Flegias
Personaggio mitologico, cui in età più antica si riferivano tradizioni diverse che poeti e mitografi hanno conservato solo parzialmente, sì che nelle menzioni più tarde F. appare con tratti abbastanza vaghi e contraddittori. Figlio di Ares, fu, secondo una versione del mito, re dei Lapiti; ma dai principali mitografi è ricordato soprattutto come eponimo dei Phlegyae, barbarici predoni della Tessaglia " satis in deos impii et sacrilegi " (Mythogr. Vatic. I 205) che tentarono di saccheggiare il santuario di Delfo ma furono dispersi da Apollo (Pausania Perieg. IX XXXVI 2, X VII 1). A questo assalto accenna anche Ovidio, aggiungendo però che in quell'occasione li guidò un tal Phorbas (Met. XI 413-414). Con questo racconto sta probabilmente in relazione, sebbene in modo non chiaro, quanto affermano inoltre le fonti: che, cioè, per vendicare la figlia Coronide sedotta da Apollo, F. incendiò il tempio del dio, onde fu precipitato nel Tartaro.
Alla sua pena si riferisce un passo tormentato nel libro VI dell'Eneide, che sembra sia stato letto da imitatori antichi come Valerio Flacco e Stazio, nonché - secondo alcuni - da lettori del nostro Trecento, in una lezione diversa da quella attestata (per quanto se ne sa) dalla tradizione manoscritta concorde. Nel testo vulgato F. è descritto nel Tartaro più profondo, accanto a Teseo, ma dal contesto non appare con precisione la pena cui soggiace: " sedet aeternumque sedebit / infelix Theseus, Phlegyasque miserrimus omnis / admonet et magna testatur voce per umbras: / ‛ discite iustitiam moniti et non temnere divos ' " (Aen. VI 617-620). Valerio Flacco (Argon. II 189 ss.) e Stazio (Theb. I 712 ss.), pur sembrando ispirarsi a Virgilio, precisano che F. giace sotto un masso che minaccia di cadergli addosso, ed è tormentato dalla fame in presenza di cibi squisiti cui non può avvicinarsi perché una furia lo trattiene: pena che Virgilio, in un luogo alquanto distante da quello citato sopra, assegna ai Lapiti, Issione e Piritoo (Aen. VI 601-607). Ciò ha suggerito all'Havet l'ipotesi che in origine i due passi virgiliani fossero congiunti e che nel testo quale oggi è tramandato si sia prodotto uno spostamento di versi. Poiché il problema della colpa e della pena di F. è implicato da quello della fisionomia che il personaggio assume nell'Inferno dantesco, la questione ha interessato i dantisti, e particolarmente lo Scherillo cui è piaciuto supporre che al tempo di D. circolasse un testo virgiliano più fedele al presunto originale dove gli aspetti della punizione di F. (e quindi, indirettamente, della sua natura di malvagio) avessero un rilievo più intenso di quanto non risulti dalla lezione vulgata. A un testo siffatto avrebbero fatto ricorso, se non D. stesso (che secondo lo Scherillo si sarebbe ispirato altrove), almeno alcuni commentatori come il Boccaccio e Benvenuto, che citano come risalente a Virgilio una descrizione della pena di F. molto vicina a quella che risulterebbe dal passo ricostruito dell'Eneide (ma anche da Stazio!). Al che il Parodi ha osservato che, lasciando da parte le congetture più o meno ingegnose sul testo dell'Eneide, è più semplice postulare quale intermediario un qualche commento medievale che integrasse in una chiosa i dati virgiliani con quelli desunti dalle altre fonti poetiche e mitografiche. Alla citazione di Virgilio e Stazio (Valerio Flacco fu con tutta probabilità ignoto a D.) conviene aggiungere le non peregrine notizie riferite dai rispettivi commentatori Servio e Lattanzio Placido, con le quali si esaurisce lo scarso bagaglio delle fonti classiche note a Dante.
Ma la rispondenza del F. dantesco con possibili antecedenti antichi è assai problematica. In If VIII 13 ss. F. appare come il sol galeoto (v. 17) di una nave piccioletta (v. 15) che solca velocissima la palude Stigia movendo incontro a D. e Virgilio dopo che misteriosi segnali di fuoco hanno avvertito i demoni del loro arrivo. Al suo grido " Or se' giunta, anima fella! " (v. 18), Virgilio ribatte avvertendolo che essi rimarranno con lui solo per il tempo necessario ad attraversare la palude (v. 21); e F., disingannato, si rammarica ne l'ira accolta (v. 24). Durante il tragitto, che la barca compie segando... / de l'acqua più che non suol con altrui (vv. 29-30), e durante lo scontro con Filippo Argenti, F. non è che una presenza muta e oscura, per ritrovare la parola quando, giunto dopo grande aggirata (v. 79) sotto le mura di Dite, avverte gridando i viaggiatori: " Usciteci... qui è l'intrata " (v. 81). Dopo di che, senza altro congedo o altro cenno che ne accompagni e commenti la sortita, esce per sempre dal poema.
