Fissione nucleare: applicazioni
A partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso si sono succedute tre diverse generazioni di reattori nucleari, impiegati fondamentalmente nella produzione di energia elettrica. Gli attuali impegni di ricerca e sviluppo consistono essenzialmente nel prolungamento di un esercizio sicuro del parco di impianti nucleari attivo e nell’ottenimento di una maggiore resa energetica del combustibile, aumentando in esso l’arricchimento degli elementi fissili uranio e plutonio. Vita più lunga degli impianti e maggiore energia estratta significa maggiori utili per le società elettriche proprietarie.
Un rinnovato interesse verso l’energia nucleare ha caratterizzato recentemente lo scenario energetico mondiale, sotto la spinta di un marcato rincaro di petrolio e gas naturale e di un sempre più temuto effetto serra prodotto dalla loro combustione, con conseguenti cambiamenti climatici. La progettazione dei reattori è legata alle caratteristiche del ‘nuovo fuoco’, scoperto nel 1942 da Enrico Fermi con la pila di Chicago, che si fonda sulle reazioni di fissione nucleare a catena. Estraendo le barre di controllo, la potenza di un reattore può moltiplicarsi smisuratamente in tempi brevissimi e anche quando esso viene spento non se ne azzera la potenza che, pur decrescendo costantemente, impiega anni a diventare trascurabile. Per questo la progettazione è incentrata su un’architettura, detta di difesa in profondità, basata su tre diversi livelli. Nelle analisi di sicurezza vengono impiegati metodi deterministici e probabilistici, considerando i principali incidenti possibili, i sistemi di sicurezza attivi, cioè energizzati, e passivi, che funzionano senza bisogno di alimentazione elettrica.
In tempi recenti si sono costruiti nel mondo alcuni tipi di reattori secondo le ultime innovazioni tecnologiche suggerite dagli studi sulla sicurezza, come l’EPR (European pressurized reactor), l’ABWR (Advanced boiling water reactor) e l’AP1000 (Advanced passive). Riguardo al progresso sulla progettazione si possono identificare due linee di sviluppo, quella denominata evolutiva e quella detta innovativa. Riguardo all’intero ciclo del combustibile nucleare – dalle miniere di uranio agli impianti di miniera per la lavorazione dei minerali e l’estrazione e purificazione dell’uranio, al suo arricchimento nell’isotopo fissile 235, agli impianti di fabbricazione degli elementi di combustibile, al loro irraggiamento in reattore, al passaggio del combustibile irraggiato negli impianti chimici di ritrattamento per l’estrazione di uranio e plutonio, e la separazione dei prodotti di fissione come rifiuti radioattivi da destinare ai depositi geologici – si individuano due tipologie di residui da trattare e condizionare. La prima interessa i rifiuti da destinare a depositi superficiali, mentre la seconda, venti volte inferiore, i rifiuti da seppellire in depositi geologici a grandi profondità, al riparo dal rischio di infiltrazioni d’acqua favorite dalle dinamiche erosive.
Attorno al 2030 è previsto l’avvento commerciale dei reattori di quarta generazione. Sono state selezionate sei tipologie di reattori su cui si concentreranno gli studi, di cui tre basate su reattori a spettro neutronico veloce e tre su reattori a spettro neutronico termico. Con i reattori veloci, in particolare, l’obiettivo è molto ambizioso e importante. Si tratta di estrarre dall’uranio non lo 0,8% dell’energia contenuta, come fanno oggi i migliori reattori termici con il ritrattamento del loro combustibile irraggiato, ma cento volte di più. Con tali reattori, l’energia elettronucleare durerebbe migliaia di anni e non poche centinaia, come accade nel caso delle risorse carbonifere. Inoltre, con i rettori veloci si possono irraggiare i rifiuti nucleari a lunghissima vita e ad alta radioattività, destinati ai depositi geologici; attraverso multipli ricicli negli impianti di ritrattamento, essi possono essere trasformati nuclearmente in radionuclidi a vita molto più breve. L’Italia si è impegnata a partecipare alla campagna internazionale di studi, ricerche e progetti su questi reattori di quarta generazione.
Nel 2004 gli impianti nucleari a fissione hanno fornito il 16% dell’elettricità prodotta, rispetto al 40% degli impianti alimentati a carbone, al 19% del gas, al 16% degli idroelettrici, al 7% dell’olio combustibile e al 2% di energie rinnovabili diverse dall’idroelettrico.
Nel mondo (gennaio 2007) sono in esercizio 435 reattori di potenza commerciali in 31 Paesi, con una potenza totale superiore a 360 GW, avendo realizzato un’esperienza di esercizio di più di 10.000 reattori-anno, di cui circa 3500 nell’Unione Europea. La loro composizione è la seguente: 212 PWR, 52 VVER di progetto russo, 93 BWR, 42 PHWR tipo canadese, 14 AGR tipo inglese, 2 MAGNOX (prima generazione, inglesi), 16 RBMK tipo russo, 2 FBR e 2 HTR (tab. 1). Inoltre 56 Stati ospitano 284 reattori di ricerca, utilizzati anche per la produzione di radionuclidi per scopi sanitari e industriali.
Un ulteriore gruppo di 220 reattori di potenza servono per la propulsione e l’alimentazione elettrica, a scopo militare, di portaerei, incrociatori e sottomarini. Sempre all’inizio del 2007 erano in costruzione 29 reattori dipotenza: 7 in India, 4 in Cina, 2 a Taiwan, 1 in Giappone, 1 in Corea del Sud, 1 in Pakistan, 1 in Iran, 5 in Russia, 2 in Ucraina, 2 in Bulgaria, 1 in Romania, 1 in Finlandia e 1 in Argentina. Inoltre, è stata decisa da vari governi la costruzione di altri 38 reattori, mentre di altri 26 è prossima l’ordinazione, essendo già stati determinati i siti delle centrali e i tipi di reattore.
L’ultima edizione (2006) del Red Book sull’uranio, che riporta i dati forniti da vari Paesi, indica che le riserve accertate a costi di estrazione dell’uranio inferiori a 130 $/kg ammontano a 4,7 milioni di tonnellate, con ulteriori risorse stimate di circa 15 Mt. Al tasso attuale di generazione elettronucleare (2648 TWh nel 2004), con un consumo di 67.000 t/a, le riserve accertate basterebbero per 70 anni.
