Abstract
La voce mette in evidenza i significati giuridici del termine "flessibilità", per passare all'esame della funzione svolta dal legislatore, dalla giurisprudenza e dalla contrattazione collettiva all'interno di un processo virtuoso che non può identificare la flessibilità con la precarietà. La flessibilità, correttamente intesa, infatti, si rivela uno strumento idoneo a contemperare gli interessi delle imprese nel contesto economico dei mercati globalizzati con quelli dei lavoratori alla continuità dell'occupazione e alle tutele nel mercato del lavoro.
Il termine «flessibilità», fino agli anni '90, non trovava grande riscontro tra gli studiosi del diritto del lavoro, tradizionalmente abituati a confrontarsi con le esigenze di protezione di un soggetto sociale fondamentalmente omogeneo, il lavoratore comune dell'industria.
Ad un contesto economico di crescita che consentiva sempre crescenti livelli di tutela, assicurando la possibilità di essere impiegati nella stessa posizione per tutto l'arco della vita lavorativa, corrispondeva un contesto giuridico volto a privilegiare la continuità e la stabilità del rapporto di lavoro subordinato a tempo pieno, considerando con sfavore l'eventualità di rapporti temporanei o ad orario ridotto.
Già a partire dagli anni '80, e in particolare dagli anni '90, però, il termine flessibilità inizia a conoscere maggior fortuna, trovando un progressivo accoglimento nell'ambito dei dibattiti tra gli studiosi di diritto del lavoro (cfr. Santoro-Passarelli, G., a cura di, Flessibilità e diritto del lavoro, Torino, 1996; Id. Diritto del lavoro (flessibilità), in Enc. giur. Treccani, Roma, 1997).
Le ragioni di questa inversione di tendenza sono molteplici, ma tra queste spiccano, in primo luogo, l'internazionalizzazione dei mercati e le nuove esigenze di competitività delle imprese, che determinano un forte bisogno di ridurre i costi di produzione e di adeguare rapidamente l’organizzazione e la dimensione aziendale alle mutevoli esigenze dei mercati globalizzati (cfr. Santoro-Passarelli, G., Competitività e flessibilità nel rapporto di lavoro, in Riv. it. dir. lav., 2009, I, 201 ss.).
In quest'ottica, il rapporto di lavoro a tempo pieno ed indeterminato per tutto l'arco della vita lavorativa non può più costituire, evidentemente, l'unica forma di lavoro dipendente. Comincia a manifestarsi l'esigenza da parte delle imprese di avvalersi di forme di lavoro più flessibili, perché ad orario ridotto o caratterizzate dalla temporaneità del vincolo contrattuale.
Ma al mutamento della fisionomia e dei modelli organizzativi dell'impresa ha contribuito, in secondo luogo, il progresso tecnologico, per due ordini di ragioni principali: sono emerse nuove professioni, con una conseguente segmentazione del mercato del lavoro ed è diminuito lo spazio dell'impresa fordista a favore della cd. impresa a rete, contrassegnata da una notevole decentramento produttivo.
D'altra parte non può essere ignorata, l'evoluzione del processo di integrazione europea (D'Antona, M., Armonizzazione del diritto del lavoro e federalismo nell'Unione Europea, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1994, 713; Santoro-Passarelli, G., Misure contro la disoccupazione e tutela del lavoratore, in Dir. lav., 1995, I, 342 e in Santoro-Passarelli, G., a cura di, Flessibilità e diritto dei lavoro, I, Torino, 1997), che ha messo in evidenza l'indisponibilità delle autorità comunitarie a tollerare l'uso delle imprese pubbliche come strumenti di governo dell'economia e ha contribuito, almeno in parte, ad affermare la concezione secondo la quale l'intervento pubblico non può sostituire le leggi del mercato nel ruolo di guida del processo economico, ma deve soltanto dettare regole al mercato per garantire ad esso una maggiore efficienza e correttezza.
Alle origini di questo processo la concorrenza e il mercato non avevano un grande spazio nelle legislazioni dei Paesi europei come la Francia, l'Italia e la stessa Germania. E anche la cultura della concorrenza era assai modesta in questi Paesi e certo non era comparabile con quella dei giorni nostri.
