fiume
Sempre nel significato di " corso d'acqua ", il termine compare con alta frequenza e ricca gamma di significati in tutte le opere di Dante.
Il senso più generico della parola è attestato in Rime CI 31 ben ritorneranno i fiumi a' colli / prima che questo legno molle e verde / s'infiammi, e Cv IV XV 8 La quale [terra], mista con l'acqua del fiume, lo figlio di Iapeto, cioè Prometeus, compuose in imagine de li Dei, in un passo che appare ricalcato su Ovidio (Met. I 78). Numerose le presenze nella Commedia, ove la parola non appare legata a determinazioni geografiche (così in Pg XIV 36, XXVIII 123 e Pd I 80, XX 19), ma bensì a esemplificazioni o a funzione di secondo termine di paragone: e per tutti valga il luogo di Pd XX 19, ove la voce dell'allegorica aquila di Giove parve un mormorar di fiume / che scende chiaro giù di pietra in pietra, secondo un'immagine che risale a Ezechiele (43, 2): " vox erat ei quasi vox aquarum multarum ".
Sovente la voce designa implicitamente un determinato corso d'acqua individuabile dal vicino appellativo o dal particolare contesto. In Vn IX 4 il fiume bello e corrente e chiarissimo, lo quale sen gia lungo questo cammino là ov'io era, è lo stesso fiume / lungo il qual... sopra me se' forte [Amore], di Rime CXVI 62, cioè l'Arno, carissimo al poeta (un fiumicel che nasce in Falterona, / e cento miglia di corso nol sazia [Pg XIV 17]), che lungo di esso vide fiorire giovinezza e amore (I' fui nato e cresciuto / sovra 'l bel fiume d'Arno [If XXIII 95]). Con forte antonomasia, lo stesso corso d'acqua riappare in Pg V 122 [la pioggia] come ai rivi grandi si convenne, / ver' lo fiume real tanto veloce / si ruinò (ove è da tener presente che f. reali sono " quelli che fanno capo in mare, come fa l'Arno, gli altri no " [Buti], e " reale e maggiore si è il nostro fiume d'Arno " [G. Villani I 43]), e XIV 60 Io veggio tuo nepote che diventa / cacciator di quei lupi in su la riva / del fiero fiume, in una profezia che vede uniti con effetto tutto dantesco fiume-Arno e lupi-Fiorentini. Altri f. geograficamente definibili appaiono il Nilo di Rime CIV 46 di fonte nasce il Nilo picciol fiume; il Po di XCV 3 que' [il Sole] che vide nel fiume lombardo / cader suo figlio; il Montone di If XVI 94 quel fiume c'ha proprio cammino / ... dal Monte Viso ' nver' levante; il Mincio di XX 75 convien che tutto quanto caschi / ciò che 'n grembo a Benaco star non può, / e fassi fiume giù per verdi paschi; l'Ismeno e l'Asopo (cfr. Stazio Theb. IX 434 ss.) di Pg XXII 88 pria ch'io [Stazio] conducessi i Greci a' fiumi / di Tebe poetando, ebb'io battesmo. A un contesto più legato al mondo fantastico di D., sono connessi l'Acheronte, chiamato gran fiume (If III 71), fiume (III 81) e mal fiume (Pg I 88); il Flegetonte di If XIV 77 un piccol fiumicello, / lo cui rossore ancor mi raccapriccia, e il Lete, " lo fiume che tollie la memoria del peccato " (Buti) che diviene fiumicello (Pg XXVIII 35), bel fiume (XXVIII 62), fiume sacro (XXXI 1) e semplicemente fiume (XXVIII 70, XXIX 7 e 71, XXXI 94 e XXXII 84). A parte dev'essere considerato il ruscelletto (If XXXIV 130) che, nelle parole di Catone, diviene cieco fiume (Pg I 40).
Usi figurati compaiono in Cv IV X 12 e XIII 16, dove si ritrova (nel secondo caso con poche variazioni stilistiche) il concetto che nobiltà è torre diritta, e le divizie fiume da lungi corrente. Di notevole interesse gli usi metaforici di If I 8 se' tu quel Virgilio e quella fonte / che spandi di parlar sì largo fiume ?, in cui D. loda Virgilio nell' " amplitudine della sua facundia, quella facendo simigliante ad un fiume " (Boccaccio) secondo un ‛ tòpos ' ben individuato nella latinità aurea e medievale (per cui cfr. H. Bruhn, Specimen vocabularii rhetorici ad inferioris aetatis latinitatem pertinens, Marburgo, Diss., 1911, 57), e di Pg XIII 90 tosto grazia resolva le schiume / di vostra coscïenza sì che chiaro / per essa scenda de la mente il fiume.