Stime dell’International Atomic Energy Agency (IAEA) indicano scenari di forte crescita del nucleare dopo il 2020, con proiezioni, per il 2025, di una potenza installata compresa fra 449 e 533 GWe e di 1300 GWe nel 2050.
Negli ultimi decenni la produzione di energia da fonte nucleare ha continuato ad aumentare più rapidamente (25%) di quanto siano cresciuti il numero e la potenza complessiva degli impianti in esercizio. Ciò è dovuto all’aumento dell’efficienza complessiva degli impianti e al prolungamento della vita utile di molti degli impianti in esercizio che, progettati inizialmente per funzionare 30 anni, hanno successivamente esteso la vita operativa a 50-60 anni.
Tra il 1990 e il 2006 la potenza nucleare installata nel mondo è cresciuta di 44 GWe (+13,5%), mentre la produzione di energia elettrica dagli impianti in esercizio è aumentata di 757 miliardi di kWh (+40%). I contributi relativi a questa crescita sono venuti per il 36% da nuove costruzioni, per il 7% dall’aumento della potenza degli impianti esistenti e per il 57% dall’aumento dell’utilizzazione degli impianti.
Un indicatore dell’efficienza di funzionamento degli impianti nucleari è il cosiddetto fattore di carico, definito come rapporto fra l’energia elettrica prodotta in un anno e l’energia teoricamente producibile dal medesimo impianto nell’ipotesi di funzionamento continuo a piena potenza. Grazie ad accorgimenti di tipo impiantistico e gestionale (allungamento dei cicli di irraggiamento, diminuzione del numero di fermate per manutenzione programmata, diminuzione della durata delle fermate) il fattore di carico medio degli impianti nucleari è passato dal 53% (media mondiale) nel 1970 all’85% nel 2006. Circa un terzo dei reattori in funzione nel mondo presenta oggi fattori di carico superiori al 90%, mentre i restanti due terzi hanno comunque fattori di carico superiori al 75%. Particolarmente sensibile è stato il miglioramento negli ultimi anni della prestazione dei 104 reattori statunitensi, con un fattore di carico medio che è passato dal 65% nel 1990 al 91,5% nel 2006.
All’aumento della prestazione complessiva del parco nucleare installato nel mondo sta contribuendo sempre più l’allungamento della vita di esercizio degli impianti.
Delle tre componenti del costo del kWh nucleare (capitale investito, costi di esercizio e manutenzione, costo del combustibile) quella di gran lunga prevalente è il costo del capitale (70%), mentre il costo del combustibile (15%) è molto minore e paragonabile a quello di esercizio e manutenzione (15%). In pratica, trascorso il periodo di ammortamento dell’impianto (20-30 anni), il costo del kWh si dimezza. Vi è quindi un grande interesse a prolungare la vita operativa dei reattori ben oltre i trent’anni inizialmente previsti nei progetti. In genere ciò è possibile attraverso la sostituzione di alcuni componenti, l’ammodernamento della strumentazione e una verifica approfondita dello stato di conservazione dell’impianto.
Negli Stati Uniti l’autorità di controllo nucleare (NRC, Nuclear Regulatory Commission) ha finora concesso un prolungamento di 20 anni della licenza di esercizio a oltre metà dei 104 reattori in funzione e ha all’esame analoghe richieste per i restanti reattori.
Le generazioni di reattori a fissione che si sono succedute a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso sono indicate in fig. 2.
I reattori più evoluti, quali APWR (Advanced pressurizzed water reactor), ABWR ecc., sono indicati come Generazione III. Le attuali ricerche sulle centrali elettronucleari possono dividersi in due filoni, uno a breve e media scadenza, che i tecnici indicano come Generation III+, riferendosi alle filiere di reattori interessati, e l’altro come Generation IV, a lunga scadenza, vale a dire a partire dal 2030 per l’inizio commerciale. Nel primo filone si vuole valorizzare al massimo il prodotto dei reattori attuali, molti dei quali hanno già ultimato, o sono prossimi a farlo, il periodo, per lo più ventennale, di ammortamento dei capitali impegnati per costruirli.
Un altro obiettivo è quello di produrre più energia per unità di massa di combustibile, il che presenta due benefici: ricariche del combustibile più dilatate nel tempo (si è passati da un anno a un anno e mezzo e si conta di arrivare a due o più anni), con un aumento quindi del fattore di utilizzazione delle centrali e maggiore energia prodotta con un combustibile appena di poco più caro perché più arricchito in fissile (uranio 235 o plutonio).
Si sta affermando, inoltre, l’adozione del ciclo chiuso del combustibile, con ritrattamento chimico di quello esaurito e recupero dell’uranio fissile non fissionato (ca. l’1%) e del plutonio prodotto nell’irraggiamento (ca. l’1%, con il 3% di prodotti di fissione). Si sono così introdotti i combustibili a ossidi misti (MOX, Mixed oxides) che vengono utilizzati sempre più nei reattori con l’obiettivo di passare dal corrente terzo di nocciolo impegnato alla metà e poi al nocciolo intero, con una contemporanea crescita delle rese energetiche, passando dagli attuali 50 GWd/t a 60 GWd/t tra qualche anno, e a 70 GWd/t nell’arco di una decina di anni.
Nel contempo si fa ricerca per meglio risolvere, con il consenso dell’opinione pubblica, il problema dei rifiuti nucleari. Per i rifiuti occorre distinguere fra quelli a bassa e media radioattività, sostanzialmente i prodotti di fissione, e quelli ad alta radioattività e lunghissima durata (centinaia di migliaia di anni), plutonio e attinidi minori (americio, curio e nettunio) e pochi prodotti di fissione 99Tc, 129I, 135Cs. I primi, dopo poche centinaia di anni sono quasi del tutto decaduti e quindi non più pericolosi: per questo i loro depositi sono superficiali o subsuperficiali (a profondità di poche decine di metri) e si prevede di sorvegliarli per un periodo di trecento anni. I secondi, che hanno un volume totale venti volte minore, potrebbero essere inseriti, solo dopo qualche decennio di necessario raffreddamento in depositi temporanei superficiali, in un deposito geologico profondo localizzato in particolari formazioni (argille, sali, graniti) dove, per milioni di anni, l’acqua, l’unico agente che può portare i pericolosi radionuclidi verso la biosfera, non sia mai fluita. Sono già state trovate soluzioni soddisfacenti per immobilizzare gli attinidi in matrici di vetro al borosilicato che possono resistere all’eventuale azione di lisciviazione dell’acqua per 10.000 anni, e la ricerca si propone di risolvere alla base il problema con un ritrattamento del combustibile usato che separi gli attinidi minori (il plutonio viene riciclato nei reattori come combustibile) per poi trasformarli in radionuclidi a vita molto più corta mediante irraggiamento neutronico in reattori veloci o in reattori sotto-critici accoppiati ad acceleratori di protoni (ADS, Accelerator driven system). Quest’ultima operazione è chiamata trasmutazione per spallazione, ma richiederà ancora qualche decennio perché possa essere realizzata a livello industriale con costi convenienti.
