Maggiolate, nessuna delle quali però è a noi pervenuta.
Giova anche rilevare come perfino nel Cinquecento, in pieno impero dello stile polifonico, i musicisti fiorentini vi opponessero resistenza, secondo che dimostra, tra gli altri, il Libro di canto e di liuto di Cosimo Bottegari.
Per quello che attiene poi alle origini del melodramma basterà ricordare come si formasse e si riunisse in Firenze quella famosa Camerata di Casa Bardi (v. bardi, giovanni) che, mossa dall'intendimento di resuscitare la tragedia greca, giunse invece all'opera moderna; come questa sia stata, ai suoi inizî, composta in stile recitativo, e come al concetto informativo e all'indirizzo dei Fiorentini siano poi ritornati i maggiori riformatori del melodramma, dal Gluck al Wagner e a taluni dei compositori moderni. Anima e mente direttiva della riforma fiorentina fu Vincenzo Galilei, padre di Galileo: principali compositori Iacopo Peri, Giulio Caccini, Iacopo Corsi, Emilio del Cavaliere, Marco da Gagliano: cantanti, oltre al Peri e al Caccini, le figlie di quest'ultimo (una delle quali, Francesca, anche compositrice), Vittoria Archilei, il Rasi, il Palantrotti ed altri. Primo frutto degli studî della Camerata fu l'opera Dafne, musicata dal Peri e dal Corsi, rappresentata nel Carnevale 1594-95 e andata perduta: onde la prima opera esistente è l'Euridice che, musicata quasi interamente dal Peri (solo alcuni brani erano di Giulio Caccini) fu rappresentata il 6 ottobre 1600. A questa seguirono Il ratto di Cefalo del Caccini (che pur rimusicò l'Euridice), la Dafne e la Flora di Marco da Gagliano e altre opere ancora, con le quali Firenze ha legato il suo nome alla creazione dell'opera teatrale.
Si deve poi ricordare che, nella seconda metà del Seicento, un musicista fiorentino, G. B. Lulli, fu il fondatore del teatro musicale in Francia, e che fiorì in quel tempo A. F. Tenaglia, compositore pregevolissimo; che nel sec. XVIII l'arte del violino s'illustrò dei nomi dei fiorentini G. B. Giacomelli (del Violino), Baltazarini, Antonio e Francesco Maria Veracini, quest'ultimo veramente insigne compositore ed esecutore, come i due Rutini emersero nell'arte del clavicembalo. Tra il sec. XVIII e il XIX sta la grande figura di Luigi Cherubini, compositore famoso di opere teatrali, di musica sacra, di musica strumentale da camera, di trattati teorici, vissuto lungamente a Parigi ove fu direttore di quel conservatorio di musica e ove tenne alto il nome dell'arte italiana.
Anche durante il sec. XIX la tradizione fiorentina ebbe vigore sufficiente per illustrare la città e assicurarsi una funzione particolare nella vita musicale della nazione: decaduto, in certo senso, il teatro d'opera (anche per ragioni extra-artistiche), si nota in Firenze una fervida cura della musica da camera, altrove negletta. Già dal mezzo Ottocento s'incoraggia l'attività di circoli e società di cultura musicale, alla quale attività, esplicata in stagioni concertistiche, in concorsi tra compositori, ecc., si devono i germi dell'attuale rifioritura. Nel nostro secolo Firenze ha veduto, insieme con lo sviluppo del proprio conservatorio (R. Conservatorio Luigi Cherubini, diretto negli ultimi anni, da I. Pizzetti, A. Franchetti, G. Guerrini), lo sviluppo di nuovi enti concertistici, come il "Trio fiorentino" il "Quartetto dell'Istituto fascista di cultura" e l'Orchestra stabile (direttore V. Gui), i quali, con gli enti teatrali (Teatro della "Pergola", "Ente Autonomo del Politeama fiorentino") e col Coro del Conservatorio, contribuiscono efficacemente a una vita e a una cultura musicale degne della secolare tradizione cittadina.
Letteratura e teatro vernacolo.
Chiunque conosca le secolari controversie, da Dante al Manzoni e all'Ascoli, intorno alla lingua italiana, non ignora le difficoltà che si presentano quando si voglia stabilire una netta distinzione tra lo scrivere comune, letterario, della nazione, e il vero e proprio vemacolo fiorentino. Tuttavia qualunque opinione uno segua rispetto alla questione della lingua, si può ammettere, che nella somma il lessico, la sintassi, la morfologia del fiorentino, spogliato che questo sia della sua peculiare fonetica, corrispondono quasi sempre alla media dell'italiano letterario. Perciò è naturale che Firenze tardasse più delle altre regioni italiane a produrre componimenti nel suo proprio vernacolo, tali da costituire un contrapposto a quanto produceva nell'idioma che era il suo ma che pur tendeva a dignità letteraria. Non indicheremo quindi alcun segno di quanto abbia di peculiarmente fiorentino lo stesso poema di Dante, e neppure indicheremo nei grandi scrittori, dal Boccaccio al Sacchetti e da questo al Poliziano, il più o meno che vi si possa rintracciare di fiorentinità. Solo avvertiremo che, contemporaneamente ad altre più copiose prove fatte da altri dialetti con intenti poetici o stilistici, si ebbero in Firenze, almeno dagli ultimi del sec. XIV in poi, caratteristiche produzioni dove il realismo sospingeva a forme plebee. Una vera letteratura in vernacolo fiorentino era impossibile che per allora si avesse.
Soltanto quando, nella prima metà del Cinquecento, tutta l'Italia, può dirsi, accettò per la sua letteratura la lingua sollevata a tanta altezza da Dante, dal Petrarca, dal Boccaccio, e arricchita, anzi plasmata, da insigni scrittori d'ogni regione, fu possibile divertirsi a rispecchiare, quasi per caricatura di vetri concavi o convessi, la bella idea di essa lingua nel ritratto del vernacolo fiorentino. Onde furono i dotti della lingua comune quelli che, mentre attendevano a studiarla e a prepararne il vocabolario, si esercitarono in cicalate, stravizî, ditirambi, rime burlesche, ecc., pel riso che soleva provocarsi con l'andamento, più che plebeo, contadinesco. Tra i lamenti, gli strambotti, le scenette drammatiche di materia rusticale, che salirono allora in voga, ricorderemo gli scherzi scenici di Filippo Baldinucci (1624-1696), il diffusissimo Cecco da Varlungo di Francesco Baldovini (1635-1716), e superiore forse a tutti codesti componimenti, per leggiadria e vivezza, La Tancia, commedia msticale di Michelangelo Buonarroti il Giovine (1568-1646), che, si badi, fu uno dei primi arciconsoli dell'Accademia della Crusca. In alcune di tali scritture rusticali appare la più antica maschera fiorentina, il contadino Ciapo, al quale sugli ultimi del sec. XVIII subentrerà, per opera dell'attore e autore Luigi Del Buono (1751-1832), Stenterello, nato invece nei quartieri più bassi di Firenze ed espressione di un realismo cittadinesco venuto allora di moda.
