Firenze
Per l’interpretazione machiavelliana della Firenze medievale si rinvia alle voci Istorie fiorentine e Ciompi, tumulto dei, nonché alle voci biografiche Albizzi, Rinaldo degli; Brienne, Gualtieri di; Scali, Giorgio; Uzzano, Niccolò da.
Lo Stato mediceo di Lorenzo e Piero (1469-1494). L’anno stesso della nascita di M., Lorenzo de’ Medici prese le redini del potere dopo la morte del padre. Nel 1466 la fazione medicea era uscita vittoriosa dal conflitto iniziato con il tentativo degli ex luogotenenti di Cosimo, sostenuti da centinaia di cittadini, di ristabilire una condivisione del potere tra tutti i capi del partito senza una posizione di preminenza per Piero, figlio ed erede di Cosimo e padre di Lorenzo il Magnifico. Anche se Lorenzo, appena ventenne nel 1469, non dovette affrontare una sfida di simili dimensioni, alcuni tra i principali cittadini non vedevano di buon occhio i suoi comportamenti da signore, la scelta di sposare una donna della casata nobile romana degli Orsini e, infine, la stretta alleanza con gli Sforza di Milano, sempre pronti, come erano stati appunto nel 1466, a intervenire militarmente per proteggere il regime dai suoi nemici interni. Nel primo decennio al potere, l’instabile rapporto tra Lorenzo e gli ottimati fu all’origine di due sanguinosi episodi di violenza, il sacco di Volterra e la congiura dei Pazzi. Nel timore che alcuni fra gli ottimati sostenessero i volterrani per indebolirlo politicamente e deciso a lasciar intendere che non avrebbe tollerato alcuna sfida al proprio potere, nel 1472 Lorenzo ordinò la punizione dei volterrani («tutta impresa di Lorenzo», scrisse M. nelle Istorie fiorentine VII xxx 13), lasciando che le truppe del duca di Urbino, Federico da Montefeltro, mettessero la città a sacco massacrando centinaia di persone. Un pari timore che si stesse cercando di diminuire il suo potere in città e di incrinare il suo prestigio nello scacchiere politico italiano indusse Lorenzo a infliggere una serie di umiliazioni a membri delle famiglie ottimatizie dei Pazzi e dei Salviati. Decisi a vendicarsene, questi ordirono, nel 1478, l’attentato in cui Lorenzo rimase ferito e Giuliano, suo fratello, venne ucciso; seguirono furiose rappresaglie in cui furono trucidate decine di persone. Papa Sisto IV e re Ferdinando I di Napoli, alleati dei congiurati, mossero guerra a F. per liberare – come sostennero – la città dalla tirannia medicea. Più si diffondeva il sospetto che F. stesse combattendo una pericolosa guerra sul proprio territorio per proteggere Lorenzo dall’ira del papa, più si facevano sentire voci di dissenso a favore della pace e persino dell’opportunità di promuovere qualcun altro a capo del regime. Senza autorizzazione da parte del governo, Lorenzo si recò a Napoli per concludere una pace separata. Tornato a F., mise in atto una serie di riforme che restrinsero la cerchia effettiva del potere a pochi uomini scelti da lui stesso e che gli assicurarono, negli anni Ottanta, un potere incontrastato. Fidandosi sempre meno degli ottimati, affidò l’amministrazione del regime a uomini nuovi, esterni alla vecchia classe dirigente e provenienti da fuori città, provocando il rancore di quanti erano stati estromessi dal governo. Infine, Lorenzo operò per assicurare alla propria famiglia una base politica anche al di fuori dell’ambito cittadino, persuadendo il nuovo papa Innocenzo VIII a nominare cardinale il figlio Giovanni, appena tredicenne.
Morto Lorenzo nel 1492, i consigli cittadini, saldamente controllati dal regime, confermarono la ‘successione’ del figlio maggiore, Piero, senza proteste, ma anche senza dimostrazioni di sostegno da parte degli ottimati, sempre piú risentiti per l’esigua partecipazione allo Stato. Secondo il cronista Piero Parenti, «tutto il pondo dello stato» stava in appena dieci stretti collaboratori (Storia fiorentina, a cura di A. Matucci, 1° vol., 1994, p. 47), solo due dei quali provenienti da famiglie ottimatizie.
Nel 1494 il regime fu travolto dalla crisi aperta con l’entrata in Italia dell’esercito di Carlo VIII (→) di Francia. Diretti a Napoli, i francesi dovettero attraversare il dominio fiorentino. Piero, spaventato dal pericolo e dalle critiche rivoltegli in città, e consapevole che molti fiorentini speravano che i francesi li avrebbero liberati dai Medici, si recò dal re (imitando così il già famoso viaggio a Napoli del padre) e, senza esserne autorizzato, gli consegnò alcune fortezze strategiche: un gesto precipitoso che destò la rabbia di molti cittadini e della Signoria, la quale, dopo giorni di tensione e di scontri, mise una taglia sulle teste di Piero e Giovanni, costringendoli, il 9 novembre, a lasciare la città e a prendere la via dell’esilio. Furono aboliti i due consigli, dei Cento e dei Settanta, istituiti dai Medici. Così, dopo sessant’anni, il regime si spense di colpo. Non di altrettanto facile risoluzione, tuttavia, erano due problemi ancora aperti: la presenza minacciosa dell’esercito francese e la riforma delle istituzioni politiche nell’assenza dei Medici.