A medio e lungo termine la ricerca e sviluppo per i reattori a fissione è impostata sulla loro sostenibilità, vale a dire sul passaggio da reattori a spettro neutronico termico, che estraggono dall’uranio meno dell’1% dell’energia in esso contenuta, a reattori a spettro neutronico veloce che, convertendo il fertile in fissile e con più ricicli per ritrattamento, possono moltiplicare l’energia estratta da 70 a 100 volte, consentendo una disponibilità dell’energia elettronucleare per migliaia di anni a venire sulla base di conoscenze scientifiche e tecniche già acquisite. È questa la motivazione base per passare alla commercializzazione dei reattori della quarta generazione con tre esemplari di reattori veloci (a sodio, SFR, a gas, GFR, e a piombo, LFR).
Occorre per questo abbassare i costi dell’elettricità prodotta dai reattori veloci che, a tutt’oggi, sono maggiori di quelli dei reattori termici. Bisogna intervenire sul progetto dei reattori riducendo il costo d’impianto soprattutto con interventi sul circuito intermedio e aumentando nel contempo il grado di sicurezza. Come refrigerante primario si punta preferenzialmente sul sodio, su cui Americani, Francesi, Russi e Inglesi hanno maturato molta esperienza, ma si considerano anche refrigeranti alternativi quali l’elio e il piombo. Il primo perché potrebbe consentire di raggiungere temperature più alte del sodio, fino a valori che permetterebbero la produzione d’idrogeno per dissociazione termochimica dell’acqua, e il secondo perché non reagisce violentemente con l’acqua, come il sodio, nei generatori di vapore. Si prevede che reattori veloci commerciali saranno disponibili a partire dal 2030. Nel frattempo i reattori della Generazione III saranno gradualmente sostituiti dagli esemplari esaminati più avanti (EPR, AP1000, ABWR, con una vita di esercizio di sessant’anni).
Contemporaneamente si sviluppa anche la ricerca sugli impianti di ritrattamento del combustibile, per arrivare a nuovi processi che consentano di separare, con ricicli multipli, uranio, plutonio e attinidi minori in modo da poter fabbricare nuovi combustibili per i reattori veloci che possano fissionare anche gli attinidi minori, riducendone la durata di vita e comunque minimizzandone la quantità da destinare a depositi geologici. Esperienze su piccoli quantitativi di combustibile sono già state effettuate con successo e ora si tratta di realizzare impianti commerciali che si prevede potranno essere in linea dopo il 2030, con l’esercizio commerciale dei reattori veloci. Con tali disponibilità sarebbe drasticamente ridotta nel tempo la radiotossicità dei rifiuti nucleari (fig. 3).
L’esperienza di esercizio di oltre 400 reattori di potenza è stata la migliore spinta per l’evoluzione dei progetti dei nuovi reattori.
Due linee di tendenza si sono manifestate fra i progettisti e hanno portato a due distinte tipologie di progetti. La prima è stata denominata linea evolutiva, moderatamente innovativa, concepita per poter sfruttare appieno l’esperienza di esercizio dei reattori della seconda generazione senza compiere salti tecnologici non sufficientemente consolidati. Questa linea ha visto in America lo sviluppo degli APWR da parte della Westinghouse, degli ABWR da parte della General Electric, società che hanno operato in collaborazione con industrie giapponesi e, in Europa, dell’EPR (1600 MWe), da parte delle società Framatome per la Francia e Siemens per la Germania, opportunamente consorziate. Un reattore cheappartiene a questa linea, ma ancor più innovativo, è l’AP1000 della Westinghouse, da 1000 MWe, in cui è stata aumentata la presenza di sistemi di sicurezza passivi, che non necessitano cioè di alimentazione di energia. Le ricerche per aumentare il livello di sicurezza sono state la principale fonte d’informazione e guida per questi progetti evolutivi.
Per meglio comprendere la logica del progetto di sicurezza dei reattori e la sua evoluzione, si può dire che essa è basata su un’architettura detta di difesa in profondità, contro il rilascio nell’ambiente dei nuclidi radioattivi con potenziale radiotossico, strutturata su tre livelli.
Il primo, di natura preventiva, è basato su un progetto e una costruzione eseguiti secondo i crismi della garanzia di qualità. Il secondo, di natura protettiva, prevede sensori e macchine che intervengono in caso di anomalie e guasti per impedire il propagarsi di catene incidentali. Il terzo, di natura mitigativa, impiega strutture e dispositivi atti a frenare e contenere gli effetti dannosi degli incidenti che dovessero innescarsi nonostante i primi due livelli di difesa (a Chernobyl i primi due livelli erano largamente insufficienti, con un progetto neutronico errato, e il terzo livello, con il contenitore rinforzato, del tutto assente).
Il livello di natura protettiva è articolato in numerosi sistemi di sicurezza, schematizzabili in sistemi attivi e passivi. I primi, per funzionare, hanno bisogno di sensori elettrici o elettronici e di attuatori (motori, macchine, organi) alimentati da energia. I secondi, invece, intervengono per ineludibili leggi di natura, indipendentemente dalla fornitura di energia o dall’intervento degli operatori. La percentuale dei sistemi attivi, nei primi reattori, era di gran lunga maggiore di quella dei sistemi passivi. La tendenza moderna di progetto è quella di aumentare la percentuale dei sistemi di sicurezza passivi (alcuni recenti progetti vengono denominati pertanto advanced passive, come l’AP1000).
Il livello di difesa di natura mitigativa è costituito dall’edificio esterno di contenimento con tutti i portellie passaggi di tubazioni e cavi dotati di doppi sistemi di chiusura a comando per far sì che la radioattività, se dovesse liberarsi all’interno per una doppia falla dei due livelli di difesa, sia confinata all’interno dell’impianto e non si diffonda all’esterno minacciando la biosfera.
