FIRENZE
(lat. Florentia)
Città della Toscana, capoluogo di regione, F. si sviluppa in un'area pianeggiante sulle rive dell'Arno, che taglia la città in due parti. Fu colonia romana sorta nella seconda metà del sec. 1° a.C., sulla riva destra del fiume in una zona in precedenza occupata da un insediamento villanoviano (sec. 9° a.C.).
Agli inizi del sec. 2° d.C., nel momento di massimo splendore della città, F. fu interessata da un progetto di generale ristrutturazione urbanistica che vide l'ampliamento e la monumentalizzazione del foro, ubicato pressoché al centro dell'impianto rettangolare coloniale in corrispondenza dell'od. piazza della Repubblica, e la costruzione, nel settore sudorientale, di una serie di edifici pubblici. Sia le terme, messe in luce nel dopoguerra in prossimità della porta meridionale, sia l'imponente complesso termale e la fullonica (impianto industriale per la lavorazione dei tessuti), recentemente rinvenuti negli scavi di piazza della Signoria, sia l'anfiteatro, i cui resti sono segnalati dalla disposizione circolare di alcune case medievali situate nei pressi di piazza Santa Croce, testimoniano chiaramente che la città si era espansa in età imperiale all'interno e all'esterno del circuito murario. Quest'ultimo, d'altronde, doveva aver perso assai presto la sua funzione difensiva, come dimostrano alcune strutture, databili alla medesima epoca, rinvenute addossate a tratti di mura.Nel sec. 3° F. acquistò importanza anche dal punto di vista amministrativo tanto da divenire sede del governatore della Tuscia. Nella zona di espansione a settentrione della cerchia muraria coloniale, lungo il proseguimento del cardine maggiore, si situa la più antica basilica della città che si conosca a tutt'oggi, S. Lorenzo. Della chiesa originaria, consacrata da s. Ambrogio nel 394 (De exhortatione virginitatis; PL, XVI, col. 354) e riconosciuta, sulla base anche di alcuni documenti dei secc. 12° e 13° nei quali è definita caput Florentinae Ecclesiae (Lami, 1758, II, pp. 935-937), come la primitiva cattedrale, non è stata rintracciata per il momento alcuna testimonianza archeologica. Troppo esigui sono infatti i resti di strutture murarie rinvenuti nel 1978 nel sottosuolo della basilica perché si possa con sicurezza attribuirli a una delle fasi precedenti l'edificio rinascimentale (de Marinis, 1993).Pressoché contemporaneo all'antico S. Lorenzo è il primitivo impianto della basilica sorta nell'area dell'od. S. Felicita. Ubicata sulla riva sinistra dell'Arno in prossimità di un importante nodo stradale - in corrispondenza del ponte si incrociavano la via Cassia nova e le strade per Pisa, Siena e Volterra -, la basilica aveva carattere cimiteriale. Una serie di ritrovamenti, susseguitisi a partire dal sec. 16°, ha consentito il recupero di oltre cinquanta epigrafi cristiane pertinenti a tale edificio e collocabili in un arco cronologico che va dall'inizio del sec. 5° al secondo quarto del successivo. Particolarmente significativo per la storia economica e religiosa della città è un gruppo di iscrizioni in greco relative a personaggi di origine siriaca; tra di esse riveste un'importanza preponderante per la cronologia dell'edificio l'iscrizione di Theoteknos, risalente al 405 (Gunnella, 1994). Tale lapide, rinvenuta in occasione di saggi di scavo compiuti nel 1948 a copertura di una tomba ancora integra, indica chiaramente che a quell'epoca l'edificio doveva essere già in funzione. Le strutture messe in luce nel corso delle suddette indagini restituiscono l'immagine di una basilica a tre navate, forse absidata, con pavimento costellato di lapidi funerarie marmoree (Maetzke, 1957; 1986).Notevole è il contributo apportato alla definizione della topografia tardoantica di F. dai recenti scavi di piazza della Signoria. Nel settore sudoccidentale sono emerse infatti alcune strutture pertinenti a una basilica a tre navate divise da pilastri, di cui quella centrale pavimentata a mosaico e quelle laterali in cocciopesto, e con abside chiusa da un muro rettilineo delimitante due ambienti annessi. All'interno dell'abside sono stati rinvenuti i basamenti dei subsellia (banchi per i presbiteri) e della cattedra episcopale. Sul lato meridionale dell'edificio, databile tra il sec. 5° e l'età di Teodorico (493-526), sono stati messi in luce inoltre i resti di un probabile battistero (Piazza della Signoria, in corso di stampa). La basilica, già in abbandono alla fine del sec. 6°, si inserì in un'area solo in parte occupata da edifici. Questi ultimi, frutto di adattamenti e ristrutturazioni dei grandi complessi pubblici di età imperiale, erano destinati prevalentemente allo svolgimento di attività commerciali e artigianali (Maetzke, 1975; de Marinis, 1991).Completano il quadro dell'architettura religiosa dei primi secoli cristiani i resti del primitivo impianto della cattedrale di S. Reparata. Una lunga campagna di scavi condotta tra il 1965 e il 1974 all'interno dell'attuale cattedrale di S. Maria del Fiore ha consentito il rinvenimento di un'ampia porzione del mosaico che pavimentava la navata centrale e dei resti delle fondazioni dei colonnati che dividevano il corpo basilicale. Alcune parti dei muri perimetrali e dell'abside sono risultate inglobate, invece, nelle murature pertinenti alle fasi posteriori dell'edificio. La chiesa fu edificata in una zona decentrata, a E del cardine maggiore e immediatamente all'interno del tracciato delle mura coloniali, in precedenza occupata da un edificio le cui fasi cronologiche e le cui funzioni rimangono ancora da chiarire. Secondo l'ipotesi corrente, comunque, tale costruzione, originariamente casa privata, sarebbe rimasta in vita fino all'inizio del sec. 5° e sarebbe andata distrutta a causa delle invasioni barbariche di quell'epoca. Tra i suoi resti sarebbero state inserite poi alcune tombe, le quali in seguito dovettero essere obliterate dall'edificio di culto. Sulla base dell'analisi del pavimento musivo della navata centrale, tripartito in pannelli con decorazioni a differenti motivi geometrici occupati da riempitivi vari, e con al centro riquadrature recanti un pavone e i nomi dei donatori del mosaico (Caillet, 1993), si è proposta una datazione per la chiesa al sec. 5° o agli inizi del 6° (Farioli, 1974; Toker, 1975a; 1975b). Quest'ultima cronologia coinciderebbe con gli anni del regno di Teodorico, durante i quali F. attraversò un periodo di relativa pace. Ancora dibattute sono, invece, le questioni riguardanti l'intitolazione originaria della chiesa e le sue caratteristiche funzionali. Non tutti gli studiosi concordano nell'attribuire a s. Reparata il più antico titolo della basilica; si è ipotizzato infatti che essa, originariamente dedicata al Salvatore, fosse intitolata in seguito a s. Giovanni (sec. 9°) e solo più tardi, dal sec. 11° in poi, alla santa martire di Cesarea (Farioli, 1975). Quanto alla funzione dell'edificio, se per alcuni esso ebbe dignità di cattedrale fin dalla sua fondazione (Farioli, 1975; Testini, Cantino Wataghin, Pani Ermini, 1989), per altri svolse tale ruolo solo a partire dal sec. 9°, quando, a opera del vescovo Andrea (869-893), vi furono trasferite dalla basilica di S. Lorenzo le reliquie del santo vescovo Zanobi, morto nel terzo decennio del sec. 5° (Toker, 1975a; 1975b; Benvenuti Papi, 1994).La posizione dell'attuale battistero di S. Giovanni, in asse a O con la cattedrale, ha spesso indotto a riconoscere in esso l'originario edificio battesimale, risalente al sec. 5°-6°, della chiesa vescovile (De Angelis D'Ossat, 1962; Pietramellara, 1973). Le caratteristiche architettoniche del monumento depongono, tuttavia, a favore di una sua datazione al pieno Medioevo; i resti del battistero più antico dovranno pertanto necessariamente ravvisarsi in differenti strutture. Le indagini archeologiche condotte all'esterno e all'interno del S. Giovanni alla fine dell'Ottocento e nei primi decenni di questo secolo hanno messo in luce, oltre ai resti di muri e pavimenti musivi pertinenti a una abitazione di epoca romana, anche le murature di fondazione dell'attuale battistero e quelle relative a una struttura ottagonale situata al di sotto del pavimento, al centro dell'edificio (Galli, 1916-1918; Firenze antica, 1976; Orefice, 1986). La scoperta di un doppio anello murario quale fondazione del monumento ha fatto ipotizzare che il muro esterno appartenesse in origine a un più antico battistero, anch'esso ottagonale, probabilmente di epoca tardoantica o longobarda (Salmi, 1928; Horn, 1937-1940; Paatz, 1940-1941). Recentemente tale precedente tardoantico o altomedievale è stato identificato nella suddetta struttura ottagonale, di solito interpretata invece come la sostruzione della vasca battesimale o come la fondazione della recinzione del fonte distrutto da Bernardo Buontalenti nel 1577 (Toker, 1976; Morolli, 1994). L'ipotesi - per quanto renda più accettabile il rapporto, soprattutto dimensionale, tra il supposto edificio e il primo impianto di S. Reparata, rispetto a quello esistente tra il battistero attuale e le strutture sopravvissute della primitiva chiesa - ha fatto sorgere tuttavia, a una più attenta analisi delle murature, diversi dubbi (Nuove indagini, in corso di stampa; Santa Maria del Fiore, in corso di stampa).Poche altre sono le testimonianze archeologiche della F. tardoantica e altomedievale. Per rimanere nell'ambito della cattedrale, è da segnalare il ritrovamento, nello scavo compiuto agli inizi degli anni Settanta nell'area compresa tra la gradinata di S. Maria del Fiore e il S. Giovanni, di murature probabilmente pertinenti a una struttura antistante l'antica cattedrale (forse l'atrio) e di resti di sepolture altomedievali (Maetzke, 1977). Nel sepolcreto instauratosi a partire dal sec. 12° davanti alla cattedrale erano stati reimpiegati infatti frammenti di casse e di coperchi di sarcofagi in pietra provenienti da tombe più antiche. Altre tombe, per la maggior parte probabilmente posteriori al primo impianto della chiesa e non precedenti (Marino, Nenci, 1992), sono emerse anche all'interno di S. Reparata. Inserito nel pavimento a mosaico è un sarcofago a baule in pietra all'interno del quale è stato rinvenuto un calice in vetro con profilo a S, conservato in una delle vetrine dell'area archeologica della cattedrale, databile al sec. 7° (Hessen, 1975a). La necropoli più antica testimoniata all'esterno dell'edificio doveva estendersi anche verso O; a essa appartenevano verosimilmente alcune sepolture scoperte, tra Ottocento e Novecento, nell'area del S. Giovanni e del palazzo arcivescovile e all'interno del battistero (Galli, 1916-1918). Nonostante la mancanza di elementi stratigrafici e contestuali renda impossibile una più precisa definizione cronologica delle sepolture, si è ritenuto tuttavia che l'area cimiteriale collegabile al complesso episcopale si sviluppasse all'esterno di un ipotetico circuito murario di età bizantina (Hessen, 1975b). Sulla base delle notizie tramandate dal cronista medievale Ricordano Malispini (Storia fiorentina, XXVI-XXVII) e sulla base di alcuni resti di strutture rinvenuti durante gli scavi ottocenteschi nel centro urbano, è stato ipotizzato infatti che in occasione della guerra goto-bizantina (535-553) la città fosse stata dotata di una nuova cerchia difensiva interna alla cerchia muraria coloniale (Maetzke, 1948). Ma tale restringimento, che lascerebbe al di fuori delle mura la cattedrale, non è confermato fino a ora dai risultati dei recenti interventi archeologici praticati nel centro cittadino. Ammettendo tuttavia l'esistenza di una fortificazione bizantina, si può supporre che essa abbia avuto un percorso piuttosto irregolare, nel quale alcuni edifici monumentali dovettero essere utilizzati come capisaldi e collegati, mediante strutture provvisorie probabilmente costruite con materiali di recupero, a tratti delle mura coloniali, ancora in parte esistenti o in tale occasione ripristinate (de Marinis, 1989).Un'altra area cimiteriale doveva trovarsi nel settore meridionale della città e doveva connettersi senza dubbio a uno o più edifici di culto. Diverse sepolture sono state rinvenute infatti tra i resti della basilica scoperta in piazza della Signoria e intorno alla nuova chiesa sorta sullo stesso luogo tra la metà dell'8° e il 9° secolo. Quest'ultima, da identificarsi con l'edificio ricordato in documenti del sec. 10° con il titolo di s. Cecilia, era a navata unica con pavimento a lastre di pietra e abside semicircolare, all'interno della quale era contenuta una piccola cripta.Non lontano da S. Cecilia si ergeva nell'Alto Medioevo un'altra chiesa, di maggiori dimensioni, i cui resti sono venuti alla luce a più riprese al di sotto del pavimento del S. Pier Scheraggio, la chiesa romanica parzialmente inglobata da Giorgio Vasari nel complesso degli Uffizi (Sanpaolesi, 1933-1934; Saalman, 1962; Bemporad, 1968; 1972-1973). Del primitivo edificio di culto, ritenuto del sec. 9°, sopravvivono parte dell'emiciclo absidale con resti di una monofora, un tratto della fondazione del muro perimetrale meridionale e i fondamenti di tre pilastri delle navatelle. Tale chiesa si configura dunque come una basilica a tre navate divise da pilastri e con cripta interrata inserita nell'abside.Il fenomeno della diffusione del culto delle reliquie, che caratterizza i secoli centrali dell'Alto Medioevo, sembra attestato dunque anche a F. dalla presenza di cripte all'interno di alcune chiese. In tale contesto si inserisce probabilmente anche la generale ristrutturazione dell'area presbiteriale di S. Reparata. Al sec. 9° si fa risalire infatti il trasferimento delle reliquie di s. Zanobi dalla basilica di S. Lorenzo a S. Reparata da parte del vescovo Andrea, il quale con tale atto legittimò il proprio potere e confermò alla cittadinanza il possesso delle reliquie dell'antico precursore. La traslazione, che fu determinata anche dalla necessità di proteggere le reliquie del santo patrono cittadino dalle incursioni dei Vichinghi che in quel secolo si abbatterono sulla Toscana, dovette comportare la costruzione di una cripta all'interno della cattedrale. Del nuovo assetto del presbiterio, a cui si è riferita anche la ricostruzione dell'abside (Toker, 1975a; 1975b), rimangono solo alcuni frammenti in marmo, con decorazione a nastri intrecciati, pertinenti al relativo arredo, in parte esposti nell'area archeologica.Ulteriori testimonianze della presenza di apparati scultorei altomedievali negli edifici religiosi della città sono un frammento marmoreo conservato al Mus. di S. Marco, sicuramente proveniente da una delle chiese distrutte nel secolo scorso in occasione dei lavori di ristrutturazione del centro urbano (Il Centro di Firenze, 1989, p. 357), e due frammenti, l'uno in marmo e l'altro in pietra, ora murati nel chiostro degli Aranci della Badia fiorentina (Paatz, 1940-1941, p. 58). Questi ultimi appartenevano indubbiamente alla chiesa, dedicata a Maria Assunta, dell'abbazia benedettina fatta erigere dalla contessa Willa tra il 969 e il 978 in prossimità del tratto orientale delle mura cittadine. Di tale chiesa non rimane alcuna traccia, ma una notizia seicentesca attesta il rinvenimento, all'interno dell'edificio attuale, di tre absidi e di resti di un pavimento di 'smalto' (Sestan, Adriani, Guidotti, 1982). Unica struttura sopravvissuta del complesso voluto dalla madre del marchese Ugo di Toscana è la parte inferiore del campanile che doveva trovarsi sul lato nord della chiesa (Middeldorf, Paatz, 1919-1932; Horn, 1943). Di forma circolare, con paramento scandito da lesene, tale frammento di muratura funge da basamento al più tardo campanile poligonale gotico.Due torri quadrangolari furono aggiunte intorno al Mille anche ai lati dell'abside della cattedrale, la quale dovette assumere pertanto nel corpo orientale un aspetto più articolato. Le due torri, di cui si conservano le sole fondazioni a grossi blocchi di pietra, sono state identificate con i due campanili, di differente altezza, raffigurati ai lati di S. Reparata nell'affresco trecentesco della Madonna della Misericordia (loggia del Bigallo, sala dei Capitani).Con il sec. 11° iniziò a F. un'epoca di rinnovamento sia spirituale sia edilizio. L'attività di riordinamento amministrativo e di riforma istituzionale svolta da alcuni vescovi si collega a un processo di costruzione o di ricostruzione di diversi edifici religiosi della città e del territorio. Agli inizi di tale processo, nei primi decenni del sec. 11° (Santa Maria del Fiore, in corso di stampa) o alla metà di esso (Toker, 1975a; 1975b), si colloca la ricostruzione della cattedrale. A differenza di quanto era accaduto nei secoli precedenti, la chiesa subì una radicale trasformazione: l'impianto basilicale monoabsidato della chiesa primitiva venne abbandonato a favore di un'articolazione più complessa del corpo orientale, per il quale si è proposta un'ascendenza cluniacense, con cappelle sporgenti dal blocco delle navate e absidiole ai lati dell'abside maggiore. I colonnati delle navate furono sostituiti da pilastri rettangolari con lesene sui lati lunghi, mentre quattro sostegni a sezione differenziata (due cruciformi e due rettangolari con semicolonne), reggenti indubbiamente archi-diaframma, segnalavano la zona di incrocio tra i due corpi di fabbrica. Un nuovo pavimento, a lastre di marmo, pietra e cotto, ricoprì inoltre il mosaico della chiesa precedente. Al di sotto del presbiterio, notevolmente più alto rispetto al livello del pavimento delle navate e delle cappelle, si estendeva la cripta. Quest'ultima, a oratorio, occupava in questa fase lo spazio dell'abside e dell'area a essa antistante, ma in seguito fu ampliata fino a raggiungere le dimensioni dell'intero coro.Pressoché contemporanei o di poco precedenti alla ricostruzione della cattedrale fiorentina sono i primitivi impianti della chiesa della badia di S. Salvatore a Settimo (Thümmler, 1939), nei pressi della città, e della cattedrale di S. Romolo a Fiesole. Dell'originaria chiesa abbaziale sopravvivono alcuni tratti delle murature perimetrali e i pilastri di suddivisione delle navate, inglobati in strutture posteriori, la cripta, la tomba marmorea delle contesse carolinge Cilia e Gasdia (1096) e la parte inferiore del campanile - distrutto nel 1944 ma fedelmente ricostruito nel dopoguerra (Luporini, 1972) -, mentre della cattedrale fiesolana sono emerse recentemente alcune strutture pertinenti alla cripta (de Marco, Salvini, 1991).Alla metà del secolo risale probabilmente la ricostruzione della chiesa e del monastero di S. Felicita, la cui esistenza nell'Alto Medioevo è attestata solo da documenti. I resti dell'edificio di culto, riconsacrato agli inizi del 1060 da Niccolò II, sono stati identificati in una serie di colonne con capitelli a motivi decorativi vegetali, in marmo verde, attualmente inglobate in alcuni ambienti della canonica (Sanpaolesi, 1933-1934; Horn, 1937-1940), oppure nelle strutture, relative a una cripta, rinvenute al di sotto del pavimento della chiesa settecentesca (Maetzke, 1957).Più consistenti sono le testimonianze dell'architettura romanica fiorentina della seconda metà dell'11° e degli inizi del 12° secolo. Tra di esse sono da annoverare le strutture pertinenti alla chiesa di S. Pier Scheraggio. Consacrata nel 1068, e forse costruita in più fasi (Oswald, 1990), tale chiesa subì una prima parziale demolizione agli inizi del sec. 15°, quando, per ampliare il vicolo che correva lungo il fianco meridionale di palazzo Vecchio, fu demolita la sua navatella settentrionale; in seguito, al momento della costruzione del complesso degli Uffizi, l'edificio fu privato della facciata e di parte delle restanti navate. In origine la costruzione, a pianta basilicale monoabsidata, era a tre navate, con pavimento in cocciopesto, spartite da colonne con capitelli in cotto ed era preceduta da un portico del quale sono stati messi in luce alcuni resti in occasione di scavi compiuti nel piazzale degli Uffizi (Gasperi Campani, 1927). La regolarità dei colonnati era interrotta, tuttavia, dalla presenza di due pilastri polistili che sorreggevano un arco-diaframma; tale cesura, situata oltre la metà della navata, aveva probabilmente la funzione di introdurre al corpo absidale (Thümmler, 1939). Immediatamente a E dei due pilastri sono stati rinvenuti, infatti, durante i lavori di restauro dell'edificio, i resti della scala che conduceva alla cripta sottostante il presbiterio rialzato (Bemporad, 1972-1973). In corrispondenza dei suddetti pilastri si trovava inoltre un sacello sotterraneo di forma ellittica, con copertura a cupola, accessibile dalla navata centrale, nel quale era stata riutilizzata una porzione dell'emiciclo absidale della precedente chiesa altomedievale (Bemporad, 1968).Due pilastri polistili, in marmo verde, delimitavano l'accesso anche al corpo orientale della chiesa romanica di Santa Trinita, il cui primo documento risale al 1077. Tale chiesa, della quale sopravvivono alcuni resti all'interno dell'attuale edificio gotico, era originariamente a tre navate, divise da colonne, con terminazione orientale a triconco (Saalman, 1962; 1966). Nell'abside, relativa forse a una precedente costruzione altomedievale riutilizzata nella chiesa romanica, fu inserita in seguito una cripta a oratorio, la quale determinò un notevole rialzamento del presbiterio. A quest'ultimo apparteneva probabilmente un frammento di pavimento musivo con animali entro cerchi oggi al Mus. Naz. del Bargello (La chiesa di Santa Trinita, 1987, p. 265).Unica testimonianza di recupero fedele di un impianto basilicale tardoantico - ma l'esempio potrebbe anche essere indicativo della continuità della più antica tradizione architettonica locale - è la chiesa dei Ss. Apostoli. Ricordata per la prima volta in un documento del 1075, la chiesa manifesta chiaramente, nell'uso delle colonne e nella tipologia dei capitelli compositi e corinzi, un rinnovato interesse per l'Antico (Salmi, 1928; Thümmler, 1939).
