DELFINI (Delfino), Flaminio
Nacque a Roma il 1° nov. 1552 da Mario e Properzia Miccinelli.
Le scarsissime notizie, le reticenze e i probabili occultamenti dei contemporanei e degli stessi membri della famiglia sulle origini dei genitori e sull'ambiente domestico sono da attribuire al fatto che il lustro cittadino acquisito dal D. e dai suoi fratelli e sorelle (queste ultime, tranne una destinata al convento, assai oculatamente maritate con rampolli dei Massimo, Lancellotti, Vittori, Altieri e Celsi) dagli anni '90 in poi, poco si accordava con la natura "mechanica" della fortuna iniziale: il padre infatti, secondo un'attendibile testimonianza, "vecchio molto retirato, avaro et ricco, robusto et tutto dedito allo arraffare... faceva latte de' capra con la quale se arricchì" nel rione Campitelli nei pressi di S. Caterina de' Funari (Ferrajoli, 282, ff. 361-362v).
Giovanissimo, il D. iniziò a militare come soldato con Marcantonio Colonna e don Giovanni d'Austria prendendo parte alla battaglia di Lepanto. Per quattordici anni combatté nelle Fiandre e in Francia agli ordini di Alessandro Farnese, divenendo capitano di cavalleria: si mise in evidenza durante l'assedio di Utrecht di cui fu uno dei rari superstiti, e partecipò alla "serrata" del canale d'Anversa e alla conquista di Venloo nel giugno del 1586. Forse fece parte per alcuni mesi delle armate di Enrico di Borbone. I trascorsi bellici e l'esperienza acquisita nella lunga milizia all'estero furono determinanti nella sua carriera militare: assoldato per breve tempo da Ferdinando granduca di Toscana, venne chiamato a Roma il 20 ott. 1591, in sede vacante, richiesto dal cardinal decano Gesualdo con il compito di formare cinque compagnie di cavalleria, quattro di archibugieri ed una di lance, con il grado di colonnello ed una provvisione di duecento scudi al mese. L'occasione di ricoprire un ruolo militare di rilievo gli capitò di lì a poco, quando il neocletto Clemente VIII Aldobrandini decise di fronteggiare e di risolvere con decisione il fenomeno dilagante del banditismo nello Stato pontificio: l'instabilità di governo per il rapido succedersi di quattro pontefici in un anno e mezzo, le carestie periodiche, la cacciata di vagabondi da Roma e la crisi di fiducia delle popolazioni nei confronti della S. Sede e delle sue milizie regolari avevano determinato una situazione assai allarmante, specie in riferimento al sempre minor afflusso di pellegrini, scoraggiati dall'insicurezza crescente delle strade, e dai seri danni economici che le azioni di rapina provocavano ai traffici dell'asse commerciale tra Roma e Napoli.
Al D. e a Celso Celsi, agli inizi del 1592, venne affidato l'incarico di concepire un piano strategico in grado di debellare la piaga: nominato comandante delle truppe pontificie, il D. ebbe un ruolo di primo piano nella manovra a tenaglia che dal Viceregno di Napoli e dallo Stato pontificio andava stringendo le formazioni militari dei banditi, in particolare quella notissima e temutissima di Marco Sciarra e dei suoi luogotenenti Cicco Castiglio (Pacchiarotto) e Battistella di Montegrino. L'operazione a vasta scala non presentava però soltanto aspetti squisitamente militari ma bensì politici e sociali: il sostegno della nobiltà romana e il favore di parte delle popolazioni che mal sopportavano le vessazioni della "sbirreria" rappresentavano gli ostacoli più duri da rimuovere soprattutto nella persecuzione dello Sciarra, abilissimo nella percezione dei malumori popolari e nelle colleganze con i centri periferici del potere nobiliare. Tutti questi aspetti furono ben presenti nelle intenzioni dei responsabili della campagna se, accanto alle proposte militari di "smacchiare le selve" di Campomorto con il fuoco, si faceva l'ipotesi demagogica di un possibile utile per i carbonari affamati e senza lavoro della zona, e se, accanto all'idea di impedire i trasferimenti in aperta campagna o l'uscita dai boschi ai banditi con la cavalleria oppure con la sorveglianza stretta dei passi e dei punti strategici, ci si proponeva di coinvolgere la popolazione nell'isolamento dei malviventi e dei fuorusciti con lo scopo di "levarli il recetto, mettere mali pensieri tra loro, con pagare taglie e remissioni..." (Borghese, II, 467, ff. 11v-12).