La seconda linea di tendenza dei nuovi progetti è detta innovativa. Rispetto ai reattori della prima generazione, concepiti quarant’anni fa, essa introduce cambiamenti più radicali rispetto alla linea evolutiva e pertanto necessita di più approfondite conferme. Sono stati elaborati diversi progetti, a partire dagli anni Ottanta. Fra questi possiamo ricordare i reattori modulari ad alta temperatura (MHTR, Modular high temperature reactor) sviluppati negli Stati Uniti, in Germania e in Sud Africa e il reattore MARS (Multipurpose advanced reactor inherently safe), progettato in Italia, presso l’Università di Roma La Sapienza. Caratteristica comune di questi reattori della seconda linea è quella di garantire la sicurezza con dispositivi passivi o per principî fisici intrinseci, così da rendere inutili i piani di emergenza esterni e poter avvicinare gli impianti relativi ai centri abitati e ai complessi industriali che necessitano energia. Sinteticamente, gli MHTR hanno un combustibile di microsfere di carbonio con ossidi o carburi di uranio, torio o plutonio, sono moderati a grafite e refrigerati a elio. Il nocciolo di grafite non può fondere, ma solo sublimare, a 3600 °C. A temperature ben più basse (1600 °C) e tali da non provocare la fuoriuscita dalle microsfere di nuclidi radioattivi, però, la reazione nucleare a catena si spegne. Il calore residuo di decadimento radioattivo può essere eliminato per conduzione e radiazione, senza compromettere la resistenza meccanica del contenitore a pressione, in acciaio. Il refrigerante elio può essere portato a 900 °C e oltre, consentendo interessanti impieghi chimici e metallurgici (gassificazione del carbone, produzione di idrogeno come vettore energetico in sostituzione del gas naturale e altro), prima di ridursi a temperature ancora sufficientemente elevate da consentire cicli termici di buon rendimento.
Per il progetto italiano MARS, reattore del tipo ad acqua pressurizzata, conviene soffermarsi sulle linee innovative di progetto. Tutti i suoi sistemi di sicurezza sono infatti di tipo passivo per cui il reattore può essere detto a sicurezza intrinseca. Questa caratteristica impone che la taglia del reattore sia medio-piccola, per consentire l’adozione di un sistema di refrigerazione di emergenza a circolazione naturale: l’ottimo è intorno a una potenza di 170 MWe. La piccola taglia ha suggerito il progetto di un reattore modulare, in modo da raggiungere potenze maggiori assemblando più moduli e adeguando con gradualità la potenza disponibile alle richieste, generalmente crescenti, delle reti elettriche. La piccola taglia consente inoltre di aumentare il rendimento complessivo con una cogenerazione di elettricità e calore, quest’ultimo per la dissalazione dell’acqua di mare o per il teleriscaldamento. Queste caratteristiche allargano molto il settore di mercato per il MARS, poiché molte sono le piccole reti elettriche (municipalizzate e Paesi in via di sviluppo) e molti i fabbisogni primari di acqua dissalata.
Come noto, il costo d’impianto è accresciuto dagli interessi intercalari per un lungo periodo di costruzione in sito, in cui squadre di operai di diversa estrazione (civili edili, meccanici, elettrici, strumentisti ecc.) si affiancano, spesso intralciandosi vicendevolmente e dilatando i tempi. Per diminuire tempi e costi si è pensato, per il MARS, di costruirlo in pezzi assemblabili direttamente in officina, con lavorazioni in serie, in ambiente pulito e con controlli più accurati e rapidi in situazioni agevolate. Ciò è stato reso possibile dall’adozione di un doppio involucro pressurizzato che consente collegamenti flangiati e imbullonati (e non più saldati su forti spessori), assemblando progressivamente i vari componenti sul sito della centrale ove si eseguono solo le costruzioni di ingegneria civile. L’intero impianto è pertanto costituito da componenti metallici assemblati, il che consente di allungare di molto la sua vita utile per semplice sostituzione dei soli pezzi usurati e, a fine vita, lo smontaggio totale di tutte le parti radioattivate e il loro trasporto in un deposito adatto, smantellando così completamente il reattore che è tutto costruito in acciaio, con uno schermo biologico formato da cassoni di acciaio riempiti di paraffina.
La sicurezza passiva dell’impianto è garantita da un sistema aggiuntivo di barre di controllo che si sganciano per dilatazione termica differenziale quando il refrigerante si scalda troppo, interrompendo così la reazione neutronica a catena, e dall’asporto del calore residuo di decadimento radioattivo per circolazione termoconvettiva naturale, con un pozzo termico di concezione originale (fig. 5).
Le prospettive di mercato di questo impianto sono interessanti, perché le applicazioni possibili nella cogenerazione sono molto diversificate, mentre i costi di produzione sono contenuti per le grandi semplificazioni, rispetto ai reattori tradizionali, introdotte nel progetto (eliminazione delle ridondanze necessarie con i sistemi attivi di sicurezza).
Un particolare interesse per reattori di piccola e media taglia è stato suscitato dall’iniziativa americana Global nuclear energy partnership cui hanno aderito diversi Paesi fra cui la Russia, la Cina, l’India, la Francia e il Giappone, nonché l’Agenzia dell’ONU per l’energia atomica IAEA. Questa iniziativa contro la proliferazione nucleare prevede che anche i Paesi dotati di piccole reti elettriche e che necessitano di acqua dissalata possano dotarsi di piccoli reattori, a patto che si astengano dall’arricchimento dell’uranio nell’isotopo fissile 235U e dal ritrattamento del combustibile irraggiato per ricavare il plutonio. Per contro, il combustibile può essere loro fornito, agli stessi prezzi che per le società elettriche interne, dai Paesi già dotati di armamenti atomici che si impegnano anche a ritirare il combustibile usato, a ritrattarlo e a confinare i rifiuti radioattivi. Per il MARS è prevedibile, con maggiori arricchimenti, una durata del combustibile di cinque anni.
Le ricerche per elevare il grado di sicurezza dei reattori sono orientate in modo da prendere in considerazione il verificarsi dei più gravi incidenti concepibili e la maniera di fronteggiarne le conseguenze. Fra questi rientrano la fusione del nocciolo e la perforazione del suo contenitore a pressione, con il materiale fuso che cola al di sotto del reattore, aggredendo termicamente il calcestruzzo di fondazione. Anche nel caso dell’incidente più grave, i rilasci radioattivi all’esterno del reattore dovrebbero essere così limitati da rendere inutile un piano di emergenza esterna all’impianto che preveda l’evacuazione della popolazione.
