Fisiognomia
Fisiognomia o fisiognomonia (dal greco ϕυσιογνωμονία, tardo ϕυσιογνωμία, composto di ϕύσις, "natura", e tema di γιγνώσκω, "conoscere") è il nome della disciplina parascientifica che, studiando la correlazione tra il carattere e l'aspetto fisico della persona, si proponeva di dedurre le caratteristiche psicologiche degli individui dal loro aspetto corporeo, in particolare dai lineamenti e dalle espressioni del viso. La fisiognomia era basata su un processo di simbolizzazione rigorosamente codificato che è restato invariato per secoli.
La fisiognomia, fin dai tempi remoti, si è proposta come 'riconoscimento e interpretazione della natura'. Aristotele ricorreva al termine ϕυσιογνωμονεῖν per definire l'attività di "giudicare la natura di un oggetto sulla base della sua struttura corporea" (Analytici primi, 2, 27, 70b). Per quanto la tradizione consideri Pitagora l'iniziatore di questa scienza, Galeno vede nel 'divino' Ippocrate il suo vero fondatore. Apparsa, dunque, in ambiente medico intorno al 5° secolo a.C., la fisiognomia si presenta, al suo esordio, come una pratica indiziaria, scrupolosamente attenta all'osservazione concreta dei dati. All'origine, quello che caratterizzava la natura dei suoi segni era il rapporto dello 'stare per', che si reggeva su un meccanismo inferenziale del tipo: se /pallore/ allora 'paura'; ma anche, a seconda del contesto: 'indole pavida' oppure 'mancanza di salute'. Tuttavia, accanto all'esigenza di dare una forma ordinata alle congetture di sintomi e di indizi colti attraverso l'osservazione concreta dei volti reali, ben presto si venne ad affermare un sistema di correlazione segnica fondato non più sull'inferenza, ma su precise regole di equivalenza del tipo: /naso adunco/ = 'rapacità'; /labbra carnose/ = 'sensualità'. Del resto, come fa notare G. Della Porta, il grande studioso di fisiognomia del Cinquecento, autore del De humana physiognomonia (1586), γνώμη può significare non solo conoscenza, ma anche νόμος, regola, legge. In questo caso, la fisiognomia sarebbe 'regola di natura': "con certa regola, norma e ordine di natura si conosce da tal forma di corpo, tale passione dell'anima" (trad. it. Della fisionomia dell'huomo, 1610, 1, 30, 58). Ed è proprio in questa seconda accezione che la fisiognomia, allontanandosi sempre più dall'osservazione diretta delle fisionomie vere, si è imposta alla tradizione: ha fondato il proprio paradigma scientifico su un rapporto di necessità tra corpo e anima, su un'illusoria corrispondenza tra una dimensione interiore e una esteriore. Aristotele, il primo fisionomo sistematico della storia, sosteneva infatti che un'anima non entra in qualunque corpo: "ogni corpo ha una sua propria forma e figura" (De anima, 1, 3, 407b, 15). Da un lato dunque troviamo l'incertezza di congetture fondate sull'esperienza di tutti i giorni, non formalizzata dallo strumento potente e terribile dell'astrazione, e dall'altro invece la tendenza a fissare l'apparire eternamente variabile del volto in un sistema rigidamente codificato, sistema, questo che rimbalza, con rigorosa monotonia, di trattato in trattato, da un secolo all'altro, restando sempre pressoché immutato nel tempo.