In funzione allegorica la parola appare in due passi: Pd XXX 76 Il fiume e li topazi / ch'entrano ed escono e 'l rider de l'erbe / son di lor vero umbriferi prefazi, in cui il f. è integumentum della fiumana (v.) dei beati; e If IV 108, nei versi dedicati alla descrizione del castello della sapienza, sette volte cerchiato d'alte mura, / difeso intorno d'un bel fiumicello, simbolo quest'ultimo di non facile spiegazione.
Pur trattandosi di un termine dall'ambiguissimo referente allegorico (confermato dal fatto che D. e Virgilio per accedere agli spiriti magni superano questo fiumicello come terra dura [v. 109], compiendo un atto simbolico), nondimeno le possibilità esegetiche tradizionali si riducono a due: che il fiumicello rappresenti " l'eloquenza " che avvolge con la sua abbondanza e fluidità il castello della sapienza, oppure " le ricchezze " o " le peccaminose gioie mondane " che impediscono l'accesso a lo pane de li angeli. La prima ipotesi, accolta dalla maggioranza assoluta dei commentatori moderni (da Scartazzini a Gmelin, sempre però con formule dubitative), trova nel Vellutello un limpido espositore: " il fiume è da molti, et spetialmente dai poeti, significato per la eloquentia, dalla quale esse sette Cardinali virtù, son difese et approvate, che senza l'aiuto e il favore di quella, sarieno di poco pregio ". Eppure, ostacola ad essa la singolarità del passaggio dell'acqua come cosa solida, che fa calare un velo di dubbio (" benché agguagli l'eloquentia al fiume, nientedimeno è stabile, et durabile ", Landino), persistente anche se si postula un atto allegorico (" moralmente, non debbe chi va speculando profondarsi in eloquentia, ma da quella astenersi e passar oltre ", Vellutello), che vedrebbe il rifiuto delle ambages retoriche da parte di D. e Virgilio. Più persuasiva appare a nostro avviso la seconda ipotesi (dimenticata spesso dai commentatori), che trova un pugnace assertore nel Boccaccio. Questi, dopo aver chiarito l'atto del passaggio (" passarlo come terra dura, acciocché nell'acqua di quello non si bagnino i piè nostri "), che implica un rifiuto di contatto verso il fiumicello, chiosa con ampiezza inusitata: " sono, avanti ogni altra cosa, per questo bel fiumicello da intendere le sostanzie temporali, cioè le riccheze, i mondani onori e le mondane preeminenze le quali sono nella prima aparenza splendide e belle, quantunque in essistenza oscure e tenebrose si truovino... E come l'acqua spesse volte è a' nostri sensi dilettevole così queste sono agl'ingegni e agl'intelletti nocevoli; e così sono flusse e labili come è l'acqua, la quale è in corso continuo... E chiama l'autor quest'acqua " fiumicello ", che è diminutivo di fiume, per dare ad intendere queste cose temporali e la loro luce e il loro commodo, a rispetto delle cose eterne, esser piccole o niuna cosa. E perciò chi vuol pervenire all'altezza della fama filosofica gli convien passar questo fiumicello non con dilicateze, non con morbideze, non con conviti o artificiati cibi e esquisiti vini e con lunghi sonni e dannosi ozi, ma, tutte queste cose e simiglianti, non solamente scacciate e rimosse da sé, ma senza bagnarsi i piedi in quest'acqua cioè in alcun atto lasciarsi toccare, o muovere l'affezione a quella, e come terra dura passarlo, come il passaron per la temporal gloria Camillo, Cincinnato... ". Il fiumicello sarebbe pertanto, come la fiumana di If II 108, un'ulteriore metamorfosi del concetto cristiano delle acque come simbolo della vita terrena e delle sue viziose delettazioni (Cv I I 3), che debbono essere valicate senza esserne contaminati da chi si accinge a entrare nel mondo della filosofia e della poesia (ma cfr. lo pseudo-Rabano Mauro [Patrol. Lat. CXII 933]: " Flumen instabilitas hujus saeculi, ut in Psalmis ‛ in flumine pertransibunt pede ' [65,6] "). Anche in un esegeta acuto come l'Anonimo leggiamo: " il fiumicello, che difende queste mura da chi volesse entrare, s'intende per le cose labili et caduche et transitorie del mondo "; e non diversamente Benvenuto: " mihi... videtur quod per flumen figuret vanitatem mundi, qui bene repraesentat per fluviolum pulchrum, fluit et transit cito et irrevocabiliter velut aqua ". Quanto poi all'identificazione delle mondane ricchezze con un f., si ricordi l'immagine, da noi già rilevata, di Cv IV X 14, veramente probante in proposito, in quanto attesta l'esistenza dell'archetipo metaforico nella cultura di Dante. A parte debbono essere considerate altre proposte esegetiche, che non esiteremmo a considerare come arbitrarie, in cui il fiumicello diviene " la disposizione al bene operare " (Chiose anonime Selmi, Giuliani, Poletto); l'" affectus doctrinae " (Lana, Pietro); " l'abito dell'arte " (Rossi); " l'esperienza " (Del Lungo); " la nobiltà " (Pietrobono); " la propedeutica alla scienza " (Mattalia); " la fama " (Pagliaro); l'intreccio di varie di queste possibilità (Chimenz).