Il Del Buono e i seguaci suoi non scrissero il fiorentino raggentilito e colto, scrissero quello che ascoltavano nei cosiddetti Camaldoli, di San Lorenzo e di San Frediano, sulla bocca dei beceri e delle ciane. Ma fu un dotto, l'abate Giovan Battista Zannoni (1774-1832), che dilettò sé medesimo e gli amici, prima con le marionette, poi con gli attori, immaginando dialoghi, e ordinandoli in commediole, dove introdusse felicemente, talora magistralmente, personaggi tipici, situazioni, parlate della più stretta fiorentinità nei quattro scherzi comici: Le gelosie della Crezia, La ragazza vana e civetta, La Crezia rincivilita per la creduta vincita di una quaderna, Il ritrovamento del figlio. Nel repertorio è rimasta, sia per il merito che veramente ha, sia per la valentia d'alcuna attrice (Garibalda Niccòli), La Crezia rincivilita. Da notare che lo Zannoni fu segretario della Crusca.
Gli esempî piemontesi, lombardi, napoletani, siciliani, dopo e durante la tradizione goldoniana, fomentarono a più riprese il tentativo di costituire un teatro fiorentino. In un certo senso può dirsi che fu appunto Stenterello, acclamato in ogni parte dell'Italia, quegli che intralciò lo spontaneo movimento iniziato dallo Zannoni, perché parve frigido e inconcludente un teatro fiorentino che, senza Stenterello, tendesse a una comicità di più alto senso e valore. Nondimeno Andrea Niccòli e Augusto Novelli, per tacere d'altri, riuscirono sulla fine dell'Ottocento e i primi del Novecento, ad attrarre un pubblico fine, di là da Firenze stessa. Al qual proposito è da rilevare che, fuori di Firenze, mal si parlerebbe di commedia tutta quanta in vernacolo fiorentino, perché, mentre per gli altri dialetti accade che il necessario sforzo di farli accetti ai pubblici varî, dia loro un'intonazione letteraria, il vernacolo fiorentino diviene per quello stesso sforzo una lingua letteraria con qualche sfumatura fiorentina. Si accorgerà di ciò chi ascolti, fuori di Firenze, La Crezia rincivilita dello Zannoni e, accanto ad essa, L'acqua cheta del Novelli, del 1908.
Le questioni agitate, secondo che sopra è stato accennato, intorno alla fiorentinità, toscanità, nazionalità della lingua italiana, agirono fortemente sullo studio, prima empirico, quindi scientifico, del vernacolo fiorentino. Qualità d'arte, oltre che valore di documento, ebbero alcune operette che giova rammentare. Al 1861 risale il Saggio del parlare degli artigiani di Firenze, in dialoghi, con lessico meramente tecnico; invece i dialoghi di lingua parlata, Città e campagna, (1868), di Enrico Franceschi, composti e scritti accortamente, in servizio della propaganda manzoniana, conservano un brio gustoso nel paragonare l'italiano comune, parlato da una torinese, il fiorentino colto parlato dai componenti la famiglia fiorentina dove costei è ospite, e il fiorentino più basso. Alle scritture in vernacolo di Pietro Fanfani sono da accompagnare, anche perché a lui dedicati, gli scherzi fiorentini, Scene popolari, di Domenico Corsi (1875). Tra i giornaletti fiorentineschi (non ne mancarono anche come arme politica) rimase a lungo in stima La Chiacchiera. Non mancano neppure oggi rimatori in vernacolo "beceresco".
Folklore. - Delle feste popolari, già celebrate con grande animazione, le più sono oggi scomparse, come i palî, cioè le corse di cavalli sciolti che, nelle feste di S. Giovanni, di S. Pietro e di S. Vittore attraversavano tutta la città, dalla Porta al Prato alla Porta alla Croce, altre invece sopravvivono ancora, o si sono rinverdite in questi ultimi anni, come le feste carnevalesche e la "segatura della vecchia", cioè del fantoccio rappresentante una vecchia (la Befana, v.; v. anche carnevale, IX, p. 98) nel dì di mezza Quaresima: nel quale i monelli sogliono anche attaccare alle vesti dei passanti, specie delle donne, le caratteristiche "scale" di carta (anche certi dolci, che si sogliono preparare durante la Quaresima, hanno la forma di scale). Altre celebrazioni caratteristiche sono quelle della Natività, con la rificolona (fieracolona), cioè la caratteristica luminaria con lampioni di carta attaccati a lunghe canne da pesca, che i ragazzi portano in giro la sera della vigilia, con una cantilena caratteristica; la festa dell'Ascensione, con la "festa del grillo" (in sostituzione della caccia d'un tempo), alle Cascine; i grilli, raccolti per le campagne e chiusi in gabbiette, vengono dagli acquirenti portati a casa per serbarli come portafortuna; e il tradizionale "scoppio del carro" del sabato santo (v. carro, IX, p. 171).
Notissimo ovunque è lo spirito sarcastico e mordace della popolazione e specie dei monelli; ma le pittoresche invettive verbali di rado sono seguite da veri atti di violenza. Caratteristico altresì è lo sviluppo dell'artigianato, con la ricca e svariata produzione di oggetti d'uso decorati artisticamente, oggetto di un vasto commercio d'esportazione.
Bibl.: G. Conti, Firenze vecchia, Firenze 1899.
Istituti di cultura.