Proponendosi come scienza, la fisiognomia ha adottato, come metodo, un procedimento di ordine analitico-deduttivo che mira anzitutto a congelare il divenire di una fisionomia in alcuni stati immutabili. Si tratta di un processo di simbolizzazione che non riguarda più il volto reale, ma la 'misura' che fissa le cose, che sviluppa un'immagine formale per bloccarla in un'assoluta immobilità, all'interno della quale interpreta proporzioni, delimita contorni, stabilisce i tratti essenziali. Della Porta afferma infatti che è possibile congetturare il vero carattere di qualcuno soltanto quando il volto "è raffreddato dai movimenti e passioni dell'animo" (Della fisionomia dell'huomo, 1610, 1, 30, 105). Le passioni, per loro natura legate all'ordine temporale e al movimento, furono infatti bandite dall'indagine fisiognomica, per tornarvi, almeno per quanto riguarda le speculazioni intorno al volto, solamente nel 17° secolo. Fissata dunque la forma del viso in un neutro passionale, fuori dalla dimensione del tempo e del divenire, la fisiognomia procede con la ripartizione della sua superficie in aree. Si tratta di un ossessivo lavoro di divisione, suddivisione, classificazione, che scompone, pezzo dopo pezzo, ogni frammento del volto e gli assegna un significato: ogni tratto, ogni linea, ogni modificazione veicola un'indicazione del carattere.
Secondo Della Porta, i segni del viso più rivelatori sono quelli intorno agli occhi e alla fronte. Egli ritiene inoltre che 'tutto l'uomo sta nella faccia', perché essa è la 'regia della ragione', poi viene il petto che è il 'seggio del cuore', quindi le gambe e i piedi, e, infine, il ventre. Ma già Aristotele, in De partibus animalium, aveva detto che le parti del corpo seguono l'ordine della natura in modo tale che la parte superiore è orientata verso la parte superiore dell'universo (2, 10, 656a, 10). Ne consegue una gerarchia di categorie topologiche, per la quale ciò che è migliore e più nobile, riguardo all'alto e al basso, tende a trovarsi in alto; riguardo al davanti e al dietro, davanti; riguardo alla destra e alla sinistra, a destra (3, 3-4, 665a, 20-21). Su questa topologia, articolata in un vero e proprio sistema di valori, Aristotele fondava la sua fisiologia. Anche la posizione del cuore, egli diceva, rispetta questo principio: è al centro, più verso l'alto che verso il basso e più in avanti che indietro; la natura infatti colloca ciò che è più nobile nelle parti più nobili (665a, 15-20). Questa ripartizione si ritrova nella divisione del volto in aree: quelle superiori sono generalmente delegate a rivelare le inclinazioni più spirituali e quelle inferiori, invece, l'istintualità che più avvicina l'uomo all'animale.
Si tratta di una topologia simbolica che attraversa tutta la fisiognomia antica e rinascimentale per arrivare, in pieno positivismo, alla frenologia. Nell'Ottocento, infatti, la localizzazione cerebrale delle funzioni psichiche postulata da F.J. Gall si fonda su una topologia delle funzioni del cervello. La superficie ossea del cranio non sarebbe altro che l'impronta fedele delle funzioni del cervello; da qui la necessità di esaminare la calotta alla ricerca di affossamenti o protuberanze, ovvero delle cosiddette bozze craniche. Per chiarire la geografia cerebrale, Gall divideva la testa in distretti e a ciascuna zona assegnava una facoltà. Questa sorta di topografia si articolava in tre grandi aree, secondo l'antico schema simmetrico che opponeva l'alto al basso, l'anteriore al posteriore. Così, la parte alta e anteriore era costituita, per Gall, dalla superficie abitata dall'intelligenza e dai suoi talenti; quella alta e posteriore, da facoltà cognitive più pratiche, come il senso delle relazioni spaziali o dei colori; al centro le passioni; nella parte inferiore e posteriore gli istinti più ancestrali. Per quanto riguarda la spartizione del volto in aree, in tutta la tradizione fisiognomica essa si presta a un'ulteriore scomposizione di ciascuna parte presa singolarmente. E così, il naso può distinguersi in radice, spina e punta e, per l'articolazione dei tratti (lungo/corto, convesso/dritto, asciutto/carnoso), possono identificarsi fino a 81 tipi corrispondenti ad altrettante inclinazioni morali.