Frate domenicano di origine ferrarese, priore del convento di S. Marco, severo e talvolta terrificante predicatore che polemizzava contro quella che considerava una cultura eccessivamente profana, Girolamo Savonarola (→) godeva già da diversi anni di grande fama a F., presentandosi come profeta e acclamato come tale dai fiorentini. Fino alla crisi del 1494 la sua predicazione aveva annunciato l’imminente punizione divina destinata ai fiorentini per i loro peccati e per la superficialità delle loro devozioni religiose: profezia che molti credevano si fosse attuata con l’arrivo dei francesi e con il pericolo che mettessero a sacco Firenze. La Signoria mandò presso Carlo VIII due delegazioni capeggiate da Savonarola, il quale, forte del prestigio acquisito, persuase il re a restringere la permanenza in città di una parte dell’esercito a soli dieci giorni, nonché ad abbandonare le pretese che F. riconoscesse la sua sovranità e revocasse l’esilio dei Medici.
Partiti i francesi alla fine di novembre, i fiorentini potevano affrontare il vuoto politico creato dal crollo del regime mediceo. Da quel momento, il messaggio profetico di Savonarola si trasformò assumendo i caratteri di una più ampia visione di rinnovamento spirituale e morale della Chiesa e del cristianesimo che avrebbe dovuto prendere avvio proprio da F. con il ripristino della libertà e l’instaurazione di un nuovo governo sul modello della costituzione veneziana. L’idea di imitare Venezia gli sarebbe stata suggerita, a detta di Parenti (Storia fiorentina, cit., pp. 156-57), da un gruppo di ottimati che cercavano di placare l’ira del «popolo» – i cittadini delle classi medie, non appartenenti alle famiglie ottimatizie – che protestava contro la nomina, il 2 dicembre, di venti accoppiatori con autorità di eleggere la Signoria per tutto l’anno successivo. Poiché la maggioranza degli accoppiatori aveva fatto parte del ristrettissimo Consiglio mediceo dei Settanta, e quasi tutti (secondo Bartolomeo Cerretani, Storia fiorentina, a cura di G. Berti, 1994, pp. 221-22) erano stati tra i «primi ministri» di Lorenzo, «tutti e’ buoni cittadini adolororono», lamentandosi «d’avere prese per la libertà l’arme, con ciò fussi che non per la libertà del popolo, ma per la conservazione dello stato de’ medesimi che prima governavano prese le aveano». Si temeva addirittura un’insurrezione del popolo:
avedendosi e’ Primati del rughiare del popolo, e temendo che per a tempo contra di loro non si voltassi […] pensavano come a fortificare o stabilire lo stato loro avessino: vedeanlo [il popolo] alla mutazione facilmente disposto, però essaminavano come stabilire si potessino.
Riemerse allora lo storico conflitto tra l’élite cittadina, decisa a creare un governo oligarchico, e il popolo, che preferiva un governo ‘largo’. Poiché Savonarola aveva promesso «che per la parte del popolo sempre sarebbe, e suo defensore contro alla potenza de’ Grandi si dimostrerebbe», alcuni ottimati, con a capo Paolantonio Soderini, disposti a fare concessioni al popolo e ritenendo che una riforma «al modo quasi viniziano» fosse la soluzione migliore, «con frate Ieronimo s’intesono, e persuasoli ciò essere bene» (P. Parenti, Storia fiorentina, cit., pp. 156-57). Se non era l’autore della proposta che sfociò nella creazione del Consiglio maggiore, il frate certo vi aggiunse alcune idee proprie – un sistema di consultazioni del popolo tramite i sedici gonfalonieri (che non fu accettato), e una larga partecipazione dei cittadini agli uffici: «credo sia bene, per dare animo a ciascuno di portarsi virtuosamente, che gli artefici fussino in qualche modo beneficiati» (Prediche sopra Aggeo, a cura di L. Firpo, 1965, p. 226).