Nel febbraio 1592, il D. venne inviato nelle Marche all'inseguimento di Marco Sciarra cominciando così la spedizione vera e propria, resa ancora più urgente dalla disperazione delle Comunità colpite dalle scorribande che nelle suppliche al papa ormai minacciavano apertamente "di andare a ponersi sotto altro signore".
L'inizio delle operazioni si dimostrò subito difficile: poche scaramucce con qualche "buon profitto", concesse da un avversario sfuggente e sorprendentemente armato ed organizzato, furono gli unici risultati raggiunti, peraltro offuscati e sbiaditi dalle continue diserzioni verso le schiere banditesche che, come lamentava il D., erano causate dall'insufficienza dello stipendio accordato (sei scudi al mese) e del numero degli effettivi. Contemporaneamente, si assisteva al fallimento delle numerose proposte di riabilitazione e di impunità offerte dal papa e dal viceré di Napoli.
Accogliendo alcuni suggerimenti del D., Clemente VIII si convinse della necessità di porre in campo altre forze militari e il 20 aprile al comando di Giovan Francesco Aldobrandini tremila soldati - tra cui alcune centinaia di poco affidabili albanesi e corsi -, trecento cavalli e alcuni pezzi di artiglieria si misero alla caccia dei banditi, tentando di migliorare la coordinazione strategica con le truppe vicereali guidate da Adriano Acquaviva, conte di Conversano, che stavano incalzando dal Meridione.
In questa fase ci si dedicò soprattutto allo Sciarra e ai suoi luogotenenti; e proprio questi ultimi, mentre il loro capo sfuggito ad un tentativo di avvelenamento scorreva furente il Lazio, si scontrarono con il D. il 22 apr. 1592 nei pressi di Camerino: in seguito, sebbene non vi fosse stato un vantaggio evidente per nessuna delle parti belligeranti, la presenza dei banditi, senza l'intelligenza militare e la personalità carismatica dello Sciarra, andò progressivamente scemando.
Il D. poté ben presto ricongiungersi alle truppe dell'Aldobrandini e dell'Acquaviva per tallonare Marco Sciarra che, dopo alcuni contatti armati di rilievo a Castro dei Volsci e a Subiaco, fu costretto a riparare negli Abruzzi. Il 22 maggio, il D. al seguito del generale pontificio capitò in una grave imboscata tesa dai banditi marchigiani presso Rosara subendo serie perdite e uscendone miracolosamente indenne. Si trattava tuttavia di colpi di coda e già alla fine del mese la situazione nello Stato pontificio era rientrata nella normalità a tal punto che l'Aldobrandini, prossimo al trionfale rientro in Roma, lasciava il D. con soli duecento fanti nell'Ascolano per vigilare contro eventuali e ormai improbabili azioni banditesche.