Con lo stesso metodo si possono reperire fino a 58 tipi di fronti, 43 di occhi, 50 di menti e 18 di bocche. La maggiore sinuosità o durezza di una linea, che caratterizza un elemento del volto o la sua forma intera, si carica di senso: è indice di una inclinazione morale. Il simbolismo delle linee conserva la sua forza visionaria fin nel cuore del 20° secolo, come dimostrano le teorie di L.F. Clauss, espresse in Rasse und Seele (1926), nel quale gli uomini sono divisi in sferici, parabolici, piramidali e poligonali. Sferici sono gli italiani e i polacchi dal naso camuso, occhi rotondi, gambe corte, movimenti rapidi e fluidi, mentre parabolici sono i tedeschi e gli scandinavi dal cranio, faccia e collo allungati, dall'incedere lento e imponente. Piramidali sono i 'teatralissimi' ebrei e poligonali i 'rozzi' negri. In queste teorie del razzismo si delinea una sorta di simbolismo che riguarda non solo le linee, ma soprattutto i colori. E così, come lo schema dell'alto si oppone, nei suoi sviluppi simbolici, a quello del basso, analogamente le categorie cromatiche chiare si oppongono a quelle scure e i simboli della luce a quelli delle tenebre, essendo queste assimilate al caos, alla morte, al regno sotterraneo del silenzio. Ne consegue che, per la fisiognomia, i colori chiari e trasparenti della pelle, degli occhi o dei capelli sono in genere utilizzati come figure cromatiche del vero, a differenza di quelli scuri o incerti, segno della menzogna o delle oscure insondabilità di un'anima.
L'analisi e il 'riconoscimento' del volto attraverso schemi simbolici non riguarda soltanto un sistema di posizioni, linee e colori, ma rimanda soprattutto ad altre forme, più semplici e immediatamente comprensibili, come quelle animali. Il mondo umano, infatti, a differenza di quello animale, è troppo vario e complesso per essere facilmente decifrato. Per ovviare a questo inconveniente, quasi tutta la trattatistica fisiognomica rinvia all'osservazione delle bestie. La loro forma più elementare è vista come mediazione necessaria tra la visione della conformazione corporea dell'uomo e la conoscenza della sua indole più segreta. Gli animali sono dunque l'immagine semplice, emblematica che spiega quella complessa. Così, da sempre, essi hanno funzionato come specchio rovesciato, attraverso il quale l'uomo ha tentato di riconoscere le proprie passioni, vizi e virtù. Nelle possibili somiglianze tra uomini e animali, Aristotele indica la chiave per individuare le qualità essenziali di entrambi. Di qui il famoso sillogismo fisiognomico che ebbe ripercussioni importantissime, soprattutto nel Cinquecento, proprio come gesto fondante della fisiognomia in quanto scienza. Negli Analytici primi (2, 27, 70b, 6-39) Aristotele sostiene che riuscendo a stabilire, per ogni genere animale, l'affezione che gli è propria (πάθος) e il suo specifico segno (σημεῖον), allora è possibile giudicare la natura di un individuo sulla base della sua struttura corporea. Se dunque a una specie appartiene in modo proprio un'affezione, come nel caso dei leoni cui appartiene il coraggio, sarà necessario che, data la reciproca solidarietà tra anima e corpo, di questa affezione esista un segno particolare. Nel caso dei leoni, esso è rappresentato dalle grandi estremità. Questo stesso segno, quando risulti presente in altri animali, è indice di coraggio. Tuttavia, una specie animale, sempre secondo Aristotele, può possedere più di un'affezione, come il leone che ha coraggio e generosità. L'unico modo per sapere quale sia il segno corporeo specifico dell'una o dell'altra è ricorrere all'uomo.