Bibl. - Sul fiumicello di If IV 108, oltre ai commentatori tradizionali, sono da tener presenti: F. Pellegrini, L'allégorie du " Nobile Castello " dans les Limbes dantesques, in " Nouvelle Revue d'Italie " s. 9, XVIII (1921) 176-184; C. Grabher, Il limbo e il nobile castello, in " Studi d. " XXIX (1950) 41 ss.; F. Mazzoni, Il canto IV dell'Inferno, ibid XLII (1965) 164 ss. (con ampia discussione del problema nella nostra prospettiva); Pagliaro, Ulisse 496-501.
Fiumi dell'Inferno e del Purgatorio. - Sia per restare nella tradizione letteraria, che quasi senza eccezione aveva immaginato l'oltretomba solcato da fiumi di vario genere, sia per modellare i suoi ambienti oltremondani, anche con intento figurale, su elementi e forme della natura terrestre, così da ‛ umanizzare ' il suo viaggio e produrre quel ‛ realismo ', che è fonte di verisimiglianze strutturali e fantastiche e di precise suggestioni sceniche, sia per disporre di validi strumenti tanto nelle pene riservate ai dannati e nei riti purificatori delle anime purganti, quanto nella configurazione allegorica e simbolica dei primi due regni, D. fa scorrere nel suo Inferno e nel suo Purgatorio un certo numero di fiumi, e precisamente nell'Inferno l'Acheronte (If III 78, 98, 107, 116, 118 e 124), il fiumicello che circonda il castello del Limbo (If IV 108), lo Stige (If VII 100-111, 124 e 127-128, VIII 10-12, 16, 29-31 e 53, IX 74 e 81), il Flegetonte (If XII 46-48, 101-102, XIV 76-90, XV 1-3, XVI 91-105), il Cocito (If XXXII 22-36, 72 e 75, XXXIII 91, 109 e 156, XXXIV 29 e 103) e il ruscelletto della natural burella (If XXXIV 127-132); nel Purgatorio, il Lete (Pg XXVIII 25-33, XXIX 7-8, 67-91) e l'Eunoè (Pg XXXIII 127-145). Sono fiumi concepiti e strutturati secondo un vero e proprio sistema idrografico, nel senso che provengono dalla stessa sorgente e vengono ripartiti secondo una geografia fisica funzionale e anche secondo una certa tessitura simbolica che investe parti organiche, se non addirittura l'intero ordine dei due regni.
L'origine dei fiumi infernali viene riportata a una leggenda allegorica di ascendenza biblico-classica, che D. traduce plasticamente nella figura, suggerita da Daniele (II 31-33), del cosiddetto Veglio di Creta, una gigantesca statua posta in una caverna del monte Ida nell'isola di Creta (l'isola dell'umanità allo stato d'innocenza nell'età dell'oro o di Saturno: giusta i suggerimenti di Virgilio, Plinio il Vecchio, s. Agostino), collocata in modo da dare le spalle a Damiata e guardare a Roma, e fatta di varie parti metalliche secondo la successione ovidiana delle quattro età dell'uomo (oro argento rame ferro). Stando alla maggior parte dei commentatori, tale successione significa il passaggio dell'umanità dalla sua condizione primitiva d'innocenza (età dell'oro o Paradiso terrestre), per effetto di una caduta presente anche nella tradizione pagana e determinata nella tradizione cristiana dal peccato originale, a una sempre maggiore corruzione, che nel Veglio prende ulteriore evidenza allegorica nel dettaglio del piede di terracotta (probabilmente la Chiesa) responsabile degli squilibri fra i due poteri universali del Medioevo (l'altro piede, di ferro, sarebbe l'Impero) e quindi di tutte le degenerazioni morali e politiche di cui ormai soffriva la comunità umana. Orbene, il corpo del Veglio, tranne che nella testa d'oro, è rotto da fessure che ‛ gocciano ' lacrime, le lacrime di tutti i peccati commessi dagli uomini nella storia della loro progressiva corruzione, le quali forano la grotta, entrano nel sottoterra e generano i fiumi infernali (If XIV 103-142). Un'origine questa che sembra identificarsi con l'idea generatrice di tutto il primo regno, creato per accogliere tutti i mali del mondo, essendo il luogo che 'l mal de l'universo tutto insacca (If VII 18); e che, per la sua stessa natura lacrimale, simboleggia con estrema pregnante sensorialità tutte le sofferenze della dannazione. Non a caso l'idrografia infernale, immaginata da D., gode di una disposizione fisica in un certo senso concatenante e significante delle varie zone: l'Acheronte è il passaggio obbligato per entrare nell'Inferno (If III 109-120; i commentatori moderni in genere escludono che sia Acheronte la fiumana di If II 108 - lo