Il D., però, doveva tornare a svolgere un ruolo di primo piano nel febbraio 1593: all'epoca infatti Marco Sciarra, imbarcato su un vascello sequestrato a Candia dove era stato inviato da Venezia con i suoi compagni transfughi per combattere contro i Turchi e sfuggire così alla riconsegna al papa, ritornò nuovamente nello Stato pontificio prendendo terra nei pressi di Ancona, deciso a riorganizzare le bande. Nell'occasione, il D. fu l'artefice primario dell'uccisione dello Sciarra: appena trapelata la notizia dello sbarco, dichiarò al papa la sua disponibilità a rintuzzare il tentativo e a liberare definitivamente lo Stato dai fuorusciti nel giro di tre mesi chiedendo però, memore probabilmente d'impacci sofferti l'anno precedente, di non voler "trattare con preti, né riconoscere, nella occorrenza, superiore veruno che lo impedisca" (G. Morelli, Contributi..., p. 318). Questa sorprendente determinazione era originata dal fatto che era riuscito a portare a termine un colpo astuto e decisivo: si era accordato con Battistella che, sentendosi tradito dalla fuga dello Sciarra a Venezia e vieppiù allettato dalla taglia di quattromila scudi, era entrato come capitano nelle sue milizie e aveva ottenuto l'indulto in contropartita alla collaborazione nel perseguire l'ex capo. In effetti, questa alleanza tra il D. e l'ex luogotenente funzionò a dovere: dopo una breve ricerca ed una serie di diversivi e aggiramenti strategici, lo Sciarra fu ingannato, circondato, stanato dal D. e infine ucciso per mano dello stesso Battistella il 15 marzo 1593 nei pressi di Ascoli.
Il D. prese poi parte alle spedizioni dell'esercito pontificio di Gian Francesco Aldobrandini volute nel 1595 e nel 1597 da Clemente VIII per affrontare i Turchi avanzanti in Ungheria: comandante della cavalleria ausiliaria, si distinse soprattutto nella seconda campagna militare nella presa della piazza di Papa e nella vittoria sulle forze ottomane conseguita in campo aperto a Vác.
Nel febbraio 1599 un breve papale lo destinò come inviato pontificio alla corte praghese di Rodolfo II nel quadro di un tentativo di mediazione tra la Repubblica di S. Marco e l'imperatore circa le gravi molestie alla navigazione e alle coste dalmate arrecate dagli Uscocchi e, in particolare, dalle terribili incursioni dei pirati di Segna. Il papa assumeva il ruolo tradizionale di pacificatore delle potenze cristiane per smussare le controversie, per garantire la tranquillità dei traffici adriatici e salvaguardarli dalle "robarie" e per ristabilire un equilibrio politico al fine di fronteggiare più solidamente la persistente minaccia turca.
In un rapido soggiorno a Venezia, alla fine del mese di febbraio, il D. chiarì a se stesso con una serie di abboccamenti con il nunzio apostolico Offredo Offredi gli obiettivi principali della sua missione: bisognava lavorare per far accettare all'imperatore, o almeno far sì che non interponesse ostacoli insormontabili alla sua realizzazione, un accordo tra Venezia e gli Uscocchi e, in secondo luogo, era necessario organizzare la repressione delle attività banditesche. Sulla prima questione egli poté verificare già a Venezia una frattura difficilmente ricomponibile tra la Repubblica e l'imperatore: i Veneziani premevano per una punizione esemplare degli Uscocchi con un intervento militare la cui competenza principale spettava all'imperatore stesso. Rodolfo II, al contrario, dimostrava di non gradire l'ipotesi di un intervento diretto e spicciativo temendo di orientare sudditi, preziosi militarmente e politicamente, verso suggestioni filoturche; inoltre, una spedizione sarebbe risultata problematica per la difendibilità ed inaccessibilità dei luoghi da occupare e controllare nonché per i suoi costi proibitivi. A questi problemi di ordine politico, militare e finanziario si aggiungeva la consapevolezza di una crescente animosità veneto-imperiale caratterizzata da reciproche accuse di scorrettezza ed ambiguità: a Venezia si lamentavano il "favore", il "ricetto", le "comodità", il "vettovagliamento" che venivano accordati agli Uscocchi dalle popolazioni di Fiume, Trieste e Lovrana con il tacito consenso dell'arciduca Ferdinando d'Austria; a Praga si sospettavano invece accordi sotterranei orditi dalla Repubblica con i Turchi per reprimere la pirateria di Segna: tutto invitava a grande cautela.