Bibl.:
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La conoscenza dettagliata dello sviluppo topogafico di F. medievale può avvalersi, da quasi un secolo, della fondamentale opera di Davidsohn (1896-1927), che ne ha ricostruito, sulla base delle fonti, le linee complessive in rapporto con la storia politica, economica e culturale della società cittadina. Negli ultimi venticinque anni una più specifica attenzione è stata dedicata agli aspetti urbanistici, alle tecniche di progettazione e al rapporto tra monumenti e spazi pubblici, al fine di meglio individuare la specificità fiorentina tra Duecento e Trecento, quando F. divenne la più moderna e ammirata città occidentale, modello concreto da imitare dai pianificatori e dai teorici del Rinascimento.La complessità e la dimensione delle trasformazioni urbane - dalla cinta ristretta tardoantica fino all'ultima cerchia attribuita ad Arnolfo di Cambio a partire dal 1284 - confluirono di fatto in una nuova cultura estetica, capace di influenzare durevolmente l'arte di progettare le città e di intervenire sui contesti antichi, nel segno di un concorso tra le diverse arti e di un ferreo controllo da parte delle istituzioni cittadine.Nel corso del sec. 13°, in concomitanza con una fortissima crescita demografica che portò alla quadruplicazione degli abitanti (da 25000 a 100000 ca.), il Comune promosse un intenso programma di opere pubbliche nella città e nel contado: i ponti urbani (dopo ponte Vecchio, ponte Nuovo, ponte alle Grazie, ponte Santa Trinita) erano indispensabili collegamenti con l'Oltrarno, nella prospettiva di una effettiva equiparazione tra la civitas vetus, nucleo di origine romana, e la civitas nova che si andava estendendo all'esterno della penultima cerchia (1172-1175 ca.).La formazione della nuova struttura urbana si basò sul crescente controllo dell'attività edilizia privata - è del 1257 l'obbligo per i proprietari di allineare la facciata della casa a quelle confinanti -, sull'adozione generalizzata della strada urbana rettilinea delimitata da picchetti e corde, già ampiamente sperimentata a Brescia nel 1237, e sul coordinamento delle principali localizzazioni monumentali, in primo luogo le nuove sedi degli Ordini mendicanti. Su queste basi, ancora prima dell'inizio dell'ultima cerchia, giunsero a maturazione nuovi criteri estetici, primo fra tutti la coscienza di una pulchritudo intrinsecamente attribuibile alla regolarità spaziale e non più solo al pregio dei materiali o alla ricchezza dell'ornamentazione. La bellezza fu da quel momento in poi propria sia delle strade rettilinee, regolari e prive di aggetti, sovrastrutture e avancorpi abusivi, che avrebbero potuto ostacolarne la perfetta, assiale visibilità (dal 1252 la via Maior/via Maggio), sia delle piazze che dovevano favorire la migliore percezione degli edifici monumentali. Per contro, l'attributo negativo della turpitudo divenne ormai applicabile agli spazi urbani ereditati dalle età precedenti, caratterizzati da confusione, angustia, irregolarità, curvilineità dei profili stradali e impossibilità di osservare a distanza, se non ponendosi al di sopra dei tetti. Inoltre, coincidendo la bellezza dello spazio pubblico, piazza e strada, con quella della città stessa, si affidò ai nuovi criteri estetici la forza esecutiva delle operazioni urbanistiche, in aggiunta alle tradizionali motivazioni di ordine militare, igienico e funzionale.All'esterno del nucleo antico, dove avevano trovato localizzazione sia il centro comunale sia il complesso vescovile, i nuovi insediamenti degli Ordini mendicanti usufruirono di ampi spazi dove organizzare la vita dei quartieri periferici. Dal 1221 i Domenicani, dal 1226 i Francescani e dal 1250 gli Agostiniani si collocarono in posizione geometricamente equidistante intorno al centro cittadino, rappresentato dal palazzo dell'Arte della lana, che occupava il centro del triangolo avente nei vertici rispettivamente le chiese di S. Maria Novella, Santa Croce e Santo Spirito. A questi si aggiunsero dal 1248 i Serviti, dal 1251 gli Umiliati - che promossero lungo l'Arno lo sviluppo dell'industria laniera e a partire dal 1279 la creazione di un nuovo borgo ampio e rettilineo - e dal 1268 i Carmelitani. Ogni fondazione diede luogo in seguito alla sistemazione di una piazza antistante la chiesa, che in qualche caso, come a Santa Croce e a S. Maria Novella, assunse dimensioni e regolarità notevoli e fu oggetto di attenta progettazione.Le sedi del potere comunale generarono sistemazioni urbane sempre più imponenti, dal palazzo del Capitano del popolo, il Bargello, iniziato a partire dal 1255 e affacciato su un semplice slargo, al palazzo dei Priori, edificato dal 1298 e destinato a dominare diagonalmente la grande piazza completata nel corso del 14° secolo. Dal 1296 con la fondazione della nuova cattedrale si consolidò il centro vescovile e si realizzò, attraverso espropri, demolizioni e regolarizzazioni altimetriche, un'unica grande piazza sulla quale campeggiavano il battistero e S. Reparata, completamente isolati e quindi visibili da ogni lato. Per questi interventi, come per quelli del palazzo dei Priori e per la progettazione, pressoché contemporanea, delle terrenuove del Valdarno superiore, si è tramandata l'attribuzione ad Arnolfo di Cambio, ritenuto anche l'artefice del progetto per l'ultima cerchia di mura della città (Vasari, Le Vite, II, 1967, pp. 52-53). In assenza di documentazioni coeve, si può comunque ipotizzare l'esistenza di un coordinatore dell'urbanistica fiorentina, capace di controllare le diverse scale di intervento, di cogliere ogni possibile valenza prospettica e di conferire coerenza a un processo di costruzione rapido e complesso. Le nuove mura, il cui disegno poligonale si può rapportare proiettivamente sia alla cinta preesistente sia ai principali monumenti pubblici, si ispirarono nel tracciato a esperienze di alto rigore geometrico già realizzate nelle città emiliane (Reggio Emilia, Parma, Bologna) e condizionarono l'impianto dei nuovi insediamenti che andavano sorgendo all'esterno della civitas vetus. Esse appaiono ruotate diagonalmente rispetto al circuito del sec. 12° - contestualmente trasformato in una via di circonvallazione interna - con il fine evidente di includere le parti già costruite, borghi e aree residenziali, all'esterno delle antiche porte. Il tessuto viario nuovo, progettato tra le due cinte, conserva solo sporadiche tracce delle preesistenze, come le principali strade che conducono verso il contado, ed è caratterizzato da tracciati rettilinei tra loro liberamente coordinati, talvolta centrati su una piazza, per es. piazza S. Marco, come nelle bastides francesi, ma assai più spesso articolati in inedite associazioni che danno luogo a veri e propri schemi progettuali come bidenti, tridenti, strade con fondale, strade diagonali, traverse interne. Una grande trasversale, la via Guelfa, unisce direttamente due porte consentendo ai veicoli in transito di non percorrere l'area centrale della città.Il rigoroso controllo degli spazi pubblici si riflesse in una moltitudine di interventi di regolarizzazione, di sventramento - non tutti realizzati, come per es. quello progettato nel 1297 per collegare direttamente Orsanmichele e il Bargello -, di soluzioni originali e di complessa qualità, come la determinazione trecentesca della piazza del duomo, che nella sua omogenea architettura porticata racchiudeva interamente il campanile di Giotto e la chiesa nella sua ultima e più grandiosa versione, esaltandone la visibilità.La fama di F. come città regolare e moderna prese avvio già nei primi anni del Trecento, quando si fece percepibile la profonda connessione tra lo spazio rappresentato dai pittori e lo spazio urbano reale, nel segno di sempre più esatte sperimentazioni prospettiche. Nella descrizione del cronista Giovanni Villani (Cronica, IX, 256-257), il primo a delineare anche le vicende urbanistiche cittadine, si pone l'accento sulla croce di strade che attraversava la città e che aveva per centro il mercato Vecchio, l'antico forum: Villani, partendo dalle mura, di cui aveva personalmente curato il completamento, fornisce una misurazione che costituisce una delle più antiche esperienze di rilevamento urbanistico.
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Benché sussistano notevoli differenze di vedute sulla valutazione dei pochi dati documentari disponibili, e pertanto la cronologia degli edifici non possa ritenersi accertata (Sanpaolesi, 1971; Jacobsen, 1980; Gandolfo, 1988; Gurrieri, 1988; Galletti, Moretti, Naldi, 1991, p. 66ss.; Morolli, 1994), si tende attualmente a ritenere che spetti al sec. 12° buona parte dello svolgimento di quello stile romanico fiorentino 'aulico' che produsse i suoi capolavori con il battistero e con la basilica di S. Miniato al Monte. Tale svolgimento, a cui molto deve aver giovato la crescita economica della città nel sec. 12°, pur conservando come tratto distintivo l'originario chiaro rimando all'arte paleocristiana, fortemente connotato nel senso dell'ideologia religiosa, raggiunse una maggiore autonomia di elaborazione che si espresse nel modo più evidente nella creazione di un originale policromismo nei rivestimenti marmorei. Tale policromismo, basato sull'accostamento del marmo bianco con il serpentino o verde di Prato, aveva fatto la sua comparsa già nel secolo precedente, per es. nei colonnati dei Ss. Apostoli, ma solo in un momento successivo si estese a rivestire gli edifici quasi per intero secondo una concezione maturata anche in altre aree, prima fra tutte quella pisana, che tuttavia si espresse in ambito fiorentino con un carattere specifico di cui sono considerati tratti essenziali l'uso di forme geometriche pure e un sobrio classicismo.La principale realizzazione di questo stile architettonico fu il rivestimento policromo del battistero di S. Giovanni, la cui datazione varia considerevolmente qualora lo si consideri concepito in uno con la sottostante struttura muraria o applicato come abbellimento in un'epoca successiva grazie a una più florida situazione economica dovuta al patrocinio dell'Arte di Calimala (Horn, 1937-1940; Moretti, Stopani, 1982). Per quanto riguarda la prima di queste ipotesi - che vede nel battistero il frutto di una campagna di lavori sostanzialmente unitaria -, i punti di riferimento essenziali sono la presenza della tomba del vescovo Ranieri (1071-1113) sulla parete dell'ordine terreno interno adiacente a destra alla scarsella, che testimonierebbe uno stato avanzato dei lavori, promossi forse dallo stesso vescovo, intorno al 1113, e la data 1128 in cui, secondo una notizia che Carlo Strozzi trasse dai registri dell'Arte di Calimala oggi perduti (Jacobsen, 1980, p. 237ss.), si trasferì dalla cattedrale di S. Reparata in S. Giovanni il fonte battesimale; quest'ultimo fatto, attestando la ripresa delle funzioni proprie al battistero, presupporrebbe che i lavori fossero terminati quanto meno all'interno. A partire da un inizio dei lavori da porsi intorno al settimo-ottavo decennio del sec. 11° fino a poco dopo il 1228, la mole del battistero, a prescindere da eventuali preesistenze inglobate nell'edificio, sarebbe dunque sorta (Horn, 1937-1940) senza cesure fino al completamento dell'attico. Tale punto di vista si basa sulla constatazione dell'unitarietà del progetto, sulle corrispondenze fra interno ed esterno e sull'appartenenza a un'unica linea di sviluppo della fattura dei capitelli corinzi e compositi di imitazione classica dei sostegni dei due ordini, all'interno e all'esterno, e dell'attico. Pochi sono, secondo Horn, i capitelli antichi reimpiegati: i quattro all'interno a fianco delle porte est e nord e una parte di quelli ionici delle colonnette delle bifore nel matroneo; di recupero sono invece all'interno buona parte dei fusti delle colonne e numerose basi. Nel complesso dei capitelli medievali, che benché omogeneo presenta mani e tipi diversi, sempre nel quadro di una resa fedele e sobria dei modelli antichi, si può osservare un progressivo raffinamento culminante con i capitelli delle lesene dell'attico, considerati come una delle migliori creazioni del c.d. protorinascimento fiorentino (Horn, 1937-1940). A tutt'altro gusto appartiene invece la decorazione scultorea della lanterna, in forma di tempietto monoptero, con cui culmina la piramide ottagona che sormonta l'attico. Essa infatti presenta nei fogliami del fregio e dei capitelli un rilievo pittorico e carnoso che non trova confronti nel battistero bensì nella cattedrale di Pisa e in altre chiese di questa città in opere databili nei primi tre quarti del 12° secolo. Secondo una notizia riportata da Giovanni Villani (Cronica, I, 60) la lanterna venne realizzata nel 1150 per volere dei consoli dell'Arte di Calimala, che in quell'anno aveva avuto la soprintendenza sulla fabbrica di S. Giovanni. Questo dato cronologico, di cui Horn (1937-1940) stabilì l'affidabilità anche grazie all'esame dei caratteri epigrafici di un'iscrizione augurale posta sulla sommità della copertura conica, secondo lo studioso attesterebbe che i lavori al corpo dell'edificio si erano conclusi in un tempo alquanto precedente, vista la differenza di maestranze impegnate nella decorazione architettonica, mentre per altri segnerebbe con l'intervento della ricca Arte di Calimala l'inizio dei lavori di rivestimento marmoreo che si sarebbero conclusi solo nella seconda metà del sec. 13° (Moretti, Stopani, 1982). All'inizio del sec. 13° - nel 1202, secondo un'annotazione nei registri dell'Arte di Calimala riportata da Carlo Strozzi (Paatz, Paatz, 1940-1954, II, p. 222, n. 19) - l'originaria abside semicircolare venne sostituita dall'attuale scarsella a pianta rettangolare; circa negli stessi anni venne realizzato il pavimento di marmi intarsiati tuttora in situ con lo Zodiaco e con ornamenti zoomorfi del genere diffuso dalle stoffe orientali; in un periodo di poco successivo vennero rinnovati l'altare e il fonte battesimale di cui oggi si conservano alcune lastre, parte reimpiegate nel battistero e parte custodite nel Mus. dell'Opera di S. Maria del Fiore.Strettamente susseguente al battistero, tanto per l'uso dei rivestimenti marmorei policromi quanto per quello di membrature classiche di spoglio o di imitazione (Gurrieri, 1988, p. 28), è la chiesa dell'allora monastero benedettino di S. Miniato al Monte. Si tratta di una costruzione a impianto basilicale, senza transetto, con abside semicircolare, presbiterio sopraelevato sulla cripta e coperture a capriate lignee, caratterizzata dalla presenza di due archi trasversi su pilastri polilobati, che intervallano le arcate su colonne dividendo lo spazio interno in tre parti uguali. L'originaria incrostazione marmorea riveste l'interno dell'abside, le pareti del presbiterio fino alla trabeazione e la facciata, a doppio ordine e frontone, mentre le restanti decorazioni dell'interno sono frutto di integrazioni ottocentesche. Anche per quanto riguarda S. Miniato sussistono divergenze di vedute sulla cronologia delle fasi costruttive: una parte della critica fa risalire infatti alla seconda metà del sec. 11° il primo ordine della facciata, formato da un'arcata cieca a cinque fornici su semicolonne con capitelli compositi; altri studiosi invece sono inclini a spostare decisamente verso il sec. 12° l'esecuzione dell'intero edificio, che si sarebbe conclusa verso gli inizi del secolo successivo, come testimonierebbero la data 1207 iscritta nel pavimento a tarsie, assai simile a quello del battistero, e i caratteri stilistici dell'arredo presbiteriale (Moretti, Stopani, 1974; Jacobsen, 1980; Gurrieri, 1988).Elemento chiave nella questione della datazione di tutto il complesso di realizzazioni dello stile romanico fiorentino a incrostazioni marmoree è la facciata della collegiata, un tempo pieve, di S. Andrea a Empoli. Nell'ordine terreno - meno interessato dagli ampi rimaneggiamenti di cui l'opera è stata oggetto a più riprese (Galletti, Moretti, Naldi, 1991, p. 32ss.) - questa pieve mostra tale affinità con S. Miniato da farla ritenere una sua replica provinciale. Di conseguenza la data 1093 che appare in un'iscrizione posta sotto la cornice marcapiano della facciata della chiesa di Empoli è stata considerata per un certo tempo come un sicuro termine ante quem per le realizzazioni fiorentine. Vista però l'incongruenza di una tale datazione alta con lo svolgersi dei fatti artistici, da un lato si è posta del tutto in dubbio l'affidabilità dell'iscrizione, realizzata probabilmente a posteriori (Sanpaolesi, 1971), dall'altro, dando un certo credito al suo contenuto testuale, si è ipotizzato che la data 1093 possa riferirisi a quella della fondazione della pieve. Presupponendo per il policromismo fiorentino un esordio all'insegna di un grande rigore nella dicromia e nelle scelte formali seguito da una progressiva perdita di chiarezza geometrica, dovuta in parte all'accoglimento di influssi esterni, in favore di forme pittoriche, la sobrietà compositiva della facciata della pieve - a prescindere dal timpano più tardo - indicherebbe una sua precedenza rispetto a S. Miniato al Monte (Galletti, Moretti, Naldi, 1991, pp. 32ss., 66ss.). Secondo tale modo di vedere, si data alla seconda metà del sec. 12° la facciata romanica della Badia fiesolana, che presenta un variato repertorio di minuti motivi decorativi (Morolli, 1976). Un ritorno alla sobrietà delle origini attesterebbero invece due tardivi esempi fiorentini di questo stile, come il primo ordine della facciata di S. Salvatore al Vescovo, che viene attribuito a un rifacimento della chiesa intorno al 1221, e il portico della chiesa di S. Donato a Scopeto, montato nel sec. 16° davanti alla chiesa di S. Jacopo Sopr'Arno, di cui è ipotizzabile una datazione al sec. 13° sulla base delle mensole scolpite (Paoletti, 1989a; 1989b).Fermo restando l'indubbio richiamo ai modelli classici e paleocristiani, rimangono ancora da indagare compiutamente le valenze culturali dello stile policromo fiorentino e il suo ruolo nel quadro generale della policromia architettonica medievale - dai contorni tuttora non ben definiti - e in quello dell'architettura romanica europea. La scoperta, nel battistero fiorentino, delle tracce di una diffusa policromia 'ornamentale', realizzata con pitture murali e dorature, attenua l'impressione di nudo geometrismo che sembrava isolare questo stile da altre manifestazioni coeve (Gurrieri, 1991; Ruschi, 1991).La grande crescita cittadina del sec. 12° portò alla fondazione di nuove chiese e all'ampliamento di alcune di quelle precedenti (Fanelli, 1980, p. 18ss.). A causa delle demolizioni e dei continui rifacimenti nelle epoche successive, solo poche di queste priorie e parrocchie conservano tracce architettoniche del periodo in esame, peraltro di modesta entità. Tali tracce - per es. sostegni e archi della navata in S. Jacopo Sopr'Arno (Morozzi, 1979, pp. 34-35) e portali, finestre e murature in S. Remigio, S. Stefano al Ponte e Ss. Procolo e Diomede (Busignani, Bencini, 1982) - sembrano attestare una continuità dello schema basilicale a tre navate e un uso discreto della dicromia, per lo più nei conci delle ghiere degli archi. Verso la fine del secolo si dovette avere un ampliamento, sempre in forma basilicale a tre navate divise da pilastri, dell'antica chiesa di S. Maria Maggiore (Busignani, Bencini, 1979). Da tale quadro si distacca la facciata romanica di Santa Trinita - nota attraverso l'affresco di Domenico Ghirlandaio nella cappella Sassetti della stessa chiesa con S. Francesco che risuscita un fanciullo -, che mostra un triplo ordine di archeggiature in stile pisano-lucchese. Sulla datazione di questa facciata, già comunque frutto di almeno due campagne di lavori, vi è tuttavia un notevole disaccordo, che rispecchia del resto quello più generale sulle fasi costruttive della chiesa, eretta dai Vallombrosani nel sec. 11° e poi più volte trasformata.Anche nel contado fiorentino, territorio comprendente le diocesi di F. e di Fiesole (conquistata nel 1125), si ebbe nel sec. 12° un'intensa attività di costruzione e ricostruzione di edifici religiosi, per lo più pievi e chiese monastiche. La maggioranza delle pievi risalenti al sec. 12° e agli inizi del 13° mostra un impianto basilicale, senza transetto, con navate divise da archeggiature prevalentemente su pilastri quadrangolari, una o, più di rado, tre absidi e coperture a tetto ligneo. Gli elementi decorativi sono estremamente ridotti, mentre particolarmente accurati appaiono i parati murari a conci ben lavorati di arenaria e alberese (Negri, 1978; Moretti, Stopani, 1982; Redi, 1989, p. 28ss.). Esempio indicativo di questo ampio gruppo di chiese (Moretti, Stopani, 1974, p. 29ss.) è la pieve di S. Andrea a Cercina, triabsidata in origine, che accompagna a una totale assenza di elementi decorativi, prescindendo ovviamente dal portico rinascimentale, un'originale realizzazione della cella campanaria aggettante sul fusto del campanile grazie a una scalatura del tessuto murario. Da ricordare sono inoltre S. Donnino a Villamagna e S. Giovanni a Remole, con svettanti campanili senza cornici marcapiano. Da questa generale impostazione si distacca un gruppo di edifici della Val d'Elsa realizzati in laterizio, di impianto semplice ma estrosi nei particolari decorativi, generalmente attribuiti all'opera di maestranze lombarde o più probabilmente emiliane (Negri, 1978; Moretti, Stopani, 1982). La più importante tra queste