Per questo si sono affinate le tecniche di analisi probabilistica dei guasti e soprattutto le strategie di mitigazione delle conseguenze. Per controllare gli effetti degradanti di un nocciolo fuso che fosse fuoriuscito dal contenitore a pressione dopo averlo perforato (la temperatura di tale materiale, prossima ai 3000 °C, è ben superiore a quella di fusione degli acciai) si è pensato, per esempio, di far scivolare il fuso e di spanderlo su una larga superficie, in modo da contenerne lo spessore e meglio solidificarlo con l’acqua. Per tali studi è essenziale la conoscenza delle interazioni fra materiale fuso e calcestruzzo, nelle sue diverse tipologie. In questi incidenti si produce anche idrogeno per reazione metallo-acqua fra le guaine in lega di zirconio delle barrette di combustibile nucleare, oltre i 1000 °C di temperatura, e il refrigerante.
Se l’idrogeno che si produce in seguito alla reazione di ossidazione dello zirconio raggiunge percentuali troppo elevate, dell’ordine del 10%, mescolandosi all’aria del contenitore esterno vi è il rischio di una esplosione la cui onda d’urto può compromettere le parti più deboli del contenitore (portelli e penetrazioni) e quindi la sua tenuta della radioattività liberatasi all’interno.
Per questo la ricerca ha sviluppato ricombinatori catalitici idrogeno/ossigeno di capacità adeguata a garantire che i limiti indicati non siano superati. Sempre nel caso dei più gravi incidenti concepibili, è di vitale importanza la rimozione della potenza residua di decadimento radioattivo in modo che, per effetto dell’accresciuta pressione, non vengano rilasciati all’esterno prodotti radioattivi.
In questo senso si vanno svolgendo studi e ricerche per garantire una rapida diminuzione della pressione entro l’edificio reattore (in cui si è avuto l’incidente di perdita del refrigerante) e dei prodotti radioattivi sospesi. Un altro settore di ricerca riguarda il controllo e il monitoraggio dell’impianto nucleare, che è ora altamente computerizzato. Si tratta di definire norme e linee guida universalmente accettate sia per il software sia per l’hardware di tali sistemi, anche in condizioni ambientali ostili in seguito agli incidenti. Occorre certificare la resistenza degli strumenti e sviluppare algoritmi che aiutino l’operatore a capire quali strumenti continuano a operare correttamente, e sui quali si possa quindi contare.
I dispositivi di sicurezza che si sviluppano in queste ricerche sono, come visto, di tipo attivo e di tipo passivo. I primi necessitano, per funzionare, di sensori e attuatori energizzati, i secondi agiscono sulla base di ineludibili leggi di natura. Dove possibile, si cerca di progettare e impiegare dispositivi di tipo passivo.
Altre aree di ricerca riguardano la resistenza degli edifici di contenimento dei reattori con programmi mirati ad aumentarla in relazione alle sollecitazioni sismiche più severe e agli impatti esterni, con riferimento principale alle cadute di aerei. Questo incidente include gli effetti di tutta una serie di possibili attentati che, dopo gli avvenimenti dell’11 settembre 2001, sono stati accuratamente considerati, ivi compresa l’azione di terroristi suicidi. Molto studiata è anche la protezione dagli incendi, effettuata mediante l’utilizzazione di banche dati e modelli computerizzati.
Esemplari di reattori capofila della linea evolutiva, che descriveremo brevemente, sono l’EPR, l’AP1000 e l’ABWR.
Il reattore EPR è un PWR di 1600 MWe il cui progetto soddisfa i requisiti espressi dalle società elettriche europee e raccolti nei volumi EUR (European utilities requirements) nonché quelli dell’EPRI (U.S. Electric Power Research Institute) nell’URD (Utility requirements document).
L’edificio reattore, collocato al centro dell’isola nucleare, contiene l’impianto nucleare NSSS (Nuclear steam supply system) e un grande serbatoio di acqua (IRWST, In-containment refueling water storage tank). La sua funzione è di assicurare la protezione dell’ambiente circostante contro ogni concepibile rischio, interno o esterno. Esso consiste di un involucro interno in calcestruzzo precompresso di 1,3 m di spessore, con un rivestimento metallico per migliorare la tenuta, e di un separato involucro esterno in calcestruzzo armato, anch’esso di 1,3 m di spessore.
L’impianto primario interno, (reattore, pompe, generatori di vapore e pressurizzatore) è alloggiato entro compartimenti in calcestruzzo rinforzato che assicurano sostegno e schermaggio delle radiazioni. Un edificio per il combustibile è eretto sullo stesso solettone di base dell’edificio reattore e dei quattro edifici che ospitano i ridondanti sistemi di sicurezza. In esso è alloggiato il combustibile fresco e il combustibile irraggiato entro piscine di acqua schermante e refrigerante per la rimozione del calore residuo di decadimento radioattivo. In compartimenti collegati è alloggiato il sistema per il controllo chimico e di volume del refrigerante primario (CVCS, Chemical and volume control system) e l’apparato per il controllo del boro disciolto nell’acqua. Gli edifici per le salvaguardie ospitano separatamente i sistemi di refrigerazione di sicurezza (SIS, Safety injection system) e i sistemi di alimentazione di acqua di emergenza (EFS, Emergency feedwater system), così che i quattro treni di sistemi, indipendenti ed efficaci al 100%, possano intervenire ognuno per proprio conto e siano tutti schermati e protetti da appositi edifici non soggetti a cause comuni di guasto, come incendi o allagamenti. Il sistema di iniezione di acqua a bassa prevalenza è accoppiato al sistema di rimozione del calore residuo del decadimento radioattivo. La sala di controllo principale è alloggiata in uno dei quattro edifici dei sistemi di salvaguardia.
Tutti gli edifici dell’isola nucleare, per meglio resistere agli effetti di eventuali terremoti e sostenersi vicendevolmente, sono eretti su un unico solettone di cemento armato di base dello spessore di alcuni metri. Ovviamente i componenti più pesanti e i serbatoi di acqua sono sistemati più in basso possibile. Per resistere all’incidente di caduta di un aereo l’edificio reattore, quello per il combustibile e due dei quattro edifici per le salvaguardie sono schermati da pareti in calcestruzzo armato appositamente calcolate. Per fronteggiare l’incidente di black-out elettrico, causato da guasti alle linee elettriche esterne, appositi diesel elettrogeneratori sono ospitati in due edifici distanziati fra loro.