Istituti d'istruzione. - R. Università degli studî. - Le provvigioni dei Consigli del Capitano e del Podestà, del 14 e 15 maggio 1321, creano lo Studium generale, di cui c'era stato in qualche modo un precedente in quella specie di università che è menzionata nel 1203 come esistente già da tempo; per non dire della scuola, forse solo teologica, che l'editto di Lotario dell'anno 825 aveva collocato a Firenze. Si ottengono i privilegi papali da Clemente VI il 31 maggio 1349, gl'imperiali da Carlo IV il 2 gennaio 1364; nel 1387 si fissano quegli statuti che serviranno poi di modello anche ad altre università. Lo Studio segue le vicende agitate del suo grande e vivace comune; onde visse vita discontinua, alternando riduzioni e sospensioni a periodi di splendore. Già nel 1334 vi insegnava diritto Cino da Pistoia, e nel '58 Baldo; nel '60 s'istituisce la cattedra di greco - la prima in Italia, e forse in Occidente - affidata a Leonzio Pilato, iniziando la grande scuola dove insegnarono E. Crisolora, G. B. Guarino, F. Filelfo, D. Calcondila e C. Lascaris, che diede a Firenze un primato assoluto nel campo degli studî di greco; nel '68 la cattedra di astrologia; nel '73 la lettura di Dante, alla quale si chiama il Boccaccio; e più tardi la lettura dantesca dei giomi festivi, affidata a Filippo Villani. L'università è già completa nel 1402 coi suoi 20 dottori, il cui numero cresce in seguito; e raggiunge il massimo fiorire per i provvedimenti di Palla Strozzi e di Niccolò da Uzzano; finché non vi hanno riflesso rivolgimenti civili e politici che portano alla sospensione degli anni 1447-52. Quantunque 5 fossero i collegi: teologi, canonisti, giuristi, medici e artisti (cioè letterati), e prevalente sempre il numero dei giuristi e dei medici, pure rivela una tendenza a preferire gli studî umanistici, in armonia col genio del luogo. Guardando a questa preferenza, che era anche la sua, e all'insegnamento extrascolastico, sempre fiorente, Lorenzo il Magnifico nel 1472 trasporta lo Studio a Pisa, lasciando a Firenze le sole discipline letterarie, filosofiche e teologiche. Da allora cessa lo Studio; ma non cessa l'insegnamento dei grandi maestri: ché accanto a G. Argiropulo, a D. Calcondila, a C. Lascaris, al Poliziano e a C. Landini che tengono le cattedre superstiti, Luca Pacioli insegna matematica, e L. Buonincontri l'astronomia; e si hanno poi cattedre di astronomia, di fisica, di zoologia, di botanica e di mineralogia, dove insegnano F. Redi, V. Viviani, E. Torricelli e P. A. Micheli, nel grande impulso che veniva da Galileo e dal Cimento; e si ha la celebre scuola medica dell'Arcispedale di Santa Maria Nuova con Antonio Cocchi, e Paolo Mascagni; e Giardino dei Semplici e Specola sono centro di studî naturalistici; e cattedre di agraria e di giurisprudenza, dove insegna P. Neri, aggiunge Pietro Leopoldo; attività tutte proficue, cui mancò solo la coordinazione. Questa venne col decreto del 22 dicembre 1859 del governo provvisorio, il quale crea l'Istituto di studî superiori pratici e di perfezionamento, con tutte le facoltà; e cioè un istituto sovrauniversitario, inteso all'esercizio della scienza per la scienza, e alle sue applicazioni extraprofessionali. Poi nel 1872 assunse carattere più professionale: si aggregò i corsi per il conseguimento delle lauree, e ridusse a 3 le facoltà; finché riaggiunse nel 1924 le facoltà soppresse di giurisprudenza e di matematica, assumendo il nome di R. Università degli studî. Essa dispone di qualche altro istituto di eccellente organizzazione, come l'Istituto di patologia generale, l'Osservatorio astrofisico di Arcetri e l'Istituto botanico; nonché di parecchi musei scientifici del più alto interesse, quali il Geologico e il Museo nazionale di antropologia ed etnologia. Ogni facoltà, dal 1875, in ampie e belle serie di pubblicazioni, riflette l'attività dei docenti e degli scolari. La facoltà di giurisprudenza si integra col R. Istituto di scienze sociali e politiche C. Alfieri, fondato nel 1875 dal sen. C. Alfieri di Sostegno, istituto superiore libero dal 1925, e con la Facoltà di scienze economiche e commerciali istituita con decr. legge 10 giugno 1926; la facoltà di medicina con la R. Scuola d'applicazione di sanità militare, istituita nel 1882; la scuola di geografia col R. Istituto geografico militare (v. appresso).
R. Istituto superiore di magistero. - Fu istituito nel 1883; trasformato da istituto femminile in misto nel 1923.
R. Conservatorio di musica "L. Cherubini". - Fu istituito nel 1811, unito all'Accademia di belle arti sino al 1849; soppresso poi, fu ripristinato nel 1860; custodisce nell'annessa biblioteca l'Archivio Rinuccini e l'"Archivio dei Pitti" cioè della corte granducale, oltre al lascito Basevi.
R. Collegio rabbinico. - Fu istituito a Padova, per la formazione dei rabbini (1829); trasferito a Roma (1883), indi a Firenze (1899).
R. Istituto geografico militare. - Nel 1861, con la formazione del regno d'Italia, tutti gli uffici topografici dei varî stati italiani vennero fusi nell'Ufficio tecnico dello Stato maggiore italiano, con 3 sezioni a Torino e una staccata a Napoli. L'ufficio di Torino fu trasferito a Firenze nel 1865; assorbì l'ufficio napoletano nel 1879; si riordinò in Istituto topografico militare il 27 ottobre 1872, assumendo poi, il 3 dicembre 1882, la denominazione di Istituto geografico militare. L'Istituto possiede una biblioteca specializzata e preziose raccolte scientifiche e cartografiche. Il suo lavoro principale consiste nella costruzione dell'originale di levata topografica, mediante le misure sul terreno (cioè circa 2500 fogli alle scale di 1 : 25 mila, 1 : 50 mila) e nella compilazione e stampa delle edizioni delle carte derivate dagli originali di levata (cioè copia delle levate topografiche alla scala 1 : 25 mila,1 : 50 mila, circa 2500 fogli; carta d'Italia alla scala 1 : 100 mila, in 304 fogli; id. alla scala 1 : 500 mila, 35 fogli; id. alla scala 1 : 1.000.000, 6 fogli; carta d'Italia itineraria alla scala 1 : 300 mila, in 21 fogli; carte speciali e coloniali a varie scale). Nel contempo l'Istituto fornisce, ai molti ufficiali che vi prestano servizio, l'istruzione tecnica speciale che occorre per i servizî topo-cartografici, topo-balistici e foto-tecnici dell'esercito mobilitato.
Altri istituti. - Oltre ad avere attività didattica, sono centro di ricerche tecniche, di consulenza e di propaganda il R. Istituto superiore agrario e forestale (1913), cui è annessa la R. Stazione sperimentale di selvicoltura (1922), con giurisdizione su tutta l'Italia e la R. Stazione di entomologia agraria, dal 1875. Infine si hanno 3 fondazioni straniere: il Kunsthistorhisches Institut, dal 1897, che pubblica le apprezzate serie di Mitteilungen e Italienische Forschungen; l'Institut français dal 1908, emanazione della facoltà di lettere dell'università di Grenoble; il British Institute, dal 1918, che ha corsi abbinati a quelli dell'università.
Società culturali. - Dal decreto con cui Pietro Leopoldo sopprimeva nel 1783 le Accademie, sostituendone una sola a tutte, due se ne salvarono, che sussistono tuttora, insieme con la "Crusca" (v.).
Società Colombaria. - Prese origine e nome nel 1735 da un gruppo di eruditi che si adunavano intorno a G. G. Pazzi, nella torre del suo palazzo, in "colombaia"; intesi all'erudizione storica e archeologica italiana, specie toscana. Dal 1747 pubblica i suoi Atti.
R. Accademia dei Georgofili. - La prima del mondo in materia agraria, istituita nel 1753 da U. Montelatici per studiare il risorgimento dell'agricoltura in Toscana; pubblica dal 1791 gli Atti.
R. Deputazione toscana di storia patria. - Istituita nel 1862 per lo studio della storia della Toscana (e dell'Umbria e delle Marche, che le restarono unite rispettivamenbe sino al 1890 e 1896); ma più allo scopo di assicurare la prosecuzione dell'Archivio storico italiano, per 20 anni tenuto dal Vieusseux, che essa pubblica tuttora, mantenendone il carattere nazionale; ha pubblicato inoltre Documenti di storia italiana (voll. 13) e Biblioteca storica toscana (voll. 6).