Dal momento che il mondo umano, nel regno animale, non soltanto è quello più vario nella sua forma corporea, ma anche l'unico che all'interno della sua classe possieda tutti i vizi e tutte le virtù, esso deve essere preso come dispositivo di verifica e di controllo. Ed è così che l'uomo si configura, a suo turno, come punto di riferimento che dà origine a un altro processo semeiotico, questa volta di ritorno verso l'animale. Il parallelismo tra gli uomini e gli animali è sviluppato in modo sistematico nel trattato De physiognomonia che la tradizione attribuisce ad Aristotele. Qui l'intero regno animale è diviso in due: il maschio, simboleggiato dal leone, e la femmina, simboleggiata dalla pantera. Si tratta di un metodo comparativo che prolifera per tutto il mondo classico, torna nei bestiari medievali, ha la sua apoteosi nel Cinquecento. In De humana physiognomonia, Della Porta riprende infatti il sillogismo fisiognomico di Aristotele e lo estende a tutto il mondo animale, facendone il perno su cui articola la sua celeberrima galleria di maschere caratteriali: l'uomo-becco, l'uomo-leone, l'uomo-uccello, l'uomo-scimmia. Si prenda, per es., il caso dell'uomo-uccello. Gli uccelli sono mobili, vani e loquaci, nonché dotati di piccolo capo. E allo stesso modo gli uomini che hanno la testa piccola, saranno mobili, vani e loquaci come gli uccelli. Lo struzzo ha un capo piccolissimo e la sua stoltezza è proverbiale. Non è infatti lo struzzo che nasconde la testa nei cespugli illudendosi di scampare in questo modo ai suoi inseguitori? Così, dice Della Porta, attestano la Bibbia, Aristofane e altre numerose fonti. Ma la stoltezza è motivata soprattutto da cause di tipo organico. Viene riportato infatti quanto sostiene Galeno riguardo allo spazio angusto del capo che non permetterebbe al cervello di funzionare agevolmente. Della Porta, a questo proposito, cita Aristotele, il quale afferma che la testa e il cuore sono situati in punti opposti affinché, con la freddezza del cervello si tempri il calore del cuore. Gli uomini dalla testa piccola sarebbero impetuosi e violenti perché l'eccessivo calore del cuore non viene temprato dal cervello.
Il carattere di un animale, come quello dell'uomo, per gli antichi aveva una motivazione organicamente fondata, il cui supporto si trova nell'antica teoria degli umori che, dai fisiologi del 5° secolo a.C. fino alla teoria dei temperamenti di Galeno, arriva ad articolare il sistema stesso delle passioni fino a Cartesio. Per Ippocrate, la gioia era facilitata dal sangue puro e sincero, e la paura, secondo Aristotele, era provocata da un improvviso raffreddamento del sangue; la collera, invece, era tipica di animali come tori e cinghiali, le cui fibre terrose erano facili a surriscaldarsi. Il Cinquecento raccoglie la tradizione classica e vi aderisce con entusiasmo: "ben scrisse Ippocrate ‒ dice Della Porta ‒ perché questi sian lieti e questi melanconici, essere negli elementi, perché coloro che sono di sangue puro sono sempre allegri [...] mentre il cervo e la lepre sono paurosi perché hanno il sangue freddo" (Della fisionomia dell'huomo, 1610, 2, 78). Il carattere è motivato dunque dalla composizione fisiologica del corpo. La teoria degli umori e degli elementi torna spesso nelle opere ermetiche del Rinascimento, soprattutto nei Magiae naturalis libri XX (1558) di Della Porta, dove la fisiognomia appare chiaramente inserita in una costellazione che accomuna alchimia, magia e astrologia all'interno di una visione unitaria del cosmo.