I sistemi di strumentazione e controllo hanno anch’essi una quadruplice ridondanza e sono alloggiati nei quattro edifici separati e distanti. Il progetto dell’EPR è stato guidato dall’esigenza di fronteggiare i più gravi incidenti concepibili quali: (a) la fusione del nocciolo, ad alta pressione del refrigerante; (b) l’interazione fra nocciolo fuso e acqua con esplosione di vapore; (c) la detonazione di idrogeno entro l’edificio reattore; (d) l’imperfetta tenuta dell’edificio reattore in caso di lenta reazione fra nocciolo fuso e calcestruzzo, e quindi adeguata refrigerazione e solidificazione del fuso entro l’impianto.
Tutto ciò ha comportato l’inserimento di un sistema di rapida depressurizzazione in caso di incidente gra-ve (per es., perdita di refrigerante per rotture del circuito primario), per cui la fusione del nocciolo non può avvenire che a bassa pressione. In tal caso una reazione esplosiva fuso-acqua non potrebbe danneggiare un pressure vessel di acciaio rinforzato, anche nell’ipotesi peggiore. Se il materiale del nocciolo fuso (combustibile più zirconio più acciaio, denominato corium) dovesse perforare il vessel, esso colerebbe in un apposito canale e si spanderebbe in un’area dedicata con una calcolata pendenza, in modo da assottigliarsi a tal punto da essere facilmente refrigerato e solidificato nell’arco di pochi giorni da un’adeguata portata di acqua, proveniente da una piscina circostante la cavità in cui è sistemato il reattore.
L’edificio interno di contenimento dell’impianto è progettato per resistere all’incidente di detonazione dell’idrogeno. Comunque la concentrazione dell’idrogeno è mantenuta al di sotto del limite pericoloso per la transizione da deflagrazione a detonazione (del 13%) mediante un numero adeguato di ricombinatori catalitici idrogeno-ossigeno.
L’impianto Westinghouse-BNFL AP1000, di cui due esemplari sono in costruzione in Cina con una potenza di 1175 MWe l’uno, presenta, rispetto ai progetti APWR, importanti innovazioni che ne esaltano la sicurezza. Oltre ai sistemi di sicurezza comuni a tutti i PWR occidentali, l’innovazione maggiore che lo caratterizza è costituita dall’edificio di contenimento che è formato da pareti multiple che separano l’atmosfera interna dall’esterno. Il contenitore interno è costituito da un cilindro in acciaio, del diametro di 40 m, con sommità e base ellissoidali per un’altezza di 66 m, e uno spessore medio di 4,5 cm. Esso è circondato da un edificio in calcestruzzo armato, progettato in prima categoria sismica.
La fig. 7 mostra una sezione semplificata dell’impianto, con un grande serbatoio d’acqua sulla sommità. Per fronteggiare l’incidente base di progetto un apposito sistema, denominato Passive containment cooling system (PCCS), è in grado di assicurare l’ultima difesa per la rimozione del calore e il mantenimento della pressione interna ben al di sotto del valore di progetto, anche senza alcun intervento da parte degli operatori, per almeno 72 ore. Il calore viene rimosso da una circolazione in convezione naturale (senza ventilatori) dell’aria esterna. Tale circolazione basterebbe da sola a mantenere la pressione interna su valori di sicurezza. L’acqua della cisterna (non essenziale) serve ad accrescere tale azione perché, cadendo per gravità sul contenitore in acciaio e scorrendo verso il basso, ne facilita la refrigerazione evaporando e unendosi all’aria che trascina il suo vapore verso l’alto. Un sistema di distribuzione dell’acqua della piscina sul contenitore in acciaio assicura un’uniformità della refrigerazione che avviene così in maniera del tutto passiva.
L’ABWR (General Electric, Toshiba, Hitaki) è un reattore certificato dalla Nuclear Regulatory Commission (NRC) statunitense, di cui tre esemplari sono già in funzione in Giappone e tre in fase di costruzione, due in Taiwan e uno in Giappone. Vi sono diverse versioni del progetto, per una potenza che varia da 1250 a 1500 MWe. Tale progetto differisce da quello dei tradizionali BWR sotto diversi aspetti, i principali riguardano la disposizione impiantistica generale e il sistema di regolazione, con importanti miglioramenti sulla sicurezza.
Per meglio fronteggiare l’incidente base di progetto, quello di perdita del refrigerante primario (LOCA, Loss of coolant accident), qualora il pressure vessel non si depressurizzasse rapidamente, viene garantita una depressurizzazione automatica.
Un’indicazione delle principali caratteristiche per reattore ABWR è offerta dalla tab. 2.
Venendo al sistema di controllo, mentre nei BWR di seconda generazione le barre di regolazione sono azionate da un sistema idraulico, nell’ABWR il sistema preposto (FMCRD, Fine motion central rod drive) è elettroidraulico. Il meccanismo di azionamento supplementare che è stato introdotto riduce sostanzialmente la probabilità di guasto e migliora la regolazione dell’impianto rendendolo più flessibile con le variazioni di carico richieste dalla rete. Tale sistema, ottimizzato e semplificato, presenta anche tempi ridotti per l’ispezione con riduzione delle dosi di radioattività assorbite dal personale addetto.
Una sostanziale modifica d’impianto è quella della sostituzione delle due pompe centrifughe esterne, con circuiti separati, del BWR con un sistema di pompe, fino a 10, con girante interna al pressure vessel e motore elettrico esterno. La velocità di tali pompe è commisurata alla potenza richiesta al reattore e il rischio dell’incidente base di riferimento (LOCA) è fortemente ridotto. Anche le conseguenze del grippaggio o del guasto al motore di una pompa, per quanto riguarda l’incidente di perdita di portata (LOFA, Loss of flow accident), sono manifestamente ridotte fino a un fattore 10. Gran parte delle virole del pressure vessel sono realizzate con singoli pezzi fucinati e non presentano bocchelli se non al di sopra del nocciolo. Questa soluzione ha consentito di ridurre di oltre il 50% le saldature importanti del pressure vessel che, più vicine al nocciolo, sono sottoposte a un più intenso irraggiamento.