pievi, S. Giovanni a Monterappoli, a una navata monoabsidata con copertura lignea, presenta una facciata con un corpo centrale aggettante - impostato sull'arcata che include il portale, con colonne in laterizio e capitelli in marmo bianco - aperto in alto da una bifora strombata. Un'iscrizione sull'architrave dell'ingresso attesta che l'opera venne compiuta da un maestro Bonseri, lombardo, nel 1165, data che costituisce uno dei pochissimi termini cronologici affidabili del Romanico fiorentino (Galletti, Moretti, Naldi, 1991, p. 7ss.). Un gruppo a parte è costituito da alcune pievi del Casentino e del Valdarno superiore, con impianto basilicale a tre navate divise da colonne monolitiche, che si distinguono per l'importanza data all'elemento decorativo. La più rappresentativa tra queste costruzioni è la pieve di S. Piero a Cascia, risalente già ai primi del sec. 13°, con portico a cinque arcate poggianti su robuste colonne dai capitelli classicheggianti e prospetto superiore della facciata articolato da arcatelle su mensole e colonnine, sempre con capitelli fogliati. Anche all'interno le colonne hanno capitelli con decorazioni a fogliami. Questo gruppo di pievi - che comprende tra le altre nel Valdarno superiore S. Romolo a Gaville e S. Maria a Pian di Scò e nel Casentino S. Maria di Montemignaio - è frutto di un incontro di diverse correnti, che nell'adiacente territorio aretino produsse opere di particolare rilevanza, come le pievi di Gropina e di Romena (Moretti, Stopani, 1982). È da ricordare infine la pieve di Borgo San Lorenzo nel Mugello (fine del sec. 12°-inizi del 13°), che si distingue per la torre campanaria in laterizio a sezione poligonale impostata sull'abside semicircolare in conci d'arenaria. Una tale commistione di tecniche e materiali, che caratterizza pure il resto dell'edificio, attesta anche nell'area settentrionale del contado fiorentino la compresenza di tradizioni costruttive locali e d'importazione (Negri, 1978, p. 261ss.).Più omogenea appare l'architettura monastica, in cui si pone in primo piano l'attività dei nuovi movimenti religiosi e in primo luogo quella del locale Ordine di Vallombrosa. Le chiese dei numerosi insediamenti monastici fondati o acquisiti dai Vallombrosani, già a partire dal sec. 11°, nel contado fiorentino (Moretti, Stopani, 1974, p. 115ss.), oltre a presentare nella quasi totalità un'identica tipologia con nave unica, ampio transetto sporgente e cupola all'incrocio, si caratterizzano per il netto rifiuto di ogni dettaglio ornamentale. Tale rifiuto, sebbene si addica allo spirito rigoroso di questi monaci, è stato spiegato per lo più con un radicamento nella tradizione costruttiva locale (Salmi, 1961, p. 34ss.), ma va notato peraltro che non diversa situazione presentano edifici vallombrosani coevi in altre aree culturali. Tra i diversi esempi almeno in parte conservati si possono menzionare S. Lorenzo a Coltibuono, quasi integra nell'aspetto assunto nel sec. 12°, e la chiesa madre di Vallombrosa, eretta solo nel 1224-1230 in sostituzione di un oratorio, che si uniforma fedelmente al modello precedente (Morozzi, 1973). Caratteri simili si trovano nelle fondazioni dei Camaldolesi, mentre strutture più complesse, con tre navate e presbiterio sopraelevato sulla cripta, presentano le abbaziali benedettine, come S. Maria di Rosano e S. Godenzo.L'edilizia civile cittadina a partire dalla fine del sec. 11° fin nel 13° è caratterizzata dal grande incremento della costruzione di torri e case-torri, che oltre a servire da dimora avevano funzione di difesa e di simbolo del potere delle consorterie familiari (Fanelli, 1980, p. 20ss.). Gli esempi conservati, in cui è possibile individuare alcune varianti tipologiche (Redi, 1989, p. 89ss.), presentano nel complesso netti volumi quadrangolari, valorizzati dagli accurati parati murari, per lo più in pietra forte, e rare aperture spesso coronate da archi ribassati su imposte oblique. Scarse e irrilevanti sono le sopravvivenze nei centri minori del contado fiorentino, mentre numerose sono le costruzioni rurali conservatesi risalenti ai secc. 11°-13°, in cui si distinguono torri, case-torri, case-forti e corti (Redi, 1989).Già nei primi decenni del Duecento impulsi innovativi provenienti dall'esterno dovettero giungere a F., un fatto di cui è probabile testimonianza il fantasioso resoconto di Vasari (Le Vite, II, 1967, p. 52) dell'operato in città dell'architetto Jacopo Tedesco, chiamato Lapo dai Fiorentini. Tuttavia le sopravvivenze per quanto riguarda gran parte del sec. 13° sono scarse e poco indagate e pertanto non forniscono un quadro chiaro dell'attività architettonica che precedette le grandi fabbriche degli ultimi due decenni del secolo. Dei rifacimenti di S. Felice in Piazza (1221; Meoni, 1993), S. Pancrazio (1234) e S. Simone (1243) non è ricostruibile con precisione la natura, viste le successive trasformazioni; del rifacimento del 1221 di S. Salvatore al Vescovo - secondo Vasari (Le Vite, II, 1967, p. 52) una delle opere di Lapo - resta la già menzionata facciata policroma; la chiesa di S. Stefano al Ponte nel 1233 venne trasformata in aula unica e dotata del portale leggermente archiacuto anch'esso in stile policromo; della ricostruzione duecentesca (post 1266) dell'antica chiesa di S. Ambrogio si conservano i muri esterni con monofore archiacute e il campanile (Paatz, Paatz, 1940-1954; Busignani, Bencini, 1974; 1979; 1982).Un importante ruolo di immissione di nuovi modi costruttivi dovettero certo avere i nuovi ordini monastici, in primo luogo mendicanti, che a partire dalla fine del secondo decennio del sec. 13° cominciarono a insediarsi a F. o nei pressi adattando precedenti edifici e costruendone ex novo. Resti dell'impianto basamentale di una primitiva chiesa francescana (1228-1252), con pianta a croce commissa e sette cappelle rettangolari allineate lungo la terminazione absidale, si conservano sotto l'attuale chiesa di Santa Croce (Romanini, 1984, p. 41ss.). I Cistercensi, chiamati nel 1236 a insediarsi nella badia di S. Salvatore a Settimo, vicino Scandicci, si limitarono a restaurare e fortificare l'esistente complesso vallombrosano (sec. 11°) e solo a partire dal 1290 costruirono nuovi ambienti monastici, tra cui la c.d. tinaia, vasto ambiente a tre navate, con volte a crociera poggianti su colonne (Scandicci, 1990, pp. 82ss., 98ss.). Intorno al 1246 i Domenicani, insediati presso l'antica parrocchia di S. Maria Novella, iniziarono a costruire una loro chiesa. In genere si ritiene che questo edificio sia stato demolito quando nel 1279 si fondò l'attuale S. Maria Novella, terminata alla metà del Trecento e consacrata solo nel 1420 (Lunardi, 1981; Onians, 1984; Adorisio, 1988). Va tuttavia ricordata la tesi di Paatz (1937), che attribuiva a questa prima fase di lavori le parti più antiche della chiesa esistente: coro e transetto. In effetti, la costruzione - un impianto a tre navate, con transetto sporgente e cinque cappelle absidali, di cui quella maggiore emergente, interamente coperto a crociera - fonde tanto nella configurazione spaziale, quanto nell'uso delle membrature e nella plastica architettonica, nuovi elementi di matrice cistercense e federiciana con la locale tradizione romanica; pertanto non è da scartare l'ipotesi di un primitivo progetto della metà del secolo.La grande chiesa di Ognissanti, edificata dagli Umiliati tra il 1251 e il 1259, aveva un impianto a navata unica, coperta a capriate, con transetto e presbiterio affiancato da due cappelle voltate a crociera, caratterizzato dall'assenza di ogni risalto ornamentale (Razzòli, 1898, p. 3ss.; Batazzi, Giusti, 1992). La ristrutturazione compiuta dai Minori osservanti nei secc. 16° e 17° ha lasciato in vista il campanile (Il centro di Firenze restituito, 1989, p. 499) e parte dei muri laterali esterni dell'edificio originario; la cappella Gucci-Dini nella testata del transetto sinistro venne eretta verosimilmente intorno al 1375 (Amonaci, 1990).Un impianto originario con navata unica coperta a capriate e transetto sporgente è riconoscibile, nonostante le trasformazioni successive, anche in altre grandi chiese monastiche, come S. Salvatore dei Camaldolesi (forse della prima metà del secolo), S. Maria del Carmine (fondata nel 1268) e S. Marco, che i Silvestrini eressero a partire dal 1299 (Boccia, Greppi, 1984; Rocchi, 1989; Gurrieri, 1992).Organismo pienamente gotico - a tre navate di cinque campate con cappelle laterali, coperte da volte a crociera costolonate ricadenti su pilastri quadrangolari - è invece quello della chiesa vallombrosana di Santa Trinita, secondo Vasari (Le Vite, II, 1967, p. 63) progettata nel 1250 da Nicola Pisano. Si tratta di una costruzione oggetto di una controversia tuttora aperta tra chi considera accettabile l'attribuzione vasariana, riconoscendo in Santa Trinita stretti rapporti con le più aggiornate correnti architettoniche della metà del secolo, e chi invece la rifiuta del tutto, ritenendo la chiesa frutto di una serie di campagne di lavori succedutesi a partire dal quarto decennio del Trecento con cambiamenti di progetto (Morolli, 1987; Testi Cristiani, 1987, p. 153ss.). Un così ampio divergere delle opinioni è sintomo evidente del perdurare di una sostanziale indeterminatezza nella ricostruzione critica degli svolgimenti dell'architettura gotica fiorentina; ovviamente il significato di una costruzione come Santa Trinita nel contesto dell'architettura fiorentina dei secc. 13° e 14° varia non poco qualora si accetti l'uno o l'altro di questi punti di vista. Nel caso in questione una soluzione definitiva è resa difficile dal fatto che, anche a prescindere dalle sopravvivenze di epoca romanica, la chiesa presenta un succedersi di completamenti o rifacimenti e molte delle attuali membrature sono frutto di ripristino (Morolli, 1987); in generale la scarsezza di dati documentari affidabili, le trasformazioni spesso di grande entità subìte dagli edifici, così come le lunghe storie costruttive di alcune delle fabbriche maggiori, rendono problematica l'enucleazione di sicuri punti di riferimento. Tra gli esempi minori in proposito si possono menzionare la chiesa di S. Remigio, a pianta rettangolare, con tre navate di altezza quasi uguale coperte da volte a crociera costolonate poggianti su pilastri ottagoni con capitelli a foglie d'acqua, che ha datazione oscillante tra l'ultimo quarto del Duecento e il pieno Trecento (Busignani, Bencini, 1974; Morozzi, 1979), o quella già menzionata di S. Maria Maggiore, il cui rifacimento gotico viene variamente datato tra la fine del sec. 13° e la fine del 14° (Kreytenberg, 1981). S. Jacopo in Campo Corbolini, chiesa fondata nel 1206 e appartenuta prima ai Templari e poi agli Ospedalieri, deve il suo aspetto attuale - a navata unica di tre campate con coro quadrangolare, copertura a crociera e portico su pilastri ottagoni con capitelli a cubo sgusciato con stemmi - a un rifacimento collocabile nel secondo decennio del sec. 14° (Ascani, in corso di stampa).Nel 1284-1285 iniziò il rifacimento della chiesa della Badia benedettina di F., che venne consacrata nel 1310 (Guidotti, 1982). L'opera - un edificio di modeste proporzioni caratterizzato da un corpo longitudinale a T coperto a capriate e da un presbiterio rialzato su gradini composto di tre cappelle absidali con volte a crociera - fa parte di un gruppo di realizzazioni degli ultimi due decenni del sec. 13°, assegnate ad Arnolfo di Cambio (v.) da Vasari (Le Vite, II, 1967, p. 53). Si tratta di un'attribuzione non confermata da dati documentari, ma accettata generalmente per l'evidente comunanza di concezione e di stile che lega ciò che resta della chiesa gotica della Badia, e in particolare la testata absidale articolata in sottili spartizioni geometriche, al corpus delle opere conosciute del maestro (Romanini, 1969, p. 171ss.; 1984).Punti di contatto con la Badia mostra la grande chiesa francescana di Santa Croce, fondata nel 1294, completata poco prima del 1385 dopo una lunga interruzione dei lavori nel terzo quarto del secolo e consacrata solo nel 1443. L'ampia costruzione - una basilica a croce commissa con tre navate divise da alti pilastri ottagoni, con abside poligonale sporgente affiancata da cinque cappelle per lato, cripta, copertura a capriate sul corpo longitudinale e sul transetto e volte a crociera nelle cappelle orientali -, che ha, secondo il resoconto di Vasari (Le Vite, II, 1967, p. 53), un posto di particolare rilievo tra le realizzazioni fiorentine di Arnolfo, costituisce la prima esemplare sintesi (Toesca, 1951) tra le novità gotiche e la tradizione locale che prediligeva la sobrietà delle strutture e l'accuratezza dei parati lapidei. La paternità di tale sintesi, in cui si dà anche un lucido saggio di architettura mendicante, ben si accorda con una personalità di primo piano come quella di Arnolfo, che riuscì a enucleare dal retaggio locale in parte compromissorio alcune fondamentali idee guida. Il fatto che la fabbrica sia continuata ben oltre la data della sua morte, da porsi tra il 1302 e il 1310, e che presenti una serie di adattamenti e variazioni non può mettere in discussione l'esistenza di un progetto unitario di Arnolfo e la sua diretta partecipazione alla prima fase costruttiva, che fu relativa al capocroce (Romanini, 1984; 1994; Petrini, Rocchi, 1987).Come narra Villani (Cronica, VIII, 9), nel 1294 il Comune di F. decise di rinnovare la cattedrale di S. Reparata, ormai inadeguata al prestigio della città, e nel 1296 venne fondata la nuova S. Maria del Fiore la cui costruzione fu affidata ad Arnolfo di Cambio. In questo caso, in cui il ruolo di capomaestro di Arnolfo è confermato da un documento del 1300 che lo esenta dalle tasse (Guasti, 1887, doc. 24), è però oggetto di contesa plurisecolare come fosse l'originario progetto di Arnolfo, se esso sia mai stato effettivamente messo in opera almeno in parte, e se nell'attuale fabbrica vi siano parti risalenti ai lavori arnolfiani (Romanini, 1983; Pietramellara, 1984; S. Maria del Fiore, 1988). La chiesa attuale, con corpo longitudinale a tre navate coperte da volte a crociera e parte orientale a impianto centrico con tre tribune poligonali sormontate dalla cupola, è il risultato di diverse campagne di lavori terminate solo nel Quattrocento con la costruzione della cupola e della lanterna. Secondo il citato documento del 1300, dei lavori della cattedrale si vedeva già un magnifico principio, in base al quale i Fiorentini si aspettavano la più bella chiesa della Toscana. Si può quindi dedurre che Arnolfo diede effettivamente inizio alla fabbrica, secondo un progetto che, da una serie di testimonianze documentarie e archeologiche tutte assai dibattute, doveva già prevedere lo sbocco del corpo longitudinale in un coro centrico sormontato da una cupola e la facciata articolata in nicchie e gallerie abitate da una folta popolazione statuaria (Romanini, 1983). Per quanto riguarda la facciata, una testimonianza importante è un disegno attribuito a Bernardino Poccetti, conservato al Mus. dell'Opera di S. Maria del Fiore, eseguito prima della sua demolizione avvenuta nel 1587, anche se assai divergenti sono le opinioni nel determinarvi le fasi costruttive (Pomarici, 1987; S. Maria del Fiore, 1988). Dopo la morte di Arnolfo la costruzione languì; nel 1334 venne nominato capomaestro Giotto, che tuttavia, come il suo successore Andrea Pisano, nominato come tale nel 1340, si occupò principalmente della costruzione del campanile (Trachtenberg, 1971; Finiello Zervas, 1987; Petrini, Rocchi, 1987). Solo nella seconda metà del secolo i lavori alla chiesa ripresero con decisione sotto la guida di Francesco Talenti, menzionato come capomaestro dal 1351, e di Simone di Lapo Ghini, controllati da équipes di esperti formate dai principali artisti operanti all'epoca a Firenze. Nel 1366-1367 venne deciso un cambiamento di progetto probabilmente dovuto al desiderio di ingrandire la chiesa, che dovette essere allungata verso E e ampliata nelle proporzioni del coro (Romanini, 1983). Da questo lavoro di gruppo risultò un'opera senza dubbio grandiosa, che tuttavia tradisce la perdita di una concezione unitaria, soprattutto all'esterno, dove lo sfarzo del rivestimento marmoreo policromo non riesce a mascherare il giustapporsi di ornati fioriti di gusto tardogotico e di rivisitazioni poco sentite delle severe spartizioni geometriche di tradizione romanica. Sotto la direzione di Francesco Talenti si completò anche il campanile con tre piani aperti in bifore e ampie trifore ricche di ornati e con un cornicione a sporto analogo a quello dei fianchi della cattedrale, soluzione quest'ultima in netta antitesi con l'originario progetto giottesco che si ritiene per gran parte ripreso da un disegno (Siena, Mus. dell'Opera della Metropolitana, nr. 154) riproducente un campanile con alta cuspide (v. Disegno architettonico).Tra le opere minori dell'edilizia religiosa è da menzionare la chiesa di S. Anna (od. S. Carlo dei Lombardi), eretta a partire dal 1349 da Neri di Fioravante e Benci di Cione secondo un progetto che originariamente prevedeva una totale copertura a volte poi invece realizzato come navata unica a tetto con coro tripartito con volte a crociera. Nel 1379 Simone di Francesco Talenti eseguì il portale.Nel campo dell'edilizia civile, il palazzo del Capitano del popolo o del Podestà, nei due piani inferiori verso via del Proconsolo, risalenti alla prima fase costruttiva (seconda metà del sec. 13°-inizi del 14°), mostra un netto volume parallelepipedo messo in risalto da un parato a conci accuratamente levigati con piccole e semplici aperture (Bucci, Bencini, 1971, p. 63). Il palazzo Vecchio - anch'esso opera di Arnolfo secondo Vasari (Le Vite, II, 1967, p. 55) -, fondato nel 1299 come sede per i priori e terminato poco dopo il 1310, pur conservando l'aspetto di fortilizio e le nette definizioni geometriche, appare più articolato nei volumi, grazie agli sporti del ballatoio e della cella campanaria, e alleggerito dal gioco chiaroscurale delle bozze in pietra forte (Lensi Orlandi, 1977; Muccini, 1992). All'interno l'unico ambiente che conserva l'aspetto originario, la sala dell'Arme al piano terreno, è un grande vano rettangolare coperto da sei volte a crociera costolonate ricadenti su due pilastri ottagoni con semplici modanature in luogo dei capitelli. Nel 1323, lungo le facce nord e ovest del palazzo, venne costruita l''aringhiera', tre file di sedili in muratura su cui sedevano le autorità, poi demolita all'inizio dell'Ottocento. Nel 1342 Gualtiero VI di Brienne, duca d'Atene, diede inizio all'ampliamento dell'edificio verso N e verso S e lo fece fortificare con due antiporte, demolite nel 1344. Di questa fase della costruzione resta testimonianza in un affresco proveniente dal carcere delle Stinche, conservato all'interno del palazzo, nella Salotta.In stretto rapporto con il progetto primitivo di palazzo Vecchio è da porre una delle realizzazioni più rilevanti dell'architettura trecentesca fiorentina, il magazzino e mercato per il grano di Orsanmichele, fondato nel 1337 in sostituzione di un precedente edificio, e portato a termine nel 1404. La costruzione a pianta rettangolare era costituita - prima che il prevalere della destinazione religiosa ne comportasse la chiusura - da una loggia terrena, con ampie arcate a tutto sesto e copertura a crociera ricadente su due pilastri a nucleo quadrangolare, e da due piani superiori, il primo anch'esso a volte e l'ultimo a tetto. Dell'edificio, che per razionalità ed eleganza nelle proporzioni e nelle membrature - che meglio si coglie al primo piano, libero da successivi abbellimenti - segue il cammino indicato dalle grandi architetture della fine del Duecento, non si conosce l'architetto; Kreytenberg (1983) ha proposto il nome di Maso di Banco.Altre importanti realizzazioni del periodo furono il salone del Bargello (1340-1345), eretto da Neri di Fioravante, e il Cappellone degli Spagnoli (1350-1355) nel chiostro Verde di S. Maria Novella, opera di frate Jacopo Talenti, entrambi con volte a crociera molto ampie su semipilastri ottagoni. Sempre intorno alla metà del secolo la loggia del Bigallo (1352-1358) mostra un eccessivo gusto per la decorazione, affidata ad Alberto di Arnoldo, mentre la più tarda loggia dei Priori (1376-1382), a cui lavorarono Benci di Cione e Simone di Francesco Talenti, offre ancora una felice sintesi innovativa della tradizione locale.Nei secc. 13° e 14° sorsero a F. anche numerosi palazzi privati: edifici compatti, dai volumi quadrangolari, animati dall'alternanza dei paramenti, lisci e bugnati, e dalle ghiere a ventaglio delle aperture, in genere ad arco ribassato con estradossi a dorso d'asino; tra gli esempi che meglio conservano strutture duecentesche e trecentesche vanno ricordati i palazzi Mozzi, Spini-Feroni, Davanzati, Canigiani, Bardi-Larione e quello dell'Arte della lana (Bucci, Bencini, 1971; 1973a; 1973b; 1973c; Redi, 1989, p. 98ss.). Di particolare importanza fu anche lo svolgersi di un'architettura di minore impatto rappresentativo - negli ambienti conventuali, nei chiostri, negli ospedali, nelle logge e nei cortili dei palazzi privati - in cui un armonioso senso delle proporzioni si accompagna all'uso variato di un repertorio decorativo che seleziona dall'architettura maggiore gli elementi più sobri, quali principalmente i pilastri ottagoni, i capitelli a foglie d'acqua e a dado sgusciato, le cornici a dentelli (Castelli, 1982; Il 'Paradiso', 1985; Rensi 1987).