Le sostanze naturali, secondo Della Porta, sono composte dai 'primi sensi della natura': dal fuoco, dall'aria, dall'acqua e dalla terra. Gli elementi agiscono gli uni sugli altri per attrazione e repulsione in una sorta di circolarità, all'interno della quale ciascuno di essi rinuncia alla sua natura per trasformarsi, nel corso del ciclo, nell'altro. In questa incessante trasmutazione di ispirazione alchemica, ogni elemento è sé stesso e altro da sé. Fa parte di questa visione cosmologica anche il rapporto tra materia e forma. Sebbene la materia non sia inerte, tuttavia, sostiene Della Porta, la forma è prioritaria a causa del luogo in cui essa ha origine. La forma deriva da Dio. Attraverso un processo emanatistico d'ispirazione neoplatonica, Dio, detto appunto 'Datore delle forme', partecipa queste alle intelligenze e alle stelle, legando fra loro gli ordini in modo che le cose inferiori siano soggette a quelle superiori. Come materia e forma sono legate fra loro, così lo sono spirito e corpo. L'ordine cosmico e quello umano non sono contrapposti ma uniti: il destino dell'uomo si prolunga nella vicenda naturale e questa si arricchisce di profonde vibrazioni spirituali. Il volto dunque diventa decifrabile in quanto specchio del cosmo e, a sua volta, l'intero mondo appare comprensibile in quanto, nelle sue forme, nei suoi colori e nei suoi elementi, si disegna come teatro di passioni e di inclinazioni tutte umane. La simpatia e antipatia fra tutte le cose dell'universo è tipica della spiritualità rinascimentale, da G. Bruno a R. Fludd: non esiste scissione od opposizio- ne tra Dio e mondo, spirito e materia, corpo e anima, ma un'unica forza agisce attraverso continuità di parentele. Sympathia, se si considera l'origine etimologica del termine (σύν, "con", e πάθος, "affezione, sentimento") significa provare gli stessi sentimenti. La simpatia cosmica sembra riposare su un rapporto di affinità che riguarda sia una similitudine di forme corporee, sia una conformità di sentimenti.
E così, in virtù di una certa similarità di forme si apre nel creato un immenso scenario di relazioni passionali, di amicizie e inimicizie, violente fobie e fatali attrazioni, sordidi complotti e tenere alleanze tra animali e uomini, animali e animali, animali e piante, piante e pietre, pietre e astri e, infine, tra astri e uomini. In base a una sia pur minima somiglianza di forme, tutte le cose si ritrovano in tutte le cose, le nature celesti nelle cose terrene e quelle terrene nelle celesti. Si tratta di una visione organicistica che instaura un sistema di equivalenze tra macrocosmo e microcosmo dove il mago, come il fisionomo, è colui che è capace di cogliere gli occulti legami di cui è intessuta l'infinita rete di relazioni sulla quale poggia l'unità del cosmo. In un'altra opera, Caelestis physiognomonia (1603), Della Porta esamina gli influssi che corpi, moti e congiungimenti astrali esercitano sugli aspetti, sull'indole e, perfino, sul destino degli uomini. Ancora nel Cinquecento, notevole importanza per la storia della fisiognomia ebbe il volume del medico, filosofo e matematico milanese G. Cardano, Metoposcopia (1558), in cui si analizzavano le varie parti del corpo, ponendo ciascuna di esse in relazione a un segno zodiacale. L'universo, per Carda- no, è organizzato secondo un ordine gerarchico che prevede tre piani di valori decrescenti, quello intellettuale o divino, quello celeste o astrale, quello terrestre o elementare, in mutua dipendenza e costante interazione.
L'ordine universale si specchia nel microcosmo umano, in particolare sulla fronte, attraverso un sistema di corrispondenze e influenze fra i tre piani cosmici. Ogni parte della fronte ha il suo ascendente astrale. Ancora in pieno Seicento, J. Belot (Instructions familières pour apprendre les sciences de chiromancie et physiognomonie, 1688), maestro di scienze divine e celesti, sostiene che, oltre alla fronte, che corrisponde a Marte, ogni parte del volto mostra affinità planetarie e zodiacali: l'occhio destro con il Sole, l'occhio sinistro con Venere, l'orecchio destro con Giove, il sinistro con Saturno, il naso con la Luna, la bocca con Mercurio e così via. Nel 17° secolo vengono pubblicati numerosi trattati tra fisiognomia e divinazione, metoposcopica e chiromantica. Tra queste, si impone l'opera mastodontica di C. de la Chambre, la quale, quando uscì, era già ampiamente superata dal trattato delle passioni di Cartesio. Tuttavia, questa fantasmagoria scolastico-occultista non svanì con il vento della rivoluzione cartesiana; rimase in sordina, operosa e copiosissima, talvolta riemergendo allo scoperto, come nell'Essai sur la physiognomonie des corps vivants, considérée depuis l'homme jusqu'à la plante (1797), opera del chirurgo J.J. Sue, nella quale vengono analizzate le analogie fisiognomiche fra gli esseri del creato fino a scoprire nell'insetto coleottero, noto come cervo volante, 'qualche cosa di duro e di feroce', oppure nei vermi intestinali 'una fisionomia decisa'; l'investigazione fisiognomica viene, addirittura, estesa ai vegetali, rilevando, per es., una chiara 'espressione di bontà' negli alberi da frutta.