Il reattore ABWR ha tre sotto-sistemi di sicurezza e due divisioni ridondanti completamente indipendenti; ogni divisione accede alle fonti ridondanti di corrente alternata e a un proprio generatore diesel di emergenza (fig. 8). Tali divisioni, alloggiate in un apposito edificio, sono separate da pareti tagliafiamme. Pertanto un incendio, un’inondazione o una perdita di alimentazione elettrica che inabilita una divisione non ha effetto sugli altri sistemi di sicurezza. Nel caso dell’incidente base di progetto (LOCA) la risposta dell’impianto è stata completamente automatizzata e l’intervento degli operatori non è richiesto per almeno 72 ore. Per fronteggiare tale incidente il complesso dei sistemi di refrigerazione di emergenza (ECCS, Emergency core cooling system) è suddiviso in tre sotto-sistemi multipli di sicurezza predisposti per alta pressio-ne, bassa pressione e depressurizzazione automatica.
Il reattore ABWR è anche dotato di caratteristiche tali (fig. 9) da mitigare passivamente le conseguenze del più grave incidente concepibile (incidente severo o Beyond design basis accident, BDBA). È prevista, qualora si arrivasse alla fusione del nocciolo e alla perforazione del pressure vessel, un’area di sfogo nella parte inferiore del contenitore a secco (dry-well) insieme a un sistema passivo di allagamento che garantisce la refrigerazione e solidificazione del corium mediante la fusione di valvole d’isolamento che liberano l’acqua contenuta nella circostante piscina di soppressione. Inoltre, un sistema di rilascio filtrato garantisce, mediante un disco di rottura situato in una tubazione di sfiato attraverso la vasca di soppressione, di liberare vapore all’esterno, con cattura della quasi totalità dei radionuclidi liberatisi.
I Paesi che hanno aderito a un’iniziativa internazionale promossa dagli Stati Uniti per studiare, sperimentare e progettare i reattori della quarta generazione si sono avvalsi di oltre 100 esperti per esaminare un centinaio di concetti di reattori e sistemi nucleari futuribili, arrivando a una selezione di sei sistemi che, a loro avviso, presentano le seguenti caratteristiche: (a) comportano significativi avanzamenti tecnologici; (b) rispondono bene alla produzione di elettricità e di calore, e quindi di idrogeno, nonché alla gestione degli attinidi; (c) presentano, nel loro sviluppo, aree di ricerca comuni in modo da venire in soccorso l’un l’altro in caso di fallimento di alcuni di essi (si ritiene, nel tempo, di convergere tutti verso uno o due sistemi); (d) rispondono al meglio alle singole priorità nazionali prospettate dai vari Paesi del GIF (Generation IV International Forum).
I sei sistemi prescelti sono contrassegnati dalle sigle GFR (Gas-cooled fast reactor system), LFR (Lead-cooled fast reactor system), MSR (Molten salt reactor system), SFR (Sodium-cooled fast reactor system), SCWR (SuperCritical water-cooled reactor system), VHTR (Very high temperature reactor system).
Prima di presentare sinteticamente questi sistemi, commentando vantaggi e svantaggi dei singoli, è opportuno accennare alle conclusioni cui sono pervenuti i Paesi del GIF relativamente agli studi sui cicli possibili del combustibile nucleare da associare ai diversi reattori proposti. Sono state valutate quattro classi di tali cicli che vanno dal ciclo aperto (once-through) al ciclo di combustibile chiuso (parziale o totale) per reattori veloci, al completo riciclo di tutti gli attinidi a lunga vita. Il ciclo aperto è ovviamente quello che genera più rifiuti e consuma più uranio; tuttavia anche in questo caso il volume dei rifiuti è piccolo e maneggiabile rispetto ad altri combustibili e le risorse disponibili di uranio sono sufficienti a coprire le esigenze globali di questo secolo.
Le attività di ricerca e sviluppo si svolgeranno in fasi. La prima fase è quella della fattibilità, in cui il principale obiettivo è risolvere i punti chiave e provare una percorribilità delle tecnologie interessate. La seconda fase è quella delle prestazioni, in cui occorre sperimentare i sotto-sistemi chiave, quali i reattori, gli impianti associati del ciclo del combustibile, le tecnologie di conversione dell’energia. Questa fase termina quando il sistema studiato è sufficientemente maturo e si comporta in modo tale da attrarre un interesse industriale per iniziative a grande scala. La terza fase è quella dimostrativa, con una diversità di opzioni e con una partecipazione di industrie, enti governativi e più Paesi. Si ritiene che ogni sistema proposto necessiti di una fase dimostrativa. In caso di successo il sistema potrà entrare nella fase di commercializzazione, compito delle industrie e delle società elettriche.
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Tavola I
GFR. È un reattore veloce raffreddato a gas (He), a ciclo di combustibile chiuso, che consente una conveniente gestione degli attinidi unitamente alla surgenerazione di fissile per conversione fertile-fissile (fig. 1). La sua taglia è compresa fra 300 e 600 MWe. Tale sistema è considerato dagli esperti del GIF buono per sicurezza, economicità, resistenza alla proliferazione e protezione fisica, ed è particolarmente adatto per produzione di elettricità, di idrogeno e riduzione degli attinidi che presentano altissima radioattività e lunghissima vita. Una strategia per ridurli sostanzialmente è quella di irradiarli ripetutamente in reattori veloci ad alto flusso, come appunto il GFR, trasformandoli in parte in isotopi con radioattività nulla o a vita breve.
Un primo passo, operando con elio pressurizzato a 7 MPa, consiste nel raggiungere una temperatura di 850 °C. Si conta poi di raggiungere nel nocciolo una densità di potenza elevata, dell’ordine di 1000 kW/L per minimizzare la necessaria quantità di plutonio. Occorre pensare a nuovi elementi di combustibile a forma di piastre con guaine ceramiche rinforzate (un composto di carburo di silicio), avendo come fissile un carburo misto di uranio, plutonio e attinidi minori (per ridurre fortemente i rifiuti a lunga vita). Per la conversione di energia una alternativa credibile è il ciclo diretto Brayton.
LFR. È un reattore veloce a ciclo chiuso, raffreddato a piombo o con l’eutettico piombo-bismuto per abbassare la temperatura di fusione (fig. 2). Esso è raffreddato a circolazione naturale, può avere una taglia variabile da 50 a 1200 MWe, con una temperatura di uscita dal nocciolo del refrigerante che va da 550 °C a 800 °C, secondo i risultati di una necessaria ricerca sui materiali impiegati (oggi i 550 °C sono praticamente sicuri e si spera di poter arrivare a 800 °C). Il ciclo chiuso del combustibile, come per il GFR, gli assicura un’eccellente sostenibilità ed è interessante anche per quanto riguarda la resistenza alla proliferazione e la protezione fisica perché può impiegare un nocciolo a lunga durata. È considerato buono anche per l’economia e la sicurezza, grazie al suo refrigerante che, a differenza del sodio, non reagisce violentemente con l’aria e con l’acqua. Come reattore veloce è interessante anche per il trattamento degli attinidi, vale a dire per bruciarli e ridurne la radiotossicità.