Bisogna anche ricordare che dopo il Trattato di Lisbona, i diritti sociali, prima solo ancillari alle libertà economiche, cominciano oggi ad avere una autonoma rilevanza nell'economia dei valori che ispirano la legislazione europea (Santoro Passarelli, G., Crisi economica globale e valori fondanti del diritto del lavoro, in Dir. lav. merc., 2012, 425 ss.) ma sono ancora privi di effettività.
In terzo luogo, occorre tenere presente il progressivo irrigidimento della normativa in materia di licenziamento, culminato nella l. 26.5.1990, n. 108.
Solo questa legge, infatti, nell’armonizzare i campi di applicazione delle tutele contro il licenziamento illegittimo già previste dalla l. 3.10.1966, n. 604 e dallo Statuto dei lavoratori, rende effettivamente residuale il regime del recesso ad nutum, senza obbligo di motivazione.
Prima della l. n. 108/1990, invece, il recesso ad nutum continuava a trovare applicazione ai datori di lavoro non imprenditori con meno di 36 dipendenti e agli imprenditori con meno di 16 dipendenti, quindi alla stragrande maggioranza dei datori di lavoro di un paese, come l’Italia, il cui tessuto produttivo è fatto principalmente di piccole realtà.
Solo dopo il 1990, dunque, licenziare diventa effettivamente più costoso, se non addirittura impossibile in caso di reintegrazione.
Da qui l’esigenza, sentita in particolare non a caso proprio negli anni ’90, di una maggiore flessibilità in uscita attraverso rapporti di lavoro alternativi al modello standard e spesso temporanei ai fine di bypassare la disciplina vincolistica in materia di licenziamento e, in particolare, la “minaccia” della reintegrazione.
Il termine «flessibilità» è oggi a tutti gli effetti entrato a far parte del dizionario giuridico, tanto che è contenuto in diversi testi legislativi.
Prima di analizzare i significati giuridici del termine è necessario interrogarsi, però, sulla funzione che la flessibilità deve assumere nel nostro ordinamento, alla luce dei valori costituzionali che lo ispirano.
È evidente che la flessibilità si traduce inevitabilmente in una attenuazione delle tutele del lavoratore. Si tratta di capire, però, quale è il limite oltre il quale la flessibilità sfocia nella vera e propria precarietà.
Occorre ricordare, a tal proposito, che la tutela del lavoratore come soggetto debole del rapporto è uno dei principi fondamentali della nostra Costituzione e non ha una funzione ancillare o strumentale rispetto alle ragioni dell'impresa, come si evince chiaramente, tra l’altro, dall’artt. 1, 4 e 35 Cost.. (Santoro-Passarelli, G., Note per un discorso sulla giustizia del lavoro, in Alpa, G.-Schiesaro, A., a cura di, Teoria e Prassi della Giustizia. Un dialogo tra Accademia, Magistratura e Avvocatura, Napoli, 2013, 115 e ss. e in Riv. it. dir. lav., 2013, I, 513 ss.).
Infatti il legislatore è chiamato, prima di tutto, a garantire la dignità della persona che lavora sotto un duplice punto di vista: quello del rapporto e quello del mercato del lavoro.
Le tutele relative al rapporto sono quelle hanno ad oggetto le condizioni di lavoro e i diritti dei lavoratori. Esse trovano la loro ragion d'essere nell'esecuzione della prestazione o, comunque, nell'esistenza di un rapporto di lavoro in essere tra le parti.
Sotto questo punto di vista deve essere vista con sfavore la proliferazione di modelli contrattuali «senza costi e senza diritti» (Napoli, M., Autonomia individuale e autonomia collettiva alla luce delle più recenti riforme, in Atti delle Giornate di Studio di Diritto del Lavoro Abano Terme - Padova, 21-22 Maggio 2004, Milano, 2005, 37).
Le tutele nel mercato, invece, mirano a sostenere coloro che hanno perso il lavoro e sono in cerca di una nuova occupazione.
Sotto questo aspetto, la garanzia della dignità non può prescindere dal sostegno del reddito durante i periodi di non lavoro e dall'effettività degli strumenti volti a minimizzare la durata di tali periodi, attraverso efficienti sistemi formativi e di ricollocazione professionale (si pensi al dibattito in materia di flexicurity: cfr. da ultimo Treu, T., Flessibilità e tutele nella riforma del lavoro, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 2013, 11) la cui attuazione in Italia appare, però, difficilissima, se non altro per ragioni di carattere finanziario.
