PIATTI, Flaminio.
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Nacque a Milano (o a Turbigo) verso il 1550 da Girolamo, di famiglia patrizia, e Antonia Vismara d’Aragona. Ebbe diversi fratelli: Ludovico, che fu medico e membro del Collegio dei fisici di Milano; Ottavio, nato nel 1548, il quale entrò nella Compagnia di Gesù, assumendo il nome di Girolamo e morì nel 1591; Domizio, anch’egli gesuita.
Dopo essersi laureato in utroque iure presso l’Università di Pavia (1574), entrò nel Collegio dei giureconsulti di Milano (1575). Negli anni 1579-80 insegnò presso le Scuole Palatine di Milano. Nel 1582, il Collegio dei giureconsulti lo indicò per l’ufficio di avvocato concistoriale che, sulla base di un privilegio di Pio IV, era riservato a un suo membro. Era l’inizio di una tipica carriera di giurista-prelato negli uffici curiali: infatti, nel febbraio 1586, papa Sisto V lo nominò uditore presso la Rota pontificia, in sostituzione del milanese Gaspare Visconti che era stato promosso vescovo di Novara e quindi arcivescovo di Milano.
Piatti doveva vantare buoni rapporti – se non proprio una sorta di parentela, peraltro non provata – con il concittadino Nicolò Sfondrati se questi, non appena divenne papa con il nome di Gregorio XIV, gli concesse la porpora, il 6 marzo 1591, con il titolo di cardinale diacono di S. Maria in Domnica (che l’anno successivo cambiò in quello dei Ss. Cosma e Damiano). Il nuovo cardinale fu da subito coinvolto dal pontefice nella spinosa questione della successione del duca di Ferrara, feudatario della S. Sede.
Infatti Alfonso II d’Este, privo di discendenza diretta, aveva chiesto al papa di autorizzare la successione del cugino Cesare, figlio di un figlio naturale del duca Alfonso I d’Este. Tale soluzione cozzava con le disposizioni della bolla di Pio V (1570) contro le infeudazioni di porzioni del territorio pontificio, dato che Cesare apparteneva a un ramo cadetto degli Este. Gregorio XIV, pur favorevole al duca, nell’agosto 1591 affidò il compito di dirimere la questione a una congregazione di 13 cardinali. Piatti fu tra coloro i quali presero apertamente posizione per soddisfare le richieste estensi: tuttavia solo egli e altri quattro porporati votarono a favore dell’estensione dell’investitura del Ducato di Ferrara (e solo due uditori di Rota su otto). Pertanto Gregorio XIV, nel settembre di quell’anno, decise di emanare un decreto con cui, interpretando il senso della bolla di Pio V, stabiliva che il pontefice potesse infeudare un territorio non ancora devoluto alla S. Sede e che la questione della successione al Ducato di Ferrara non era ricompresa nei casi della bolla del predecessore. La cosa sollevò aspre polemiche in Concistoro e lo stesso duca Alfonso II chiese che la questione fosse risolta con un’apposita bolla papale, dato che un eventuale breve avrebbe potuto essere agevolmente revocato da un successore. La malattia e quindi la morte del pontefice lasciarono la questione insoluta.
Nel gennaio 1592, in occasione del conclave dopo la morte di papa Innocenzo IX, Piatti fece parte, insieme a Paolo Emilio Sfondrati e Federico Borromeo, al gruppo di 16 cardinali che, sotto la guida di Marco Sittico Altemps, si opposero apertamente all’elezione del cardinale inquisitore Giulio Antonio Santori, sostenuto da Filippo II di Spagna ma ritenuto eccessivamente rigido da buona parte del Collegio cardinalizio. Dopo l’elezione di Clemente VIII, però, Piatti fu escluso dalla nuova congregazione di cardinali incaricata di discutere la successione al Ducato estense, anche se suggerì al papa di evitare di smentire apertamente il predecessore. Fu comunque beneficiato di una pensione di 1000 ducati annui dal re cattolico.