Il problema principale da risolvere è legato alla tecnologia del refrigerante piombo che è al tempo stesso corrosivo ed erosivo, nonché tossico. La sua grande densità rende problematica anche l’auspicata circolazione a convezione naturale in quanto, occorrendo
per questa un’adeguata altezza della tanca-reattore, enormi pesi gravano sul fondo di questa richiedendo spessori delle pareti di acciaio di oltre mezzo metro anche per le taglie più piccole, rendendo difficile il raggiungimento di grandi potenze.
Gli stessi elementi di combustibile del nocciolo, essendo più leggeri del piombo, devono essere ancorati. In caso di fusione del nocciolo il corium, invece di finire nei core catchers, galleggerebbe sul pelo libero del piombo fuso. La resistenza ai sismi e la gestione del combustibile sono problemi non trascurabili.
MSR. È un reattore a sali fusi, a spettro neutronico epitermico, con un ciclo chiuso che comporta un efficiente sfruttamento del plutonio e degli attinidi minori (fig. 3). Il combustibile è costituito da una miscela liquida di sodio, zirconio e fluoruri di uranio messa in circolazione da apposite pompe. La potenza prevista è di 1000 MWe, la pressione di circa 5 bar, con una temperatura massima di oltre 700 °C che garantisce un ottimo rendimento termodinamico. Necessita di un circuito intermedio fra circuito primario del reattore e circuito finale elettrogeneratore, con ovvi aggravi di costo. È ottimo come sistema nucleare per bruciare il plutonio e gli attinidi minori, ma necessita di complessi sistemi ausiliari per il trattamento chimico del combustibile, per cui occorre valutare attentamente la sua economicità. Occorre altresì dimostrare la sua capacità di rigenerazione con il ciclo uranio-torio.
SFR. È un reattore veloce a sodio, a ciclo chiuso, con un’efficiente gestione degli attinidi minori e una surgenerazione di fissile (fig. 4). I Francesi hanno una grande esperienza con questo tipo di reattori (Phénix, Superphénix), come pure gli Inglesi, i Russi, gli Americani e i Giapponesi.
Con esso si può realizzare un completo riciclo degli attinidi e si prevedono due opzioni: una di media taglia (150+500 MWe) con il combustibile costituito da una lega uranio-plutonio-attinidi minori-zirconio fornita da un ciclo di combustibile con processi pirometallurgici in appositi impianti di ritrattamento; l’altra di taglia medio-grande (500+1500 MWe) con combustibile a ossidi misti di uranio e plutonio (UO2-PuO2) e con un ciclo chiuso di combustibile basato su processi di ritrattamento acquosi di tipo avanzato, in grandi installazioni centrali che servono più reattori.
Per entrambe le taglie è considerata una temperatura di uscita del sodio dal nocciolo di 550 °C (ben collaudata nei reattori esistenti). Nell’Unione Europea, per iniziativa della Francia, si progetta di realizzare un primo prototipo di SFR nei primi anni Venti del XXI sec. con una potenza compresa fra 250 e 600 MWe. Gli sforzi di ricerca sono concentrati nel ridurre il costo di impianto (rispetto a Superphénix), soprattutto con modifiche del circuito intermedio. Nel frattempo si conducono studi sui cicli di ritrattamento, soprattutto sulla separazione spinta e trasmutazione (PT, Partitioning and transmutation) degli attinidi minori (MA, Minor actinides).
Per la transizione dalle filiere di LWR (Light water reactor) agli FBR della quarta generazione, a partire dal 2030, è necessario ritrattare il combustibile usato nei primi, in cui si può fare soltanto un riciclo dell’U e del Pu. Per la maggior parte dei combustibili irraggiati negli LWR (UO2 o MOX) il rapporto Pu/MA) è circa 8,5/1,5; la strategia più interessante per il riciclo multiplo negli FBR e per trasmutare gli MA è quella di recuperare dal ritrattamento (processo GANEX, Global actimide extraction) tutti i transuranici (TRU) senza separare il Pu dagli attinidi minori, e riciclarli negli FBR per ottenere contemporaneamente energia e trasmutazione. Un tale combustibile potrebbe essere costituito da MOX con meno del 5 % di MA.
SCWR. È un reattore termico ad acqua leggera (fig. 5) portata a una pressione e a una temperatura notevolmente superiori a quelle corrispondenti al punto termodinamico critico (22,11 MPa, 374 °C): si vuole portare la temperatura di uscita dal nocciolo addirittura a 550 °C. A queste condizioni si raggiunge un rendimento termodinamico del 44 %. Il ciclo del combustibile è aperto, quindi a bassa sostenibilità per il sistema che punta soprattutto a vantaggi economici (semplificazione di impianto) e alla produzione di elettricità.
I punti critici da investigare sono soprattutto la resistenza delle guaine e delle strutture interne del reattore, la chimica dell’acqua e i fenomeni di radiolisi, le analisi di sicurezza (incidenti di perdita di portata e di refrigerante) e accoppiamento fra neutronica e termofluidodinamica per le brusche variazioni di densità dell’acqua supercritica con la temperatura.
VHTR. È un reattore a spettro neutronico termico e con un ciclo aperto del combustibile (fig. 6). Esso punta soprattutto a generare calore ad altissime temperature (oltre i 1000 °C) in particolare per la produzione di idrogeno con processi termochimici ad alto rendimento, senza emissioni di carbonio, direttamente dall’acqua.
La taglia del reattore di riferimento è di 600 MWt, il refrigerante del nocciolo è l’elio e il combustibile previsto può essere di due tipi: a blocchi esagonali di grafite del tipo previsto per il progetto GT-MHR (Gas turbine-modular helium reactor); a sfere di grafite (che inglobano uranio arricchito) del tipo previsto per il progetto PBMR (Pebble bed modular reactor).
Operando con un rendimento maggiore del 50 % tale impianto può produrre più di 200 tonnellate di idrogeno al giorno, equivalenti ad oltre 1.360.000 litri di benzina. Questo impianto, che si basa su reattori già realizzati in Germania e negli Stati Uniti, seppure con temperature di uscita dell’elio più basse, richiede soprattutto ricerche sui materiali per poter innalzare di un paio di centinaia di gradi le temperature.