Il Consiglio maggiore nasceva, dopo giorni di intensi dibattiti e controversie, con una legge, approvata il 22 e il 23 dicembre 1494 dai vecchi consigli comunali, che stabiliva anche larghi criteri di eleggibilità: potevano sedere nel Consiglio tutti coloro i cui nomi fossero stati almeno una volta estratti dalle borse per la Signoria o per uno dei collegi, che avessero o meno ricoperto l’ufficio (quindi sia i veduti sia i seduti), o i cui padri, nonni paterni o bisnonni fossero stati seduti o veduti. Solo quando, a metà gennaio, si completò l’esame degli archivi elettorali, si seppe – e fu una brutta sorpresa per gli ottimati – che i cittadini aventi diritto a partecipare al Consiglio erano più di 3600. Non tutti, naturalmente, erano presenti contemporaneamente alle singole riunioni, che contavano mediamente tra 600 e 1500 partecipanti: tuttavia, mai prima un numero così elevato di cittadini aveva esercitato collettivamente reali poteri di governo. Spettava al Consiglio eleggere la Signoria e altre magistrature e approvare tutti i provvedimenti fiscali. Un consiglio di tali dimensioni, con una schiacciante maggioranza proveniente dai ceti medi e dotato di poteri così ampi, non era certamente ciò che gli ottimati avevano desiderato. Ben presto, infatti, ottimati particolarmente ostili al Consiglio cercarono o di ridurre i suoi poteri o di creare un consiglio ristretto che fosse più agevolmente controllato da loro. Lo scontro politico tra ottimati, desiderosi di modifiche costituzionali, e il popolo, deciso a proteggere le prerogative del Consiglio, sarebbe durato fino alla fine della rinata Repubblica.
Nei tre anni circa (1495-97) in cui Savonarola, pur non ricoprendo nessun ufficio – in quanto frate –, esercitava una grande influenza nel Consiglio, i suoi sostenitori, denominati frateschi (o, sprezzantemente, piagnoni), promossero una serie di riforme contro l’usura, contro gli ebrei e il prestito ebraico, contro la sodomia, e a favore di una legislazione suntuaria più severa, riforme che non ebbero effetti duraturi e che in molti casi fecero perdere consensi ai frateschi. L’opposizione alle riforme era trasversale: la divisione tra frateschi e nemici del frate (gli arrabbiati) non coincideva con quella tra popolo e ottimati. Benché la maggioranza dei frateschi provenisse dal popolo, il partito contava un nutrito numero di ottimati, tra cui Paolantonio Soderini, Giovan Battista Ridolfi, Francesco Valori, Iacopo Salviati e Piero Guicciardini.
All’inizio Savonarola si era opposto a una politica persecutoria nei confronti dei sostenitori del passato regime, ma tutto cambiò nell’aprile del 1497, quando, dopo un fallito tentativo di colpo di Stato ordito dall’esiliato Piero de’ Medici, si scoprì che alcuni ottimati in città avevano appoggiato la congiura. La reazione fu durissima e una riunione di oltre duecento cittadini condannò i cospiratori a morte. Tuttavia, secondo una legge promossa dal frate stesso due anni prima, ogni condannato a morte aveva il diritto di appello al Consiglio maggiore. Esplose intorno al caso un’infuocata controversia in cui Francesco Valori, capo politico dei frateschi, lanciò minacce a chiunque si dichiarasse disposto a concedere l’appello. Savonarola non fece nulla per impedire che fosse violata la legge da lui stesso voluta: una decisione che gli costò ogni residuo appoggio presso i partigiani dei Medici. Allo stesso tempo papa Alessandro VI (Rodrigo Borgia), spesso denunciato dal frate per corruzione e immoralità, cercava di farlo tacere. Con i frateschi in maggioranza nella Signoria, era possibile, anche se rischioso, ignorare i brevi papali, ma dopo la scomunica del frate nel maggio 1497 i nemici di Savonarola si moltiplicarono rapidamente, annoverando tra le loro fila mercanti fiorentini che facevano affari a Roma. In seguito a un violento attacco contro il convento di S. Marco nell’aprile del 1498 e all’assassinio di Francesco Valori e della moglie, Savonarola venne arrestato, accusato di essersi falsamente spacciato per profeta, messo alla tortura, infine impiccato e arso, il 23 maggio, come eretico e scismatico.
La grande novità politico-istituzionale promossa dal frate non perì con lui. Francesco Guicciardini scrive che Guidantonio Vespucci e Bernardo Rucellai, due tra gli ottimati più intransigenti che istigarono la violenza contro Francesco Valori e la condanna di Savonarola,
avevano creduto che battendo il frate fussi rovinato el consiglio grande […], ma di poi restorono ingannati, e veddono che molti de’ loro seguaci […] ed universalmente tutto el popolo voleva conservare el consiglio (Storie fiorentine, XVI, a cura di A. Montevecchi, 1998, p. 276).
Infatti, il Consiglio rimase in vita con poteri perfino allargati, e nei due anni successivi all’eliminazione del frate la forza politica del popolo addirittura si accrebbe.
Tra il 1499 e il 1502, i primi anni in cui M. fu al servizio della Repubblica, popolo e ottimati si scontrarono su tre principali fronti. Nelle elezioni della Signoria il Consiglio riuscì ad aumentare la propria influenza. Sul piano della politica fiscale modificò la decima (una tassa del 10% sulle rendite fondiarie, istituita nel 1495) convertendola – «dopo molte dispute», così scrisse Guicciardini – in un’imposta fortemente progressiva: la decima scalata. Guicciardini la condannò come «ingiustissim[a]», pur dovendo riconoscere che «aveva favore assai» (Storie fiorentine, XIX, cit., pp. 320-22).