avevano invece sostenuto Benvenuto e il Tommaseo - e si esclude anche, dato il suo valore di allegoria o metafora [Pagliaro], che si possa considerare come uno dei fiumi infernali, anche se privo di denominazione - cfr. Buti, Vellutello, Flamini, Ciafardini, Sapegno, Chimenz -, né in tal senso interessa il nostro argomento la sua identificazione con l'Arno, sostenuta dal Nardi, o con la selva, sostenuta dal Blanc); lo Stige, che scaturisce da una fonte bollente e formante un tristo ruscel, il quale, quand'è disceso / al piè de le maligne piagge grige, si fa palude (If VII 100-108), è innanzi tutto il fiume dell'alto Inferno, quello che sembra raccogliere le ‛ lacrime ' dell'incontinenza e punire in modo particolare le sue forme più esasperate dell'accidia, dell'ira e della superbia (If VII 121-126), ed è in secondo luogo il fiume che occorre attraversare, per approdare alla città di Dite (If VIII 10-18, 25-30, 67-81); il Flegetonte e il Cocito appaiono a loro volta i fiumi delle due grandi sezioni della città infernale (Dite), la violenza e la frode: il primo, di sangue bollente (If XII 46-48, 101-102, XIV 77-78), attraversa il girone dei violenti contro il prossimo, che vi stanno immersi (If XII 124-132), gira attorno alla selva dei suicidi (If XIV 11) e riappare nella parte riservata ai violenti contro Dio (If XIV 76-84, XV 1-3), per poi precipitare fra il VII e l'VIII cerchio (If XVI 91-105); il secondo è il lago ghiacciato nel quale D. pone il IX e ultimo cerchio, cioè le acque dei fiumi raggiungono il pozzo... largo e profondo che è alla fine del primo regno e lì vengono investite dal gelante vento prodotto dalle ali di Lucifero (If XXXII 22-36, XXXIV 49-52): il Cocito è il luogo dei traditori, ma può essere inteso come il fiume di tutti i fraudolenti, se è vero che anche Malebolge sembra gravitare sopra di esso (If XVIII 1-9) e sembra inviare ad esso le sue ‛ lacrime '.
In altre parole, anche se con nomi diversi affiorano e scorrono solo in alcuni luoghi, che sono geograficamente gli spazi nodali e funzionali della struttura infernale, le acque dei fiumi prodotte dal Veglio attraversano tutto l'Inferno e lo rappresentano per intero con una simbologia, nella quale il fatto fisico delle lacrime è senz'altro l'amarissima fenomenica metafora di quello straziato e colpevole paesaggio umano. Tale il senso di alcune interpretazioni dei primi commentatori che, vedono la genesi e la successione dei fiumi come storia anche psicologica del peccatore che, precipitando sulle rive d'Acheronte e raggiungendo il suo luogo di pena, subisce quelle sconcertanti trasformazioni interiori e fisiche che ne fanno un dannato eternamente destinato a sentire la violenza delle lacrime versate per i mali commessi e destinato a versarne ancora come segno tangibile della sua pena: " Fanno queste lagrime di sé così discendendo, quattro fiumi, cioè quattro cose per le quali si comprende l'universale stato dei dannati... E nomina questi quattro fiumi, il primo Acheronte, il secondo Stige, il terzo Flegetonte, il quarto e ultimo Cocito; volendo per ‛ Acheronte ' intendere la prima cosa, la quale avviene a' dannati. Acheronte.., è interpretato ‛ senza allegrezza '; per la quale interpretazione assai si conosce colui il quale... discende in perdizione, avanti ad ogni altra cosa perdere l'allegrezza dell'eterna beatitudine... Stige è interpretato ‛ tristizia '... Per ‛ Istige '... intende l'A. ... quello che il misero peccatore, avendo... perduto l'allegrezza di vita eterna, abbia acquistato, che è tristizia perpetua... Il terzo fiume chiamato Flegetonte... è interpretato ‛ ardente '; volendo per questo... darne l'A. ad intendere che, poiché il peccatore è divenuto nella tristizia della sua perdizione, incontanente diviene nell'ardore della gravità de' supplicii, i quali con tanta angoscia il cuocono e cruciano e faticano che esso incontanente diviene nel quarto fiume, cioè nel Cocito, il quale è interpretato ‛ pianto '; per ciò che trafiggendo l'ardore delle pene infernali alcuno, esso incontanente comincia a piagnere e a... rammaricarsi: e questo pianto non è a tempo: anzi, sì come lo stagno mai non si muove, così questo pianto infernale ... sì come quello che dee in perpetuo perseverare... " (Boccaccio).
