FLAMBERTO
Mancano sue notizie prima dell'inizio del secolo X, quando risulta presente in qualità di sculdascio alla redazione del testamento del conte di Verona Anselmo (901-911). Nel 913 e nel 918 fece parte di collegi giudicanti, come vassallo del conte Ingelfredo, successore di Anselmo (913-921), sottoscrivendo come sculdascio il primo dei due placiti. Nel 921 appose la sua firma al testamento del vescovo di Verona Notker (morto nel 928).
Queste poche attestazioni permettono di tracciare un profilo sociale di Flamberto. Egli apparteneva alla ristretta cerchia (tre o quattro persone in carica contemporaneamente) di funzionari minori della contea di Verona: e in quel periodo nel Regno Italico tali funzionari minori operavano in genere - con la sola eccezione della contea di Piacenza - in città, in stretto contatto con il conte. Inoltre F. era vassallo diretto del conte di Verona, come lo erano anche gli altri sculdasci del Regno nella seconda metà del IX e nella prima metà del X secolo; si può constatare, infatti, che sin dalla fine del quarto decennio del secolo IX i legami di fedeltà personale si connettono sempre più strettamente con la funzione. Le fonti veronesi sono le uniche a testimoniare che il rapporto vassallatico istituzionale sopravviveva al vincolo personale; F., infatti, al pari del suo collega Gummerico, servì sia il conte Anselmo, sia il successore di questo Ingelfredo. Ciò, tuttavia, non va interpretato come un segno di maggiore peso del rapporto di servizio rispetto a quello feudale, ma piuttosto come indicazione del potere politico acquisito dagli sculdasci in città.
Dai documenti in cui è menzionato risulta che F. esercitò le sue funzioni soprattutto nel campo giudiziario. Neppure sotto questo profilo Verona costituiva un'eccezione: il ruolo svolto da F. nel placito non era quello di tecnico del diritto, bensì quello di rappresentante del potere pubblico. Gli sculdasci a quest'epoca, infatti, non erano scelti in base alla loro preparazione giuridica. F. si differenzia però dai suoi colleghi in carica nel Regno per il fatto di sapere scrivere; in tal modo egli si ricollega agli sculdahis toscani e spoletini del secolo VIII. Questa superiore preparazione culturale è indice di una posizione personale di F. molto privilegiata: egli era infatti legato a Berengario I da vincoli personali, avendo tenuto a battesimo un figlio dell'imperatore.
Dai documenti nei quali compare si può desumere che stava più vicino al sovrano che al conte: il placito del 913, al quale F. presenziò, era presieduto dal re, mentre la sua sottoscrizione del testamento del vescovo Notker, redatto a Mantova, indubbiamente si spiega più con la presenza di Berengario nella città che con un legame tra il vescovo e lo sculdascius. Tenendo presente tutto questo, si precisa meglio la carriera personale di Flamberto. Come funzionario comitale di primo piano sembra aver approfittato della presenza della corte imperiale a Verona per imporsi nell'entourage più stretto di Berengario, entrando forse nella feudalità imperiale (anche se non esiste nessuna prova documentaria per avvalorare l'ipotesi, spesso formulata, di un legame vassallatico fra F. e Berengario).
Uno dei motivi dell'ascesa sociale di F. - quali che siano state le sue qualità personali - doveva essere la sua origine etnica. Il suo nome, piuttosto frequente al di là delle Alpi (ricorre spesso, ad esempio, nel necrologio di Reichenau), era invece rarissimo in Italia. Ciò permette di raccordare F. a un gruppo familiare veronese nel quale ricorrono spesso i nomi di Flamberto e di Frediberto. Nel 938, nel 946 e nel 948 compare un Flamberto (III) "de civitate Verone" o, più precisamente, "de foris portam Organi", che è figlio di un Frediberto (II) e padre di un altro Frediberto (III), prete (944 e 948) e poi camerario della cattedrale di Verona (954). Frediberto (II), alemanno, nel 914 è attestato nell'entourage del conte Ingelfredo, nel 946 risulta defunto. Suo padre Artecausus, nel 914 già morto, era contemporaneo di un primo Frediberto, attestato come scabinus nell'884 e nel 912 come già deceduto, e di un pruno Flamberto, che nell'880 aveva fatto parte di un collegio giudicante. Anche se non si conoscono né i legami di parentela tra questi personaggi della prima generazione, né l'esatta posizione genealogica di F. sculdascius, è tuttavia fuori dubbio che ci troviamo di fronte a un gruppo di parenti uniti dalla stessa origine alemanna, che esercitavano regolarmente funzioni presso la corte comitale e nel clero cittadino. La loro posizione del resto non è molto diversa da quella degli altri sculdasci della fine del IX secolo, di cui sono spesso attestati l'origine franca o alemanna e i legami sociali e familiari con il gruppo degli scabini. Nel caso specifico c'è da notare che Verona era una delle città del Regno con più alta concentrazione di alemanni. Lo stesso conte Ingelfredo, del quale F. era vassallo, apparteneva a questa etnia.
Gli avvenimenti per i quali F. è noto vengono raccontati da Liutprando di Cremona. Nella primavera del 924 egli si mise alla testa di un gruppo.di congiurati che decisero la morte di Berengario. Informato del complotto, l'imperatore lo invitò a recarsi presso di lui e lo rimproverò, credendo di riconquistare la sua fedeltà con il perdono e con il regalo di una pesante coppa d'oro. Il giorno dopo Berengario lasciò il tuguriolum incustodito, dove aveva passato la notte, e si recò a pregare nella vicina chiesa di S. Pietro in Castello. Con il pretesto di assicurare la sua protezione, F. riuscì ad avvicinarsi a lui con un gruppo di armati e lo fece assassinare (7 apr. 924). Un altro familiare dell'imperatore, il giovane Milone, diventato in seguito conte di Verona, vendicò il suo signore tre giorni dopo l'attentato, impiccando F. e i suoi complici.
Relativamente ai motivi che abbiano indotto F. ad eliminare l'imperatore, si è pensato spesso a un'ambizione personale delusa. Il racconto di Liutprando sembra infatti avvalorare un'interpretazione del genere, ma è anche vero che la tentazione di tracciare due ritratti opposti - quello di un traditore immemore delle grazie ricevute dal sovrano sempre pronto al perdono (come era avvenuto per quel Giselberto di Bergamo che nel 921 aveva ordito un primo complotto) e quello del "iuvenis fidelis benefitii non immemor", vendicatore dell'assassinio del suo signore - doveva essere molto forte per il cronista. L'ingresso nella feudalità imperiale - se effettivamente c'è stato - poteva certamente far sperare F. di esercitare funzioni più importanti di quelle di un semplice sculdascio comitale. Ma, al di là delle possibili motivazioni psicologiche, sembra più importante rilevare che F. doveva trovarsi alla testa di una fazione molto forte (Liutprando la chiama infatti "populus" e addirittura "i Veronesi") e si deve presumere che la città in quel momento esitasse a sostenere l'imperatore, sconfitto da Rodolfo di Borgogna il 17 luglio 923 a Firenzuola. Parlando della morte di Berengario I, Costantino (VII) Porfirogenito tralascia d'altronde ogni accenno ad eventuali motivi dell'assassinio e stabilisce un rapporto semplice e diretto quasi del tipo di causa ed effetto, tra la congiura riuscita e l'ascesa al potere di Rodolfo di Borgogna.
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