Il terzo fronte, destinato a rimanere aperto fino alla caduta della Repubblica, fu quello della politica estera. In seguito a una serie di sconfitte e umiliazioni, a causa delle quali il dominio territoriale fiorentino rischiava di disintegrarsi, il popolo accusò gli ottimati di aver collaborato con i nemici di F. o con i capitani mercenari al soldo della città, nell’intento di impedire la vittoria militare, fomentare la paura di un’invasione del dominio e quindi destabilizzare il governo per far cadere il Consiglio maggiore. Durante l’occupazione francese del 1494 Pisa si era ribellata e aveva poi difeso ostinatamente la propria indipendenza. Nel 1499 i fiorentini accusarono il loro capitano Paolo Vitelli di aver sabotato una campagna militare con la collaborazione non solo di alcuni ottimati, ma addirittura dei Dieci, la magistratura che sovrintendeva alle operazioni militari. Vitelli fu processato e giustiziato, e per un anno intero il Consiglio si rifiutò di eleggere nuovamente i Dieci.
L’evento che cambiò radicalmente tutto l’assetto politico italiano fu la seconda irruzione militare dei francesi nella penisola, avvenuta nel 1499. Il nuovo re, Luigi XII (→), conquistò Milano, strinse alleanze con Venezia e con Alessandro VI, promettendo a quest’ultimo aiuti militari a sostegno delle ambizioni del figlio Cesare Borgia (→), che mirava a creare un suo Stato nella Romagna. Luigi si accordò anche con F., offrendo di aiutarla nella guerra di Pisa in cambio di ingenti somme di denaro. Si creava così tra F., la Francia e Cesare Borgia un difficile e scomodo rapporto: il re era alleato e protettore delle altre due potenze minori, le quali avevano interessi in contrasto e presto si trovarono in conflitto aperto. Il Valentino pretendeva, con minacce e intimidazioni, che F. lo assumesse come capitano e appoggiasse le sue mire politiche e territoriali; la situazione era resa ancora più complicata dal fatto che fra i condottieri di Cesare Borgia ci fosse Vitellozzo Vitelli, avido di vendetta per la morte del fratello Paolo. Nel maggio del 1501 Borgia, Vitellozzo e le loro truppe entrarono nel dominio fiorentino, arrivando fino a Campi, appena fuori Firenze. Correvano voci e sospetti di collusione tra Borgia e gli ottimati, giacché il duca si era fatto accompagnare da Piero de’ Medici fino a Loiano nel Bolognese ed esigeva che F. accettasse il rimpatrio dei Medici, diminuisse i poteri del Consiglio e instaurasse un governo oligarchico. Guicciardini scrisse:
Dette questa cosa alterazione assai nella città, perché el popolo fece giudicio che [Borgia] fussi venuto con ordine de’ cittadini principali, e’ quali con questo mezzo volessino mutare lo stato, ed accrebbesi questo sospetto (Storie fiorentine, XXI, cit., pp. 342-43).
Anche il cronista Piero Vaglienti riteneva che i «grandi» avessero fatto venire le truppe del Valentino «a loro proposito» per «levare questo Consiglio» (Storia dei suoi tempi, a cura di G. Berti, M. Luzzati, E. Tongiorgi, 1982, p. 131). Nel giugno del 1502, Vitelli invase il territorio fiorentino da sud, prese Arezzo, e fece ribellare tutta la Valdichiana, entrando nei paesi conquistati con Piero de’ Medici. Pochi giorni dopo, Cesare Borgia negò all’ambasciatore fiorentino, Francesco Soderini, e a M., segretario dei Dieci, di essere stato coinvolto nell’operazione; ribadì il suo desiderio di amicizia e alleanza con F., aggiungendo tuttavia una minacciosa dichiarazione: «questo governo [di F.] non mi piace e non mi posso fidare di lui; bisogna lo mutiate» (Francesco Soderini ai Dieci, 26 giugno 1502, LCSG, 2° t., p. 240). Le mosse militari del Valentino, come pure le sue intimazioni e condizioni per un’alleanza con F., rafforzavano in molti fiorentini l’idea che gli ottimati intransigenti si stessero servendo di lui per realizzare i propri obiettivi.