L'origine dei fiumi purgatoriali - il Lete e l'Eunoè - è invece soprannaturale (Pg XXVII 121-133): la loro acqua - dice il poeta - non surge di vena / che ristori vapor che gel converta, / come fiume ch'acquista e perde lena, / ma esce di fontana salda e certa, / che tanto dal voler di Dio riprende,/ quant'ella versa da due parti aperta. La ragione sta nella funzione che D. loro attribuisce di purificazione per un verso (il Lete concede l'oblio delle colpe) e di santificazione per altro verso (l'Eunoè tiene desta la memoria del bene compiuto): ufficio che non poteva essere assolto se non da acque dotate di superiori virtù. Dopo di che, anche nel secondo regno, l'idrografia sembra tutt'uno con la natura purgatoriale del luogo, perché effettivamente ne assomma ed esprime gli scopi fondamentali, giusta l'enunciazione iniziale: che in esso l'umano spirito si purga (il bagno nel Lete è la conclusione per così dire liturgica di tutto il processo di purificazione delle anime purganti) e di salire al ciel diventa degno (Pg I 5-6; il bagno nell'Eunoè serve a ravvivare la virtù intellettuale necessaria alla beatitudine).
Naturalmente non mancano sull'idrografia dantesca problemi particolari in ordine sia alla sua struttura, sia a certi condizionamenti letterari, sia ad alcune sue significazioni teologiche o filosofiche.
Sul piano strutturale, conviene ricordare intanto la questione dell'unicità o meno del sistema infernale (si scontrano, qui, le due tesi del Rossetti e del Barbi, da un lato, e del Blanc e del Pascoli, dall'altro: i primi due sostengono che ogni fiume nasca dal Veglio per suo conto; gli altri due invece credono che tutte le lacrime si convoglino in un solo corso dal quale poi si dipartono i vari fiumi) e vedere, ad esempio, se il bel fiumicello del Limbo sia da considerare di origine lacrimale: ciò che da alcuni studiosi viene escluso o per ragioni allegoriche (Michelangeli), o per ragioni fisiche (Ciafardini). Ma allora non tutte le acque scorrenti nell'Inferno provengono dal Veglio? Certo il nobile castello per molti aspetti (ma al riguardo è bene leggere le osservazioni del Pagliaro e del Bosco) gode di una certa autonomia nei confronti dell'Inferno propriamente detto, anche se è collocato nelle sue strutture, e il fiumicello ne è parte integrante. Ma il testo dantesco non offre elementi sufficienti per rispondere al quesito e in genere si potrebbe sostenere che il fiumicello sta agli altri fiumi infernali, come il nobile castello sta al resto dell'Inferno. A conclusioni controverse sono pure giunti i critici a proposito del ruscelletto che attraversa la natural burella e si getta poi nel Cocito: per il Buti e il Landino esso discende dal rigagno di If XIV 121 e avrebbe quindi origine lacrimale, ma è apparso evidente a tutti, da Benvenuto in poi, che esso precipiti dal Purgatorio e sia lo stesso cieco fiume di cui parla Catone (Pg I 40). Dopo di che, anche se qualcuno, come il Ciafardini, lo esclude con motivazioni non prive di qualche fondamento, esso viene ormai identificato col Lete (Tommaseo, Andreoli, Vandelli, Chimenz, Mattalia, ecc.).
Nello stesso ordine problematico entra l'origine e la natura dell'acqua tinta del cerchio dei golosi (If VI 7-12), solo che l'esclusione di essa dal sistema idrografico lacrimale non sembra emergere da alcuna notazione del poeta e non esistono ragioni per negare che le acque assunte come simbolo del male e strumento di pena abbiano la stessa provenienza e la stessa qualità per tutto l'Inferno.