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Per gran parte della prima metà del sec. 12° i marmorari attivi a F. e nel contado appaiono operare nello spirito di quel classicismo limpido e misurato che costituisce il carattere di maggior rilievo dello stile policromo del Romanico fiorentino. Principali testimonianze di questa fase stilistica sono il sarcofago del vescovo Ranieri (1071-1113) nel battistero - semplice blocco parallelepipedo in marmo bianco, articolato da un listello a toro inserito in una fascia in serpentinite e da una cornice bicroma a rombi - e l'ambone della pieve di San Giovanni Maggiore, presso Borgo San Lorenzo, in cui discreti accenti classicheggianti nelle cornici a ovoli e nei capitelli corinzi a foglie d'acqua si uniscono a richiami paleocristiani nei motivi intarsiati degli specchi. Il sepolcro nel battistero è databile al secondo decennio del sec. 12° sulla base della data di morte del vescovo, mentre l'ambone di San Giovanni Maggiore è attribuito a questi anni per le caratteristiche di stile (Naldi, 1991). Nei decenni successivi infatti l'intarsio perse parte dell'originario rigore formale con l'introduzione di motivi decorativi disomogenei e ripetitivi, come attestano due opere datate, il fonte battesimale (1157) della pieve di S. Felicita a Faltona, presso Borgo San Lorenzo, e l'ambone (1175) della pieve di Sant'Agata presso Scarperia, nonché altri arredi databili fin negli ultimi decenni del secolo, tra cui si possono menzionare l'ambone e il fonte di S. Maria a Fagna, non lontano da San Piero a Sieve, o l'altare nella chiesa del monastero di S. Maria a Rosano, presso Rignano sull'Arno (Moretti, Stopani, 1974). Nessuna delle opere conservate di questo gruppo reca la firma dell'artefice; l'esistenza di marmorari fiorentini, tra cui spicca un "Angelus magister marmoree artis", è però tramandata da una serie di documenti raccolti da Davidsohn (1896, p. 152ss.).Nelle pievi di Sant'Agata presso Scarperia e di S. Felicita a Faltona si conservano inoltre i diaconi reggileggio degli amboni: impacciati saggi scultorei, opera di marmorari fiorentini (Salmi, 1928). Per il resto i rari esempi di scultura figurativa sono per lo più limitati, nei primi tre quarti del secolo, alla decorazione dei capitelli delle pievi del Casentino e del Valdarno superiore; decorazione generalmente attribuita all'influsso se non al diretto intervento di maestranze provenienti dal mondo padano (Bracco, 1971; Moretti, Stopani, 1974, p. 167).Negli ultimi decenni del secolo si dovette avere un incremento della produzione scultorea figurata; le poche opere conservate riflettono però orientamenti diversi. Un carattere locale, unito ad accenti bizantini, è stato riconosciuto nei rilievi, datati al 1177, di un archivolto proveniente dalla badia di S. Andrea a Candeli ora a F. (Mus. Naz. del Bargello), che raffigurano la Conversione di Pietro e Andrea e l'abate Giovanni benedetto dal Redentore (Salmi, 1928).Di incerto riferimento, anche perché mai presi in esame in modo sistematico, sono a F. alcuni resti di sculture figurative oggi in opera in contesti non originari, come la testa di leone sulla casa-torre degli Amidei in Por Santa Maria, databile alla fine del sec. 12°, o le protomi degli inizi del Duecento utilizzate come mensole nel portico di S. Jacopo Sopr'Arno, o ancora le teste assai arcaizzanti al di sotto dei doccioni agli spigoli della scarsella del battistero.È indubbio che a partire da un determinato momento - da porsi già alla metà del sec. 12° se si presta fede alla data 1150 tramandata per la lanterna del battistero - nelle grandi imprese cittadine agli artefici locali si affiancarono maestranze provenienti dall'area pisano-lucchese. Frutto della collaborazione di maestri di formazione diversa sono alcune importanti realizzazioni da porsi, secondo la maggior parte degli studi, nei primi decenni del 13° secolo. Si tratta del fonte e del recinto del battistero, di cui oggi si conservano solo alcune lastre, al Mus. dell'Opera di S. Maria del Fiore, delle transenne e del pulpito di S. Miniato al Monte - strettamente affini alla decorazione della parte superiore della facciata della basilica, che mostra anche figure in rilievo - e del pulpito di S. Pier Scheraggio, oggi in S. Leonardo in Arcetri, che si distacca nettamente dalla tradizione precedente presentando su tutti gli specchi rilievi raffiguranti storie della Vita di Cristo e l'Albero di Iesse: opere tutte di notevole complessità che attendono studi specifici (Salmi, 1928; Gurrieri, 1988, p. 28; Ascani, 1991).Il gusto per moduli arcaizzanti distingue ancora alcuni rilievi da datare intorno alla metà del sec. 13°: un gruppo di tre santi, tra cui l'arcangelo Michele, proveniente dalla lunetta del portale dell'antica chiesa di S. Michele Bertelde (od. S. Gaetano, cappella Antinori) e una lunetta con il motivo di origine tardoantica della Venerazione della croce proveniente dalla distrutta chiesa di S. Tommaso, ora al Mus. Bardini (Chini, 1984; Neri Lusanna, Faedo, 1986, nr. 70).Dal quadro della cultura locale si distacca invece nettamente il grande rilievo in stucco che si trovava prima delle distruzioni della seconda guerra mondiale sulla torre del Colombaione nella badia di S. Salvatore a Settimo. Il rilievo, databile a un momento che non supera di molto l'insediamento dei Cistercensi nel monastero vallombrosano, avvenuto nel 1236, era posto in una nicchia trilobata a sguincio e raffigurava il Cristo in trono tra due monaci in una maniera grafica e dinamica di matrice transalpina.A partire dalla metà del sec. 13° dovettero giungere a F. artefici legati alla bottega di Nicola Pisano, forse in conseguenza della discussa attività del maestro come progettista della nuova costruzione di Santa Trinita. A testimonianza di ciò restano oggi solo due enigmatici busti virili in funzione di peducci sulla controfacciata di questa chiesa - l'uno più classicheggiante nella resa anatomica e nelle gradazioni chiaroscurali, l'altro con chiare stilizzazioni di marca gotico-oltremontana -, che rivelano l'operato di una maestranza ancora fortemente legata a una formazione in ambito federiciano, che pertanto si può considerare parte della bottega nicoliana operante in Toscana tra il 1250 e il 1265 nel cantiere cistercense di San Galgano (Puglisi, 1980, p. 383; Testi Cristiani, 1987, pp. 57ss., 160).In un periodo successivo, intorno agli anni settanta-ottanta, va posta l'attività fiorentina di uno dei principali aiuti di Nicola Pisano, Lapo (Testi Cristiani, 1987, p. 322, nr. 12), a cui sono stati attribuiti il rilievo con S. Giorgio, proveniente dall'omonima porta, ora al palazzo Vecchio, e la lastra con le Pie donne al Sepolcro e angeli turiferari, originariamente forse fronte di un sarcofago, oggi reimpiegata nell'altare della cappella Castellani in Santa Croce (Ronan, 1982, nr. 16), tutte opere in cui il linguaggio di Nicola si diluisce in ritmi fioriti e distesi. Sintetica e ricca di tensione appare invece la traduzione dei modelli nicoliani in un'altra lastra (Londra, Vict. and Alb. Mus.) assegnata alla bottega di Arnolfo (Romanini, 1983a, p.40, n. 17), in cui è raffigurata l'Annunciazione secondo una rara iconografia di difficile interpretazione, che inserisce al centro della scena una struttura architettonica. Anche per questa lastra, proveniente dalla chiesa fiorentina di S. Maria Maggiore, si può, tra varie ipotesi, pensare a una originaria funzione come fronte di sarcofago (Neri Lusanna, 1992). Interessante come testimonianza del perdurare dell'attività di maestranze meno aggiornate, così come della predilezione per questa insolita variante iconografica, è una sua goffa replica murata sul fianco meridionale di S. Maria del Fiore (Neri Lusanna, 1992).Il cantiere arnolfiano aperto nel 1284-1285 per il rinnovamento della Badia fiorentina dovette costituire un importante punto di riferimento per i diversi artefici attivi a Firenze. Dal campanile della Badia provengono quattro capitelli, tre con teste ridenti, oggi al Mus. Naz. del Bargello, e uno con foglie protese verso l'alto e palmette, ora al Mus. di S. Marco, in cui l'ormai tradizionale repertorio nicoliano-cistercense appare rimodulato secondo più nette volumetrie (Romanini, 1983a, p. 30ss.; Carli, 1993). In seguito, già ai primi del Trecento, nelle protomi dei doccioni di palazzo Vecchio la bottega fiorentina di Arnolfo mostrò un'ampia adozione di modelli romani (Bucci, Bencini, 1971, p.46; Carli, 1993).La massima impresa scultorea di Arnolfo e della sua scuola fu la facciata della nuova cattedrale di S. Maria del Fiore, un'opera che rimase incompiuta e fu demolita nel 1587 per far posto a una nuova facciata, poi realizzata solo alla fine dell'Ottocento da Emilio De Fabris. La statue tolte nel corso della demolizione vennero disperse in vari luoghi di F. e ricomparvero in parte sul mercato antiquario tra la fine del sec. 19° e gli inizi del 20°, giungendo infine in un certo numero in possesso di alcuni musei, soprattutto del Mus. dell'Opera di S. Maria del Fiore. Il progetto originario della facciata si deve dunque ricostruire nel suo complesso attraverso una serie di testimonianze, figurate e documentarie, che non sempre hanno trovato una concorde interpretazione negli studi (Romanini, 1983b; Pomarici, 1987; Karen, 1990). Certamente si trattò di un progetto architettonico-scultoreo di grande impegno, in cui l'artista, con un forte slancio innovativo, rielaborò la sua vasta esperienza 'gotica' e 'romana' alla luce della tradizione locale. Principale punto di riferimento per la ricostruzione di tale progetto è un disegno, attribuito a Bernardino Poccetti e conservato al Mus. dell'Opera di S. Maria del Fiore, che riproduce la facciata prima della sua demolizione. Di indiscussa paternità arnolfiana sono apparsi in esso i tre grandi portali, nelle cui lunette trovano posto gruppi scultorei, dei quali si sono conservati alcuni pezzi in notevole misura di diretta esecuzione di Arnolfo di Cambio (v.): la Vergine dalla Natività del portale di sinistra, la Madonna con il Bambino tra angeli e santi dalla lunetta del portale maggiore, ampiamente restaurata (entrambe al Mus. dell'Opera di S. Maria del Fiore), e la Vergine con s. Giovanni e due teste di apostoli piangenti dalla Dormitio del portale destro (Berlino, Staatl. Mus., Pr. Kulturbesitz, Skulpturengal.). Dalle edicole e dalle gallerie che articolavano l'intero prospetto provengono numerosi altri pezzi (Il Museo dell'Opera del Duomo, 1970), di cui però solo una piccola parte risale ai lavori arnolfiani (Romanini, 1983b; Carli, 1993). Di particolare interesse tra questi è una figura di vecchio (Firenze, coll. privata) che, unitamente a un altro frammento con pecore e buoi, conservato al Mus. dell'Opera di S. Maria del Fiore, potrebbe far supporre la programmazione iniziale di riquadri figurati con storie della Vita della Vergine (Pomarici, 1987).Nell'ambito della scultura sepolcrale (Ronan, 1982), fino a buona parte del sec. 13° caratterizzata da sarcofagi con scomparti ornati da stemmi e semplici motivi zoomorfi o fitomorfi o simbolici (Previtali, 1972) - tipologia che si mantenne nell'uso anche nel corso del Trecento -, si segnala l'adozione, probabilmente non prima dell'ottavo-nono decennio del secolo, di un tipo di sarcofago a tre riquadri istoriati di cui sarebbe testimonianza la menzionata lastra con le Pie donne al Sepolcro in Santa Croce. Se questa tipologia va probabilmente ricondotta a un originario modello della bottega di Nicola Pisano (Middeldorf Kosegarten, 1978), più specificamente fiorentino appare invece un tipo di sepoltura costituito da una lastra parietale - forse poi divenuta sarcofago pensile - con la raffigurazione in rilievo del defunto sul letto funebre e di due accoliti. Questa nuova versione di sepolcro fece la sua comparsa già alla metà del secolo - se effettivamente questa è la datazione da attribuire a due lastre siffatte rinvenute negli scavi di S. Reparata su cui non compaiono ancora le figure degli accoliti (Morozzi, Toker, Herrmann, 1974) - e rimase nell'uso nei primi decenni del sec. 14° (Bauch, 1976, pp. 158-159; Garms, 1986). Ancora in ambito duecentesco si pongono il monumento funebre in S. Maria Novella di Aldobrandino Cavalcanti (m. nel 1279), con molte interpolazioni posteriori, e la lastra tombale di un vescovo conservata al Mus. Bardini, opera a volte attribuita a bottega arnolfiana, che mostra un chiaro riflesso dei sepolcri monumentali romani, in particolare di quello di Onorio IV (m. nel 1287) in S. Maria in Aracoeli (Neri Lusanna, Faedo, 1986, nr. 124).Da ricordare infine è anche il sarcofago di Guglielmo di Durfort (m. nel 1289) nella chiesa fiorentina della SS. Annunziata, in cui una figura di cavaliere è affiancata da due fioroni forse in assonanza con il prevalente schema tripartito dei sepolcri locali (Ronan, 1982, nr. 32).
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Di importanza fondamentale per la formazione di una scultura fiorentina è la facciata del duomo gotico che Arnolfo di Cambio aveva progettato e iniziato a costruire, dal 1294-1296, intorno alla basilica romanica. Poiché il duomo venne ultimato solo nel 1437 dopo due sostanziali variazioni di progetto, non si sa più niente di preciso su quello originario; si conosce però la facciata grazie al disegno di Bernardino Poccetti (Firenze, Mus. dell'Opera di S. Maria del Fiore) che la riproduce con grande fedeltà nel 1587, subito prima della demolizione. Per quanto riguarda la parte realizzata da Arnolfo fino al 1302-1310, la facciata era articolata in tre zone: su uno zoccolo ad arcate cieche (di cui quattro sostituite da nicchie nel sec. 15°) si disponevano, per accogliere statue, due ordini di tabernacoli di forme non a carattere gotico bensì piuttosto classicistico. Le incrostazioni arnolfiane (di cui si conservano frammenti nel Mus. dell'Opera di S. Maria del Fiore) mostrano evidenti reminiscenze delle opere romane dei Cosmati e si differenziano pertanto nettamente dalle incrostazioni delle pareti esterne del corpo longitudinale del duomo, che chiaramente non risalgono ad Arnolfo. Per lo sviluppo della scultura fiorentina furono importanti sia le statue e i rilievi creati da Arnolfo e la sua bottega, in quanto primi esempi di una decorazione scultorea, sia le opere non eseguite, che costituirono un incentivo durevole e pressante alla prosecuzione della decorazione della facciata e all'assegnazione di commissioni agli scultori.In un primo tempo, durante la prima metà del Trecento (non per l'intero secolo), la scultura a F. restò dipendente dagli impulsi dei maestri pisani o senesi. La serie dei maestri provenienti da fuori venne inaugurata da Arnolfo di Cambio (v.), che - nato a Colle Val d'Elsa (prov. Siena) intorno al 1245 - era stato allievo di Nicola Pisano e aveva collaborato con il maestro, insieme ad altri, alla realizzazione del pulpito per il duomo di Siena (1266-1267). L'alunnato presso Nicola segnò lo stile di Arnolfo e soprattutto lo avvicinò allo studio della scultura antica. Ma egli fu presto in grado di elaborare un proprio linguaggio formale, caratterizzato da una cristallina chiarezza geometrica e impregnato di classicismo. Le forme plastiche, solidamente modellate, sono tuttavia accavallate una con l'altra in un modo che non tende alla visualizzazione dei volumi, bensì all'unità di una superficie ritmica. Questo appare già nella raffigurazione di Carlo I d'Angiò (1277) a Roma (Mus. Capitolino), così come nella tarda (1296-1302/1310) Madonna di F. (Mus. dell'Opera di S. Maria del Fiore) o nella figura di spalle della fontana di Perugia (Gall. Naz. dell'Umbria; 1277-1281), come pure nella Madonna della Natività al Mus. dell'Opera di S. Maria del Fiore o negli accoliti della tomba De Braye nel S. Domenico di Orvieto (1282), e ancora negli angeli reggicortina anch'essi al Mus. dell'Opera di S. Maria del Fiore. Dal 1277 fino al 1294-1296, tranne poche eccezioni (Perugia, Orvieto), Arnolfo operò a Roma, dove nell'architettura e decorazione di monumenti sepolcrali e cibori d'altare accolse e sviluppò in modo innovativo gli stimoli provenienti dall'arte locale dei Cosmati. Alla produzione romana si aggiungono le sculture create da Arnolfo per la facciata del duomo fiorentino, opere di classica maturità oggi al Mus. dell'Opera di S. Maria del Fiore.Con la morte di Arnolfo (avvenuta in un momento imprecisato tra il 1302 e il 1310), la sua bottega si sciolse lasciando come unica ulteriore traccia di sé alcune statuette da un ciclo di apostoli per il portale principale del duomo, di debole qualità artistica, attualmente in deposito al Mus. dell'Opera di S. Maria del Fiore. Già la tomba del vescovo Corrado della Penna (m. nel 1313) e l'angelo del grande candelabro di un Iohannes Iacobi (1320) nel battistero non possono più essere designati come opere di seguaci di Arnolfo.Nel 1318 venne chiamato a F. da Siena Tino di Camaino per erigere in Santa Croce una tomba al patriarca Gastone Della Torre, lì defunto. Durante il soggiorno dell'artista, che durò fino al 1323, grazie a importanti commissioni, la scultura in città conobbe un sorprendente slancio, in particolare in relazione ai primi sepolcri monumentali di Firenze. Come autore della tomba e dell'altare di s. Ranieri nel duomo di Pisa (1301-1306), della tomba con altare per l'imperatore Arrigo VII, sempre nel duomo pisano (1315), e della tomba per il cardinale Riccardo Petroni nel duomo di Siena (1315-1317), Tino era ritenuto come il più importante creatore di monumenti funebri di tutta l'Italia; egli poté basarsi sui sepolcri che erano stati realizzati da Pietro di Oderisio e Nicola Pisano per la prima generazione gotica (1260-1280) e da Arnolfo di Cambio, Giovanni di Cosma e Giovanni Pisano per la seconda generazione (1280-1310). A F. egli eresse per incarico della famiglia Barucci una tomba per Gastone Della Torre che si rifà in modo evidente alla tomba Petroni. Discostandosi dal modello, Tino inserì gli elementi della tomba Della Torre (basamento, sarcofago, camera funebre, statue del coronamento) in un baldacchino. Rispetto ai rilievi della tomba Petroni, nei rilievi del suo sarcofago fiorentino, Tino compì il passo dallo spazio dato dai corpi a uno spazio autonomo del rilievo, poiché mentre nei rilievi senesi le figure poggiano sul bordo inferiore della cornice, in quelli fiorentini venne inserito un suolo a zolle di terra che crea una spazialità indipendente dai volumi delle figure. Le prime sculture fiorentine di Tino sono espressione di una sintesi tra la precedente scultura senese improntata dalla pittura, la scultura estremamente espressiva di Giovanni Pisano e la grande concezione delle figure di Simone Martini. Su commissione della famiglia Barucci, Tino dovette realizzare anche, nel 1318-1319, un sepolcro di dimensioni più modeste per Bruno Beccuti-Barucci in S. Maria Maggiore. Nel 1320 Tino fu di nuovo attivo per l'Opera del duomo di Siena e alla stessa epoca eseguì un'arca per s. Ottaviano nella cattedrale di Volterra (Mus. Diocesano di Arte Sacra). Nuovamente a F., nel 1320-1321, Tino eresse nel duomo fiorentino il monumento funebre per il vescovo Antonio D'Orso, che illustra la morte e la risurrezione del defunto secondo un programma di grande complessità redatto da Francesco da Barberino. Diversi frammenti di monumenti sepolcrali erratici fanno ipotizzare l'esistenza di un'altra tomba, realizzata nel 1321-1322 probabilmente in Santa Croce: si tratta di una figura portante nella Fond. Romano nel Cenacolo di Santo Spirito, una coppia di angeli da una camera funebre oggi a Londra (Vict. and Alb. Mus.), la mezza figura di un angelo, anch'essa nella Fond. Romano nel Cenacolo di Santo Spirito, e la statua di un monaco francescano un tempo a Berlino (distrutta). Infine, nel 1321-1323, Tino eseguì a F. i gruppi statuari a tre figure di grandezza naturale per i tre portali del battistero. Le figure di questo artista sono caratterizzate da forme corporee possenti e movimenti molto decisi, che a volte comportano torsioni quasi forzate delle membra, senza che ciò nuoccia a una loro propria grazia. Nel 1323 o 1324 Tino si trasferì a Napoli per assumere, alla corte del re Roberto d'Angiò, la soprintendenza sulle costruzioni reali compresi i monumenti funebri.A F. l'operato di Arnolfo di Cambio e di Tino di Camaino, anche se entrambi i maestri non ebbero un seguito diretto, provocò un profondo mutamento nell'atmosfera artistica della città, incrementando la ricettività nei confronti della scultura. Nel secondo quarto del Trecento si ebbe infatti un aumento delle commissioni, che non andarono in prevalenza a grandi maestri forestieri, bensì riguardarono in misura considerevole anche scultori locali meno illustri. Uno fra questi è Paolo di Giovanni, che nel 1328-1329 realizzò un gruppo statuario con cinque figure per porta Romana, di cui le tre statue monumentali della Madonna in trono fra i ss. Pietro e Paolo si conservano al Mus. Naz. del Bargello. Le figure sono a blocco e la ricchezza di pieghe delle vesti resta legata alle superfici delle diverse facce del blocco. La discendenza stilistica è difficilmente determinabile, tuttavia un punto di partenza - a stento presagibile - potrebbe essere individuato in sculture come la raffigurazione da morto del vescovo D'Orso di Tino e la sua Carità al Mus. Bardini. Paolo di Giovanni inoltre nel 1342 ricevette l'incarico per sei statue (scomparse) per porta S. Gallo ed è documentato nel 1345 al palazzo del Podestà. Va poi menzionato uno scultore (denominato Maestro dei Re Magi dal rilievo dell'architrave del capitulum studentium del 1330-1333, fra il chiostro Verde e il chiostro Grande di S. Maria Novella) che fu attivo negli anni trenta e quaranta prevalentemente nell'ambiente dei Domenicani. La prima opera da attribuirgli è la tomba per il giovannita Pietro da Imola (m. nel 1330) in S. Jacopo in Campo Corbolini. Allo scultore sono da attribuire anche l'altare-edicola del capitulum studentium conservato al Mus. Naz. del Bargello, nonché il rilievo di Gregorio nella cappella di Ricardo dei Bardi (1335), così come la tomba dei discendenti di Rosso Strozzi sotto le scale della cappella Strozzi (1340-1348), entrambi in S. Maria Novella. Inoltre devono risalire a questo stesso maestro le statue della Madonna con il Bambino, S. Pietro Martire e S. Lucia provenienti dalla casa della Compagnia del Bigallo, acquistata nel 1352, oggi all'esterno dell'oratorio del Bigallo. Si possono individuare poi diversi altri scultori 'minori', che nel secondo quarto del Trecento collaborarono ai vasti cicli scultorei del campanile adiacente al duomo e furono attivi anche altrove in città. Gli impulsi determinanti però si devono anche in questo periodo a maestri provenienti da Pisa e da Siena: Giovanni di Balduccio, Andrea Pisano e Agnolo di Ventura.Giovanni di Balduccio dovette giungere da Pisa a F. nel 1330 o 1331, circa trentenne, per portare a termine la tomba Baroncelli nella cappella di famiglia in Santa Croce. Il sepolcro risulta come inserito in un'apertura ad arco nella parete della cappella in modo da essere visibile da due lati: una soluzione senza precedenti in Toscana, per la quale il committente dovette subire l'influsso dei monumenti funerari francesi o, più probabilmente, della tomba di Tino di Camaino per Caterina d'Austria in S. Lorenzo a Napoli, del 1324 circa. La costruzione della cappella era stata iniziata nel febbraio del 1328 e un ignoto scultore aveva già realizzato i due lati del sarcofago quando Giovanni di Balduccio ebbe l'incarico di eseguire l'inquadratura dell'arcata sepolcrale sui due lati con colonne a spirale e cuspidi, la cornice intorno all'apertura rettangolare nel sottile tramezzo murario nell'arcata e, inoltre, il gruppo statuario dell'Annunciazione nell'arcata d'ingresso della cappella. Intorno al 1331 lo scultore dovrebbe aver realizzato il polittico marmoreo per S. Domenico a Bologna, di cui sono conservati cinque rilievi e statue (Bologna, Mus. di S. Stefano, Mus. Civ. Medievale, coll. privata; Faenza, Pinacoteca Com. d'Arte Antica e Moderna; Detroit, Inst. of Arts). Al 1332 andrebbe datato il pulpito firmato da Giovanni nella chiesa della Misericordia a San Casciano in Val di Pesa, presso Firenze. La sua opera più importante a F. fu il tabernacolo per l'immagine miracolosa della