Nei ranghi degli ottimati si possono distinguere diversi gruppi, orientamenti e obiettivi. I più intransigenti, guidati da Bernardo Rucellai (→), miravano ad abbattere il Consiglio e, come si vedrà, erano particolarmente ostili anche alla milizia proposta da Machiavelli. Un secondo gruppo, che fece capo ai cugini Alamanno Salviati (→) e Iacopo Salviati e includeva Giovan Battista Ridolfi e Francesco Guicciardini, perseguiva riforme che avrebbero limitato i poteri del Consiglio con l’istituzione di un senato, ma senza rovesciare la costituzione del 1494. Iacopo Salviati era stato fratesco negli anni savonaroliani, poi promotore di riforme aristocratiche e, infine, divenne mediceo dopo il 1512. Alamanno, priore nel bimestre luglio-agosto 1502, venne lodato da Francesco Guicciardini per aver messo in ordine le finanze per far fronte alla crisi del dominio (Storie fiorentine, XXII, cit., pp. 364-66), come anche da M. per aver sanato due altre «mortal ferite» dello Stato, cioè riportato Pistoia «in gran pace» e ricondotto Arezzo e la Valdichiana «sotto l’antico giogo» (Decennale I, vv. 355-72). Un terzo gruppo di ottimati, inclini ad appoggiare la Repubblica e il Consiglio, faceva capo ai Soderini: i fratelli Paolantonio – promotore del Consiglio –, Francesco – vescovo di Volterra, poi cardinale, ambasciatore e convinto sostenitore dell’Ordinanza – e Piero (→ Soderini, Piero), che giocò anche lui un ruolo decisivo nella risoluzione della crisi del 1502. Inviato tre volte ambasciatore presso la corte francese, Piero acquistò la fiducia del re, persuadendolo a mandare truppe in Toscana per allontanare Vitelli e far capire al Valentino che la Francia si sarebbe opposta ad altre provocazioni contro Firenze. L’elezione di Piero a gonfaloniere a vita quello stesso anno si dovette, almeno in parte, al riconoscimento dei suoi sforzi, altrettanto importanti quanto quelli di Alamanno Salviati, per la sicurezza dello Stato.
Proprio nell’estate del 1502, gli ottimati che avevano sostenuto la necessità di un consiglio più ristretto cambiarono mira, proponendo invece un mandato più lungo per il gonfaloniere di giustizia, in base alla convinzione che un gonfaloniere in carica per diversi anni avrebbe potuto esercitare un maggiore controllo sul Consiglio e perciò diminuirne il potere. Dopo che varie proposte furono dibattute e respinte, il Consiglio approvò (con 818 voti a favore e 372 contro) la riforma che istituiva il gonfalonierato a vita, riservando al Consiglio stesso l’elezione (cosa che non piacque agli ottimati). Il 22 settembre, con oltre 2000 membri presenti e votanti, Piero Soderini fu eletto con l’appoggio dei Salviati, sicuri che un membro di una famiglia ottimatizia come i Soderini avrebbe favorito gli interessi del proprio ceto. Contrariamente alle aspettative, Soderini si dimostrò un tenace sostenitore del Consiglio, della Repubblica popolare e dell’alleanza francese, attirando su di sé l’ostilità di molti degli ottimati, compresi i Salviati. Per l’intero decennio del suo mandato, Soderini dovette affrontare un’ostinata opposizione a tutti i suoi disegni: al progetto della milizia, alla politica estera, a quella fiscale, perfino alla guerra per Pisa, giacché taluni volevano negargli il prestigio derivante da questa vittoria. Ciò nonostante, i successi non mancarono. Soderini riuscì, insieme a papa Giulio II, a far scomparire la minaccia di Cesare Borgia. Attuò poi una riforma del fisco, facendo approvare nuove imposte dirette e diminuendo la spesa pubblica, mentre cresceva il gettito delle tasse indirette, tanto da permettere al debito pubblico (il Monte) la ripresa di pagamenti di interessi. Anche Francesco Guicciardini dovette riconoscere la «somma diligenzia» del gonfaloniere nelle finanze, tanto che «era lodato universalmente el suo governo» (Storie fiorentine, XXV, cit., p. 412).
La guerra di Pisa, per contro, andava di male in peggio. Il 1505 fu un anno di disfatte, delusioni e recriminazioni, e fra i cittadini si cominciava a discutere sull’opportunità di creare una forza militare che liberasse lo Stato dalla dipendenza dai mercenari. Così la proposta di una milizia, da tempo caldeggiata da M. con i Soderini, veniva ora all’attenzione della classe politica. Riflettendo le posizioni degli avversari del gonfaloniere, Guicciardini riferisce i gravi sospetti che molti ottimati dicevano di nutrire davanti all’ipotesi di «fare una ordinanza di fanterie in sul nostro» (lo storico connette la proposta per l’ordinanza con l’assunzione di don Michele, l’ex sgherro del Valentino, ma in realtà le due cose erano ben distinte):
Ebbonne e’ cittadini di qualità grande alterazione, dubitando che questa voglia di avere don Michele non fussi fondata in su qualche cattivo disegno e che questo instrumento [la milizia] non avessi a servire o per desiderio di occupare la tirannide o, quando fussi in qualche angustia, per levarsi dinanzi e’ cittadini inimici sua.
Secondo Guicciardini, i «primi cittadini» temevano che i fanti reclutati nel dominio «si avezzerebbono a fare superchierie, e sarebbe pericolo che un dì non si voltassino contro alla città o cittadini» e, inoltre, che «el gonfaloniere non gli adoperassi un dì a occupare la libertà o a spacciare e’ cittadini inimici sua, e però terribilmente la dannavano». Bernardo Rucellai, «inimico capitale del gonfaloniere», lasciò addirittura la città, perché, secondo alcune voci, «stimava avere a essere el primo o de’ primi percossi», mentre altri congetturavano che se ne fosse andato per trattare con i Medici «circa a mutare lo stato» (Storie fiorentine, XXVI, cit., pp. 423-25). Cerretani scrive che la milizia
hebbe non pocha oppositione da molti, una partte de’ quali la oppugnavano per non piacerlli loro cosa che facessi il gonfaloniere e per dubitare lui non si facessi signore, un’altra partte era quella che voleva e desiderava disordine per introdurre di nuovo el regimento de’ Medici (Storia fiorentina, cit., p. 343).