Per secoli l'identificazione del volto si è dunque appoggiata sul rilevamento di forme e di colori appartenenti ad altri mondi: a mondi animali, vegetali, minerali e anche agli universi siderali. Pur con metodi e concezioni diverse, antropologi e pittori, scrittori e visionari non hanno fatto che riprendere e sviluppare l'antica idea di una stretta contaminazione di forme, caratteri e passioni all'interno del cosmo intero. Ma soprattutto l'investigazione dell'anima è stata condotta attraverso quelle stigmate corporee che più sembravano ravvicinare l'uomo all'animale. E così, grazie a una sorta di fisiologia comparata di antica origine aristotelica, è accaduto che il principio di questa 'scienza', considerando insieme animalità e umanità, di fatto, poco a poco, abbia eluso le distanze tra l'una e l'altra. L'animalità progressivamente è venuta a inscriversi nel corpo umano. A livello cognitivo, è stata una sorta di dispositivo retorico che ha permesso di identificare la forma dell'uomo e attribuirle un significato morale: nel modo in cui una forma umana si avvicinava o allontanava, assomigliava o era dissimile a/da una forma animale, solo allora sembrava suscettibile di identificazione.
Esemplare, in questo senso, è la famosa Dissertation physique sur les différences réelles que présentent les traits du visage chez les hommes de différents pays et des différents âges (1791) del medico e fisiologo olandese P. Camper. Ricorrendo a un efficace dispositivo grafico, Camper disegna la linea di continuità che lega gli uomini alle altre creature, con l'intento di dimostrare come l'apertura dell'angolo facciale sia proporzionale all'intelligenza. L'angolo si restringerebbe gradualmente, secondo una linea di progressiva bestialità, dall'europeo all'africano per arrivare fino alla scimmia. Sebbene non si tratti di un'ipotesi nuova, tuttavia, grazie all'artificio grafico adottato, la continuità tra la forma della testa dell'africano e quella delle scimmie, una volta visualizzata, sembra mostrare con evidenza il presunto passaggio tra uomo e animale, passaggio che fino ad allora era stato solo ipotizzato e di cui il negro era fatalmente l'anello mancante. La paternità di questo dispositivo grafico fu energicamente contestata a Camper dal più famoso fisionomo di tutti i tempi, il pastore zurighese J.K. Lavater, il quale aveva elaborato 'linee di animalità' che, secondo una scala graduale, stabilivano una transizione evolutiva dalla rana alla scimmia fino ai primi segni di umanità nel samoiedo, per arrivare al genio trascendente di Kant e Newton.