Madonna di Orsanmichele (dopo il 1336); del suo tabernacolo, che venne poi sostituito da quello di Orcagna (1352-1360), sono conservati i rilievi con Apostoli e Virtù (Firenze, Orsanmichele; Mus. Naz. del Bargello; Washington, Nat. Gall. of Art). Successivamente Giovanni si recò al servizio di Azzone Visconti a Milano, dove è documentato fino al 1349.Il sepolcro dei Baroncelli in Santa Croce suscitò evidentemente la concorrenza dei Bardi, che nelle loro due cappelle nella stessa chiesa, dedicate a s. Silvestro e a s. Ludovico, fecero erigere analoghe tombe monumentali, di cui quella della cappella di S. Ludovico copia direttamente il modello di quella Baroncelli. Le figure dei due sepolcri rivelano strette relazioni stilistiche con quelle del portale Petroni di Agnolo di Ventura nel cortile del convento di S. Francesco a Siena, che è datato 1336 e dovrebbe costituire l'originario ingresso alla cappella sepolcrale della famiglia Petroni. Dato che la tomba nella cappella di S. Silvestro deve essere stata terminata prima degli affreschi di Maso di Banco (1336-1337), che il portale Petroni è datato 1336 e inoltre che Agnolo di Ventura alla fine di quell'anno era impegnato per incarico del Comune di Siena alla fortificazione di Massa Marittima, il monumento della cappella di S. Silvestro dovrebbe risalire al 1335. In questo anno un ramo della famiglia Bardi entrò in possesso del castello di Vernio, fatto a cui si riferisce la presenza della fortezza sullo stemma. Il monumento sepolcrale nella cappella di S. Ludovico, con lo stesso stemma, dovrebbe invece essere stato eretto nel 1337-1340 e dunque la faccia del sarcofago all'interno della cappella fu lasciata a un collaboratore. L'epoca di realizzazione viene circoscritta se si considera che i Bardi nel 1341 dovettero vendere Vernio e che Agnolo di Ventura nello stesso anno lavorava alla tomba di Matteo Orsini in S. Maria sopra Minerva a Roma.Della massima importanza per la scultura a F. fu l'operato di Andrea Pisano, che al momento del suo arrivo in città, all'inizio del 1330, non era uno scultore bensì un orafo. Nel 1330-1333 egli modellò in cera e, dopo la fusione a opera del fonditore veneziano Leonardo Avanzi (1331-1332), rifinì e dorò le quarantotto protomi leonine e i ventotto rilievi che poi vennero collocati nei battenti della porta del battistero commissionati all'orafo fiorentino Piero di Jacopo. Nelle formelle di Andrea sono raffigurate venti scene della Vita di s. Giovanni Battista e otto Virtù, che evidentemente costituiscono il fondamento della vita del Battista. Le figure e le architetture dei rilievi poggiano su una base sostenuta da mensole davanti a un fondo solido e piatto; nelle scene ambientate in un paesaggio un gruppo di rocce è applicato sulla superficie del fondo. Le raffigurazioni di Andrea non sono ideate in rapporto al disegno quadrilobato delle formelle, bensì richiamano, attraverso elementi verticali e orizzontali, il campo rettangolare della porta. Caratteristica essenziale dei rilievi di Andrea è l'equilibrio di tutti gli elementi della composizione: non solo le figure e le architetture, ma anche le parti lisce del fondo vanno parimenti intese come elementi compositivi. Su questo si fonda la sobrietà d'immagine delle composizioni di Andrea, il quale applicò alla scultura leggi della pittura come quelle che ordinano in particolare gli affreschi padovani di Giotto. Per le figure, invece, Andrea è in obbligo soprattutto nei confronti di Duccio. Come in precedenza solo quelle di quest'ultimo, le figure di Andrea si distinguono per una struttura corporea slanciata, movimenti tranquilli e aggraziati, gesti delicati, un armonico fluire dei panneggi e un modellato senza durezze.La lavorazione del metallo e quella del marmo dipendevano da due diverse corporazioni e pertanto era del tutto inusuale che un orafo giungesse a realizzare sculture in marmo, ma il lavoro ai rilievi bronzei aveva condotto Andrea al confine tra oreficeria e scultura, cosicché gli fu necessario solo un piccolo passo per superare questo confine. Le prime sculture in marmo dovettero essere eseguite da Andrea nel 1334-1335; si tratta delle statuette di una Madonna (Berlino, Staatl. Mus., Pr. Kulturbesitz, Skulpturengal.) e di Cristo e S. Reparata al Mus. dell'Opera di S. Maria del Fiore.Nell'aprile del 1334 prese avvio la costruzione del campanile vicino al duomo su progetto di Giotto e, inizialmente, sotto la sua direzione. Il terzo inferiore della torre con i due ambienti all'interno corrisponde al progetto giottesco, che prevedeva per le due fasce che compongono lo zoccolo cicli di rilievi e, al di sopra, sedici nicchie per statue monumentali. Nella zona inferiore della base sono raffigurate scene della Genesi e gli Inventori delle arti in riferimento alle sette artes mechanicae, nell'ordine superiore i Sette pianeti, le Virtù, le Arti liberali e i Sacramenti. Tutti i rilievi formano iconograficamente un contesto unitario. In linea di principio si è presupposto per tutte le sculture un progetto di Giotto. Contrariamente a una diffusa opinione, esse non vennero eseguite da un'unica bottega. Fu piuttosto l'Opera del duomo a offrire la struttura organizzativa tanto per la costruzione del campanile quanto per l'esecuzione delle sculture. Nel cantiere potevano lavorare contemporaneamente molti artigiani in diversi campi d'attività, così come più scultori o botteghe di scultori. Tra i rilievi del campanile, oggi al Mus. dell'Opera di S. Maria del Fiore, si può distinguere nel complesso l'operato di otto maestri: Andrea Pisano contribuì con non meno di quattordici formelle (tre scene della Genesi, Jabal, Tubalcain, Equitatio, Lanificium, Dedalo, Navigatio, Ercole, Agricoltura, Scultura, Geometria e Retorica) e inoltre con il rilievo della Vergine e la statua di Salomone; la maggior parte di queste opere fu realizzata dall'artista quando non aveva ancora assunto, in seguito alla morte di Giotto avvenuta nel gennaio 1337, la direzione del cantiere. Prima di lasciare F. per recarsi a Pisa, verosimilmente nel 1341, Andrea eseguì ancora il tabernacolo dell'Arte della lana a Orsanmichele insieme con la statua di S. Stefano oggi al Mus. dell'Opera di S. Maria del Fiore.In stretta collaborazione con Andrea Pisano dovette lavorare al campanile, negli anni 1337-1341, suo figlio Nino (Jubal, Medicina, Phoroneus, Theatrica, Architectura, Pictura, Venere, Mercurio e le statue di re Davide, due sibille e un profeta). Ad altri quattro scultori anonimi, il Maestro di Noè, il Maestro dell'Armatura, il Maestro di Saturno e il Maestro della Luna, furono commissionati quindici rilievi e una statua. Alcune formelle (Musica, Grammatica, Logica, Aritmetica, Fede, Matrimonio) possono essere identificate come opere di Gino Micheli da Castello, il cui nome è tramandato da un'iscrizione sulla base di una statua della Vergine, datata 1341, da S. Lorenzo di Castelbonsi presso San Casciano (San Casciano in Val di Pesa, Mus. Vicariale d'Arte Sacra). Questo scultore, i cui inizi sono da presupporre nella cerchia di Tino di Camaino, eseguì inoltre a F. le figure di sostegno e il sarcofago della tomba di Francesco e Simone dei Pazzi in Santa Croce, un timpano frammentario con la Vergine a mezza figura, nella stessa chiesa, e un rilievo con le mezze figure della Vergine tra una santa, probabilmente s. Reparata, e s. Giovanni Battista al Mus. Naz. del Bargello. L'ottavo scultore attivo al campanile realizzò la gran parte del ciclo dei Sacramenti (Battesimo, Penitenza, Cresima, Sacerdozio, Eucaristia, Estrema Unzione) e le statue di Mosè e di un profeta. Queste formelle descrivono in modo estremamente conciso e felice, e anche molto intenso, l'azione con cui vengono amministrati i diversi sacramenti. Il rilievo è caratterizzato da figure fortemente plastiche, dai volumi compatti e, nonostante un alto grado di astrazione, dall'atteggiamento naturale. Benché di piccolo formato, esse appaiono monumentali. Stilisticamente queste sculture, sia per la concezione delle figure sia per gli schemi compositivi, sono molto vicine agli affreschi di Maso di Banco nella cappella di Bardi di Vernio in Santa Croce (1336-1337). Grazie a Lorenzo Ghiberti (Commentari, I, 7) si sa che Maso: "Sculpì maravigliosamente di marmo, è una figura di quattro nel campanile". Inoltre egli dovrebbe essere l'autore della tomba del vescovo Tedice Aliotti (m. nel 1336) in S. Maria Novella. Infine risulta dubbio se non possa essere inoltre riconducibile a questo pittore e scultore, già scolaro e collaboratore di Giotto, il progetto di Orsanmichele (1336).La peste, che nel 1348 funestò l'intera Europa e anche a F. fece strage di quasi metà della popolazione, non provocò, contrariamente a quanto sostenuto da Meiss (1951), alcun cambiamento sostanziale nello sviluppo della scultura e della pittura e non lasciò tracce profonde. Già prima dello scoppio dell'epidemia, all'inizio del 1348, Francesco Talenti aveva elaborato un nuovo progetto per i due piani intermedi o forse per tutta la parte superiore del campanile, in cui la decorazione era limitata a una piatta incrostazione ornamentale. Un tipo di ornamentazione analogo era stato realizzato dallo stesso artista, che fu uno dei capomastri dell'Opera del duomo durante gli anni cinquanta e sessanta, anche sulle pareti laterali della chiesa nella parte occidentale, che includeva la porta del campanile a S e la porta dei Cornacchini a N. Di Francesco Talenti sono documentate anche alcune statue, ma nessuna di esse è stata identificata.Alberto di Arnoldo, invece, nella sua decorazione della loggia del Bigallo (1352-1358) seguì un'altra fondamentale concezione della scultura. Per l'oratorio del Bigallo egli fornì inoltre una Madonna con il Bambino a mezza figura (1361) e per l'altare tre grandi statue della Vergine tra angeli (1359-1364). Sempre ad Alberto di Arnoldo potrebbero essere attribuite due figure di angeli sul lato nord del corpo longitudinale del duomo, caratterizzate da volumi profondamente solcati dalle pieghe del panneggio. Questo stesso maestro venne incaricato nel 1359, dopo decenni di stasi, di intraprendere lavori alla facciata del duomo, e precisamente agli archivolti del portale principale di cui si doveva completare il cassettonato.L'opera più nota della scultura fiorentina degli anni cinquanta è firmata da un pittore, Andrea di Cione, detto Orcagna (da arcangelo); si tratta del tabernacolo contenente l'immagine miracolosa della Vergine in Orsanmichele, che venne eretto tra il 1352 e il 1360. Per poter realizzare quest'opera, Orcagna, caso senza precedenti, dovette immatricolarsi anche nell'Arte dei maestri di pietra e legname, poiché egli doveva istituire una bottega e impiegare muratori, scalpellini e scultori. Il suo tabernacolo, le cui tre arcate erano in origine chiuse da tavole di legno, va inteso come uno scrigno racchiudente l'immagine miracolosa. Sopra la volta a crociera del tabernacolo si trova una piattaforma su cui si eleva un tamburo sormontato da una cupola, che costituisce un'innovazione architettonica. Una scala strettissima permetteva alle persone che dovevano aprire e chiudere il tabernacolo di accedere a questo scopo alla piattaforma. Osservando l'esecuzione dei blocchi marmorei con cui è commesso il tabernacolo, colpisce subito l'assoluta precisione del lavoro. La stessa impressione è data dagli ornati a intarsio e dalla decorazione plastica. A un esame delle coppie di sculture di uguale soggetto, per es. gli angeli sui timpani, si ha nuovamente l'impressione di quanto strettamente gli scultori incaricati dell'esecuzione si siano attenuti ai modelli di Orcagna, tanto da rendere difficilmente riconoscibile il loro stile personale. Orcagna dunque diresse molto severamente i muratori e gli scalpellini, così come gli scultori, non concedendo loro alcun margine di espressione personale. I complessivi centodiciassette tra rilievi e statue - senza contare gli animali scolpiti, le piante e altri ornamenti plastici - sono di conseguenza una testimonianza in primo luogo delle idee artistiche di Orcagna e in secondo luogo delle eccellenti capacità artigianali degli esecutori. È evidente che Orcagna si valse per il tabernacolo solo dei migliori maestri che si trovavano a Firenze, sia come muratori e scalpellini sia come scultori. Con le debite riserve si può ipotizzare che tra i sei scultori attivi al tabernacolo vi fossero, oltre allo stesso Orcagna, uno dei suoi fratelli, Matteo di Cione, Alberto di Arnoldo, un Simone, figlio del capomastro dell'Opera del duomo, Francesco Talenti, un Francesco Neri Ubaldi, detto Sellaio, e infine un maestro di cui non si conosce il nome. Le sculture eseguite personalmente da Orcagna dovrebbero mostrare una stretta affinità artistica con le figure della Pala Strozzi in S. Maria Novella: una condizione che si realizza nei rilievi della Fede, dell'Annuncio della morte a Maria, della Morte e Assunzione, e ancora in un'altra serie di sculture del tabernacolo. Il deciso plasticismo delle figure, la pienezza del loro volume, la straordinaria sensibilità del modellato, la singolare forza espressiva dei volti sono tutte caratteristiche delle sculture autografe di Orcagna. I rilievi, che nel loro complesso riproducono con la massima esattezza il progetto orcagnesco, costituiscono una pietra miliare nell'evolversi della concezione del rilievo del Trecento. Rispetto alle formelle del campanile, qui appaiono raggiunte, per es. nella Nascita di Maria o nell'Annuncio della morte a Maria, una profondità di spazio fino ad allora sconosciuta, una rappresentazione realistica degli interni e una riproduzione fedele dell'arredamento. Come in precedenza solo Maso di Banco, Orcagna, in quanto scultore, non è artisticamente dipendente da altri maestri; entrambi gli artefici elaborarono la loro visione in pittura e riuscirono poi a realizzarla anche nelle loro creazioni in campo scultoreo.Durante gli anni sessanta e settanta le commissioni di opere di scultura si concentrarono al duomo e a Orsanmichele. Sellaio nel 1362-1367 venne incaricato dell'esecuzione di sei statue di apostoli per gli stipiti del portale maggiore del duomo. In tal modo veniva portato a termine un ciclo di apostoli lasciato incompleto dai discepoli di Arnolfo di Cambio. In seguito, nel 1376-1377, le più antiche statue del ciclo vennero sostituite da nuove, delle quali otto vennero realizzate da Sellaio e due da Simone di Francesco Talenti. Già poco più tardi esse vennero sostituite con quelle scolpite nel 1387-1391 da Piero di Giovanni Tedesco su disegni di Lorenzo di Bicci, Agnolo Gaddi e Spinello Aretino (quindici sono nel Mus. dell'Opera di S. Maria del Fiore; una a Ferrara, Pinacoteca Naz.). La sedicesima figura nel museo fiorentino, un S. Bartolomeo, è invece opera di Sellaio, del 1363-1365. Le restanti statue del 1362-1367 e 1376-1377 vennero collocate agli inizi del Quattrocento al di sopra delle cuspidi delle finestre che danno luce alla cappelle del coro del duomo, mentre le figure degli inizi del Trecento trovarono posto, intorno al 1380, sulla porta del campanile del duomo. La concezione scultorea della decorazione promossa negli anni cinquanta da Alberto di Arnoldo e Orcagna, in contrasto con quanto realizzato da Francesco Talenti, fu determinante per tutta la successiva decorazione architettonica. Se ne appropriò Simone di Francesco Talenti quando, nel 1366-1367, creò la prima chiusura a traforo per l'arcata di Orsanmichele prossima al lato posteriore del tabernacolo di Orcagna; secondo questo modello venne realizzato contemporaneamente il traforo dell'arcata vicina al fronte destro del tabernacolo. Nel 1380-1381 vennero chiuse con trafori altre quattro arcate: quelle vicine all'altare di s. Anna e le due ancora aperte sul lato sud della loggia. Per il lato esterno come per quello interno di ciascuno dei trafori, Simone di Francesco Talenti aveva previsto ogni volta quattro statue, delle quali egli stesso ne realizzò otto. Inoltre, per incarico dell'Arte della seta, nel 1377-1378 Simone di Francesco Talenti dovette eseguire la monumentale statua di S. Giovanni Battista per il tabernacolo dell'Arte, posto all'esterno di uno dei pilastri di Orsanmichele, oggi all'ospedale degli Innocenti.Stilisticamente non molto distanti da alcuni dei trafori delle arcate di Orsanmichele sono le sculture dei monumenti funebri del giurista Tommaso Corsini (m. nel 1366) e del vescovo Neri Corsini (m. nel 1377) attualmente nella cappella di S. Jacopo nel secondo chiostro di Santo Spirito. Ben più rilevante artisticamente rispetto alle tombe è il fonte battesimale del battistero, datato 1370, che segnala l'introduzione del nuovo rito del battesimo a infusione in luogo dell'antico a immersione. I sei rilievi con scene battesimali rivelano nella rappresentazione dello spazio un passo ulteriore rispetto ai rilievi orcagneschi e risulta dubbio se essi siano opera del fratello di Orcagna, Matteo di Cione.Alla stessa generazione di Sellaio e di Simone di Francesco Talenti appartenne anche Giovanni di Francesco, detto Fetti, che nel 1378 condusse a termine la porta dei Canonici del duomo, sul cui timpano sono collocate tre statue opera di Zanobi di Bartolo. Con questo portale Fetti creò una tipologia, sconosciuta fino a quel momento a F., interamente concepita in una prospettiva scultorea. Immediata conseguenza di ciò, nel 1380 ca., fu il rinnovamento, nel senso di un arricchimento spaziale e di un incremento degli elementi scultorei, dei due portali del settore occidentale della navata del duomo, dotati, intorno al 1360, da Francesco Talenti di un piatto decoro a incrostazione. In tal modo poterono trovare una collocazione molte sculture che si trovavano nel deposito dell'Opera del duomo.Insieme a Taddeo Ristori e a Benci di Cione, Simone di Francesco Talenti deve aver lavorato al gruppo di progetti su cui si basò la costruzione della loggia dei Priori nel 1376-1379. Nella decorazione scultorea, del 1380-1385, avvenne tra i maestri che si erano avvicendati un cambio generazionale di profonda importanza. Questo è constatabile già nel 1379 nelle due mensole figurate, dove Sellaio e Francesco Neri Fardelli eseguirono un angelo in quella di sinistra e le due figure di mezzo in quella di destra, mentre le restanti cinque figure furono commissionate al giovane Jacopo di Piero Guidi. Nell'opera dei maestri più anziani, come in quella di tutta la loro generazione, si manifesta una scarsa comprensione della struttura organica dei corpi; le figure di Jacopo, invece, hanno movimenti dinamici e atteggiamenti fortemente espressivi e non permettono di rintracciare i limiti del blocco marmoreo in cui sono state colpite. Della realizzazione delle monumentali figure sedute delle sette Virtù per la loggia (1383-1391) vennero incaricati Jacopo di Piero Guidi, Fetti, Giovanni d'Ambrogio e Luca di Giovanni da Siena; dopo un certo tempo, tuttavia, all'anziano Fetti e a Luca di Giovanni l'incarico venne tolto e affidato a Jacopo di Piero Guidi. Quest'ultimo e Giovanni d'Ambrogio restarono fino alla fine del Trecento gli scultori più rinomati di Firenze.Con la comparsa di questa giovane generazione di scultori venne ripresa con energia la decorazione della facciata del duomo. Jacopo di Piero Guidi, Luca di Giovanni da Siena e Piero di Giovanni Tedesco, che per la prima volta è menzionato a F., dovettero eseguire, nel 1383-1388, complessivamente otto figure di angeli musicanti (sei delle quali al Mus. dell'Opera di S. Maria del Fiore; una a Berlino, Bode-Mus.). Esse dovevano essere destinate ai tabernacoli fiancheggianti gli archivolti del portale maggiore. Un secondo ciclo di statue fu previsto per le nicchie rettangolari nel secondo registro della facciata: quattro grandi statue di santi ciascuna fra due angeli adoranti. Le statue di S. Stefano (1390-1391) e di S. Lorenzo (1393-1394), entrambe a Parigi (Louvre), e quella di S. Vittore (1394-1395) sono opera di Piero di Giovanni Tedesco, mentre Giovanni d'Ambrogio contribuì con il S. Barnaba (1395-1396). Le ultime due statue si trovano nel Mus. dell'Opera di S. Maria del Fiore insieme con sei angeli adoranti (1390-1396) di Piero di Giovanni Tedesco; al gruppo degli angeli appartengono ancora una statua a New York (Metropolitan Mus. of Art) e una a Francoforte sul Meno (Liebieghaus). Il passo successivo fu la commissione a Piero di Giovanni Tedesco e a Niccolò di Pietro Lamberti di due monumentali statue raffiguranti i Padri della Chiesa, ciascuna per i tabernacoli nei pilastri nel terzo registro della facciata (1395-1401). Queste quattro statue - così come i quattro evangelisti di Niccolò di Pietro Lamberti, Donatello, Nanni di Banco e Bernardo Ciuffagni (1408-1415) - sono conservate al Mus. dell'Opera di S. Maria del Fiore. Con le statue degli evangelisti, che originariamente erano collocate entro nicchie e in seguito furono poste nello zoccolo della facciata arnolfiana, fu compiuto l'ultimo sforzo per il completamento della facciata gotica del duomo. È importante considerare quest'ultimo incarico nel contesto immediatamente seguente. La statua di Nanni di Banco raffigurante S. Luca e quella di S. Giovanni realizzata da Donatello - protagoniste tra le sculture del Rinascimento - hanno le loro radici, per ciò che riguarda la committenza così come l'ambiente artistico, pienamente nel tardo Trecento: è possibile infatti istituire tra queste due statue e quella di S. Barnaba di Giovanni d'Ambrogio un confronto visivo immediato dal quale risulta evidente la dipendenza artistica del S. Giovanni di Donatello e soprattutto del S. Luca di Nanni di Banco dalla scultura di Giovanni d'Ambrogio.All'impegno finanziario dell'Opera per la decorazione della facciata si aggiunse dal 1391 anche quello per la porta della Mandorla, che venne ultimata nel 1421 dai rilievi di Nanni di Banco con l'Assunzione e il Dono della cintola a s. Tommaso. Nel 1391-1393 vennero realizzati gli sguanci, fra la cui ricca decorazione spiccano le formelle esagonali racchiudenti angeli intervallate da un motivo fogliato a lira con inserita una piccola figura. Sulla base di documentate indicazioni di misura, i blocchi inferiore e superiore dello sguancio sinistro, con i rilievi più importanti, devono essere identificati come opere di Giovanni d'Ambrogio, mentre quello mediano venne eseguito da Piero di Giovanni Tedesco. Nello sguancio destro, i blocchi inferiore e superiore sono di Niccolò di Pietro Lamberti e i due mediani di Jacopo di Piero Guidi. I due blocchi con mensole della cornice della porta sono documentati per Giovanni d'Ambrogio e Piero di Giovanni Tedesco. Al primo si devono chiaramente lo stipite sinistro e i blocchi sinistro e destro dell'architrave (a quest'ultimo dovrebbe aver collaborato anche il figlio Lorenzo); Piero dovette invece decorare il blocco mediano dell'architrave e lo stipite destro. Mentre egli scolpì le infiorescenze a ombrello e figurette di angeli entro girali, Giovanni raffigurò le Storie di Ercole e le Muse, dando così prova del suo vivo interesse verso i temi dell'Umanesimo; non a caso nel 1392 apparve l'opera De laboribus Herculis del cancelliere fiorentino Coluccio Salutati. In Giovanni inoltre la ricerca di una resa più puntuale della realtà e l'influsso subìto dall'Antico erano due aspetti di uno stesso intento. Ciò appare nel modo più evidente - per es. nella resa veristica del palmo delle mani e nelle teste pienamente antichizzanti - nel gruppo statuario con Gabriele e Maria annunciata al Mus. dell'Opera di S. Maria del Fiore, destinato in origine alla lunetta della porta della Mandorla. Questa coppia di figure presenta una stretta affinità con il blocco inferiore dello sguancio sinistro del portale (1391-1392), dove tra gli angeli si possono notare varianti stilistiche analoghe a quelle che si riscontrano tra le due statue dell'Annunciazione. Tra gli angeli e la figura di Ercole del blocco inferiore dello sguancio sinistro si apre la stessa frattura tra concezione tardomedievale della figura e copia dell'Antico che appare fra i corpi panneggiati e le teste delle statue dell'Annunciazione. Con questo dualismo tra figura panneggiata medievale e copia dei modelli antichi, la scultura del Trecento, che predilesse il marmo e molto raramente il legno, si trasformò senza gravi cesure nella scultura del Quattrocento, che a F. significa Rinascimento.