Nonostante le polemiche e i sospetti, l’Ordinanza fu istituita con una legge del dicembre 1506, scritta da M. e approvata dal Consiglio. I fanti arruolati erano 3000 nel maggio 1507, 5000 alla fine dell’anno e forse 10.000 nel momento di massima crescita. La milizia giocò un ruolo importante nell’assedio di Pisa, che si arrese nel giugno 1509, e «hebbe tantta reputatione che tutta Italia vi pose l’ochio» (B. Cerretani, Storia fiorentina, cit., p. 347).
Dopo il 1509 le sorti della Repubblica peggiorarono. La minaccia dei Medici non era sparita: la sfida più grave venne dall’alleanza matrimoniale negoziata dal potente cardinale Giovanni per le nozze di Clarice, figlia del defunto fratello Piero, con il banchiere Filippo Strozzi. Il matrimonio fece scalpore perché violava la legge che proibiva contatti da parte di fiorentini con esuli dichiarati ribelli, e perché manifestò l’influenza ancora esercitata dai Medici sugli ottimati.
Nel 1510-11 Giulio II organizzò la lega Santa tra papato, Spagna, Venezia e svizzeri per cacciare la Francia dall’Italia. Pretendendo anche l’adesione di F., il papa mise la Repubblica davanti a una scelta fatale: la Francia o la Chiesa. Sostenuto dal Consiglio, Soderini rimase fedele all’alleanza francese, cercando al contempo di mantenere buoni rapporti con il papa. Ma Giulio II, adirato per il rifiuto di F. di unirsi alla lega, lanciò una minaccia dopo l’altra. Scagliò, infine, l’interdetto contro F., non nascondendo il disegno di far cadere Soderini e di restituire ai Medici lo Stato. In queste pericolose circostanze, un numero crescente di ottimati cominciò a opporsi più energicamente alla politica filofrancese del gonfaloniere, dichiarandosi favorevole a un’intesa con il papa. Nell’aprile del 1512, a Ravenna, la vittoria dei francesi sulle forze della lega sembrò scongiurare il pericolo. Invece la guerra non era finita e l’apparente vittoria francese si rovesciò presto in disfatta quando gli svizzeri presero Milano e le forze pontificie e veneziane avanzarono su vari fronti. Alla fine di giugno, neanche tre mesi dopo Ravenna, Luigi XII ritirò il suo esercito dall’Italia e F. si trovò esposta alla minaccia di un’invasione delle forze della lega e alla furia di Giulio II.
Mentre i rappresentanti della lega, riunitisi a Mantova, decidevano di mandare un esercito alla volta di F., Giulio II vi spediva un proprio inviato, Lorenzo Pucci, fiorentino e partigiano dei Medici, per cercare un’ultima volta di persuadere i fiorentini a entrare nella lega e contribuire alle spese della guerra. Non pochi filomedicei, racconta Cerretani, «v’andorno a casa [di Pucci] a inanimirllo e prometterlli montes et maria in benifitio de’ Medici». Il Consiglio maggiore, intanto, dette pieno appoggio a Soderini: il 27 agosto
si raunò il gran consiglio dove convennono 1200 ciptadini, a’ quali fu proposto se s’aveva a rimettere e Medici come ciptadini et il ghonfaloniere irsene a casa; e tutti unitamente, che uno non discrepò, referirno che il gonfaloniere stessi fermo in palazo et dandogli infinite lode, e ch’e Medici per conto alcuno non tornassino (B. Cerretani, Storia fiorentina, cit., pp. 434, 437).
Due giorni dopo, le truppe del viceré spagnolo di Napoli, Ramón de Cardona, assaltarono e saccheggiarono Prato, massacrando almeno diverse centinaia di persone (Cerretani dice 4500), e lasciando i fiorentini storditi e impauriti. Gli ottimati antisoderiniani e filomedicei compresero che il momento atteso da anni era arrivato. Quattro dei più accaniti nemici del gonfaloniere – Paolo Vettori, Bartolomeo Valori, Gino Capponi e Anton Francesco degli Albizzi – entrarono nel palazzo e, minacciandolo, pretesero che si dimettesse. Con la mediazione di Francesco Vettori, fratello di Paolo e amico di M., Soderini lasciò il palazzo incolume e andò in esilio.