Società dantesca italiana. - Fondata nel 1888, per promuovere gli studi danteschi, ha iniziato l'edizione critica delle opere di Dante, rinnovato dal 1899 la pubblica lettura della Divina Commedia e ha pubblicato dal 1890 al 1921 il proprio Bollettino, rassegna di studî danteschi.
Altre società. - Hanno attività scientifica circoscritta: l'Accademia medico-fisica (istituita nel 1823, specializzata nel campo della biologia normale e della patologia; dal 1899 è suo organo Lo Sperimentale); la Società asiatica italiana (fondata nel 1887 per lo studio dell'arte, della letteratura e delle religioni dell'Asia; pubblica opere singole e dal 1887 il proprio Giornale); la Società italiana di antropologia ed etnologia (fondata nel 1871, ha promosso viaggi, pubblica dall'origine l'Archivio per l'antropologia e l'etnologia); la Società di studi geografici e coloniali (fondata nel 1883, ha spesso fornito i componenti d'importanti esplorazioni; dal 1895 è suo organo la Rivista geografica italiana); il Comitato permanente per l'Etruria (istituito nel 1925, pubblica Studi etruschi); la Società italiana per l'incoraggiamento e la diffusione degli studi classici (fondata nel 1897; pubblica dal 1898 Atene e Roma); la Società italiana per la ricerca dei papiri greci e latini in Egitto (istituita nel 1908; pubblica dal 1912 Papiri greci e latini); la Società italiana di neurologia (fondata nel 1907, pubblica la Rivista di patologia nervosa e mentale); la Società botanica italiana (fondata nel 1888, pubblica il Nuovo giornale botanico italiano); l'Istituto agricolo coloniale italiano (fondato nel 1907, pubblica l'Agricoltura coloniale e la Biblioteca agraria coloniale). Ricordiamo, per la sua importanza nella storia della cultura fiorentina di questo scorcio di secolo, la Biblioteca filosofica, fondata nel 1905, che raggruppò intorno a sé alcune tra le migliori energie e intelligenze, specie giovanili.
Gallerie e musei principali. - Galleria degli Uffizî. - Ha sede nel palazzo omonimo. Fu iniziata circa nel 1575 da Francesco I come galleria delle statue e dei rilievi raccolti da Cosimo I, ebbe subito nella "tribuna" oggetti d'arte e di curiosità. Nel Sei e Settecento si accrebbe di nuove sale con sculture antiche e modeme, pitture, ceramiche, armi, strumenti scientifici e rarità naturali. Alla fine del sec. XVIII ne fu tentato un riordinamento, portandosi altrove le raccolte scientifiche, ma disperdendo armi e ceramiche. Nel sec. XIX si tolsero le raccolte archeologiche e le sculture moderne, rimanendo la galleria destinata alla pittura, con sculture antiche ed arazzi come ornamento. L'ordinamento attuale, dopo lo sfollamento (1905-1920), comprende (esclusi gli autoritratti, e in più due sale di sculture antiche) una trentina di sale dedicate specialmente alle scuole toscana, veneta e fiamminga.
Galleria Palatina. - Ha sede a Palazzo Pitti. Iniziata circa il 1620 da Cosimo II, aumentata notevolmente da Ferdinando II con l'eredità Della Rovere, poi sempre arricchita dagli altri granduchi medicei e lorenesi, e da Umberto I con lo scalone monumentale, fu donata (1911) da Vittorio Emanuele III allo stato. Conserva il suo carattere originale di galleria principesca italiana, offrendo una moltitudine di capolavori di pittura italiana e straniera, specialmente del Cinque e Seicento: oltre le attribuite, nove opere sicure di Raffaello, sette di Tiziano, e notevoli gruppi del Tintoretto e di Paolo Veronese, di Van Dyck e di Rubens. Alla Palatina sono annessi gli appartementi reali con arazzi, mobili artistici, porcellane orientali; e il Museo degli argenti con le collezioni dei vasi in cristallo e pietre dure, delle gemme e cammei, degli avorî e anche delle porcellane e delle stoffe.
Galleria dell'Accademia. - Ha sede in via Ricasoli, n. 52. Costituita originariamente coi dipinti posseduti dall'Accademia del disegno, aumentata con le soppressioni religiose leopoldine e napoleoniche dotata nel 1873 della tribuna per accogliervi il David di Michelangelo, la galleria è stata completamente riordinata (1910-20) e destinata a custodire, col David, i bozzi dei Prigioni e del S. Matteo di Michelangelo, e pitture di scuola toscana dal sec. XIII a tutto il XVI.
Gaileria d'Arte moderna. - Ha sede in palazzo Pitti. Iniziata nel 1860; qui ordinata nel 1924, offre specialmente un quadro completo dell'arte toscana dell'Ottocento e del primo Novecento.
Museo archeologico. - Ha sede nel palazzo della Crocetta. Qui ordinato fino dal 1880 e di continuo aumentato, consta delle seguenti sezioni: Museo egiziano, costituito degli oggetti della spedizione Rosellini (1828-29); Antiquarium etrusco-greco-romano con la raccolta dei bronzi (Idolino, Oratore, Minerva, Chimera) e dei vasi greci (Vaso François) e la galleria della pittura etrusca; Museo topografico dell'Etruria anche con ricostruzione di antiche tombe.
Museo Nazionale. - Ha sede nel palazzo del Podestà (Bargello). Creato nel 1859 con raccolte degli Uffizî, di continuo aumentato con acquisti e doni, in definitivo riordinamento fin dal 1928, si distingue in una sezione di scultura specialmente toscana con cospicui gruppi di opere di Donatello, Luca della Robbia, Michelangelo, Cellini; ed in una di arti minori specialmente nelle raccolte Carrand (avorî, smalti, ceramiche, ecc.), Ressmann (armi) e Franchetti (stoffe).
Museo di San Marco. - Ha sede nel convento omonimo. Fu istituito nel 1869 e riordinato nel 1922; conserva un centinaio di tavole e di affreschi del Beato Angelico e della sua scuola. Vi è annesso il Museo topografico e di Firenze antica.
Casa Buonarroti. - Ha sede in via Ghibellina nella casa di Michelangelo, con dipinti che ne ricordano la vita (sec. XVIII) e raccolta di suoi disegni.
Museo Stibbert. - Ha sede nella villa omonima a Montughi. Legato al comune dal cav. F. Stibbert nel 1906, possiede una pregevolissima e copiosissima raccolta di armi (numerose delle quali riprodotte alla voce armi), insieme con altre di oggetti d'arte, specialmente industriale, e di abbigliamento.