Ed è innegabile che proprio le tutele nel mercato sono quelle che destano oggi maggiori preoccupazioni: alla luce della devastante crisi economica ed occupazionale degli ultimi anni c'è da chiedersi, infatti, se la prima emergenza da fronteggiare non sia la tutela di soggetti disoccupati.
In conclusione, fermo restando il limite della dignità del lavoratore, il legislatore può certamente intervenire al fine di contemperare gli interessi delle imprese nel contesto economico dei mercati globalizzati e quelli dei lavoratori alla continuità dell'occupazione e alle tutele, tanto nel rapporto, quanto nel mercato del lavoro (art. 41, co. 2, Cost.).
La flessibilità meritevole di promozione, dunque, è proprio quella che riesce a perseguire questo obiettivo e che non si traduce, al contrario, in una mera tendenziale e progressiva diminuzione delle tutele.
Se, per quanto detto, la flessibilità, non deve essere intesa come precarizzazione del rapporto di lavoro o come smobilitazione delle garanzie previste dall'ordinamento a favore del soggetto debole (Ghera, E., La flessibilità: variazioni sul tema, in Lavoro decentrato, interessi dei lavoratori, organizzazione delle imprese, Atti del convegno di studi dell'Aquila 20-21 ottobre 1995, Bari, 1996, 63 ss.), in positivo la flessibilità nel diritto del lavoro sta assumendo una pluralità di significati.
La flessibilità può essere intesa come articolazione delle tutele nell'ambito dello stesso tipo legale in ragione della presenza o assenza di requisiti o modalità della prestazione o del rapporto, e perciò come sottrazione di una norma o di un blocco di norme del lavoro subordinato e quindi come attenuazione del codice protettivo previsto dagli artt. 2094 c.c. e ss..
In questa accezione, l'aggiunta o la esclusione di un requisito della prestazione o del rapporto rispetto alla definizione prevista dall'art. 2094 c.c. determina la non applicazione di una o più tutele del tipo legale e, quindi, si risolve in un'attenuazione del codice protettivo previsto dal modello standard.
Si pensi, per esempio, alla disciplina del contratto a tempo parziale, al lavoro intermittente o anche, soprattutto dopo il d.lgs. 6.9.2001, n. 368, al contratto a tempo determinato.
Questi rapporti non cessano di appartenere al tipo lavoro subordinato e perciò di essere regolati dalla relativa disciplina, salve, ovviamente, le diverse disposizioni sul requisito della prestazione o del rapporto che derogano alla disciplina stessa.
In questa accezione le discipline flessibili non modificano i tratti di identificazione della fattispecie lavoro subordinato e cioè il vincolo di subordinazione e la causa del contratto.
In altri termini, la flessibilità intesa come articolazione delle tutele non compromette l’unità del tipo legale, ma comprime la fattispecie del lavoro subordinato a tempo pieno e indeterminato, destinata a riespandersi quando vengono meno i requisiti della prestazione o del rapporto che hanno determinato l’applicazione della disciplina flessibile.
La flessibilità può anche essere intesa come diversificazione delle fattispecie e perciò delle rispettive discipline.
Le fattispecie flessibili, in questa accezione, solitamente si distinguono da quella che identifica il lavoro subordinato nell’impresa perché:
a) alterano il vincolo di subordinazione disegnato dall’art. 2094 c.c. come, per esempio, nella somministrazione;
b) modificano la causa del contratto di lavoro subordinato, come nell’apprendistato;
c) non sono inerenti all’esercizio di un’impresa (art. 2239 c.c.) come per es. il lavoro domestico o il lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni.
La portata di tali modifiche consente di affermare che tra il rapporto di lavoro subordinato nell’impresa e i rapporti flessibili così considerati non esiste una relazione di genus a species o di tipo a sottotipo, se è vero che il sottotipo si caratterizza rispetto al tipo per l’addizione di uno o più elementi (Cataudella, A., Spunti sulla tipologia dei rapporti di lavoro, in Dir. lav., 1983, I, 77 ss.), ma una relazione longitudinale che colloca i secondi sullo stesso piano del primo.