Nell’autunno 1594 era a Milano, allorché la congregazione dei Vescovi e dei regolari diede ordine al vescovo di Tortona di rivolgersi a lui per averne aiuto nella controversia circa la giurisdizione feudale su gran parte della diocesi, negata dal Senato milanese. La medesima congregazione, nel gennaio 1595, gli diede mandato di vigilare affinché, spirato l’arcivescovo Gaspare Visconti, l’economo del capitolo della cattedrale assumesse il possesso e l’amministrazione dei beni della mensa arcivescovile milanese senza interferenze delle autorità.
La sua mediazione ebbe scarso successo, se nel 1596 scoppiò a Milano un grave conflitto giurisdizionale che portò il cardinale Borromeo a scomunicare Jacopo Menocchio, presidente del Magistrato delle entrate straordinarie, difeso a spada tratta dal governatore Juan Fernández de Velasco, connestabile di Castiglia, e dal Senato. Per cercare di sanare la vertenza, le autorità milanesi inviarono a Roma il senatore Lorenzo Polo e l’avvocato fiscale Alessandro Rovida. Papa Clemente VIII designò una commissione di quattro cardinali incaricati dei negoziati: Silvio Antoniano, Benedetto Giustiniani, Girolamo Pamphili e lo stesso Piatti. Questi ne assunse di fatto il coordinamento: la sua condizione di fedele suddito milanese del re cattolico, dotato comunque di una propria autonomia, unita al fatto di essere un leale collaboratore della politica papale, lo rendeva il soggetto più idoneo a cercare di sbrogliare una matassa assai ingarbugliata. I lavori non portarono però a nulla.
Nel febbraio 1598, fu chiamato a far parte del seguito del papa nel suo viaggio a Ferrara e quindi, fra l’aprile e il luglio seguenti, fu delegato da Clemente VIII a condurre trattative informali con il governatore e il Senato per risolvere il conflitto giurisdizionale che era riesploso a Milano. Giunto nella capitale lombarda ai primi di aprile, il porporato segnalò che il connestabile di Castiglia e i ministri regi apparivano ben intenzionati a chiudere la vertenza. Tuttavia Piatti seguì una strategia sin troppo cauta: infatti si mostrò reticente a negoziare, al fine di smentire le voci secondo cui il pontefice lo aveva inviato ad accordarsi con le autorità, con palese danno alla reputazione di Borromeo. Egli intendeva acquisire un vantaggio procedurale e psicologico, facendo in modo che Clemente VIII, puntualmente informato tramite il cardinale nipote Pietro Aldobrandini, gli inviasse un ordine esplicito di intervenire nell’ingarbugliata vicenda, ma solo per effetto delle preghiere dei ministri della Corona. Inoltre pose la condizione ai ministri regi che, prima di iniziare le trattative, si ripristinasse lo status quo ante. Su queste basi il negoziato si protrasse per alcuni mesi senza alcun esito.
Negli anni successivi non vi sono molte notizie sull’attività del cardinale. Membro della congregazione del Concilio sin dal 1592, entrò in quella dei Vescovi e regolari nel 1605. Rimase comunque legato agli interessi della propria famiglia a Turbigo: non solo donò alcune reliquie alla parrocchiale di Turbigo, ma vi avviò la fondazione di una chiesa e di un convento agostiniano. Si spese inoltre a favore della causa di canonizzazione di Carlo Borromeo, proclamato santo nel 1611.
Nel 1602 uscì postumo il trattato del fratello Girolamo, De cardinalis dignitate, dedicato proprio a Flaminio. Nel 1603, nella sua relazione all’ambasciatore spagnolo, il marchese di Villena, Girolamo Frachetta definiva Piatti come figura assai erudita nelle questioni legali e dotata di «non mal giuditio», ma non particolarmente stimata dagli altri porporati e del tutto fedele al cardinale Sfondrati, per gratitudine al papa che gli aveva concesso la berretta cardinalizia.
Partecipò ai due conclavi del marzo e maggio 1605. Nel marzo 1606 fu nominato cardinale protettore della Congregazione dei canonici regolari lateranensi. Dal gennaio 1610 al gennaio 1611 fu anche camerlengo del Collegio cardinalizio.
Morì a Roma il 1° novembre 1613 e fu sepolto nella chiesa del Gesù.
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