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Fisica

Dizionario di filosofia (2009)
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Fisica


(Φυσιϰὴ ἀϰρόατις) Opera di Aristotele. L’indagine è avviata stabilendo quali siano i principi nell’ambito della fisica (I, 1), che Aristotele identifica nei «contrari», tra i quali si compie il mutamento, e nel «sostrato» (ὑποκείμενον) che sottostà e permane in tale mutamento (I, 7). La «natura stessa» mostra che in essa si danno processi di «generazione» e «corruzione», ossia di mutamento (I, 8), e i principi della generazione sono: il «sostrato» o «materia» (ὔλη), ciò che muta, ossia che passa da uno stato a un altro; la «forma» (εἶδος o μορφή), l’aspetto o la struttura assunta dal sostrato al termine del mutamento; la «privazione» (στέρησις), la mancanza di una determinata forma, ossia la condizione in cui si trova il sostrato prima di assumerla. La materia, diversamente dalla privazione, che è non-ente «di per sé stessa», è non-ente «per accidente», e in tal senso Aristotele la definisce come «quasi sostanza» (I, 9). La natura (φύσις) è costituita dall’insieme degli enti ‘naturali’ aventi in sé «il principio del moto e della quiete» (II, 1), ossia capaci di muoversi e di arrestarsi per virtù propria. Tali sono i corpi formati dai quattro elementi (terra, acqua, aria e fuoco), le piante e gli animali. Caratteristica generale della natura è il movimento (κίνησις), o meglio il mutamento (μεταβολή) in tutte le sue forme, e tale mutamento appartiene agli enti naturali di per sé stessi (è, per così dire, loro intrinseco). La conoscenza fisica ha come compito la ricerca delle «cause» degli enti naturali. Queste sono di quattro tipi: la causa materiale, o materia di cui una cosa è composta, che coincide con il sostrato del mutamento; la causa formale, o forma, che è la struttura di una cosa, l’ordine in cui sono disposti i suoi costituenti; la causa motrice o efficiente, che è l’agente del mutamento, ciò che lo produce; la causa finale, o fine, che è ciò cui il mutamento approda e che spesso coincide con la sua forma (II, 3). Si tratta di quattro aspetti della realtà naturale, mediante i quali essa può essere spiegata in modo completo. Al concetto di causa finale sono connessi i concetti di «caso» (αὐτόματος), la deviazione di un processo dal suo fine naturale, dovuta all’intervento di un accidente (un aspetto concomitante, ma non essenziale, di una delle sue cause), e quello di «fortuna» (τύχη), che attiene al solo campo delle azioni umane (II, 4-6). Ne derivano il rifiuto del determinismo e del meccanicismo e il riconoscimento del finalismo cui sottostanno tutti i processi naturali; allorché il fine non è raggiunto, per un errore della causa finale, si ha la produzione dei «mostri» (II, 8). Al concetto di finalismo è associato quello di «necessità ipotetica», ossia la necessità di certi antecedenti in vista dell’effetto che ne consegue, che è anche il loro fine naturale, per es. la necessità di determinate ‘condizioni’ (nutrimento, clima, farmaci) in vista della salute, o di determinati ‘eventi’ (fecondazione, gestazione, sviluppo) in vista della riproduzione (II, 9). Nel lib. III, Aristotele definisce il movimento (inteso come «qualsiasi forma di mutamento»), quale «atto di ciò che è in potenza in quanto è in potenza» (III,1 ), e definisce la potenza (δύναμις) come la possibilità reale e determinata di assumere una forma diversa da quella che già si possiede. Ciò avviene mediante l’atto (ἐνέργεια), ossia la manifestazione reale, concreta, di tale capacità. Solamente ciò che è in potenza può mutare, ma ciò che si attua nel mutamento è l’aspetto rispetto al quale ciò che muta è in potenza. Il movimento è dunque ‘passaggio’ da uno stato a un altro. La fisica, essendo studio delle grandezze, del movimento e del tempo, deve porsi la questione dell’«infinito» (ἄπειρον). Questo non è un corpo esistente in atto, né un principio della realtà, ugualmente in atto, ma un ‘processo’, ossia una