Altre raccolte. - Pubbliche raccolte d'arte si trovano all'Ospedale degli Innocenti, al Bigallo, ecc. Vanno altresì ricordati il Museo civico Bardini (Piazza de' Mozzi: sculture, mobili, oggetti) e il Museo di casa Horn (Corso de' Tintori: dipinti, sculture, disegni).
Biblioteche e archivî. - Varî ordini religiosi possedevano ricche biblioteche a Firenze nel Medioevo, cui fanno riscontro quelle di studiosi quali il Boccaccio; e già con C. Salutati era sorta la prima idea di una biblioteca pubblica, poi realizzata coi libri di N. Niccoli, auspice Cosimo de' Medici, nel convento di S. Marco. Quelle biblioteche, e altre formatesi poi, confluirono per le tre incamerazioni che si ebbero dal 1775 al 1866, insieme con le molte private, nelle biblioteche pubbliche fiorentine; quando non andarono disperse.
R. Biblioteca Nazionale Centrale. - Dalla libreria di circa 30.000 volumi che A. Magliabechi lasciava il 26 maggio 1714 alla città di Firenze per pubblica utilità, nasce la biblioteca, con tale forza aggregativa, in ambiente così idoneo, che presto è decuplicata. Già nel 1736 l'esecutore testamentario del Magliabechi, A. Fr. Marmi, si fa suo emulo; e Gian Gastone de' Medici, mentre le appresta il locale nel teatro di corte, dove tuttora, con ampliamenti, risiede, la provvede del diritto a raccogliere la produzione tipografica del granducato; e i Lorena, mentre la aprono al pubblico il 4 gennaio 1747, le dànno magnifico incremento con le librerie Gaddi, Biscioni e Strozzi; con le librerie incamerate di conventi e di accademie; e nel 1771 con la biblioteca Medicea lotaringia palatina. Patisce, come quasi tutte le biblioteche nostre, una stasi nella prima metà dell'Ottocento; ma il costituito regno d'Italia nel 1861 decreta (e attua nel '66) l'annessione della Palatina seconda, il gran patrimonio librario che i Lorena si erano formato, ricca di 90.000 volumi e 3000 manoscritti (tra cui i Poggiali la grande serie galileiana, quella del Cimento, i Panciatichi, i Baldovinetti, i leopardiani del De Sinner) onde lascia il nome sino allora tenuto di Magliabechiana e assume quello di Nazionale; e come dal '48 raccoglieva tutta la produzione tipografica toscana, dal 30 giugno 1870 raccoglie tutta quella italiana. Per il deposito legale, per cospicui doni, legati, incamerazioni e acquisti aggiuntisi (Guicciardini sulla Riforma in Italia; Raccolta savonaroliana; Genealogica del Passerini; G. Capponi; Foscoliani, carteggi moderni, ecc.); per acquisti e scambî internazionali, essa è ormai l'impareggiabile deposito dei documenti della nostra letteratura e della nostra civiltà, e insieme lo specchio delle più notevoli correnti del pensiero straniero. Il r. decr. 28 ottobre 1885 la dichiarava Nazionale Centrale. Conta circa 23.000 manoscritti, con autografi e copie sincrone che vanno da Brunetto Latini, dal Boccaccio, Machiavelli, Galileo e sua scuola sino al Leopardi, al Foscolo e agli artefici dell'unità e al Carducci; con oltre 100 manoscritti danteschi, tra cui il Codice Poggiali della Commedia; con oltre 600 codici miniati; 400.000 lettere, tra cui i carteggi Magliabechi, Marmi, Varchi, autografi Gonnelli; e, tra i moderni, Vieusseux e Tommaseo; 3600 incunaboli; qualche raro cimelio della stampa estera; 50.000 opere rare tra cui notevoli, oltre le ricordate, le serie Aldina, Bodoniana, Sacre rappresentazioni, libri postillati, rilegature; conta 850.000 volumi e 1.550.000 opuscoli. Dal 1886 pubblica il Bollettino delle pubblicazioni italiane ricevute per diritto di stampa.
R. Biblioteca Mediceo-Laurenziana. - V. laurenziana, biblioteca.
R. Biblioteca Marucelliana. - Trae origine e nome dall'ab. Fr. Marucelli, che con testamento del 2 aprile 1702, la destinava a vantaggio pubblico; ebbe dai suoi discendenti impulso e incremento. Aperta il 15 settembre 1752, ebbe ordinatore e primo bibliotecario A. M. Bandini (1752-1803), che la aumentò per cospicue procurate donazioni e savî acquisti, e per il lascito del proprio carteggio. Danni ebbe nel periodo del dominio francese, ma ebbe miglior sorte per i provvedimenti dei Lorena; e dopo la costituzione del regno ebbe notevolissimo incremento per altre incamerazioni, doni, legati e acquisti (libreria della SS. Annunziata, stampe della R. Calcografia; Manoscritti Redi; Martelli con le Memorie Foscoliane; Melodrammi Bonamici; Miscellanea Del Lungo; Manoscritti e carteggio Raina). E biblioteca di carattere generale, con una specializzazione, dal 1887, in arte e arte applicata all'industria. Conta 2150 manoscritti, tra cui il Mare Magnum di Fr. Marucelli; 20.000 lettere moderne, oltre ai carteggi; 600 incunaboli; 155.000 volumi e 85.000 opuscoli; 33.500 incisioni e parecchie rarità bibliografiche.
R. Biblioteca Riccardiana. - Verso la fine del '500 R. Romolo Riccardi raccoglieva una bella serie di manoscritti e di stampati, che poi Francesco Riccardi arricchì e trasportò nel proprio palazzo, collocandola degnamente nelle sale, dove tuttora risiede, fatte affrescare a Luca Giordano. Gabriele Riccardi la accrebbe e la fece accessibile al pubblico (1786). Acquistata poi, dopo varie vicende, dal comune, fu donata allo stato; e restituita quindi ad uso pubblico. È speciale per manoscritti di letteratura e storia italiana, particolarmente toscana e fiorentina. Nonostante qualche accrescimento (Lami, Fagiuoli, Pieri), mantenne il carattere originario; onde resta tipica biblioteca di una famiglia patrizia fiorentina del '600 e '700. Conta 3927 manoscritti; circa 28.000 volumi e più di 10.000 opuscoli.
Biblioteca della R. Università. - Costituita nel 1859, su materiale preesistente, sparso; ha quattro sezioni; notevoli i fondi De' Bardi, D. Comparetti (1927), la Biblioteca botanica Webb (1848), la Biblioteca geologica e quella di antropologia e di etnologia; conta più di 200.000 volumi e 100.000 opuscoli.
Biblioteca Moreniana. - Costituita coi manoscritti e con gli stampati di D. Moreni, insigne bibliografo di Toscana, posseduti e accresciuti da P. Bigazzi, venduti nel 1868 alla provincia di Firenze che ne fece una biblioteca pubblica. Le si aggiunsero poi altri manoscritti e fondi speciali per studî di storia toscana (Pecci, Palagi, Libri, Frullani). Conta 1400 manoscritti; 3000 volumi e altrettanti opuscoli; 2000 autografi.