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In un documento notarile della chiesa fiorentina di S. Pier Maggiore (Arch. di Stato, Diplomatico) rogato il 27 febbraio 1066 compare un tal Rusticus, che si dichiara significativamente clericus et pictor. Tuttavia, per giungere ad analizzare una produzione artistica definibile più espressamente come fiorentina, e nel campo della miniatura prima che in quello della pittura, occorre attendere almeno il primo quarto del 12° secolo.Un gruppo piuttosto omogeneo di codici, decorati probabilmente nel primo quarto del sec. 12°, tutti conservati a F. (Bibbia della cattedrale, Laur., Edili 125-126; passionario, Laur., conv. soppr. 302; Bibbia, Laur., Edili 124; omeliario, Laur., Edili 141; Garrison, 1953-1962; Berg, 1968), documenta l'affermazione nel territorio fiorentino di una tendenza artistica improntata a un rigido classicismo lineare, ispirata principalmente alla contemporanea cultura romano-laziale. Una fase stilistica ulteriore, caratterizzata soprattutto da una spiccata tendenza alla stilizzazione geometrica nella decorazione marginale e nei panneggi delle figure, è rilevabile in altri due codici conservati a F.: un salterio proveniente dal monastero di S. Michele in Marturi, nel territorio di Poggibonsi (Laur., Plut. 17.3), e la nota Bibbia camaldolese scritta dal calligrafo Corbolinus e recante la data 1140 (Laur., conv. soppr. 630).Alla prima metà del sec. 12° dovrebbe risalire la veneratissima immagine della Madonna in trono con il Bambino della pieve di S. Maria all'Impruneta, presso F., la cui diretta ascendenza culturale romana è stata indicata dalla critica più avvertita (Garrison, 1949, p. 43; Boskovits, in Offner, 1993, pp. 19 n. 13, 198-205), nonostante il problematico stato di conservazione che rende difficile ogni giudizio.Tra i dipinti più antichi e importanti dell'area fiorentina è da annoverare anche la croce nella chiesa del monastero di S. Maria di Rosano, presso Rignano sull'Arno (Boskovits, in Offner, 1993, pp. 206-217), la cui datazione può arretrare fino all'ultimo quarto del 12° secolo. L'opera è inequivocabilmente connessa per stile con la croce frammentaria di Castiglion Fiorentino (Pinacoteca Com.; Boskovits, in Offner, 1993, pp. 742-745), presso Arezzo, e, con essa, si qualifica come un fondamentale precedente diretto della cultura pittorica aretina duecentesca di Margaritone e Ristoro.Tra i reperti figurativi che contribuirono a stabilire la fisionomia artistica fiorentina nella prima metà del sec. 13° un posto di primo piano è occupato certamente da un crocifisso conservato agli Uffizi (inv. nr. 432): gli interventi critici a esso dedicati (Baldini, 1962; Tartuferi, 1990, pp. 9-11; Boskovits, in Offner, 1993, pp. 40-45) hanno sottolineato l'assoluta rilevanza qualitativa di questo esemplare e la diramata cultura del suo autore, che ha indotto a chiamare in causa le fonti figurative più diverse, dalla miniatura bavarese a quella siriaco-armena, dalla fiorente cultura pisana della seconda metà del sec. 12° a quella della provincia costantinopolitana, nonché a quella non meno fiorente arabo-siciliana. Pare da riaffermare ancora una volta, tuttavia, che i riscontri stilistici più immediati ricorrono con dipinti appartenenti alla pittura pisana della seconda metà del sec. 12° e, segnatamente, con la croce di Pisa (Mus. Naz. e Civ. di S. Matteo, inv. nr. 1578, già inv. nr. 15; Boskovits, in Offner, 1993, fig. 18) e con quella proveniente dalla chiesa di S. Cristina a Pisa (Siena, santuario di S. Caterina; Boskovits, in Offner, 1993, fig. 21).La più antica e autentica personalità pittorica di cultura fiorentina è da individuare plausibilmente nel Maestro di Rovezzano, autore della Madonna in trono con il Bambino e due angeli della chiesa di S. Andrea a Rovezzano (Boskovits, in Offner, 1993, pp. 226-233), alle porte di Firenze. Quest'opera, pervasa di serena classicità nonostante la rigida impostazione frontale, è datata generalmente alla prima metà del 13° secolo. Tuttavia l'assoluta unicità stilistica nel contesto della pittura fiorentina del primo Duecento e lo spiccato accento lineare, unito alla rigorosa stilizzazione dei panneggi, inducono in effetti ad accogliere la tesi (Boskovits, in Offner, 1993, p. 33) che vorrebbe spostarne la datazione al terzo quarto del secolo precedente.Il Maestro del Bigallo, autore del crocifisso conservato nel Mus. del Bigallo (Boskovits, in Offner, 1993, pp. 332-340), è forse l'esponente più caratteristico della pittura fiorentina della prima metà del Duecento. Operoso all'incirca nel periodo 1215-1245, fu ritenuto in passato influenzato soprattutto dalla contemporanea pittura lucchese, mentre dovette essere particolarmente sensibile, specie nella fase matura della sua attività, ai riflessi culturali pisani. Gli accenti pausati e classicheggianti, nonché la fresca vena cromatica che caratterizzano il suo linguaggio imposero il Maestro del Bigallo come importante punto di riferimento anche per alcuni artisti fiorentini attivi fin nel terzo quarto del secolo. Nel crocifisso di Chicago (Art Inst.; Boskovits, in Offner, 1993, pp. 328-331) si avverte un deciso inasprimento linguistico: le accentuate intenzioni plastico-luministiche denunciano un rapporto specifico con l'importante crocifisso degli Uffizi (inv. nr. 434). La produzione tarda del pittore è ben illustrata nei suoi caratteri dal dossale nel Mus. dell'Opera di S. Maria del Fiore (Boskovits, in Offner, 1993, pp. 292-303), con S. Zanobi in trono fra i ss. Eugenio e Crescenzio e ai lati quattro episodi della sua vita, in origine posto sull'altare eretto sopra la tomba del primo vescovo della diocesi, nella cripta dell'antica cattedrale di S. Reparata. La croce dipinta conservata a Roma (Gall. Naz. d'Arte antica; Boskovits, in Offner, 1993, pp. 304-311), caratterizzata da un linguaggio disteso e solenne, appare legata alla riforma neoellenistica operata da Giunta Pisano verso il 1240, specialmente per la stesura pittorica sciolta e vibrante, e quindi non dovrebbe datarsi troppo in anticipo sulla fine del secondo quarto del secolo.Tra i protagonisti della prima fase della pittura fiorentina duecentesca spicca anche l'autore della grande pala degli Uffizi con la Madonna in trono con il Bambino e, nella parte inferiore, l'Annunciazione (Boskovits, in Offner, 1993, pp. 274-281), proveniente da una cappella privata a Greve in Chianti, ma appartenente in origine all'oratorio di S. Maria di Casale, dipendente dalla chiesa di S. Donato a Citille. Il restauro dell'opera ha recuperato la stesura originale, eliminando tuttavia insieme alle tarde ridipinture ottocentesche anche un primo riadattamento dell'immagine che doveva rimontare forse alla seconda metà del Duecento. Questa tavola, dal cromatismo intenso e smaltato, propone un confronto molto interessante con l'attività del senese Maestro di Tressa, analogamente a quanto si riscontra in un altro dipinto ascrivibile al secondo quarto del secolo, vale a dire la frammentaria Madonna con il Bambino proveniente dal duomo di Fiesole e ora depositata presso il locale seminario vescovile (Boskovits, in Offner, 1993, pp. 270-273).Offner (1933) aveva indicato nella grande tavola con S. Francesco e venti episodi della sua leggenda sull'altare della cappella Bardi nella fiorentina Santa Croce, nel crocifisso degli Uffizi e nel dossale con S. Michele Arcangelo in trono e sei storie proveniente dalla chiesa di S. Angelo a Vico l'Abate (San Casciano in Val di Pesa, Mus. Vicariale d'Arte Sacra) le opere più rappresentative della tendenza della pittura fiorentina maggiormente incline ai valori plastico-luministici che trovò il suo massimo interprete in Coppo di Marcovaldo, a fronte dell'altro indirizzo che procede dal Maestro del Bigallo, di carattere più squisitamente narrativo. Quest'interpretazione critica di fondo può dirsi sostanzialmente valida anche oggi; tuttavia la definizione critico-filologica delle personalità cui si devono le opere appena indicate registra ancora le opinioni più diverse da parte degli studiosi. Allo stato attuale delle ricerche può considerarsi definitivamente stabilita l'ascrizione all'attività più antica di Coppo di Marcovaldo della pala francescana di Santa Croce (Boskovits, in Offner, 1993, pp. 472-507). Alcuni personaggi delle fosche e impetuose storie poste ai lati e sotto la figura di s. Francesco si rivelano infatti parenti molto stretti dei protagonisti delle analoghe scene nel dossale di Vico l'Abate, oggi concordemente considerato un'opera cruciale nello svolgimento del percorso di Coppo di Marcovaldo.Opera fondamentale nella ricostruzione del catalogo coppesco è il crocifisso di San Gimignano (Mus. Civ.; Tartuferi, 1990, fig. 69), proveniente in origine dal locale monastero di S. Chiara, databile entro la seconda metà del sesto decennio, anche a motivo della notevole affinità complessiva riscontrabile con il più antico crocifisso degli Uffizi. Il dossale di Vico l'Abate (Boskovits, in Offner, 1993, tav. XLVI) dovrebbe spettare invece a una fase più inoltrata nel percorso dell'artista, alla prima metà del settimo decennio, e attesta la sua adesione all'ondata d'influenza pisana alimentata dalla fase tarda di Giunta Pisano, che ebbe rilievo primario per l'attività di alcuni pittori fiorentini operanti nel terzo quarto del secolo. Indizi ricavabili dai documenti pistoiesi degli anni 1274-1276 relativi a Coppo di Marcovaldo e a suo figlio Salerno, nonché la palese difficoltà incontrata in questi anni dagli studiosi nel proporre una ricostruzione plausibile di quest'ultima personalità sembrano rafforzare l'ipotesi che l'attività tarda di Coppo si sia svolta in stretta collaborazione con il figlio. Non a caso, infatti, nelle opere ricondotte più o meno concordemente alla produzione tarda di Coppo - il grande affresco staccato con la Crocifissione e la relativa sinopia nella sala capitolare della chiesa di S. Domenico a Pistoia e la Madonna con il Bambino della chiesa fiorentina di S. Maria Maggiore (Tartuferi, 1990, figg. 83-85) - si nota la tendenza verso accenti espressivi più smorzati e una maggiore raffinatezza nella stesura pittorica. Queste caratteristiche risultano particolarmente evidenti nel crocifisso nel duomo di Pistoia (Boskovits, in Offner, 1993, pp. 596-610), identificabile con quello eseguito per la cappella di S. Michele, attribuibile quasi interamente a Salerno, nonché nella Madonna con il Bambino affrescata sull'ultimo pilastro della navata sinistra nella stessa cattedrale pistoiese (Tartuferi, 1990, fig. 82), l'unica altra opera che allo stato attuale degli studi gli si può attribuire con minore incertezza.Il rinnovamento culturale in senso neoellenistico promosso da Giunta Pisano nel corso del quinto decennio del secolo fu riproposto in ambito fiorentino dal Maestro di S. Maria Primerana, autore della Madonna in trono con il Bambino e due angeli dell'omonimo oratorio di Fiesole, presso F., e di un nucleo di opere a essa connesse di grande omogeneità stilistica (Tartuferi, 1990, fig. 99-105).Tra gli artisti già attivi intorno alla metà del secolo, in parallelo a Coppo di Marcovaldo, un posto di primo piano è occupato dal Maestro della S. Agata, autore del dipinto conservato nel Mus. dell'Opera di S. Maria del Fiore (Tartuferi, 1990, fig. 126). Dotato di una fisionomia stilistica assai originale, il Maestro della S. Agata è la personalità artistica fiorentina più attenta ai riflessi bizantineggianti di tradizione aulica provenienti da Pisa. Secondo un'ipotesi assai interessante (Boskovits, in Offner, 1993, p. 142) la fase finale del pittore potrebbe essere rappresentata dal brevissimo catalogo di opere sin qui riunite intorno al crocifisso della basilica di S. Miniato al Monte (Tartuferi, 1990, tav. VI), non estraneo a riflessi culturali di fonte cimabuesca. A proposito della straordinaria esperienza figurativa di Cimabue, mette conto di sottolineare subito che in ambito fiorentino è possibile misurarne gli effetti più concreti e immediati soltanto in una fase piuttosto inoltrata, dalla fine dell'ottavo decennio in avanti, in maniera precipua nel milieu dei c.d. pittori proto-giotteschi. Ciò suona naturalmente a ulteriore, indiretta conferma delle precoci e prolungate esperienze di lavoro fuori dalle mura cittadine, a Roma, dove l'artista è documentato già nel giugno 1272, ad Assisi e infine a Pisa, nel 1301-1302. Un primo soggiorno in quest'ultima città toscana dovette svolgersi assai per tempo, poiché di non minore importanza è sottolineare che persino l'esordio di Cimabue, nel crocifisso di S. Domenico ad Arezzo (Tartuferi, 1990, fig. 169), è segnato inequivocabilmente da un riflesso della riforma neoellenistica di Giunta, nonché da un rigore formale che richiama in via diretta la coeva attività del forte Maestro della S. Agata. Riflessi diretti dell'attività assisiate di Cimabue, collocabile secondo la tesi più attendibile verso il 1280, si riscontrano nell'operare di artisti quali Corso di Buono e Manfredino da Pistoia, attivi nell'ultimo quarto del secolo.Meliore, citato nel 1260 fra coloro che avrebbero combattuto nella battaglia di Montaperti (Il libro di Montaperti) e autore del celebre dossale degli Uffizi, firmato e datato 1271 (Boskovits, in Offner, 1993, tavv. LIX-LIX⁵), fu ritenuto da Ragghianti l'artista chiave "per ordinare la vicenda pittorica a Firenze tra il 1260 e il 1280" (Ragghianti, 1955, p. 100). Oggi prevale la tendenza a ricondurre nel catalogo dell'artista i dipinti assegnati a suo tempo da Garrison (1949, p. 12) a un ipotetico Maestro di Bagnano, compresa anche la tavola nella chiesa di S. Stefano a Montefioralle, presso Greve in Chianti (Tartuferi, 1990, fig. 120). Un altro protagonista della pittura fiorentina della seconda metà del secolo è il Maestro della Maddalena, autore per l'appunto della tavola con S. Maria Maddalena e otto storie della sua vita conservata nella Gall. dell'Accademia (Tartuferi, 1990, fig. 157). Il pittore, attivo all'incirca negli anni dal 1265 al 1290, fu alla guida di una delle botteghe più importanti e affermate fra quelle allora operanti in città; egli è da ritenere forse l'interprete più autentico e consapevole della tradizione figurativa locale. Formatosi specialmente sulle opere del Maestro di Rovezzano e del Maestro del Bigallo, non mancò di confrontarsi anche con la cultura coppesca, mentre alcuni lavori della produzione tarda presentano caratteri marcatamente cimabueschi, con accenti stilistici che furono di primaria importanza nella formazione di alcuni protagonisti della corrente protogiottesca della fine del secolo. Tra questi ultimi la critica ha da tempo individuato il ruolo preminente del Maestro di S. Gaggio, alias Grifo di Tancredi, autore di una grande tavola nella Gall. dell'Accademia (Tartuferi, 1990, fig. 214) e di un nutrito catalogo di dipinti che attesta la straordinaria vitalità creativa di questa personalità, nonché la sua continua capacità di aggiornamento tra l'ultimo ventennio del Duecento e la prima decade del secolo seguente. Partito da una formazione svoltasi nell'ambito del Maestro della Maddalena, il pittore fu uno dei primi e più consapevoli interpreti della più antica attività di Giotto, mentre le opere appartenenti all'ultima fase del suo percorso si caratterizzano per accenti stilistici paralleli a quelli del Maestro della S. Cecilia o di Lippo di Benivieni.Culturalmente ancora più rilevante appare il raggruppamento di opere ricollegato in via ipotetica a Gaddo di Zanobi Gaddi, padre del noto pittore trecentesco Taddeo Gaddi, autore secondo Vasari (Le Vite, II, 1967, p. 82) del mosaico con l'Incoronazione della Vergine nella controfacciata del duomo di Firenze (Tartuferi, 1990, fig. 194). Situabili per la maggior parte nel decennio 1280-1290, questi dipinti sono caratterizzati soprattutto dalla nitidezza disegnativa e dagli accenti espressivi di chiara matrice cimabuesca. In alcuni di essi, per es. la Madonna della chiesa fiorentina di S. Remigio oppure il crocifisso della Gall. dell'Accademia (inv. nr. 1345; Tartuferi, 1990, figg. 195, 197), è particolarmente sensibile l'influenza della pittura duccesca, cui è attribuita a ragione (Bellosi, 1985, pp. 178-179) un'importanza non secondaria negli sviluppi stilistici della pittura a F. nell'ultimo ventennio del secolo.Il recupero in anni recenti del frammento di una grande Maestà (Tartuferi, 1990, tav. VIII, fig. 234), conservato nell'oratorio di S. Omobono, annesso alla collegiata di Borgo San Lorenzo, presso F. - da ricondurre certamente nell'ambito della più antica attività di Giotto -, ha consentito un approfondimento della conoscenza del vitalissimo milieu culturale fiorentino della fine del Duecento. Nel corso dell'ultimo quindicennio del secolo il Maestro di Varlungo, autore della frammentaria Madonna con il Bambino nella chiesa di S. Pietro a Varlungo, alle porte di F. (Tartuferi, 1990, fig. 227), riesce a interpretare le novità rivoluzionarie del linguaggio giottesco in forme assai originali, con accenti singolarmente arcaizzanti, che lasciano trasparire con sufficiente chiarezza la formazione del pittore in ambito prossimo al Maestro della Maddalena e al supposto 'Gaddo Gaddi'.
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Nel momento di massimo splendore segnato dall'inizio del Trecento, la personalità di Giotto acquistò una funzione essenziale e paradigmatica. Con lui la pittura, non più, come nel Duecento, in posizione subalterna e accessoria rispetto ai raggiungimenti dell'architettura e della scultura, divenne un'arte 'guida', raggiungendo una considerazione critica e un ruolo determinanti nell'ambito delle arti figurative. Il rivoluzionario linguaggio di Giotto, nutrito dall'espressività cimabuesca come dal senso della costruzione plastica di Arnolfo di Cambio e di Nicola Pisano, fornì una molteplicità di spunti, di riflessioni creative e di prospettive non solo alla sua fiorentissima e nutrita schiera di allievi e collaboratori, ma anche ad artisti di formazione autonoma ancora legati a schemi e a iconografie di stampo arcaico e bizantineggiante. L'osservazione del dato naturale e della figura umana e la rappresentazione dello spazio praticabile e aperto che caratterizzarono la nuova concezione della sua pittura si manifestano nelle prime opere fiorentine: la frammentaria e devastata Madonna nell'oratorio di S. Omobono, annesso alla collegiata di Borgo San Lorenzo, la Madonna di S. Giorgio alla Costa e il crocifisso di S. Maria Novella, databili nell'ultimo decennio del Duecento, non mancarono infatti di influenzare artisti di educazione tardoduecentesca come il Maestro della S. Cecilia, probabile collaboratore di Giotto nel ciclo francescano di Assisi, il Maestro del Trittico Horne e Pacino di Bonaguida. Queste tre personalità, cui si affiancano altri pittori di minor levatura, che dettero vita a una corrente definita miniaturista - poiché contraddistinta (Offner, 1930-1958, 1) da un gusto episodico e da una sintassi narrativa agile e popolaresca, ravvisabile sia negli episodi della vita dei santi sia nelle illustrazioni dei testi sacri - risentirono del primo stile assisiate e fiorentino di Giotto. Il linguaggio giottesco si precisò acquistando grande risonanza e potere di diffusione con il vasto ciclo francescano della basilica superiore di Assisi e con le posteriori opere fiorentine, come il polittico per la chiesa di Badia, la Maestà per la chiesa di Ognissanti, entrambe agli Uffizi, la piccola Madonna con il Bambino (Oxford, Ashmolean Mus. of Art and Archaeology) e la tavola con le Stimmate di s. Francesco e storie della sua vita (Parigi, Louvre). In queste opere, databili al primo decennio del Trecento, lo stile aspro e compatto del ciclo assisiate si addolcisce e si complica di nuove componenti e sperimentazioni. L'accentuazione plastica delle forme e dei volumi e la rappresentazione coerente dello spazio si caricano di una vigile attenzione ai passaggi cromatici e coloristici e alla definizione delle ombre e delle luci. È questa la fase cui aderirono e si rifecero pittori di diversa estrazione e tenuta qualitativa come Jacopo del Casentino, Lippo di Benivieni, Buffalmacco e il Maestro di Figline.Jacopo del Casentino, partendo da Giotto e dal Maestro della S. Cecilia, nella sua vasta produzione su tavola (Trittico Cagnola, agli Uffizi; tabernacolo di S. Maria della Tromba, all'angolo del palazzo dell'Arte della lana; S. Miniato e storie della sua vita, a S. Miniato al Monte) e su pergamena ne goticizzò, in consonanza con Bernardo Daddi, i ritmi e le inflessioni; Lippo di Benivieni (Polittico degli Alessandri: Firenze, Coll. Alessandri; Uffizi; Milano, Coll. Finarte; crocifisso con lo stemma della famiglia Da Filicaia, Firenze, Mus. dell'Opera di Santa Croce; Compianto sul Cristo, Pistoia, Mus. Civ.) recuperò lo stile giottesco filtrandolo alla luce di un'arcaica e patetica intonazione espressiva. A Buonamico Buffalmacco, presentato come uno dei massimi artisti del suo tempo da autorevoli fonti, sono riferibili per testimonianze documentarie e raffronti stilistici i frammentari e lacunosi affreschi della cappella Spini (1315) nella badia di S. Salvatore a Settimo presso F., un affresco nel duomo di Arezzo e il ciclo pittorico del Camposanto di Pisa (1336; Risurrezione, Verifica delle stimmate, Ascensione, Trionfo della morte, Giudizio finale, Tebaide), in cui l'artista palesa una diversa varietà di registri espressivi collegati ai vari contenuti, ove si mescolano la passione e l'espressività duecentesca e le seduzioni gotiche e giottesche.Il Maestro di Figline, conosciuto anche come Maestro della Pietà Fogg, deriva il suo nome dalla Maestà della collegiata di Figline Valdarno, opera intorno alla quale sono stati riuniti il crocifisso nella cappella maggiore di Santa Croce, la Pietà Fogg (Cambridge, MA, Harvard Univ. Art Mus., Fogg Art Mus.), i Ss. Filippo e Francesco di Worcester (Dyson Perrins Mus.), Dio Padre (Avignone, Mus. du Petit Palais), l'affresco dell'Assunta all'esterno della cappella Tosinghi-Spinelli in Santa Croce e la vetrata della bifora della cappella Bardi nella medesima chiesa, la Maestà ad affresco nella sagrestia e gran parte delle vetrate della basilica inferiore di Assisi. L'affinità stilistica di queste opere con la finestra absidale del duomo di Orvieto (1334), affidata a Giovanni di Bonino, ha reso possibile l'identificazione con quest'ultimo dell'anonimo maestro, che risulta uno dei più originali e personali interpreti dell'equilibrata e monumentale forma giottesca, filtrata attraverso una grafia raffinatissima e filiforme non ignara della miniatura gotica ed esercitata sulla tecnica vetraria.Al ritorno da Padova, dove Giotto dal 1305 al 1307 aveva affrescato la cappella degli Scrovegni, lo stile dell'artista si fece più classico e monumentale, le composizioni più elaborate e sapientemente costruite, con attenzione sia alla gradazione della profondità dello spazio con esperimenti paraprospettici sia ai rapporti coloristici e luministici. Il pittore divenne il capo riconosciuto di una fiorente e prestigiosa bottega, le cui opere erano richieste in tutta Italia da regnanti e da importanti famiglie.I Peruzzi commissionarono a Giotto nel secondo decennio del secolo una cappella in Santa Croce con Storie della vita di Giovanni Battista e di Giovanni Evangelista; in questo decennio il maestro eseguì a F. anche importanti opere su tavola, quali il paliotto francescano, forse per la stessa cappella Peruzzi, attualmente smembrato (Deposizione, Settignano, Coll. Berenson; Adorazione dei Magi, New York, Metropolitan Mus. of Art; Presentazione al Tempio, Boston, Isabella Stewart Gardner Mus.; Ultima Cena, Crocifissione e Discesa al limbo, Monaco, Alte Pinakothek; Pentecoste, Londra, Nat. Gall.; Morte della Vergine, Berlino, Staatl. Mus., Pr. Kulturbesitz, Gemäldegal.), e il polittico per la tavola d'altare della cappella Pulci-Berardi in Santa Croce, affrescata da Bernardo Daddi, ora diviso (S. Stefano, Firenze, Mus. Horne; Madonna con il Bambino, Washington, Nat. Gall. of Art, Kress Coll.; Ss. Giovanni Evangelista e Lorenzo, Senlis, Mus. Jacquemart-André). Compiuti con il largo intervento della bottega sono invece il polittico firmato, destinato alla chiesa bolognese di S. Maria degli Angeli (Bologna, Pinacoteca Naz.), il polittico a due facce eseguito su commissione del cardinale Jacopo Stefaneschi per la basilica di S. Pietro in Vaticano (Roma, Mus. Vaticani, Pinacoteca) e il polittico di S. Reparata in S. Maria del Fiore, opere queste ultime attribuite da Previtali (1967) al Parente di Giotto, ovvero all'autore delle vele della basilica inferiore di Assisi, talvolta identificato con Stefano Fiorentino ricordato da Vasari (Le Vite, II, 1967, p. 139). Queste opere, scalabili nel decennio 1320-1330, sono contraddistinte da un tono aulico e aristocratico, da una spiegata larghezza pittorica e da un notevole arricchimento in senso profano e mondano, che non mancò di influenzare non solo gli stretti collaboratori di Giotto, ma l'intero corso della pittura trecentesca locale.Più direttamente coinvolti in questa fase del maestro appaiono Taddeo Gaddi e Bernardo Daddi. Il primo riprese da Giotto gli interessi spaziali e le ricerche di illusionismo pittorico e luministico, mentre creazione originale appaiono la complessità delle invenzioni e la dinamica del racconto, che ne fanno uno degli artisti più all'avanguardia del quarto decennio del secolo. Nelle opere giovanili (Madonna con il Bambino, Castelfiorentino, S. Verdiana, Pinacoteca; affreschi con Storie di Gesù e di Giovanni Battista, Poppi, Castello dei conti Guidi, cappella; Stimmate di s. Francesco, Cambridge, Harvard Univ. Art Mus., Fogg Art Mus.; polittico eseguito per Santa Croce, Capesthorne Hall, Bromley-Davenport coll.; Storie della Vergine, Santa Croce, cappella Baroncelli) prevalgono le ricerche plastico-volumetriche legate alle sperimentazioni giottesche del secondo decennio. Con il trittico di Berlino (Staatl. Mus., Pr. Kulturbesitz, Gemäldegal.), del 1334, la sua arte divenne più classicamente equilibrata nella composizione e nel caldo rivestimento delle forme; tale mutamento può forse imputarsi all'influsso di Maso di Banco e alle opere fiorentine del senese Ambrogio Lorenzetti. In questo decennio