Altre questioni strutturali dibattute (Murari, Filatete, Michelangeli, Del Lungo, Zingarelli, Ciafardini) sono quelle del percorso delle acque infernali e quindi della determinazione delle eventuali sorgenti, degli affluenti, dei modi metaforici o reali del loro bollire e del loro riversarsi, dello scorrere all'aperto o per via sotterranea, del traversare in pieno o aggirare i vari cerchi, dei caratteri (calore, colore, ecc.) che ciascun fiume assume, della loro grandezza e ampiezza, dell'imbattersi di D. e Virgilio nei vari corsi d'acqua, delle loro reazioni psicologico-morali e delle difficoltà incontrate nel superarli: questioni, spesso lambiccate e astratte, che interessarono soprattutto la critica positivistica e che oggi servono solo come ulteriori eventuali prove delle capacità descrittive del poeta, della sua fantasia geometricamente unitaria e realisticamente varia, delle sue doti di sintesi figurativo-morale.
Sul piano letterario, non sarà inutile individuare e illustrare alcune fondamentali ascendenze dei vari concepimenti e delle varie denominazioni e strutturazioni simboliche e funzionali dei fiumi infernali e purgatoriali. Quanto alla genesi lacrimale dei primi, non basta rifarsi alla tradizione biblica, la quale non solo suggerisce a D., attraverso Daniele, l'idea della statua metallicamente variegata, ma fornisce anche alcune preziose indicazioni sul concetto di lacrime come pena e castigo divino (Giacobbe [31, 5-40] se è vissuto nella menzogna e nella frode, nella concupiscenza e nell'oro, nel disprezzo degli altri e nella gioia delle miserie altrui, sente la sua terra gridare e i solchi versare lacrime; quando su di lui pesa il furore di Dio, David [3, 88] si sente infermo e sente i suoi occhi consumarsi; quando Dio gli è lontano, Geremia piange, i suoi occhi si sciolgono in lacrime [Lament. 1, 16]); né basta ricordare la tradizione classica rappresentata da Stazio, nel quale si trova l'idea specifica dei fiumi infernali riempiti di lacrime (Theb. VIII 26 ss.). La materia biblico-classica in D. si è medievalizzata. Perciò il Lubin riporta la significazione fondamentale del Veglio piuttosto alle dottrine di Ugo e Riccardo da San Vittore; il Pascoli addita le varie rielaborazioni mistiche medievali di Bernardo di Chiaravalle (In Nativ. Domini Sermo I) sul valore teologico ed etico delle lacrime e delle acque; il Busnelli cita il De Mystico somnio statuae Nabucodonosor di Riccardo da San Vittore, le cui immagini del paulatim defluere e del corruere in ima possono aver contribuito alla genesi dantesca dei fiumi infernali. Il Silverstein e il Pagliaro fanno capo a credenze anche medievali di statue che lacrimano. Quanto agli antecedenti letterari dei singoli fiumi dell'uno e dell'altro regno, il Ciafardini preferisce, sulle orme del D'Ovidio, le fonti classiche e ricorda la Tebaide di Stazio, nella quale figurano Acheronte Stige Flegetonte Cocito e Lete, il De Raptu Proserpinae di Claudiano, dove sono menzionati gli stessi fiumi e dove il Cocito appare addirittura fatto di lacrime, Ovidio, Silio Italico e infine Virgilio, che D. usò come fonte principale; ma non manca di accennare all'idrografia oltremondana della letteratura medievale, dove, se sono menzionati più laghi e stagni che fiumi e questi sono privi di denominazione, appaiono strutture fluviali non lontane da quelle dantesche (un fiume tutto sangue è nella Leggenda di s. Brandano; un fiume freddissimo è nel pozzo di s. Patrizio e così via). Lo stesso Graf, limitatamente ai fiumi purgatoriali, fa riferimento tanto ai quattro fiumi biblici che bagnano, secondo il Genesi, il Paradiso terrestre, e alle sorgenti di acqua miracolosa e ai fiumi menzionati nell'Apocalisse, quanto ai cenni contenuti nella letteratura cristiana (da Tertulliano a Draconzio), ma compie pure una proficua ricognizione in territorio medievale, e cita tra l'altro opere come l'Huon de Bordeaux e il Romans d'Alixandre, il Phisiologus di Teobaldo e i Bestiarii di Filippo di Thuan (si potrebbe aggiungere il Cons. phil. di Boezio, donde venne a D. l'idea dei due fiumi derivanti dalla stessa fonte: " Tigris et Eufrates uno se fonte resolvunt ", V metr. I 3). Una novità in questo senso è venuta dall'Asín Palacios, che ha messo in stretta relazione i fiumi purgatoriali di D. con i due fiumi del Paradiso terrestre dell'oltretomba musulmano: opinione in parte confutata prima dal Nardi, che preferiva citare Isidoro, secondo il quale Plinio pone in Beozia due fiumi dotati delle stesse proprietà dei fiumi danteschi (" alter memoriam, alter oblivionem adfert "; cfr. Etymol. XIII XIII 3) e poi dal Silverstein, anch'egli convinto assertore del prevalere, nelle reminiscenze dantesche, degli schemi idrografici di tipo cristiano su quelli di tipo islamico; ma opinione in seguito ripresa e avvalorata dal Cerulli. Altra novità quella fornita dal Pagliaro, che si rifà anche a credenze escatologiche orientali e ricorda il libro di Artāy Virāp, in cui figura un fiume oltremondano fatto di lacrime.