Biblioteca civica del Gabinetto scientifico letterario G. P. Vieusseux. - Istituita nel 1819 conta 500.000 volumi; è ricca di opere letterarie modeme e di riviste e giornali.
R. Archivio di Stato. - Nel 1852 furono riuniti da F. Bonaini, e nel 1855 aperti al pubblico, gli archivî fiorentini; conservando a ciascuno il carattere di rappresentante di una speciale magistratura e di uno speciale organo di stato, sicché insieme formano il quadro della storia fiorentina. Costituiscono uno dei più grandi archivî del regno. Il materiale, che ascende a 142.222 documenti membranacei, e a 406.726 registri e filze, fu diviso in 4 sezioni: "Repubblica" (Origini-1530), "Principato" (1530-1860), precedute dall'"Archivio diplomatico", istituito da Pietro Leopoldo nel 1778, per raccogliere i documenti dei soppressi conventi e delle pubbliche amministrazioni, notevolmente accresciuto poi (in tutto 140.000 documenti, di cui 380 anteriori al 1000, e 30.000 tra il 1000 e 1300); e dall'"Archivio notarile anticosimiano" coi rogiti notarili di Firenze e dominio dal sec. XI al 1569, il quale contiene 22.000 protocolli di storia e d'interessi prevalentemente privati, in copia dal 1092, originarî dal 1250. Seguono gli archivî di tutti gli uffici amministrativi della provincia. L'archivio possiede inoltre una ricca collezione di portolani e di atlanti marini, e qualche papiro ravennate.
Arte della stampa.
Firenze è la prima delle grandi città che vide sorgere l'arte della stampa non per importazione di tipografi stranieri ma per opera d'uno dei suoi cittadini: Bernardo Cennini; l'unico suo libro conosciuto, Commentarii in Virgili opera di Servio, del 1471-72, è di estrema rarità. Per lungo tempo quest'opera fu creduta il primo prodotto tipografico fiorentino, mentre oggi vien fatto precedere un gruppo di edizioni riunite sotto il nome "stampatore del Mesue". Esse sono cinque in tutto e una, l'opera di Giovanni Mesue con aggiunte di Pietro d'Abano, reca la data del 9 giugno 1471. Segue immediatamente Giovanni di Pietro da Magonza con attività saltuaria dal 1472 al 1497 (associato per qualche tempo con Lorenzo Morgiani); fra le sue più rare edizioni sono da annoverare il Filocolo del Boccaccio (1472) e Il libro della Sfera di Lonardo Dati (1472), conosciuto in unico esemplare (Biblioteca Naz. di Firenze). Contemporaneamente, nel monastero domenicano di S. Iacopo di Ripoli, fra Domenico da Pistoia, fra Pietro da Pisa e soci, dal 1476 al 1484, imprimevano una serie di caratteristiche e belle edizioni; una fra le più rare di esse è il Decamerone (s. d., ma del 1483), di cui si conosce il solo esemplare della Bibl. de l'Arsenal di Parigi.
L'arte tipografica in Firenze ebbe fin dai primordî notevolissimo sviluppo, ma non è possibile qui seguirne le vicende in modo particolare. Fra i nomi più salienti del sec. XV si devono tuttavia ricordare: Niccolò di Lorenzo da Breslavia (Niccolò Tedesco o della Magna) che inizia la sua attività nel 1477; fra le sue edizioni non vanno taciute il Monte sancto di Dio di A. Bettini (1477), che è il più antico libro con incisioni in rame e la Commedia di Dante (1481) con incisioni su disegni attribuiti a Sandro Botticelli. Una non breve operosità ebbe poi Francesco di Dino (1481-1496), il modenese Antonio Miscomini (1481-1494) e, contemporaneamente, Bartolomeo di Libri (1482-primi anni del sec. XVI) con numerose e celebri opere, fra cui l'editio princeps in greco di Omero (1488) ed edizioni popolari di carattere sacro, fra le quali non poche e rare operette savonaroliane. Seguono in ordine di tempo: Francesco Buonaccorsi (1485, nel 1488-89 con Antonio di Francesco, poi solo fino al 1496) dalla cui tipografia uscì, fra l'altro, la rara editio princeps del Convivio di Dante (1490) e delle Laudi di Iacopone da Todi (1490); ser Piero Pacini di Pescia (1496-1514), che stampò esclusivamente libri con incisioni silografiche; Lorenzo di Francesco di Alopa (1494-96) con belle edizioni greche, tra cui l'Anthologia Graeca (1494), l'Argonautica di Apollonio Rodio (1496), ecc. Nel 1497 s'inizia in Firenze l'attività tipografica dei Giunti per opera di Filippo.
Nel sec. XVI, oltre ai Giunti che tennero per lungo tempo il primato, impressero in Firenze: A. F. Doni (1546-47) e il fiammingo Lorenzo Torrentino, chiamatovi nel 1546 da Cosimo I, e la cui attività giunge sino al 1563. Grande interesse artistico offre gran parte del materiale librario fiorentino alla fine del Quattrocento e nei primi venticinque anni del secolo seguente. La ricca serie di volumi illustrati si trova elencata nell'opera del Kristeller (v. bibl.). Oltre le qualità squisite di disegno, le illustrazioni mostrano con quanta semplicità di mezzi fu raggiunta una rara perfezione. Il Trattato delle virtù del giuoco degli scacchi di Iacopo da Cessole (1493), l'Arte del ben morire (1495 circa), l'Esopo (1496), i Trionfi del Petrarca (1499), il Fior di virtù (1498), il Quadriregio del Frezzi (1508) e le Sacre rappresentazioni offrono alla nostra ammirazione un gran numero di silografie fra le più belle di quel tempo.
Segni di decadenza si avvertono nei secoli XVII e XVIII; tuttavia operosità notevole ebbe la stamperia granducale, continuazione di quella del Torrentino e dotata di varî privilegi, nella quale s'alternarono tipografi di merito come G. Signoretti, P. Matini, e, dopo trasformazioni varie, G. Cecchi, P. A. Bigonci, F. Bonaventuri, i soci G. G. Tartini e S. Franchi, F. Pecci, finché il 31 luglio 1772 essa passò in proprietà di Gaetano Cambiagi ed eredi; ebbe attività fino al 1881, assumendo da ultimo il nome di Stamperia reale.
Particolare importanza ha l'arte tipografica in Firenze durante tutto il sec. XIX per il grande impulso dato alla produzione letteraria, filologica e storica e per il sorgere e l'affermarsi rapidamente di rinomate case editoriali. Oltre al patriota Glauco Masi, che ebbe tipografia in Firenze fino al 1835, vanno ricordate: la tipografia galileiana sostenuta da G. P. Vieusseux, Giuseppe Molini (1820-36), Davide Passigli (1829 circa-1848), e gli editori G. Barbèra (v.), F. Le Monnier (v.).
V. tavole LXXXI-CIV.
La provincia di Firenze.