Di Lavater, tra il 1775 e il 1778, escono a Lipsia, in quattro volumi in folio con un centinaio di incisioni, i Physiognomische Fragmente, zur Beförderung der Menschenkenntnis und Menschenliebe, dei quali famosissima fu l'edizione francese (1805-20), curata da J.-L. Moreau de La Sarthe. Si tratta di un'opera sterminata, pubblicata nel momento in cui la fisiognomia, in quanto paradigma scientifico, stava ormai definitivamente tramontando tra polemiche di naturalisti, antropologi e soprattutto filosofi. In quanto atto conclusivo di una lunga tradizione, tuttavia, l'opera di Lavater celebra questa tradizione in modo esemplare, riassumendone ogni sorta di suggestione, non solo scientifica, ma anche ermetica, popolare e, soprattutto, religiosa. I presupposti teorici di Lavater si identificano con la sua salda visione di credente, grazie alla quale ogni forma di azzardo nella natura è radicalmente esclusa. L'ordine si riproduce con infallibile rigore in ogni più piccola parte del cosmo; forma e materia, corpo e anima sono retti da reciproco determinismo. Tutto sottostà al principio di conformità; ogni cosa dipende da un'altra: basta un solo dettaglio del corpo per ricostruire un'intera fisionomia. Il rapporto di presupposizione reciproca tra anima e corpo comporta, tuttavia, per Lavater, una fondamentale questione di etica: l'uomo non è libero dalla sua conformazione fisica. La conformità alle leggi naturali è già tutta inscritta nelle forme del viso, in modo tale che è possibile sapere, in anticipo, come un uomo, avendo una certa fisionomia, pensi, agisca, soffra. Il determinismo presente nei tratti del viso, per Lavater, giustifica quindi l'ineguaglianza sociopolitica in quanto fatale conseguenza della diseguaglianza dei talenti.
Contro questi presupposti si scaglia, nel suo Über Physiognomik wider die Physiognomen (1778) e soprattutto nei suoi appunti manoscritti (Sudelbücher), G.C. Lichtenberg, primo cattedratico di fisica sperimentale, secondo il quale, se si dovesse seguire la fisiognomia di Lavater, si dovrebbero impiccare i bambini prima ancora che abbiano compiuto imprese degne della forca. Malgrado le polemiche tra Lavater e Lichtenberg che coinvolgono, per un intero secolo, il mondo culturale, il determinismo biologico ritorna con tutta la sua forza, non solamente visionaria ma, questa volta, anche istituzionale, nell'antropologia criminale della fine dell'Ottocento.
C. Lombroso è il punto di arrivo di una ricerca morfologica che, a partire dalla scala naturae proposta dallo schema grafico di Camper, passando attraverso la frenologia di Gall, finisce per collocare, accanto all'ottentotto, anche tutte le forme di devianza della razza caucasica. A differenza di Camper, l'attenzione di Lombroso si concentra non tanto sulle razze, bensì su categorie sociali rappresentate da delinquenti, pazzi, ladri, prostitute, uomini di genio e anche donne oneste e uomini normali. Nel 1876 esce il suo libro più famoso, L'uomo delinquente studiato in rapporto alla antropologia, alla medicina legale ed alle discipline carcerarie. Si può nascere criminale, donna di malaffare o ladro; questa, dice Lombroso, è una fatalità organica. Il delitto non è un episodio nella vita del criminale, al contrario, è strettamente legato alle leggi generali della sua natura. Il soggetto che delinque commette il crimine sotto la spinta di elementi che appartengono al proprio portato biologico. Il criminale nato, dunque, è così per natura. Tutto il suo essere corporeo lo riflette: il viso marcato da una serie di stigmate; il peso, il volume, la conformazione e le circonvoluzio- ni del cervello; la forma del cranio, specchio di numerose anomalie ereditate. La criminalità è inscritta fatalmente nel corpo e rivela la prossimità atavica dell'uomo all'animale.
Per l'antropologia criminale, dunque, il delinquente, come l'animale è 'naturalmente' cattivo. Per questo il criminale non va ritenuto tale per sua libera volontà; dovrà piuttosto essere considerato un disgraziato o un malato dalla cui pericolosità occorre preservarsi. Fornendo un simile substrato biologico alla morale, la teoria di Lombroso attirò non pochi attacchi soprattutto da parte del mondo cattolico, che si scagliò contro il suo 'materialismo' e contro la sua negazione del libero arbitrio come postulato universale, in nome del determinismo e delle predisposizioni ereditarie. Tuttavia, anche se oggi questa teoria suona bizzarra e razzista, quando apparve si costituì come un vero e proprio orientamento progressista nella criminologia del tempo, con conseguenze anche positive nel trattamento dei reclusi.
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