La risoluzione delle azioni di corsa sembrava pertanto la più attuabile nel breve periodo: al D. era affidata l'organizzazione di una repressione selettiva, oculata ed essenziale in grado di colpire i personaggi responsabili degli atti pirateschi e vandalici, tra cui molti fuorusciti, separandoli ed isolandoli dalle popolazioni uscocche che avrebbero potuto risultare utili in Ungheria nelle armate destinate a sostenere gli urti ottomani. E D., dunque, forte delle esperienze e delle dimestichezze acquisite nella repressione del banditismo nelle Marche e di una serie di aderenze e conoscenze praghesi, avrebbe dovuto affiancare come prestigioso consigliere politicomilitare il nunzio residente, Filippo Spinelli, nel corso delle trattative.Giunto a Praga l'11 marzo il D. s'imbatté immediatamente in un contesto che lasciava poca speranza ad un rapido raggiungimento degli obiettivi pontifici. Nonostante la devozione e il senso diplomatico del D., privo di irruenze e di frettolosità, non si ottenne nulla di significativo e di concreto dall'imperatore: sebbene avesse strappato nell'aprile "per scrittura in forma di decreto" un generico impegno di Rodolfo II, insoddisfacente nei dettagli operativi, ad affrontare il problema uscocco e il diffondersi della pirateria, egli fu testimone di un palleggiamento di responsabilità circa l'organizzazione dell'intervento militare e dell'avvio delle trattative con Venezia tra la corte praghese e l'arciduca Ferdinando.
Nel maggio il D. segnalava la "bonissima intentione", la "dispositione prontissima", le "deliberationi convenienti" che si concretizzavano in un nulla di fatto; si asteneva dal pretendere per il momento una maggiore efficacia dell'intervento imperiale, consigliava alla prudenza coloro che, negli ambienti di corte, suggerivano un'aperta rottura con i Veneziani sottolineandone l'inopportunità ed intempestività. Più attento del nunzio al senso generale del dissidio esistente tra la Repubblica e l'imperatore, cosciente delle reciproche diffidenze delle parti, non rimase però mai molto convinto della giustificazione ricorrente fornita dai consiglieri imperiali di non poter disporre dei fondi necessari per procedere all'occupazione di Segna e al controllo militare della regione: coltivò anzi con fermezza l'opinione che i ritardi e il disinteresse verso l'intera materia fossero determinati da una scelta politica e non da una difficoltà tecnica "poiché con ben pochi soldi di presente si potrebbe incamminar il negotio con quiete di tutti, almeno pe spatio di tempo" (Horvat, Monumenta..., I, p. 227).
Nei mesi seguenti "ben pasciuti di speranza e con parole", il D. attese insieme al nunzio segnali di mutamento della situazione, inviando di tanto in tanto ripetitivi memoriali ed inviti all'azione a Rodolfo II e all'arciduca Ferdinando. Nell'agosto egli tentò d'insinuare presso i consiglieri imperiali l'opportunità di accettare un prestito dai Veneziani che richiedevano in cambio alcune porzioni di territorio costiero, senza ottenere risultati di rilievo. A termine di un soggiorno inutile e logorroico, premiato con trecento scudi d'oro, nel gennaio 1600 gli venne concesso di rimpatriare: travagliato dalla podagra e dalla sciatica, rimessa la trattativa nelle sole mani dello Spinelli, non partì che nell'aprile alla volta di Roma ove giunse nell'estate dopo un viaggio penoso.
La conquista turca della fortezza di Kanizsa, e i fondati sospetti di una massiccia offensiva ottomana determinarono l'allestimento di una terza spedizione in Ungheria: il D. vi partecipò come vicegenerale di Gian Francesco Aldobrandini. In collaborazione con il commissario apostolico di campo Serra, curò il coordinamento dei trasferimenti, degli sbarchi e del vettovagliamento delle truppe e l'esecuzione della "piazza della mostra" a Zagabria. In occasione della malattia e della conseguente morte dell'Aldobrandini sopraggiunta il 17 sett. 1601 a Varasdino, il D. si vide affidare il supremo comando delle truppe pontificie con l'incarico di partecipare al tentativo di assedio di Kanizsa.