La provincia di Firenze, corrispondente già all'antico compartimento fiorentino della Toscana granducale, nei limiti assegnatile dopo le recenti modificazioni nell'ordinamento amministrativo dello stato (6 dicembre 1926), onde le furono sottratti il circondario di Rocca S. Casciano, corrispondente alla cosiddetta Romagna toscana, e il circondario di Pistoia, eretto in provincia autonoma, ha un'estensione di 3879 kmq. Comprende la media valle dell'Arno da un punto a 4 km. a monte di Figline fino alla conflugnza dell'Elsa e l'intera valle della Sieve con una parte del territorio transappennino (kmq. 482) tra la Falterona e il Passo della Futa. La sua popolazione (1921) risultò di 794.081 ab., saliti a 840.287 (1931). La provincia comprende 49 comuni, dei quali il più esteso è Firenzuola (kmq. 271,13) e il meno esteso Signa (kmq. 18,34); il più popoloso, oltre il capoluogo, Prato con 67.781 ab. e il meno popoloso Londa con 2674 ab.; il più alto s. m. Cantagallo (574 m.) e il meno elevato Empoli (27 m.).
Bibl.: Ricchissima è la bibl. su Firenz; le indicazioni sono limitate qui da alcuni gruppi di opere scelte fra le principali e le più recenti. Come repertorî generali sono assai utili: P. A. Bigazzi, Firenze e contorni, Firenze 1893 e R. Uccelli, Contributo alla bibliogr. della Toscana, Firenze 1922.
Guide e monografie generali: F. L. Del Migliore, F. città nobilissima illustrata, Firenze 1654; F. Bocchi e G. Cinelli, Le bellezze della città di F., Firenze 1677; V. Follini e M. Rastrelli, F. antica e moderna, Firenze 1789-1802; L. Gargiolli, Descrip. de la ville de F., Firenze 1819; F. Fantozzi, Nuova guida di F., Firenze 1842; G. Marcotti, Guide-souvenir de F., Firenze 1892; O. Marinelli, La carta topografica e lo sviluppo di F., in Rivista geogr. it., XXVIII (1921), pp. 18-38; A. Mori e G. Boffito, F. nelle vedute e nelle piante. Studio stor., topogr., cartogr., Firenze 1926; N. Tarchiani, F., 3ª ed., Bergamo s. a. (trad. in franc. e in ingl.); M. Marangoni, F., Novara 1930.
Per Firenze antica: O. Hartwig, Q uellen u. Forsch. z. ält. Geschichte d. Stadt Florenz, Marburgo 1875; L. A. Milani, Reliquie di F. antica, in Mon. ant. Acc. Lincei, VI (1895); R. Davidsohn, Forsch. z. Geschichte v. Florenz, Berlino 1896-1908; id., Geschichte v. Florenz, Berlino 1896-1927, voll. 4 (trad. it. del 1° vol. e della 3ª parte del 4° vol., Firenze 1907-1929); E. Galli, Dove sorse il bel S. Giovanni, Firenze 1916; A. Solari, Topogr. stor. dell'Etruria, Pisa 1918-320, II, ii, p. 279; E. Masini, Le origini di F., in L'universo, VI (1925), pp. 507-29; F. Magi, Firenze. Ediz. arch. della carta d'Italia (foglio 106), Firenze 1929. Cfr. ancora: L. A. Milani, Museo topogr. dell'Etruria, Firenze 1898; id., Museo archeol., Firenze 1905 segg.; Weiss, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., VI, coll. 2752 segg.; Bormann, in Corp. Inscr. Lat., XI, p. 306; Nissen, Ital. Landesk., II, p. 295.
Per l'arte: Architettura: G. Bocchi, Scelta di XXIV vedute, Firenze 1744; G. Richa, Notizie istoriche delle chiese fiorentine, Firenze 1754-62, voll. 10; L. Biadi, Notizie stor. sulle antiche fabbriche di F., Firenze 1824; E. Mazzanti, Raccolta delle migliori fabbriche di F., Firenze 1876; Studi storici sul centro di Firenze, Firenze 1889; G. Carocci, F. scomparsa, Firenze 1897; Il centro di F., Firenze 1900; A. Cocchi, Le chiese di F., Firenze 1903; I. Ross, Florentine palaces, Londra 1905; C. Ricci, Cento vedute di F. antica, Firenze 1906; I. B. Supino, Gli albori dell'architettura fior., Firenze 1906; W. Limburger, Die Gebäude v. F., Lipsia 1910; L. Dami e B. Barbadoro, F. ai tempi di Dante, Firenze 1921; A. Lensi, F. Medievale. Quello che fu distrutto e quello che resta, in Atti Soc. Colombaria 1928-30, Firenze 1930. - Scultura: M. Reymond, La sculpture florentine, Firenze 1897-99, voll. 3; W. Bode, Florentiner Bildhauer der Renaissance, 4ª ed., Berlino 1921. - Pittura: J. Ruskin, Mornings in Florence, New York 1889; B. Berenson, The Drawings of the Florentine Painters, Londra 1903; id., Italian Pictures of the Renaissance, Oxford 1932; H. Voss, Die Malerei d. Spätrenaissance in Rom u. Florenz, Berlino 1920, voll. 2; R. v. Marle, The development of the Italian Schools of painting, III (The florentine School of the 14th Century) e X-XII (The Renaissance Painters of florence in the 15th Century), L'Aia 1924 e 1928-31; P. Toesca, La pittura fiorentina del Trecento, Firenze 1930; R. Offner, Corpus of florentine painting, New York 1931 (in corso di pubbl.). Da cfr. anche i varî cataloghi delle raccolte e gallerie d'arte. Arti minori: A. Zobi, Not. stor. dei lavori di commesso in pietre dure, Firenze 1853; C. Conti, Ric. stor. sull'arte degli arazzi a F., Firenze 1876; C. O. Guasti, Colacciolo e altre fabbriche di ceramiche, Firenze 1902; A. Schiapparelli, La casa fiorentina, Firenze 1908; P. D'Ancona, La miniatura fiorentina, Firenze 1914; M. Tinti, Il mobilio fiorentino, Milano-Roma s. a. [1928].