realtà sempre in potenza. L’infinito, infatti, è incompiuto, al modo del processo di divisione di cui è suscettibile una grandezza (per es., una linea) o del processo di addizione di cui è suscettibile la serie dei numeri (III, 4-8). Ne deriva che non sia possibile né che l’Universo sia infinito né che l’infinito sia uno dei principi da cui derivano le cose. Connessa alla concezione dell’infinito è inoltre quella del «luogo» (τόπος), la porzione di spazio contenuta entro un limite, definita come «il limite interno del corpo contenente» (IV, 4). La totalità dello spazio esistente ha come suo luogo l’Universo stesso, il cui limite è concepito come una sfera estrema, il primo cielo, comprendente in sé ogni altra cosa. Al di fuori di questo non ci può essere né luogo né spazio, quindi l’Universo stesso non è in un luogo. Poiché ciascun corpo tende a occupare il suo «luogo naturale», i corpi fatti di acqua e di terra (‘pesanti’) tendono naturalmente verso il basso, e quelli di aria e di fuoco (‘leggeri’) tendono naturalmente verso l’alto (dove il basso è costituito dal centro dell’universo, ossia dal centro della Terra, e l’alto dalla zona vicina alla sfera estrema, ossia dal cielo). Dal concetto di luogo deriva l’inesistenza del vuoto in natura; lo spostamento dei corpi avviene allo stesso modo in cui, per es., i corpi solidi si spostano all’interno dei liquidi (IV, 7). Connesso al concetto di movimento è il concetto di tempo; questo è un aspetto del movimento, precisamente è «il numero del movimento secondo il prima e il poi», ossia la sua misura di secondo una successione (IV, 11). Il tempo, da un lato è relativo al movimento, di cui è misura, e dall’altro è relativo all’anima, cioè al soggetto misurante, senza il quale non vi sarebbe alcuna misura (IV, 14). Nell’analisi del tempo, Aristotele introduce il concetto di «istante» o «adesso» (νῦν), limite tra passato e presente, che consente di percepire il passaggio dal prima al poi, pur non trovandosi in nessun tempo e non essendo esso stesso tempo (IV, 12). Nel lib. V Aristotele è esposta la teoria del mutamento in relazione a quattro diverse categorie dell’essere: il luogo, in cui esso è ‘movimento locale’ (o traslazione) rettilineo o circolare; la qualità, in cui è ‘alterazione’; la quantità, in cui è ‘aumento o diminuzione’; la sostanza, in cui è ‘generazione e corruzione’. Le prime tre forme di mutamento presuppongono un sostrato permanente e avvengono sempre tra contrari, ossia fra termini opposti all’interno dello stesso genere (luoghi, qualità o quantità); la generazione e la corruzione si verificano invece fra contraddittori, ossia fra termini di cui l’uno è la negazione dell’altro (V, 1-2). I movimenti possono essere continui oppure consecutivi, il tempo è invece sempre continuo, come è anche l’estensione geometrica (lo spazio) a differenza della serie numerica, che è invece discreta (V, 3). Negli ultimi libri Aristotele sostiene la dottrina dell’eternità del movimento e della sua dipendenza da una causa diversa da ciò che è mosso: il motore immobile. L’eternità del movimento risulta, da un lato, dal fatto che il suo eventuale inizio o la sua cessazione sarebbero a loro volta movimenti e, dall’altro lato, dall’eternità del tempo, da cui il movimento è misurato. Anche un eventuale inizio del tempo presupporrebbe, infatti, un ‘prima’ o un ‘dopo’ che sarebbero, a loro volta, tempo (VIII, 1-3). Aristotele identifica il movimento eterno con la rotazione del cielo su sé stesso (VIII, 6-9) e, in base al principio che «tutto ciò che si muove è mosso da altro», sostiene che sarebbe contraddittorio ritenere qualcosa nello stesso tempo movente e mosso, ossia in atto e in potenza rispetto allo stesso movimento (VIII, 4). Poiché, per spiegare il movimento, non si può procedere all’infinito nella catena dei motori mossi, è necessario che vi sia un «primo motore immobile» del cielo, privo di grandezza e dotato di potenza infinita (VIII, 10).

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