In sostanza, D. raccoglie i principali filoni escatologici della cultura ebraica e cristiana, classica e anche araba od orientale (dei quali non è sempre facile - dice il Mattalia - " fermare il punto o dosaggio delle trasfusioni e intercambi "), ma non solo, da poeta e da uomo calato nella storia e nella cultura del suo tempo, non rinunzia a quelle rielaborazioni strutturali che già distinguono i suoi dagli altri fiumi delle citate tradizioni letterario-religiose (per citare qualche esempio: lo Stige pagano scorre per nove giri e quello dantesco si esaurisce in un solo giro; ma al riguardo si leggano le puntuali notazioni del Ciafardini, secondo il quale D. " perfino nel suo Virgilio " aveva trovato " solo accenni, schizzi, abbozzi, molte volte confusi, qualche volta contradittorii " e poi " disciplinò quella materia caotica, incanalò quelle acque invisibili, e tracciò, con mano sicura, i loro alvei ed i loro percorsi. "), ma sopra tutto carica le sue idrografie di tutti gli elementi teologici e morali che presiedono alla genesi delle due prime cantiche.
Su questo piano, occorre risalire a tutta la significazione del Veglio e delle sue ferite e quindi alla dottrina dantesca del peccato e in un certo senso alla teologia o filosofia della storia che ad essa si collega. Certo, l'interpretazione che fa capo alla simbologia classico-biblica (il mito virgiliano-ovidiano integrato dalla visione di Daniele) fondata sull'idea grandiosa del corrompersi dell'uomo attraverso le varie età del mondo (Paratore), per la sua stessa natura prevalentemente letteraria, sembra dare al Veglio, alle lacrime e ai fiumi dell'Inferno la prospettiva solenne di secolari vicende, che storicamente parlando si vedono poco vicine al poeta. Perciò fa un notevole passo avanti, perché più aderente al testo e alla topografia morale della prima cantica, quella interpretazione di tipo etico-religioso che vede il male dell'uomo discendere dal peccato originale e le lacrime identificarsi con le stesse " anime peccatrici che si partono nella morte da queste cose terrene e discendono alla montagna, cioè dal mondo all'Inferno, e quivi si partono e fanno di sé li tre fiumi... sì come sono a tre generi ridotti tutti li peccati; cioè a incontinenza, malizia e bestialitate. Poi s'impaludano e fanno uno stagno detto Cocito, cioè ‛ pianto e gemito ', ch'è universale in tutte le dannate anime " (Ottimo); (così, anche se su un piano più analogico, Guido da Pisa: " Homines qui in peccatis commissis moriuntur, ad Inf. ad similitudinem aquae labuntur "). Tale il senso di esegesi più recenti e culturalmente più documentate, come quelle del Pascoli, del Busnelli e del Flamini. Secondo il Pascoli: " tra una rovina e un fiume si trova punita nell'inferno, prima la incontinenza di concupiscibile e d'irascibile, poi il disordine nella volontà, poi il disordine anche nell'intelletto. Le tre rovine dunque, come i tre fiumi a cui elle corrispondono sono in relazione indubitabile con la vulneratio di Beda. Il peccato originale indebolì queste quattro potenze dell'anima, sì da agevolare quelle quattro specie di peccati " (" Quattro? Ma sono tre. Sì, tre disposizioni: incontinenza, malizia con forza e malizia con frode. Ma l'incontinenza è duplice, di concupiscibile e d'irascibile. E così sono quattro "). Il Busnelli e il Flamini riprendono lo schema del Pascoli, ma si attengono di più alla dottrina tomistica: per il primo il Veglio è il vetus homo del peccato che si contrappone all'uomo nuovo rigenerato da Cristo, le ferite sono le vulnerationes naturae classificate da s. Tommaso in rapporto alle quattro potenze dell'anima costrette dalla colpa originale a peccare ex errore, ex malitia ed ex infirmitate, e i fiumi divengono il simbolo della corruzione umana per il peccato originale e per i peccati attuali; per il secondo, che accetta la ripartizione tomistica delle vulnerationes animae, le " dolorose conseguenze della corruzione dello stato originale " si restringono e riducono alla cupidità, al malo amore, al " moto disordinato