Già in fase di faticoso avvicinamento all'obiettivo con seimilacinquecento soldati, il D., consapevole del pessimo andamento della campagna, era perplesso sull'utilità dell'impresa; inoltre, partecipe anch'egli di una mentalità protagonistica, era contrariato all'idea di dover collaborare con personaggi sgraditi come Giovanni de' Medici, che "non solo decide et giudica con tal risolutione che neanche un duca d'Alba et uno Alessandro Farnese crederei che lo facesse, ma punge et offende non mediocremente" (Borghese, III, 93 [b. 2], f. 15v). Giunto al campo il 10 settembre, dove già si trovavano l'arciduca Ferdinando coadiuvato da Vincenzo Gonzaga, constatò personalmente le numerose difficoltà esistenti: "mancamento del pane", "macchie molto serrate", "pantano", "acque travagliose" creavano enormi problemi di sopravvivenza e rifornimento alle truppe; all'alacrità e all'efficienza degli avversari che "dentro si alzano con terrapieni et fuora fanno tagliate, trincieroni et rivellini" (ibid., 115 [b-f], f. 184) si opponevano ritardi nel costruire "li gabioni et le fascine" per assicurare protezione e sussistenza, l'insipienza assoluta dell'arciduca aggravata dal disaccordo strategico e dal clima isterico presente tra i comandanti italiani.
Ai primi di ottobre il D. guidava l'assedio dal lato orientale con tremila fanti e piazzava dieci pezzi di artiglieria davanti alla porta della città fronteggiando quotidianamente le febbri e le diserzioni che intaccavano inesorabilmente il contingente. A metà del mese un piano d'assalto compiuto insieme ai Fiorentini ed ai Tedeschi finì miseramente per una sortita nemica: a chi voleva insistere con questo genere di azioni estemporanee, egli contrappose considerazioni più sensate "perché in mezzo habbiamo ancora pantano, fossa e baluardo non ridotto a termine... non solo vite et in piede tutte le offese di fianco et di fronte, ma di volta in volta ci si scuoprono nuove pezze ch'essi piantano in contro, con poca dignità della nostra artiglieria" (ibid., f. 203). Dopo un ultimo disperato quanto inutile e sanguinoso assalto il 28 ottobre, alla metà di novembre, venne decisa dall'arciduca la ritirata: avvenuta in coincidenza con l'arrivo dei soccorsi venne giudicata dal D., già scandalizzato per le leggerezze dimostrate nella condotta suicida dell'assedio, improvvisa e mal preparata; una rotta insensata, "senza haver altro inimico che il maltempo di freddo e di neve, il quale si sarebbe potuto sopportare per otto giorni affine di ritirarsi poco degnamente et non fuggirsi in tanto strano modo" (ibid., f. 208). A Petovio riformò le compagnie sbandate di soldati scampati alle malattie e all'assideramento; "sbattuti, annichilati, destrutti, disarmati, nudi, avviliti", attaccati, "per condimento" ai guai e alle miserie già esistenti, dalle popolazioni al loro passaggio giunsero attraverso Lubiana a Gorizia e vennero imbarcati alle foci dell'Isonzo.
Tornato a Roma ottenne nel giugno 1602 il comando della squadra navale pontificia succedendo a Cesare Magalotti: impiegato in servizi di scorta ebbe modo di battagliare con successo con imbarcazioni corsare. Cessato l'incarico l'anno seguente, venne temporaneamente bandito dallo Stato per aver fatto uccidere da sicari nella macchia di Bassano un corteggiatore della sorella Drusilla Massimo, dopo aver rifiutato la proposta di duello offerta dal malcapitato. Richiamato dal papa che aveva apprezzato la sua autodenuncia e non aveva ignorato il ruolo e il prestigio raggiunti dal D. nella società romana, venne nominato governatore delle armi della piazza di Ferrara dove morì il 26 ott. 1605. Fu trasportato a Roma per venire sepolto nella cappella gentilizia di S. Maria in Aracoeli.
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