Il 1° settembre entrò in città Giuliano de’ Medici, mentre il fratello cardinale aspettava fuori con le truppe del viceré. Nel Dialogo della mutatione di Firenze di Bartolomeo Cerretani, il portavoce degli ottimati intransigenti è Giovanni Rucellai, figlio di Bernardo, di cui portò avanti la politica implacabilmente ostile nei confronti del gonfaloniere; egli spiega come il colpo di Stato, che si concluse con lo smantellamento delle istituzioni della Repubblica popolare, fosse voluto più dagli ottimati fautori della linea dura che dai Medici stessi. Rucellai sostiene che «tutto si fe’ con l’arme in mano, et io fui uno di quelli capi che v’intervenni et a guastare il consiglio et fare il parlamento et la balìa et rimandarne il gonfaloniere a casa» (Dialogo della mutatione di Firenze, a cura di G. Berti, 1993, p. 23). Coloro ai quali
non era grato per nessun verso Piero Soderini […] aspettavono l’occasione. Pensamo molte volte […] come si potevano rimettere e Medici o condurci una notte Giuliano et a poco a poco gente, et di discorrere la terra, di pigliare il palazzo e torre la vita a Piero Soderini (pp. 26-27).
Ammettendo apertamente che «la presa di Prato fu la vittoria nostra» (p. 30) perché spaventò i fiorentini, Rucellai narra come
ci dividemo noi capi della mutatione, perché una parte non volevano altro che levar Piero Soderini, un’altra parte, fra’ quali ero io, volevamo fare nuovo stato, e capo e Medici, perché vedevamo che partiti li Spagniuoli eravamo per capitar male, considerato […] la qualità della parte fratesca.
Spinti dalla paura che avevano dei frateschi, ancora molto forti quindici anni dopo la morte di Savonarola, i «capi della mutatione» mandarono una delegazione a trattare con i Medici, e «quivi concludemo quello si haveva a fare per salute loro» (pp. 31-32): una fiera affermazione che furono questi «capi» a decidere ciò che si dovesse fare per la salute dei loro ‘padroni’ Medici.
Intransigenti e moderati si contendevano le simpatie del cardinale. Moderati come Iacopo Salviati «confortorno il legato [cardinale Giovanni] a non alterare il gran Consiglio». Poiché i sostenitori fidati dei Medici erano ormai molto ridotti di numero – dicevano i moderati – per abolire il Consiglio sarebbe stato necessario che i Medici diventassero «ministri di violenza». Gli intransigenti risposero che «in ogni tempo e luogo sempre pochi fanno la mutatione» e che «l’ambitione e avaritia spigne la maggior parte sempre a volere essere amici di quello stato che regge»; ma anche dopo queste argomentazioni vedevano «freddezza e modi timorosi» nei Medici (p. 37). Rucellai ricorda, inoltre, il poco entusiasmo con cui il cardinale fu accolto quando entrò in città il 14 settembre: «Gridossi prima pe’ sua dipoi per il popolo tre volte: ‘palle’ ma freddamente […]. Fu questa tornata rispetto al modo non grata a’ cittadini et al popolo». L’atteggiamento distaccato della gente «faceva asai per noi», aggiunge Rucellai, perché convinceva il cardinale che erano indispensabili misure forti: «noi dì e notte con verissime ragioni dicemo al legato il pericolo che portava, et che non ci era altro rimedio che parlamento». Infine, Giovanni de’ Medici si decise, anche perché le truppe di Cardona si accingevano a tornare in Lombardia: se il cardinale «haveva bisogno de l’opera loro non indugiassi». «Questo», nota Rucellai, «aiutò assai». Il giorno dopo, 16 settembre, si mossero: con le truppe del viceré nella piazza, una banda armata di ottimati, compreso Giovanni Rucellai, con in testa Giuliano de’ Medici, entrò nel palazzo. I priori, impauriti e indifesi, non ebbero altra scelta che arrendersi e chiamare il «parlamento» – una pretesa assemblea generale della cittadinanza in piazza – che sotto lo sguardo minaccioso dei fanti spagnoli approvò la creazione di una Balìa di 46 membri (scelti dal cardinale) con pieni poteri per un anno «di potere riordinare et rassettare la città» (p. 40). La Balìa abolì il Consiglio maggiore, l’Ordinanza e la connessa magistratura dei Nove. All’inizio di novembre, M. fu rimosso dalle sue cariche.