dell'appetito sensitivo " (il fiume di lacrime) che poi si divide in " moto disordinato dell'appetito concupiscibile " (Acheronte), in " moto disordinato dell'appetito irascibile " (Stige) e in " passione dell'appetito sensitivo snaturato fino al punto di diventar simile a quella di bruto " (Flegetonte); il Cocito, invece, resta " il moto de l'appetito sensitivo arrestato dalla triplice spirazione diabolica ". Si attiene di più alle dottrine platoniche il Del Lungo, secondo il quale il " gemitìo delle lacrime " ha stretta attinenza con la " purgazione neoplatonica inerente al mutamento umano de' tempi " e si riporta a certe simbologie cosmografiche medievali l'Apollonio: " l'acqua di Acheronte e il fango di Stige, ora il sangue di Flegetonte, e infine il ghiaccio di Cocito, sono una stessa sostanza: come una sola linfa, nelle cosmografie medievali, di cui D. si ricorderà anche immaginativamente nell'operetta ultima, sono le acque " (ecco che l'essenza della vita infernale " è un pianto che goccia dall'uomo in sé e nelle sue vicende " e torniamo all'Ottimo e a Guido da Pisa). Solo che queste interpretazioni di natura etico-religiosa, anche se riproducono le istanze fondamentali dell'ispirazione dantesca, sembrano ignorare (il Busnelli, anzi, è esplicitamente polemico in questo senso) le esperienze e le ragioni politiche del poeta, che non furono certamente secondarie nell'elaborazione di tutta la sua topografia oltremondana. Per questo hanno un rilevante valore integrativo i saggi del Lubin, del Santangelo e del Varese che propongono anche un'articolazione politica di questa simbologia lacrimale e fluviale.
Il vero è che occorre conciliare le due fondamentali componenti del pensiero dantesco: la corruzione dell'uomo intesa come fatto religioso, legato anche alla decadenza della Chiesa, e come fatto storico-politico, legato alla decadenza dell'Impero. Dopo di che le lacrime scaturiscono da tutta la storia dell'uomo, specialmente dalla più recente, e i fiumi bagnano la città che non è solo realmente ed emblematicamente la negazione della città celeste, ma è anche in controluce la stessa città terrena, sopra tutto quella frequentata dal poeta, con le sue colpe morali e sociali, con la piaga del suo nuovo peccato originale (Montanari: l'invadenza dell'autorità religiosa in campo politico), una città storica proiettata fuori della storia, dove sono altrettanto reali e naturali quei fiumi, pur nella loro collocazione fuori della realtà e fuori della natura.
Se, infine, guardiamo rapidamente alla ‛ ragione ' teologica dei fiumi purgatoriali, ci sembra che il giudizio dei critici sia prevalentemente orientato verso interpretazioni in chiave cristologica e mistico-liturgica. Basterà ricordare il Pascoli e il Nardi. Per il primo, D. " nel suo Letè fonde le due idee di S. Bernardo; le due idee del fonte di vita che dalla ferita di Gesù morto è sgorgato a farci salvi, e del fonte di misericordia, nel quale ci laviamo dai nostri peccati. Tuttavia egli continua a leggere il sermone: ‛ Ma non solo questo è l'uso delle acque; né soltanto esse lavano le macchie, ma e la sete estinguono '. Ora nel Paradiso terrestre D. pone anche un altro fiume, l'Eunoè. In questo D. non è tuffato, ma vi beve... Gli altri fonti di S. Bernardo versano acque di ‛ discrezione ' che si bevono, per abitare nella sapienza e meditare nella giustizia; acque dolci di ‛ devozione ' per irrigare le piante novelle, acque di ‛ emulazione ' fervide per cuocere gli affetti nostri; dolci quelle per amare la giustizia, bollenti queste per odiar l'iniquità. Che tutti questi concetti D. assommi nell'Eunoè, vedesi dal fatto che a Eunoè beve, che il bere è dolce e ravviva la virtù, e più da ciò che colui che beve ritorna dall'onda come se fosse stato irrigato ". Per il secondo, D. ricrea nei suoi fiumi dell'Eden il concetto battesimale purificatore dell'acqua, di cui si hanno larghe tracce nell'Enarratio in Psalmos (CXVIII) di s. Ambrogio e nel commento biblico di Ruperto di Deutz.
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