È evidente che, per quanto riguarda i tratti più generali del personaggio e la funzione che esso esercita in Inferno, il F. dantesco nulla deve all'antecedente antico; qualche elemento ne è piuttosto suggerito dalla presentazione del Caronte virgiliano, donde sono colti spunti significativi quale l'affermazione di D. che la navicella di F. sol quand'io fui dentro parve carta (v. 27), come avviene presso Virgilio della barca di Caronte quando vi sale Enea (cfr. Aen. VI 413-414). Dalla tradizione mitica D. può aver tratto, in certa misura, i lineamenti morali del suo F.: ma anche per questo rispetto vi è discrepanza tra i dati forniti dalle fonti a noi note e il profilo rapido ma incisivo del navicellaio infernale. Dalle fonti F., posto in relazione con i Phlegyae barbari e predatori, è presentato piuttosto come un violento o un empio, degno semmai del Flegetonte (v. oltre) o della prima zona del sabbione infocato; del resto anche nell'incendio del tempio di Apollo gli scrittori rilevano più il suo dolore di padre che un impeto d'ira (" Quod [cioè lo stupro di Coronide] pater dolens incendit templum Apollinis ": così il Mytogr. Vatic. I, cit.).
Merita invece di essere segnalata l'interpretazione positiva del suo atto che Bernardo Silvestre suggerisce implicitamente quando interpreta etimologicamente " Flegias quasi flegeia i. e. ardens virtus dicitur " (cfr. Commentum Bernardi Silvestri: super sex libros Aeneidos Virgilii... edidit G. Riedel, Gryphiswaldae 1924, p. 113). È anche degna di nota l'interpretazione morale della pena di F. nel Tartaro, attestata dal Terzo Mitografo Vaticano (6, 5, p. 77 ediz. Bode): " Lucretius [Rer. nat. III 980 ss.] per eos, super quos iam casurus imminet lapis, ut de Phlegya legitur, superstitiosos dat intelligi, qui inaniter semper verentur, et de diis et superioribus male opinantur ". Il riferimento a F. manca in Lucrezio e presso Macrobio, che interpreta la pena del sasso come allusiva in genere alla condizione di quanti " semper dignitates et arduas affectant potestates numquam sine timore victuri " (Comm. in Somn. Scip. I 10 15): ambedue mostrano di risalire al testo virgiliano quale l'abbiamo noi, mentre la menzione di F. è arbitrio tardo dello stesso terzo Mitografo Vaticano o delle sue fonti dirette, per influenza di Valerio Flacco o di Stazio. Comunque sia di ciò, D. ha caratterizzato F. con notevole autonomia rispetto ai possibili suggerimenti della tradizione, componendone con elementi sobrii ma fortemente espressivi una figura d'iracondo: le due battute di F., che aprono e chiudono il suo intervento nel contesto narrativo, sono entrambe gridate (vv. 18 e 81); e il suo silenzio è gonfio d'ira repressa. Secondo il parere prevalente degli studiosi D. avrebbe raccolto in ciò soprattutto la suggestione del nome, ricondotto etimologicamente, giusta le indicazioni dei lessicografi medievali, alla glossa " flegi... latine dicitur inflammans " (Giovanni da Genova) cui si faceva risalire la spiegazione del nome Phlegethon (cfr. C. Riessner, Die " Magnae Derivationes " des Uguccione da Pisa, Roma 1965, 88 ss.). L'ipotesi ci sembra poco persuasiva, giacché D. connette per l'appunto il Flegetonte non all'ira ma alla violenza; e poi l'unica etimologia diretta del nome Phlegyas a noi nota, quella di Bernardo Silvestre, dice ben altrimenti. D'altronde le etimologie fornite dai commentatori danteschi, del tipo " Fregias [!] interpretatur ira fremens " (Guido da Pisa, seguito dal Buti) ovvero " Flegias, quasi a dire flagellatore " (Lana, con cui s'accorda in sostanza l'Ottimo pur ricordando l'etimo " fligi ch'è a dire fiamma ") sembrano piuttosto sviluppi autoschediastici del testo secondo la prospettiva esegetica di ciascuno.