Il regime mediceo (1512-1527). I quindici anni del restaurato predominio mediceo sono contraddistinti da una cronica incertezza, da parte del regime, sul modo di governare Firenze. Paolo Vettori, uno dei ‘falchi’ fra gli ottimati, consigliò il cardinale che ai Medici sarebbe stato «necessario usare più forza che industria, perché voi ci avete più nimici e manco ordine a saddisfarli», e perché «li dieci anni passati la città è stata benissimo, in modo che sempre la memoria di quel tempo vi farà guerra» (Ricordi, in von Albertini 1955, p. 357). Giovanni de’ Medici – da cardinale, fino a marzo 1513, e poi da papa (→ Leone X) – preferiva invece rispettare, almeno nella forma, le consuetudini cittadine e le sensibilità delle famiglie ottimatizie. Affidando al nipote Lorenzo, figlio di Piero, le redini del regime nell’agosto del 1513, Leone X ammoniva: «Ma sopra tucto debbi aver grande advertenza a le case, a la età et a lo esser amici […] debbi guardare di non offendere le case […] le quali sono consuete haver lo stato» (Instructione, cit. in von Albertini, 1955, pp. 25-26). Lorenzo e la madre, Alfonsina Orsini, non perdevano invece occasione per offendere i maggiorenti della città con i loro abusi di potere. Lorenzo dirigeva il regime con il consiglio di una manciata di uomini fidati, fra cui Filippo Strozzi (suo cognato), Iacopo Salviati e Francesco Vettori. Strozzi fu l’anello di congiunzione tra il regime a F. e la corte pontificia, nei suoi ruoli di Depositario generale della Camera apostolica e di Depositario della Signoria a Firenze. Dalle entrate del comune depositate nella sua banca, Strozzi poteva far avere a Lorenzo fondi pubblici mascherati come prestiti privati; poteva anche far trasferire ingenti somme dalla Depositeria fiorentina a quella pontificia: permise così ai due papi Medici, Leone X e Clemente VII, di mettere le mani sulle risorse della Repubblica per finanziare campagne militari che, non a caso, coincidevano sostanzialmente in quegli anni con le ambizioni territoriali dei Medici. Lorenzo, spesso assente da F. perché più interessato a soddisfare le proprie ambizioni al di fuori dei confini cittadini, lasciava il regime nelle mani di un segretario, il pistoiese Goro Gheri che, non solo non apparteneva al ceto ottimatizio, ma non era nemmeno fiorentino. Conosciuto per essere più mediceo degli stessi Medici, Gheri divenne presto oggetto di odio fra gli ottimati. Secondo uno stile di governo inaugurato già dal suo omonimo nonno, Lorenzo fece un passo decisivo verso la maggiore dipendenza del regime da funzionari estranei al mondo politico strettamente cittadino.
Nel 1515 Lorenzo si fece nominare capitano generale di F., assumendo il comando di un contingente personale di 500 uomini, indipendente dalle autorità comunali, e con un enorme stipendio di 35.000 fiorini: in effetti, un esercito privato finanziato con fondi pubblici. Conduceva oramai una propria politica estera, non legata a interessi fiorentini e neanche conforme a quella dello zio, Leone X; nella guerra in cui i francesi sconfissero gli svizzeri e riconquistarono Milano (1515) si mantenne a distanza dalla lega antifrancese, alla quale aveva aderito il papa. Successivamente stabilì un’alleanza con il re di Francia, Francesco I, sposandone la cugina Madeleine de la Tour d’Auvergne (1518). Correvano voci che in quello stesso anno Lorenzo tentasse, senza successo, di convincere Leone X a concedergli il permesso di farsi principe di Firenze.
Morto improvvisamente Lorenzo nel 1519, Leone X affidò il regime al cugino, cardinale Giulio, il quale si mostrò all’inizio disposto a considerare riforme costituzionali più rispettose delle tradizioni politiche della Repubblica e certamente meno drastiche di quelle concepite da Lorenzo. Giulio non acconsentì però che si diminuisse il controllo esercitato dai medicei e, dopo qualche mese, lasciò il regime nelle mani del cardinale Silvio Passerini e di segretari e funzionari di fiducia provenienti dai territori soggetti. Nel 1522 si scoprì una congiura per uccidere Giulio, alla quale presero parte Francesco Soderini e alcuni amici di M. dai tempi degli Orti Oricellari (ma non M. stesso). La severa repressione che seguì (due congiurati giustiziati, altri banditi e il cardinale Soderini imprigionato a Roma) mise fine alle discussioni intorno a eventuali riforme della costituzione. Nel 1523 Giulio diventò papa (→ Clemente VII) e F. finì sotto il pieno controllo dei Medici, sostenuti dalle risorse finanziarie gestite da Filippo Strozzi.
A far cadere il regime nel 1527 fu la catastrofica politica estera di Clemente VII, le cui continue inversioni di rotta tra Francia, da una parte, e Spagna e impero, dall’altra, spinsero infine l’imperatore Carlo V (→) a castigarlo, mandando in Italia un esercito indisciplinato ed esaltato che minacciò, ma non attaccò, F. e proseguì alla volta di Roma. Nel momento di maggior pericolo, il 26 aprile, alcuni ottimati, con in testa Piero Salviati e Niccolò Capponi, presero le armi, occuparono il palazzo e chiesero l’espulsione dei Medici. Questo ‘tumulto del venerdì’ fu acquietato, ma quindici giorni dopo, l’11 maggio, quando arrivò la notizia del terribile sacco di Roma, i fiorentini si ribellarono all’odiato Clemente, soppressero il regime, restaurarono il Consiglio maggiore e l’Ordinanza. In questi primi giorni inebrianti di libertà riconquistata, il 21 giugno si spegneva M., che così non vide la svolta popolare del nuovo governo, l’assedio, la tragica fine della rinata Repubblica, e la decisione collettiva da parte degli ottimati di accettare una volta per tutte il predominio mediceo, spianando così la via al principato.
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