si situano l'armadio per reliquie composto da ventisei formelle con Storie di s. Francesco oggi smembrato (Firenze, Gall. dell'Accademia; Monaco, Alte Pinakothek; Berlino, Staatl. Mus., Pr. Kulturbesitz, Gemäldegal.), la Deposizione ad affresco, al Mus. dell'Opera di Santa Croce, e il trittico datato 1336 (Napoli, Mus. e Gall. Naz. di Capodimonte). Gaddi nel 1342 affrescò nel Camposanto di Pisa le Storie di s. Giobbe, nel 1348 iniziò il polittico per S. Giovanni Fuorcivitas a Pistoia, perduto, nel 1355 eseguì la tavola con una Madonna per S. Lucchese a Poggibonsi, oggi agli Uffizi, e gli affreschi nel refettorio di Santa Croce, opere in cui perfeziona quel carattere di nobile accademia sottesa alle premesse disegnative della sua arte.Bernardo Daddi recuperò da Giotto l'attenzione per un plasticismo pittorico, cui unì ricerche e ritmi di grazia cortese, di astratta eleganza, comuni anche al pittore e miniatore noto sotto il nome di Maestro del Codice di S. Giorgio, il cui stile eletto è stato in passato ritenuto dipendente da Simone Martini, e al dotato miniatore conosciuto sotto il nome di Maestro Daddesco. Bernardo Daddi fu uno dei maggiori responsabili a F. di una tendenza squisitamente gotica, che sembra creare un'alternativa e una distorsione della poetica giottesca, cui parteciparono sia il Maestro di San Martino alla Palma sia Puccio di Simone, collaboratore di Daddi nel polittico di S. Giorgio a Ruballa presso Bagno a Ripoli, del 1348 (Londra, Courtauld Inst. Gall.), e attivo largamente a F. e a Fabriano, dove con Allegretto Nuzi firmò il trittico Hamilton, datato 1354 (Washington, Nat. Gall. of Art). La fase giovanile di Daddi, nella quale si possono inserire un trittico del 1328, agli Uffizi, gli affreschi della cappella Pulci-Berardi in Santa Croce, il tabernacolo dell'oratorio del Bigallo del 1333 e la Madonna, alla Gall. dell'Accademia, del 1334, è contraddistinta da una visione plastica ottenuta attraverso il disegno e il chiaroscuro. Alla metà degli anni trenta sopravvenne una svolta verso un più accentuato cromatismo, più limpide definizioni lineari e una dilatazione dei volumi in calme superfici ravvisabili nel grande polittico per S. Pancrazio, agli Uffizi, dove l'aneddoto prevale sulle figure grandi.La svolta cromatico-lineare avvertibile nella carriera di Bernardo Daddi può in parte spiegarsi con la presenza a F. di artisti senesi, dal duccesco Ugolino di Nerio, che in Santa Croce lasciò un grandioso ed elaborato polittico a due registri, ora smembrato (Londra, Nat. Gall.; Berlino, Staatl. Mus., Pr. Kulturbesitz, Gemäldegal.; Richmond, già Cook Coll.; New York, Metropolitan Mus. of Art, Robert Lehman Coll.; Los Angeles, County Mus. of Art; Filadelfia, Mus. of Art, Johnson Coll.), ad Ambrogio Lorenzetti - che, attestato per la prima volta in città nel 1319, quando firma la Madonna per Tolano presso Greve in Chianti poi nella chiesa di S. Angelo a Vico l'Abate (San Casciano in Val di Pesa, Mus. Vicariale d'Arte Sacra), dovette soggiornarvi altre due volte nel 1322 e nel 1332, quando eseguì il trittico con la Madonna fra i santi Nicola e Procolo e storiette di s. Nicola, oggi agli Uffizi, e gli affreschi perduti per la chiesa di S. Procolo -, a Pietro Lorenzetti, la cui presenza non è suffragata da nessun documento, ma che intorno al 1330 realizzò la pala con la Beata Umiltà e storie della sua vita (divisa tra Firenze, Uffizi, e Berlino, Staatl. Mus., Pr. Kulturbesitz, Gemäldegal.), in cui i ritmi dilatati e solenni e la luminosa spazialità dovettero suggestionare anche gli esordi di Maso di Banco. Verso la fine del quarto decennio Bernardo Daddi approfondì il suo personale e raffinato goticismo appoggiandosi all'esempio più statico e monumentale di Taddeo Gaddi nel polittico del Cappellone degli Spagnoli di S. Maria Novella, firmato e datato 1344, nella Madonna di Orsanmichele, del 1347, e nel polittico già in S. Giorgio a Ruballa (Londra, Courtauld Inst. Gall.), del 1348, anno della sua morte.Dopo la cappella Peruzzi, prima di partire per Napoli nel 1328, Giotto affrescò su incarico dei Bardi un'altra cappella in Santa Croce con Storie di s. Francesco. A questa fase sono legate alcune opere su tavola contraddistinte da una maggiore libertà pittorica e da un approfondimento dei problemi spaziali: la Crocifissione (Berlino, Staatl. Mus., Pr. Kulturbesitz, Gemäldegal.), il dittico formato dalla Madonna con il Bambino (già New York, Wildenstein Coll.) e dalla Crocifissione (Strasburgo, Mus. des Beaux-Arts), e il polittico con l'Incoronazione della Vergine eseguito in collaborazione con Taddeo Gaddi per la cappella Baroncelli in Santa Croce. Prima della morte, avvenuta nel 1337, il maestro fu nominato a F. capomaestro dell'Opera di S. Reparata e diede inizio al campanile che porta il suo nome, per il quale fornì i disegni per le formelle con le storie della Creazione, realizzate da Andrea Pisano, e alla decorazione della cappella del Podestà al Bargello, eseguita poi da un dotato collaboratore.I grandi temi dell'umanesimo giottesco, evidenziatisi nel suo percorso estremo - la ricerca della terza dimensione, l'affermazione vittoriosa dell'uomo nel suo valore plastico e dinamico, il senso fortissimo e trascendente degli affetti e della vita umana e la catarsi universale nell'ordine della forma -, non mancarono di influenzare il destino della pittura fiorentina di tutto il secolo, informando in particolare, anche se con diversi accenti e risultanze, artisti dotati e vicini al maestro, la cui carriera oltrepassò la metà del Trecento, come Maso di Banco, Stefano Fiorentino e Giotto di maestro Stefano.Maso di Banco si rivelò il più grande interprete della volumetria e della terza dimensione giottesca, usate quali elementi decisivi per raggiungere effetti di calma astratta e di monumentale risalto. La sua interpretazione della poetica e dello stile di Giotto, che perviene a eletti risultati di classicismo gotico, toccò personalità minori, ma dotate di vena autonoma, come Bonaccorso di Cino, Alesso d'Andrea e il Maestro di S. Lucchese. Il percorso di Maso - la cui formazione è ancora in discussione se avvenuta nella bottega di Giotto a Napoli oppure a F. presso quella di Bernardo Daddi (Volpe, 1983), come indicherebbe la tavola di S. Giorgio a Ruballa datata 1336 - si svolge dagli affreschi con Storie di s. Silvestro nella cappella Bardi di Vernio in Santa Croce (1340), all'Incoronazione della Vergine, al Mus. dell'Opera di Santa Croce, al paliotto formato dalla Madonna con il Bambino (Berlino, Staatl. Mus., Pr. Kulturbesitz, Gemäldegal.), S. Giovanni Battista e S. Antonio Abate, oggi perduti, S. Antonio da Padova (New York, Metropolitan Mus. of Art), al polittico della chiesa di Santo Spirito, fino alla Madonna della Cintola (Berlino, Staatl. Mus., Pr. Kulturbesitz, Gemäldegal.), che, con l'Incoronazione della Vergine (Budapest, Szépművészeti Múz.) e la Dormizione (Chantilly, Mus. Condé), formava le ante di un tabernacolo-reliquiario eseguito per il duomo di Prato.Stefano Fiorentino, citato dalle fonti con lode e definito da Filippo Villani 'scimia della natura' per le sue doti di eccezionale mimesi naturalistica, si formò nella bottega di Giotto, di cui era nipote, all'interno del cantiere di Assisi, collaborando con il maestro nelle cappelle di S. Nicola e della Maddalena prima di assumere, nel secondo decennio del Trecento, l'incarico di decorare il transetto della basilica inferiore, dove nelle vele raffigurò le storie dell'Infanzia di Cristo. Un lungo intervallo di tempo potrebbe spiegare le differenze tra gli affreschi di Assisi e opere quali l'Assunta nel Camposanto di Pisa (distrutta nel 1944) e l'Incoronazione della Vergine nel tiburio dell'abbaziale di Chiaravalle Milanese, databili al quinto decennio del secolo. L'identificazione di Stefano con il Parente di Giotto (Previtali, 1967) permette di assegnargli anche l'esecuzione, a F., del polittico di S. Reparata in S. Maria del Fiore, con la supervisione di Giotto, e del crocifisso nella chiesa di Ognissanti e, a Roma - dove con il maestro avrebbe affrescato (Vasari, Le Vite, II, 1967, p. 136) l'abside di S. Pietro in Vaticano -, del polittico Stefaneschi (Roma, Mus. Vaticani, Pinacoteca).Giotto di maestro Stefano, pronipote di Giotto, documentato solo negli anni 1368-1369, è stato al centro di un intricato problema di identificazione e di attribuzione. La ricostruzione della sua attività è infatti strettamente connessa a quella di Stefano suo padre, di Maso di Banco e di Puccio Capanna, artisti dalla biografia e dal catalogo incerti. La sua formazione, di esclusiva matrice giottesca, si arricchì di nuove motivazioni al contatto con la cultura nordica immessa a F. da Giovanni da Milano, da cui derivò l'attenzione alla resa del dato materico e naturale. Nelle due sole opere ascrittegli, di altissima qualità - un affresco con la Madonna con il Bambino e santi già in un tabernacolo in via del Leone e oggi nei depositi museali di F. e la tavola con il Compianto sul Cristo morto già in S. Remigio, ora agli Uffizi -, è "tanta morbidezza e diligenza" (Vasari, Le Vite, II, 1967, p. 230) nel modellato e nella resa delle figure da dare origine, prendendo le mosse da Maso e da Stefano, a una peculiare e irripetibile tendenza pittorica dell'arte postgiottesca definita da Vasari (Le Vite, II, 1967, p. 136) "una maniera dolcissima e tanto unita", tendenza che si rivela peraltro perdente nella seconda metà del secolo perché rapidamente soppiantata dalla feconda bottega degli Orcagna.Alla personalità di Giotto di maestro Stefano si lega quella di Giovanni da Milano; i due lavorarono infatti insieme affrescando con Agnolo e Giovanni Gaddi due cappelle, ora perdute, in S. Pietro in Vaticano a Roma. Documentato a F. dal 1346 al 1366, dove portò e divulgò le novità della cultura settentrionale, Giovanni da Milano fu attivo anche a Pisa e a Prato. Nelle sue opere giovanili - la Madonna e santi (Roma, Mus. del Palazzo di Venezia), la Pietà (Parigi, Coll. Du Ruart), il grandioso polittico di Ognissanti, agli Uffizi, la Madonna recentemente scoperta a S. Bartolo in Tuto presso F. - sono evidenti le desunzioni da Giotto filtrate attraverso Giotto di maestro Stefano. In Santa Croce, nella decorazione della cappella Rinuccini e in quella della sagrestia, risalente al 1365, completata dal più modesto Matteo di Pacino, vi è una deliberata semplificazione della spazialità giottesca, cui si unisce una vigile e inedita attenzione alla consistenza dei materiali e ai particolari episodici che preannunciano le tematiche e le sperimentazioni del Gotico internazionale.Giotto di maestro Stefano e Giovanni da Milano segnarono il passaggio dalla prima alla seconda metà del secolo, passaggio caratterizzato dall'avvento della peste nel 1348, che, se originò forti recessioni economiche e demografiche, crisi religiose e un'accentuazione delle pratiche devozionali, sul piano artistico non produsse vistosi cambiamenti, ma semmai una diminuzione del potenziale creativo e un ristagno di idee e di sperimentazioni e un attestarsi sulla condizionante lezione giottesca.La produzione di Andrea di Cione detto l'Orcagna, pittore e scultore prolifico, offre la prova di questa diminuzione del potenziale creativo. Nel polittico eseguito tra il 1354 e il 1357 per la cappella Strozzi in S. Maria Novella, l'artista mostra non tanto una negazione dell'eredità giottesca filtrata attraverso Maso di Banco, quanto l'elusione dell'aspetto più innovativo e complesso di questa: la sperimentazione e la ricerca della terza dimensione. Anche le opere giovanili - l'Annunciazione del 1346 (coll. privata), i frammenti di profeti nel coro di S. Maria Novella, ai depositi museali, la Cacciata del duca d'Atene, affresco staccato nel Palazzo Vecchio - rivelano nella composizione frontale delle figure la riduzione della profondità, mentre, a partire dal polittico della cappella Strozzi, le opere tarde - il S. Matteo agli Uffizi, la Crocifissione e l'Ultima Cena nel refettorio del convento di Santo Spirito e la Pentecoste per la chiesa dei Ss. Apostoli, alla Gall. dell'Accademia - palesano un rinvigorito plasticismo delle figure spiegabile con la parallela impresa di Andrea come scultore e architetto nel tabernacolo dedicato alla Vergine in Orsanmichele, iniziato nel 1352 e concluso nel 1359, che si modella sui ritmi di Andrea Pisano.I due fratelli di Andrea, Jacopo (trittico con la Pentecoste, alla Gall. dell'Accademia; polittico per la chiesa di S. Pier Maggiore, del 1371) e Nardo (Giudizio universale nella cappella Strozzi in S. Maria Novella), iniziarono una sorta di accademia orcagnesca cui parteciparono Giovanni del Biondo, Niccolò di Tommaso, Giovanni Bonsi, il Maestro della Misericordia e il Maestro di S. Verdiana, che ebbe larga fortuna a F. fino alla fine del secolo.Andrea di Bonaiuto affrescò in collaborazione con Antonio di Francesco, negli anni 1366-1368, la sala capitolare del convento di S. Maria Novella (Cappellone degli Spagnoli), raffigurante nelle quattro vele la Navicella, la Risurrezione, la Pentecoste e l'Ascensione, la Chiesa Militante e Trionfante, la Crocifissione, il Trionfo di s. Tommaso e scene della Vita di s. Pietro Martire. La complessità dottrinaria dell'esposizione è legata all'elaborazione di un programma forse dovuto a Jacopo Passavanti, mentre la decorazione palesa tipologie giottesche e orcagnesche e un tipo di rappresentazione bidimensionale nelle figure e paratattica nella tecnica narrativa.Agnolo Gaddi, figlio di Taddeo, manifestò invece aperture e spunti che arieggiano e preannunciano, nell'attenzione al paesaggio e nei dettagli narrativi e realistici, il Gotico internazionale. Nella sua opera di maggior respiro, la Leggenda della Vera Croce nel coro di Santa Croce, negli affreschi della cappella Castellani nella stessa chiesa, iniziati nel 1375, nella grandiosa pala con l'Incoronazione della Vergine (Londra, Nat. Gall.) e nelle Storie della Vergine e del Sacro Cingolo nel duomo di Prato, l'accentuazione plastica dei volumi e la chiarezza spaziale denunciano un'adesione al giottismo di primo Trecento filtrata attraverso Giovanni da Milano e gli Orcagna.Con Antonio di Francesco e Spinello Aretino la pittura fiorentina accolse stimoli e sollecitazioni legati ad altri centri artistici. Antonio di Francesco, attivo a Pisa e dal 1389 in Spagna, che lasciò a F. l'affresco staccato del tabernacolo della torre degli Agli, oggi ai depositi museali, l'Incoronazione della Vergine (New York, Hurd Coll.), la Madonna con il Bambino (Boston, Mus. of Fine Arts) e la Madonna di Hannover (Niedersächsisches Landesmus.), immise in città toni realistici ed episodici di origine più padana che lagunare. Spinello Aretino lavorò, oltre che ad Arezzo, Lucca, Pisa e Siena, anche a F., dove il suo stile, più che quello di Antonio di Francesco, produsse una vasta eco. Negli importanti cicli di affreschi eseguiti per volontà testamentaria di Benedetto Alberti in S. Miniato al Monte, nell'oratorio di S. Caterina all'Antella, presso F., e nelle perdute Storie di s. Giovanni Battista per S. Maria del Carmine, la lezione giottesca, ma anche quella scultorea di Andrea e di Nino Pisano, si complica nei ritmi frastagliati, nell'attenzione all'episodico e nelle notazioni psicologiche e narrative, aprendosi allo stile tardogotico. I suoi epigoni, il Maestro di S. Verdiana, Lorenzo di Niccolò, Alvaro Pirez, Gherardo Starnina e Lorenzo Monaco, pur tributando un doveroso omaggio in primis a Giotto e ai grandi padri della pittura fiorentina, inaugurarono nei primi decenni del Quattrocento il nuovo corso dell'arte locale, aperta alle suggestioni del Tardo Gotico cortese e internazionale.
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Il fatto che Dante (Purg. XI, vv. 79-96), istituendo un rapporto significativamente alla pari tra pittura e miniatura attraverso il noto confronto tra Cimabue e Giotto da un lato e Oderisi da Gubbio e Franco Bolognese dall'altro, debba ricorrere a due miniatori 'forestieri' sembra dimostrare che la miniatura - altamente apprezzata da Dante - a F. non doveva aver protagonisti di rilievo. Non è infatti noto alcun codice miniato sicuramente fiorentino prima della fine del Duecento e anche a quella data, allo stato attuale degli studi, essi sono pochissimi e di non certa definizione: un evangeliario (Firenze, Bibl. Naz., II. I, 167), che, secondo Salmi (1937; 1954), riflette i modi del Maestro della Maddalena, ma che oggi si è supposto pisano pur senza prove adeguate, e il Canzoniere Palatino, la celebre raccolta di rime dei poeti del dolce stil novo (Firenze, Bibl. Naz., B.R. 217), arricchito di raffinate miniature caratterizzate da un evidente influsso bolognese, ma ascrivibili all'Italia centrale.La miniatura fiorentina prese corpo all'interno della scuola o sotto l'influsso giottesco forse a partire dall'ultimo decennio del Duecento, ma più probabilmente ai primi del Trecento. Ciò avvenne a opera della miniaturist tendency (Offner, 1930; 1930-1958, 1, 6), rappresentata perfettamente dal celebre laudario (Firenze, Bibl. Naz., B.R. 18) nel quale operarono tre miniatori legati all'ambiente umbro e uno, in particolare, vicino al Maestro della S. Cecilia, pittore quest'ultimo che collaborò con Giotto al completamento delle Storie di S. Francesco ad Assisi. A quest'ultimo miniatore Salmi (1954) ha potuto collegare due antifonari a Montevarchi (collegiata di S. Lorenzo, Mus., cor. A; cor. B) e uno nel Mus. del tesoro di S. Maria all'Impruneta. Un'altra personalità legata da Offner (1930-1958, 2, 6) alla miniaturist tendency è Pacino di Buonaguida, che sembra iniziare la sua vastissima attività nel primo decennio del Trecento a capo di una ben organizzata bottega di pittori e di miniatori, operosa fino alla metà del secolo nella decorazione sia di codici di soggetto laico sia di quelli liturgici e religiosi: tra gli altri la Cronica di Giovanni Villani (Roma, BAV, Chigi L.VIII.296), numerose illustrazioni di manoscritti della Divina Commedia, fra i quali il c.d. codice Poggiali (Firenze, Bibl. Naz., Pal. 313), corredato da una vignetta per ogni canto dell'Inferno, un volgarizzamento del Pater Noster (Firenze, Laur., Rediano 102), le Meditationes vitae Christi (New York, Pierp. Morgan Lib., 643), una Bibbia (Milano, Bibl. Trivulziana, 2139), i corali per S. Maria all'Impruneta (Mus. del tesoro, B; D) e quelli per S. Stefano al Ponte a F. (Montepulciano, Mus. Civ., cor. A; cor. D); in questi ultimi casi, come in tanti altri, la sua bottega lavorò insieme ad altri miniatori. Nel corso della sua lunga attività, che si prolungò fino alla metà del secolo, Pacino assorbì l'influsso di uno dei principali allievi di Giotto, Taddeo Gaddi.La miniatura fiorentina del Trecento raggiunse la sua pienezza e originalità stilistica con due anonimi artisti che iniziarono a lavorare nel decennio 1320-1330, il Maestro del Biadaiolo e il Maestro delle Effigi domenicane. Il primo prende nome da un celebre codice, il Biadaiolo Fiorentino, contenente lo Specchio umano del mercante di grano fiorentino Domenico Lenzi (Laur., Tempi 3), nel quale si trovano grandi miniature a piena pagina, dove alcuni episodi della carestia del 1328 sono rappresentati con efficacia narrativa e documentaria, utilizzando un punto di vista da lontano ed en plein air, sullo sfondo di una F. riconoscibile attraverso i suoi monumenti. Per le novità sia spaziali e compositive sia tematiche, l'unico confronto possibile per questo codice è con le scene del Buono e del Cattivo Governo affrescate negli stessi anni da Ambrogio Lorenzetti nel Palazzo Pubblico di Siena. Al Maestro del Biadaiolo vanno attribuite sia l'illustrazione di una Divina Commedia (Parma, Bibl. Palatina, 3285), che adotta la tipologia decorativa di una miniatura a piena pagina all'inizio di ogni cantica, sia quella del Tesoro di Brunetto Latini (Firenze, Laur., Plut. 42.19), che confermano la vocazione per i temi laici del miniatore. Anche il Maestro delle Effigi domenicane, così chiamato perché autore di una tavoletta con una serie di santi e sante domenicane oggi al Mus. di S. Maria Novella, miniò una Divina Commedia - il testo dantesco era ormai divenuto una presenza costante nell'attività di ogni miniatore fiorentino e non solo del Trecento - datata 1337 (Milano, Bibl. Trivulziana, 1080). Come molti miniatori fiorentini del sec. 14°, egli unì una notevole produzione pittorica - caratterizzata da una buona qualità esecutiva e tecnica, ma da scarsa originalità di invenzione - a quella di miniatore, che nel suo caso è dotata di ben maggiori qualità inventive e compositive e di una più raffinata esecuzione cromatica e disegnativa. Egli si dedicò soprattutto alla decorazione di libri liturgici, dai corali per la badia dei Ss. Ippolito e Biagio a Castelfiorentino (S. Verdiana, Pinacoteca) al messale per le monache benedettine di S. Pier Maggiore (Firenze, Seminario Maggiore Arcivescovile, Bibl.). Le notevoli somiglianze che il Maestro delle Effigi domenicane presenta con il Maestro del Biadaiolo dimostrano che essi appartengono alla stessa generazione.Questi due maestri compirono un'intelligente e originale applicazione delle novità giottesche - la riscoperta dello spazio e del volume dell'uomo - alle strutture della miniatura medievale, vale a dire alla lettera iniziale con le relative code che si espandono nei margini. I miniatori ottennero l'unità spaziale giottesca sfruttando gli spazi creati dalla lettera con il suo cursus grafico e il fregio come luogo dei personaggi che partecipano alla scena rappresentata, collegando organicamente dal punto di vista narrativo l'una all'altro. Queste geniali soluzioni erano state anticipate dal più grande miniatore italiano della prima metà del Trecento, quel Maestro del Codice di S. Giorgio che, pur non essendo fiorentino, fu in grado di influenzare la coeva miniatura di Firenze.Su queste basi la miniatura fiorentina raggiunse la sua perfezione non solo compositiva e spaziale ma anche stilistica - il disegno è elegante e raffinato e la superficie cromatica è luminosa - con il Maestro Daddesco, così chiamato da Salmi (1954), che vi ha ravvisato un forte influsso del grande pittore giottesco fiorentino Bernardo Daddi. Il Maestro Daddesco è autore di un messale e di un antifonario, destinati alla cattedrale di S. Reparata (Firenze, Laur., Edili 107; cor. 41), nonché di un gruppo di corali per Badia a Settimo, ora a Roma (Santa Croce, Bibl. Sessoriana, A; B; C; in parte D) e in parte a F. (ospedale degli Innocenti; D'Ancona, 1914, nr. 1701).Alla metà del secolo, tra il 1350 e il 1360 i Camaldolesi organizzarono nel loro monastero di S. Maria degli Angeli un centro di decorazione di codici, in particolare di corali, destinato a un grande avvenire e a una vita prolungata, nel quale lavorarono in seguito soprattutto monaci di quell'Ordine, come don Silvestro dei Gherarducci, don Simone Camaldolese e poi don Lorenzo Monaco. La scuola degli Angeli, a partire dal 1370 fino al 1420 ca., ebbe il monopolio della committenza dei grandi cicli corali. Per la chiesa francescana di Santa Croce, Simone Camaldolese si affiancò o forse subentrò a una serie di miniatori laici che Salmi (1954) ha identificato nei pittori Lorenzo di Niccolò Gerini e Giovanni del Biondo, secondo Boskovits (1975) Cenno di Francesco di ser Cenni. Silvestro dei Gherarducci per il monastero di S. Maria degli Angeli miniò tra il 1370 e il 1377 un corale (Firenze, Laur., cor. 2) e la prima parte di un diurno domenicale, andata dispersa, che Levi D'Ancona (1993) ha tentato di ricostruire mettendo insieme una serie di fogli staccati e di miniature ritagliate. Simone Camaldolese lavorò invece ai corali per la chiesa vallombrosana di S. Pancrazio (Firenze, Laur., cor. 37; cor. 38; cor. 39; cor. 40), a quelli per la chiesa del Carmine (Firenze, Mus. di S. Marco, 575; 577; 578; 579), datati al 1388-1389, e, fuori F., a quelli per il monastero di S. Michele in Bosco a Bologna (Bologna, Mus. Civ. Medievale, 32; 33). Quanto l'arte di Simone Camaldolese rispondesse al gusto della società laica fiorentina di quegli anni è dimostrato dai numerosi codici letterari miniati dalla sua bottega: la Divina Commedia (Firenze, Laur., Tempi 1; Roma, BAV, Vat. lat. 4776), il De casibus virorum illustrium di Boccaccio (Roma, BAV, Pal. lat. 935). Uno dei motivi che determinò il successo di Simone Camaldolese fu probabilmente il suo neogiottismo, visibile nei volumi ampi e geometrici delle figure e nelle composizioni semplici e scandite.La scuola degli Angeli fu anche protagonista del Gotico internazionale a F., a opera di Lorenzo Monaco; in miniatura i suoi capolavori si trovano nei libri corali per il monastero di S. Maria degli Angeli (Firenze, Laur., cor. 5, datato 1394; cor. 8, datato 1395; cor. 3, iniziato a miniare nel 1409). In essi si può seguire il percorso dell'artista da una formazione fiorentina basata su Spinello Aretino a un recupero appassionato e dinamico del linearismo di Simone Martini. Il cor. 3, di dimensione 'atlantica' e di una perfezione esecutiva senza pari, contiene, oltre ad alcuni mini di Lorenzo Monaco di cui rappresentano il capolavoro, anche altri nei quali sembra potersi individuare la formazione di Beato Angelico e di altri miniatori-pittori che provarono a mediare l'insegnamento di Lorenzo Monaco con la nuova concezione dell'uomo che andavano istituendo Donatello e Masaccio.L'influsso di Lorenzo Monaco fu grandissimo: si può citare fra tutti i seguaci Bartolommeo di Fruosino, che firmò un corale per la consacrazione della chiesa di S. Egidio, datato 1422 (Firenze, Mus. di S. Marco, 557). Su questa base, essendo il suo stile inconfondibile, è stato possibile attribuirgli un notevole numero di codici liturgici e profani, fra i quali si possono ricordare gli antifonari per S. Egidio (Firenze, Arcispedale di S. Maria Nuova, D), un breviario vallombrosano (Firenze, Laur., conv. soppr. 457), già attribuito da Salmi (1954) alla maniera di Rossello di Jacopo Franchi, la ricchissima illustrazione, disposta a vignette prima di ogni cantica, della Divina Commedia (Parigi, BN, ital. 74). La medesima tendenza alla visualizzazione narrativa si manifesta anche in un Decameron scritto nel 1427 da Ludovico Ceffini (Parigi, BN, ital. 63) e illustrato con ben centododici vignette.