Quando si chiuda anche questa via, resta la tentazione di supporre che D. pensasse non al personaggio del mito punito nel Tartaro, ma a un omonimo più confacente ai suoi scopi. Lo Scherillo mise innanzi un tal Phlegyas, discobolo spavaldo di cui parla Stazio nella Tebaide (VI 668 ss.); ma contro la candidatura di " questo povero diavolo, esperto nel lancio del disco, un poco petulante sì ma più ancora sfortunato " mosse valide obiezioni il Parodi. È quindi più saggio concludere che D. obbedisse a suggestioni assai vaghe, in cui confluivano sia una generica connotazione tradizionale di F. come personaggio ardente e precipitoso, sia il compito che Virgilio gli attribuisce isolandolo nel Tartaro e facendogli ammonire in perpetuo i compagni di pena.
Ministro in Inferno della giustizia divina, F. ha subito con discrezione l'adattamento demoniaco che personaggi siffatti ricevono nel poema dantesco: non v'è difatti accenno ad alcun suo tratto specificamente diabolico, se non appunto l'ira ambiguamente riferibile tanto a un costante atteggiamento dei custodi infernali quanto a uno dei peccati puniti nello Stige. Non chiaramente definita è però la sua funzione, circa la quale si sono affrontate in passato ipotesi diverse. L'opinione tradizionale, che la barca di F. servisse ordinariamente al traghetto di tutte le anime destinate alla città di Dite e che quindi " nel pensiero di D. poeta F. è il Caronte dello Stige ", è stata sostenuta dal D'Ovidio e variamente ripresa e circostanziata anche da studiosi più recenti; secondo tale ipotesi ben si converrebbe all'incendiario che reca nel nome un'allusione alle fiamme il compito d'introdurre alla città del fuoco. Che a F. tocchi una qualche giurisdizione sulle anime sopravvenienti appare dal grido che egli rivolge a D. e Virgilio, ripetendo " lo dittato ch'agli altri usava " (Lana): " Or se' giunta, anima fella! ", cioè, secondo la spiegazione del Barbi, " Or se' raggiunta, presa! ecco, se' in mio potere! " (cfr. Problemi I 206). Ma che tale giurisdizione egli eserciti non in senso generico bensì quale custode particolare del V cerchio sembra la conclusione più naturale. E come questo suo compito di custode possa integrarsi con quello di galeoto ha persuasivamente mostrato il Caretti, il quale pensa che D. abbia inteso attribuire a F. l'ufficio d'imbarcare sulla sponda dello Stige le anime che vi sono destinate e di attuffarle poi, al largo, nella fanghiglia.
Nel quadro di questa discussione s'inserisce quella sul significato di altrui nei vv. 29-30: con D. a bordo, la barca affonda più che non suol con altrui. Chi nega che F. abbia funzioni ordinarie di traghettatore intende col Barbi che altrui si riferisca soltanto a F. stesso (cfr. Con D. e coi suoi interpreti, Firenze 1941, 328 n.). Secondo il D'Ovidio " l'altrui può qui essere benissimo indefinito... e allude soprattutto alle anime che per norma vi fossero tragittate da una riva all'altra dello Stige ", ma " può benissimo alludere precisamente al barcaiuolo " senza pregiudizio della tesi d'ovidiana sulla funzione di Flegias. L'opinione del Caretti tuttavia, che a noi pare più probabile, comporta che altrui venga riferito ai dannati del V cerchio, abituali passeggeri della barca. Ma a considerare tale e simili questioni relative all'ufficio di F. con la misura necessaria invita opportunamente il Bosco, osservando che " i dati offertici da Dante sono incerti, contraddittori, comunque non sufficienti a risolvere il problema; il che vuol dire ancora che al poeta non interessava molto che esso fosse univocamente, direi geometricamente risolto ".
Bibl. - F. D'Ovidio, Nuovo volume di studi danteschi, Caserta-Roma 1926, 195 ss.; M. Scherillo, Il F. di D. e il Phlegyas di Virgilio, in " Rendic. R. Ist. Lombardo " s. 2, XLII (1909) 327-365 (recens. di E.G. Parodi, in " Bull. " XVIII [1911] 98-106); L. Caretti, Studi e ricerche di letteratura italiana, Firenze 1951, 3 ss.; U. Bosco, D. vicino, Caltanissetta-Roma 1966, 214-220.