Per la storia medievale e moderna: Opere generali: R. Galluzzi, Istoria del Granducato di Toscana sotto il governo de' Medici, Firenze 1830, voll. 18; A. Zobi, Storia civile della Toscana dal 1737 al 1748, Firenze 1850-52, voll. 5; G. Capponi, Storia della Repubblica di F., Firenze 1875, nuova ed., ivi 1930; A. Reumont, Geschichte Toskana's seit dem Ende des florentinischen Freistaats, Gotha 1876-77; F. T. Perrens, Histoire de F., Parigi 1877-84, voll. 6; id., Histoire de F. depuis la domination des Médicis, ecc., Parigi 1888-90, voll. 3; R. Davidsohn, op. cit., R. Caggese, Firenze dalla decadenza di Roma al Risorgimento d'Italia, Firenze 1912-21, voll. 3; A. Panella, F., Roma 1930 (Coll. Storie munic. d'It.). - Opere particolari su singoli periodi storici e sulle istituzioni: P. Villari, Storia di Gerolamo Savonarola e dei suoi tempi, Firenze 1859-61, voll. 2, ultima ed., ivi 1927; C. Paoli, Della signoria di Gualtieri duca d'Atene in F., in Giorn. stor. d. archivi toscani, VI (1862); A. Gherardi, La guerra dei Fiorentini con papa Gregorio XI, detta degli Otto Santi, in Arch. stor. it., 1882; A. Reumont, Lorenzo de' Medici, il Magnifico, Lipsia 1874, voll. 2; P. Villari, Niccolò Machiavelli e i suoi tempi, Firenze 1877-82, ultima ed., Milano 1927; P. Falletti Fossati, Il tumulto dei Ciompi, Siena 1882; O. Tommasini, La vita e gli scritti di N. Machiavelli nella loro relazione col machiavellismo, Roma 1883-1911, voll. 2; P. Falletti Fossati, L'assedio di F., Palermo 1883; P. Villari, I primi due secoli di storia di F., Firenze 1894, nuova ed., ivi 1905; G. Salvemini, Magnati e popolani in F. dal 1280 al 1295, Firenze 1899; I. Del Lungo, Da Bonifacio VIII ad Arrigo VII, Milano 1899, 2ª ed., con il titolo I Bianchi e i Neri, ivi 1921; N. Rodolico, La democrazia fiorentina nel suo tramonto, Bologna 1899; P. Santini, Studi sull'antica costituzione del comune di F., in Arch. stor. it., s. 5ª, vol. XXV, pp. 25-86, voll. XXVI (1900), pp. 3-80 e 165-249; A. Doren, Studien aus der florentiner Wirtschaftsgeschichte, Stoccarda 1901-08; U. Pesci, F. capitale, Firenze 1904; E. Robiony, Gli ultimi dei Medici e la successione al Granducato di Toscana, Firenze 1905; A. Anzilotti, La costituzione interna dello stato fiorentino sotto Cosimo I, Firenze 1910; A. Falce, Il marchese Ugo di Tuscia, Firenze 1921; L. Dami e B. Barbadoro, op. cit.; C. Roth, The laste florentine Republic, Londra 1924 (trad. it., Firenze 1929); G. Pieraccini, La stirpe de' Medici di Cafaggiolo, Firenze 1924; N. Ottokar, Il comune di F. alla fine del Dugento, Firenze 1926; A. Rado, Maso degli Albizzi e il partito oligarchico in F. dal 1382 al 1393, Firenze 1926; R. Ciasca, L'arte dei medici e speziali nella storia del commercio fiorentino, dal sec. XII al sec. XV, Firenze 1927; A. Valori, La difesa della Repubblica fiorentina, Firenze 1929; B. Barbadoro, Le finanze della Repubblica fiorentina, Firenze 1929; G. Masi, I banchieri fiorentini sulla fine del Dugento, Modena 1931.
Per gl'istituti di cultura: G. Prezziner, Storia del pubblico Studio di Firenze, Firenze 1810, voll. 2; O. Andreucci, Dell'Istituto Sup. di studi prat. e di perf. in F., Firenze 1870; U. Peruzzi, Relazione sull'ordinamento e ampliam. del R. Istituto di studi sup. in F., Firenze 1874; Statuti dell'Università e Studio fiorentino, a cura di A. Gherardi, Firenze 1881 (Docum. di storia ital. pubbl. d. R. Dep. tosc. di storia patria, VII). Per le biblioteche: Le biblioteche governative ital., Roma 1900; per i cataloghi delle raccolte cfr. G. Ottino e G. Fumagalli, Bibliotheca bibliograph. italica, Roma 1898-1902, s. v.; per le accademie, cfr. M. Maylender, Storia delle accademie d'Italia, Bologna 1926-1930, voll. 5, s. v.; Accademie e Società agrarie d'Italia. Cenni storici, Firenze 1931. Vedi inoltre: L'ordinamento delle carte degli archivi di stato italiani, Roma 1910; L'Archivio storico ital. e l'opera cinquantenaria della R. Dep. tosc. di storia patria, Bologna 1916.
Musica e teatro: A. Ademollo, I primi fasti del teatro di Via della Pergola, Milano 1885; J. Wolf, Florenz in der Musikgeschichte der XIV. Jahrh., Lipsia 1901-02; Lozzi, La musica e il melodramma alla corte medicea, Torino 1902; A. Solerti, Le origini del melodramma, Torino 1903; id., Gli albori del melodramma, Palermo 1905; id., Musica, ballo e drammatica alla corte Medicea dal 1600 al 1637, Firenze 1905; A. Bonaventura, La vita musicale in Toscana nel sec. XIX, in La Toscana alla fine del Granducato, Firenze 1910; Jarro (G. Piccini), Storia aneddotica dei teatri fiorentini, I, Firenze 1912.
Per la lett. dialettale e folklore: Per le opere concernenti la questione della lingua, cfr. italia: Lingua. Per gli antichi testi cfr. A. Schiaffini, Testi fiorentini del Dugento e dei primi del Trecento, Firenze 1926. Per F. Baldinucci, F. Baldovini, M. Buonarroti il Giovane, cfr. la bibl. alle singole voci. Per Stenterello v. del buono, luigi. Su G. B. Zannoni commediografo e i suoi successori cfr. E. Checcherelli, G. B. Z. con speciale riguardo ai suoi scherzi comici e al teatro vernacolo fiorentino, Firenze 1915; inoltre: A. Novelli, Il teatro fiorentino da Stenterello a "L'acqua cheta", in La Lettura, IX (1909), pp. 982-88; P. Gori, Le feste fiorentine attraverso i secoli, Firenze 1926; G. Conti, Firenze vecchia, Firenze 1899; D. Guerri, La corrente popolare nel Rinascimento: Berte, burle, baie nella Firenze del Brunellesco e del Burchiello, Firenze 1931.
Per l'arte della stampa: P. Bologna, La stamperia fiorentina del Monastero di S. Jacopo di Ripoli e le sue edizioni, in Giorn. stor. d. lett. it., XX (1892), pp. 349-78; ibid, XXI (1893), pp. 49-69; S. Landi, La stamperia reale di Firenze e le sue vicende, Firenze 1881; G. Molini, Annali della Tipografia All'Insegna di Dante, in Operette bibliografiche, Firenze 1858; M. Kristeller, Early florentine Woodcuts, with annotated list of florentine illustrated Books, Londra 1897; R. Proctor, The printing of greek in the fifteenth century, Oxford 1910; G. Fumagalli, Lexicon typograph. Italiae, Firenze 1905, s. v.; A. M. Hind, Catal. of early it. engrawings... in the Br. Museum, Londra 1910, pp. 83-94; Catal. of Books printed in the XVth cent. now in the Br. Museum, VI, Londra 1930, pp. xii-xix e 615-697. Per B. Cennini, Giunti, L. Torrentino, v. le bibl. alle singole voci.