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Nella produzione suntuaria di F. la tessitura di drappi serici e l'oreficeria raggiunsero un notevole livello artistico e rivestirono una particolare importanza economica. I relativi mestieri erano riuniti nella Corporazione della seta o di Por Santa Maria ed erano inoltre controllati e regolamentati dalle stesse leggi suntuarie miranti a limitare l'eccesso di lusso nelle gioie e negli abiti. Per quanto riguarda la produzione serica, risulta che a F. nel 1193 era organizzata una corporazione a opera dei profughi lucchesi fuggiti dalla loro città travagliata da lotte intestine. I setaioli, che costituivano nel 1334 uno dei membri minori dell'Arte di Por Santa Maria, passarono nel 1345 tra quelli maggiori ed erano affiancati da quelli lucchesi, considerati una comunità 'straniera'. Nel corso del sec. 14° i moduli disegnativi dei prodotti fiorentini non si discostarono da quelli della vicina e ancora prevalente manifattura lucchese.Le prime notizie dell'esistenza di orafi a F. risalgono al 1095, ma solo nel 1322 essi furono inquadrati nella Corporazione di Por Santa Maria. Probabilmente lo sviluppo dell'oreficeria fiorentina fu inizialmente lento se si dovette ricorrere a un orafo del contado, Andrea Pucci Sardi da Empoli, per eseguire nel 1313 il fregio in bronzo dorato per l'altare del battistero di Firenze. L'artista utilizzò una tecnica arcaica, lo smalto champlevé, ma le figure, che campeggiano massicce entro gli archi ogivali, risentono pienamente di un maturo stile giottesco.Uno degli orafi più importanti della prima metà del Trecento fu Andrea di Ardito, autore nel 1331 di un busto-reliquiario dedicato a s. Zanobi, patrono della città, e destinato alla cattedrale di S. Maria del Fiore. Il busto, soprattutto negli smalti, sembra emanciparsi dalla tradizione senese, proponendo sia la figura a tutto tondo del santo, resa secondo un'interpretazione assai arcaica, sia gli smalti, saldi e bloccati entro le formelle polilobate, in modo ormai autonomo. Ad Andrea di Ardito, che si era immatricolato all'Arte nel 1324, è assegnabile anche un calice eseguito per il battistero nel 1331, conservato fino al secolo scorso nella Coll. Spitzer e oggi noto solo attraverso un'incisione ottocentesca. Questa coincidenza di date e l'aver individuato, su basi stilistiche, almeno tre autori diversi intervenuti a compiere il busto di s. Zanobi (Strocchi, 1988) indicano che la bottega dell'artista era molto attiva. Quasi contemporanei, o addirittura precedenti, sono gli smalti del busto-reliquiario di s. Giovanni Gualberto nella Badia a Passignano presso San Casciano in Val di Pesa. Guidotti (Lorenzo Ghiberti, 1978, pp. 151-174), basandosi su riscontri archivistici e precisi confronti stilistici con la cultura pittorica contemporanea, tende a porre la loro esecuzione intorno al 1330. Purtroppo prima e dopo queste opere, pur di notevole livello, si aprono ampie lacune, colmate solo parzialmente dall'abbondante documentazione figurativa e archivistica ancora esistente. Occorre varcare la metà del secolo prima di avere a disposizione materiale sufficiente a delineare un valido discorso stilistico. L'importanza assunta dall'oreficeria nel panorama artistico fiorentino è infatti avvalorata da due fondamentali episodi: l'altare di s. Jacopo nella cattedrale di Pistoia e quello di s. Giovanni Battista nel battistero di Firenze. Il primo, iniziato nel 1287, vide avvicendarsi alla sua esecuzione, durata un secolo e mezzo, esponenti di diverse scuole toscane, fino al 1361, quando furono chiamati a completare le fiancate, terminate nel 1371, due orafi fiorentini: Francesco di Niccolò, che con l'aiuto di Leonardo di ser Giovanni eseguì le formelle di destra con le Storie del Vecchio Testamento, e Leonardo di ser Giovanni, che da solo realizzò quelle di sinistra con le Storie di s. Jacopo. È questo il momento in cui convenzionalmente si pone l'inizio della prevalenza della manifattura orafa fiorentina sugli altri centri della regione. Quasi contemporaneamente a questa allogagione, nel 1366, come ricorda l'iscrizione nel basamento, fu affidata a Leonardo di ser Giovanni e a Betto di Geri, a cui si aggiunsero in un momento successivo Cristofano di Paolo e Michele di Monte, l'esecuzione dell'altare di s. Giovanni Battista. Il paliotto, già in uso alla fine del sec. 14°, era stato commissionato dalla ricca e potente Arte di Calimala, che deteneva il patronato del battistero. In questa prima fase l'altare fu completato solo nella parte frontale, dotata di otto formelle con Storie di s. Giovanni Battista; mancavano però quelle delle fiancate con gli episodi iniziali e finali, ovviamente previste, ma realizzate solo nel 1480. Nel 1445 fu eseguita l'edicola al centro del frontale, destinata a ospitare la statua del santo, compiuta da Michelozzo nel 1452. L'altare si propone come opera di grande complessità progettuale: una struttura architettonica, scandita da pilastri suddivisi in ordini con nicchie entro le quali sono poste statuette eseguite a fusione simili a quelle delle edicole del fregio superiore, inquadra le dodici formelle. Gli smalti si limitano ad alcune figurette e a fregi di foglie sullo sfondo, ma nonostante questo servirono da modello a numerose altre opere di oreficeria eseguite dopo la metà del secolo. La realizzazione di un oggetto così importante a F. segnò, infatti, una svolta per l'oreficeria fiorentina. Molti sono gli arredi che possono essere messi in rapporto con l'altare e tra questi il reliquiario di s. Andrea a S. Salvatore al Vescovo, datato 1373, e il reliquiario di s. Reparata al Mus. dell'Opera di S. Maria del Fiore, firmato da Francesco di Vanni, orafo attivo nella seconda metà del Trecento. Forse l'ultimo grande capolavoro, tra i pochi superstiti, è il busto-reliquiario della Beata Umiliana dei Cerchi, al Mus. dell'Opera di Santa Croce, eseguito intorno al 1380. L'orafo, formatosi sotto l'influenza dell'arte orcagnesca, era sicuramente a conoscenza delle novità figurative portate a F. dalle maestranze, italiane e straniere, impiegate al completamento dell'arredo plastico di S. Maria del Fiore. Legate a una cultura fondamentalmente gotica ma già proiettata verso un nuovo stile sono le figurette di Profeti e Padri della Chiesa eseguite da Filippo Brunelleschi per l'altare di s. Jacopo nel duomo di Pistoia nel 1399.La presenza intorno a F. di un gran numero di boschi, che permettevano di alimentare le fornaci, favorì l'attività dei ceramisti e dei vetrai. La buona qualità dell'argilla dell'Arno diede la possibilità alle manifatture della città di produrre, oltre alle stoviglie e alle suppellettili di uso quotidiano, oggetti di discreto livello. Il termine 'orciolaio', ricorrendo spesso nei documenti fiorentini fin dal 1125, testimonia l'antichità di questo mestiere, che ebbe notevolissimo incremento nei secoli successivi all'interno delle mura cittadine. I pezzi superstiti e i documenti d'archivio attestano che la produzione di maiolica invetriata bianca o con motivi decorativi era destinata a dimore signorili o a farmacie, come quella di S. Maria Novella. Un decentramento importante nella produzione ceramica avvenne con la fondazione del castello di Montelupo Fiorentino nel 1203 e con la conseguente creazione di manifatture che in breve tempo divennero le più importanti della Toscana. Con la conquista di Pisa nel 1405 da parte dei Fiorentini si creò la possibilità di smerciare i prodotti ceramici, trasportati lungo il corso dell'Arno, anche al di fuori dei confini della regione.Il termine 'bicchieraio' all'inizio del Trecento indicava non solo l'esecutore, ma anche il mercante o l'imprenditore-proprietario di una fornace. A partire dalla metà del secolo la produzione si intensificò, affiancandosi a quella delle fornaci di Gambassi e Colle Val d'Elsa, principali centri di produzioni di vetri nel contado fiorentino. Oltre ai fiaschi si producevano essenzialmente bicchieri decorati con disegni geometrici ottenuti soffiando il vetro, dal colore verdolino o giallognolo, entro stampi di bronzo.
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Nel Settecento a F. l'amor di patria e le ricerche erudite costituirono lo stimolo determinante per la messa in valore e la riscoperta delle gloriose fonti e delle origini della scuola fiorentina. Le dissertazioni di Lami (1792), l'opera di Lastri (1791-1795), tesa a illustrare lo sviluppo stilistico della pittura toscana, le indagini sulle chiese cittadine di Richa (1754-1762), le catalogazioni del patrimonio locale di Gori (1740-1742) formarono il sostrato ideologico per la rivalutazione dell'arte paleocristiana e medievale così come la premessa insostituibile al riconoscimento critico delle scuole locali e delle tradizioni regionali che trovano compiuta espressione nell'opera di Lanzi (1795).Nel 1773 Raimondo Cocchi, direttore degli Uffizi, riorganizzati per volere di Pietro Leopoldo di Lorena e tesi a una allargata fruizione e pubblicizzazione delle raccolte, suggerì di costituire una sala con le più antiche pitture della scuola toscana. La proposta di Cocchi, non attuata, venne realizzata nell'ambito del razionale riassetto delle collezioni medicee, intrapreso da Giuseppe Bencivenni Pelli e da Luigi Lanzi. Quest'ultimo costituì agli Uffizi, come documentato dalla sua guida-saggio (Lanzi, 1782), un 'gabinetto di pitture antiche'. Composto da dipinti di Cimabue, Giotto, Taddeo e Agnolo Gaddi, Andrea di Cione detto Orcagna, Pietro Lorenzetti, Filippo e Filippino Lippi, Andrea del Castagno, Beato Angelico, Sandro Botticelli, Antonio Pollaiolo, Alessio Baldovinetti, esso rappresenta un momento fondamentale per la fortuna e la riscoperta della pittura medievale. La raccolta, ispirandosi nella sua composizione alla tradizione storiografica fiorentina da Vasari a Baldinucci, tendeva a ricostruire la genesi e lo svolgimento della scuola toscana. Del nucleo degli Uffizi ordinato da Lanzi facevano parte dipinti di proprietà del pittore e commerciante Ignazio Enrico Hugford (1703-1778), cui se ne aggiunsero alcuni del marchese Alfonso Tacoli Canacci (1726-1803). Quest'ultimo aveva raccolto un'ingente collezione di dipinti, denominata in omaggio a Lastri 'Etruria Pittrice', di cui una piccola parte venne acquistata da Ferdinando di Borbone, che a Parma, sull'esempio degli Uffizi, voleva comporre la serie completa dei pittori della scuola toscana.Il 'gabinetto di pitture antiche' di Lanzi costituisce il nucleo e la base essenziale per la comprensione dei pittori c.d. primitivi. A questo si aggiunsero, tra Ottocento e Novecento, dipinti di capitale importanza (Cimabue, Giotto e Duccio) così da rendere gli Uffizi il luogo privilegiato dove è possibile seguire agevolmente l'evoluzione del linguaggio pittorico toscano. Dopo la ricostruzione degli antichi ambienti e il nuovo allestimento del 1956 a opera degli architetti Michelucci, Scarpa e Gardella, la pittura medievale è esposta in cinque sale: sala del Duecento e di Giotto (Maestà di Ognissanti e polittico di Giotto dalla chiesa di Badia, Maestà di Duccio da S. Maria Novella e Maestà di Cimabue da Santa Trinita); sala del Trecento senese (Annunciazione di Simone Martini, datata 1333, dal duomo di Siena, Presentazione al Tempio di Ambrogio Lorenzetti, pala della Beata Umiltà di Pietro Lorenzetti); sala del Trecento fiorentino (Bernardo Daddi, Giotto di maestro Stefano, Giovanni da Milano); sale del Gotico internazionale (Lorenzo Monaco, Gentile da Fabriano).Nel 1785 Pietro Leopoldo di Lorena riformò la medicea Accademia di Belle Arti dotandola, per ammaestramento degli artisti, di un cospicuo numero di dipinti provenienti dalle collezioni granducali e altresì di opere già in chiese e conventi fiorentini e toscani soppressi e secolarizzati. Attualmente la pittura è esposta nella Gall. dell'Accademia nelle tre sale c.d. bizantine (ca. ottanta dipinti). La prima sala contiene dipinti fiorentini e senesi del Duecento e della scuola di Giotto, la seconda di Orcagna e della bottega di Giotto, la terza di Bernardo Daddi, Taddeo Gaddi e Giovanni da Milano. Dal 1985 sono state inoltre allestite quattro sale al primo piano (per un totale di ca. ottanta dipinti) che espongono altaroli, polittici, pale d'altare per illustrare l'evoluzione della tradizione pittorica fiorentina e toscana dalla fine del Trecento all'avvento del Gotico internazionale (opere di Lorenzo Monaco, Spinello Aretino, Agnolo Gaddi e Starnina). Il nucleo di pittura gotica della Gall. dell'Accademia, assai consistente per numero, pur non presentando opere capitali per la comprensione della scuola toscana, assume comunque il valore di ideale completamento e di necessaria integrazione delle raccolte degli Uffizi.Nel 1803 il canonico Angelo Maria Bandini (1726-1803) legava per testamento al duomo di Fiesole 'a decoro, istruzione e beneficenza pubblica per il popolo' la villa, l'annesso oratorio duecentesco di S. Ansano e la sua ricca collezione. Erudito, filologo e storico, Bandini deve la sua fama al monumentale catalogo dei manoscritti della Laur., di cui fu il bibliotecario, e alla raccolta che porta il suo nome. Essa, originata dall'intento di salvare le testimonianze dei primitivi allora negletti e disprezzati, assumendo perciò un carattere di tutela preventiva, nasceva dall'amor di patria teso a documentare con esempi concreti la nobiltà e l'antichità delle proprie tradizioni. L'ingente collezione di dipinti (Maestro del S. Francesco Bardi, Meliore, Taddeo Gaddi, Bernardo Daddi, Nardo di Cione, Lorenzo Monaco) e di sculture (scuola di Orcagna, mensole decorate del battistero fiorentino, rilievi dei Della Robbia) fu sistemata, come una sorta di museo sacro, nel restaurato oratorio di S. Ansano. Nel 1913 la collezione fiesolana, che consta attualmente di ca. ottanta opere, fu aperta al pubblico come Opera Pia Bandini (od. Mus. Bandini) e collocata nei locali adiacenti al duomo di Fiesole all'uopo costruiti. Di recente la Soprintendenza fiorentina ha effettuato un moderno e più funzionale allestimento delle opere e una revisione critica di tutto il materiale esposto.Nel 1865 fu istituito il Mus. Naz. del Bargello nel duecentesco, imponente palazzo pubblico. L'edificio, che aveva subìto ingenti interventi in epoca gotica e rinascimentale, venne integralmente restaurato per adeguarlo alla nuova funzione museale secondo moduli architettonici e pittorici neogotici. Inizialmente pensato come museo delle arti industriali sul modello anglosassone, divenne invece il museo del Medioevo con l'intento, in funzione celebrativa della nascente unità nazionale, di illustrare la storia e le tradizioni figurative della Toscana. Riunisce una importante raccolta eterogenea, non limitata peraltro alla sola Toscana, proveniente dalle antiche collezioni medicee, dalla soppressione degli enti e delle comunità ecclesiastiche (1866) e arricchita da cospicue donazioni ottocentesche e da recenti lasciti privati. Dopo il moderno riordinamento museografico e la nuova catalogazione per tipologie specifiche, i nuclei medievali sono esposti al piano terreno e al primo piano. La sala della scultura medievale, adiacente al cortile, contiene numerosi reperti provenienti da monumenti e chiese cittadine con opere di Arnolfo di Cambio, Tino di Camaino, Alberto di Arnoldo, Giovanni di Balduccio. Al primo piano la sala degli avori contiene una parte della ricchissima donazione (1888) del francese Louis Carrand, di ca. trecento pezzi, che documenta l'utilizzo dell'avorio dal Tardo Antico al Barocco, e alcuni dipinti su tavola del 12°, del 14°e del 15° secolo. La cappella del Podestà, che deve la sua fama al ritratto di Dante Alighieri scoperto nel 1840 insieme agli affreschi delle pareti raffiguranti Storie della Maddalena, e allora attribuiti a Giotto, contiene importanti oggetti di oreficeria sacra: croci processionali e astili, reliquiari, paci a niello e a sbalzo. La sala della Coll. Carrand espone, con un criterio tipologico, un rilevante nucleo di smalti italiani e francesi, che documentano le diverse tecniche di lavorazione, e inoltre gioielli bizantini, franchi e longobardi e rari dipinti di piccolo formato a fondo oro di epoca gotica di scuola franco-fiamminga e toscana. La sala islamica espone oggetti provenienti dalle donazioni Carrand, Ressman (1891) e Franchetti (1906) e dalle collezioni medicee, con l'intento di illustrare l'influenza e gli stimoli figurativi che la civiltà islamica ha esercitato nei suoi intensi rapporti commerciali e culturali con l'Italia.Il Mus. Bardini, costituitosi in seguito alla donazione (1922) al Comune di F. dei beni dell'antiquario Stefano Bardini (1836-1922), contiene, oltre a pochi dipinti di età romanica e gotica, una significativa antologia della scultura, che comprende una ricca selezione di testimonianze regionali del Romanico italiano e rilevanti reperti del Duecento e del Trecento: la Carità di Tino di Camaino, rilievi di Nicola e di Giovanni Pisano, la tomba di vescovo della bottega di Arnolfo di Cambio, un timpano della scuola di Nino Pisano, i resti del monumento sepolcrale opera di Paolo da Gualdo Cattaneo. Contiene inoltre un vasto panorama di elementi decorativi, stemmi e frammenti architettonici, in massima parte provenienti dalla distruzione del vecchio centro di F., e una interessante raccolta di monumenti funebri dal Duecento al Cinquecento.Altri nuclei di scultura si trovano esposti nella Fond. Romano nel Cenacolo di Santo Spirito e al Mus. dell'Opera di S. Maria del Fiore. Quest'ultimo espone la decorazione dell'antica facciata di S. Reparata (Arnolfo di Cambio e bottega, Piero di Giovanni Tedesco, Niccolò Lamberti), lapidi, oreficerie e dipinti di età romanica e gotica, le formelle originali del campanile di Giotto di Andrea Pisano e i resti dell'antica recinzione e del fonte battesimale del battistero fiorentino.Ulteriori, circoscritti nuclei di pittura medievale sono conservati presso il Mus. Horne, la Coll. Berenson a Settignano, il Mus. della Casa Fiorentina Antica all'interno del palazzo Davanzati e il Mus. Stibbert.
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