Conseguentemente le disposizioni che regolano il lavoro subordinato nell’impresa non si applicano a detti rapporti in via diretta, ma solo in via analogica, in quanto compatibili.
I rapporti flessibili, nell'accezione appena evidenziata, sono spesso definiti anche «speciali», ma occorre essere avvertiti che la distinzione tra disciplina speciale e disciplina flessibile (nella accezione sub 2.1), pur chiara sul piano concettuale, può presentare margini di arbitrarietà e opinabilità derivanti, in ultima analisi, dalle opzioni dell’interprete, e perciò non deve suscitare molta meraviglia che la specialità possa essere confusa con la flessibilità e viceversa (v. lavoro ripartito, definito speciale dal legislatore senza che ricorra alcuno dei requisiti della specialità prima evidenziati).
Una terza accezione del termine «flessibilità» viene in considerazione quando si confrontano discipline dettate da interventi normativi successivi.
Il diritto del lavoro, in particolare, è sempre più spesso interessato da riforme e contro-riforme che modificano, a distanza di pochissimo tempo, le regolamentazioni di importanti istituti.
Può accadere, pertanto, che la disciplina più recente venga considerata più «flessibile» di quella previgente o, in altri termini, che il legislatore intervenga a riformare una materia con l'intento di «flessibilizzare» la previgente normativa, ritenuta troppo rigida.
In questa accezione il termine flessibilità identifica il tenore di una diversa scelta da parte del legislatore nel riconsiderare una analoga disciplina preesistente.
Se, a prima vista, questa terza accezione del termine «flessibilità" può presentare profili di sovrapposizione con le altre e, in special modo, con quella evidenziata nel § 2.1., alla luce di una più approfondita riflessione è possibile metterne in luce l'autonomia.
Gli interventi legislativi che realizzano la flessibilità all'interno dello stesso tipo legale introducono una disciplina particolare e diversa rispetto ad un'altra, di carattere più generale, che rimane in vigore (ad es.: la possibilità di apporre il termine al contratto di lavoro non esclude l'instaurazione di un rapporto a tempo indeterminato: lo stesso può dirsi con riferimento alla previsione di un orario ridotto in luogo di quello normale, o di una prestazione lavorativa intermittente in luogo di quella continua. Analogamente, con riferimento all'articolazione delle fattispecie, l'introduzione della somministrazione disciplina un nuovo tipo legale che, affiancandosi a quello regolato dall'art. 2094 c.c., altera il tradizionale vincolo di subordinazione).
Viceversa gli interventi legislativi che attenuano la rigidità di una normativa preesistente, nell'accezione qui proposta, abrogano le norme ritenute troppo rigide e le sostituiscono con altre più flessibili (si pensi, ad esempio, alla modifica dell'art. 18 st. lav. sul regime sanzionatorio in caso di licenziamento illegittimo e alla limitazione delle ipotesi in cui è prevista le reintegrazione (v., infra, § 3): la nuova normativa realizza una maggiore flessibilità in uscita rispetto alla precedente; alla riduzione, da parte del d.l. 28.6.2013, n. 76, degli intervalli da rispettare nella successione di contratti a termine a dieci o venti giorni, in luogo dei sessanta o novanta precedentemente fissati; alla riduzione del termine di preavviso in favore del lavoratore da dieci a due giorni in caso variazione della collocazione della prestazione lavorativa nell'ambito dei rapporti part-time con clausole flessibili).
Vale la pena sottolineare che questa terza accezione del termine «flessibilità" non deve essere equiparata alla derogabilità delle norme di legge da parte del contratto collettivo dalle stesse abilitato ad intervenire (v., anche infra, § 8).
Infatti, la flessibilità intesa come attenuazione delle rigidità di una normativa preesistente da parte di quella successiva non presuppone un rapporto gerarchico o di autorizzazione tra norme di legge successive come invece si verifica nel rapporto tra legge e contratto collettivo.
Il rapporto di lavoro subordinato, regolato dal codice, ha costituito, come è noto, il presupposto per l'applicazione della disciplina inderogabile non solo del codice ma di tutte le leggi speciali successive, con un'evidente e progressiva limitazione dei poteri del datore di lavoro.
La normativa vincolistica sul rapporto di lavoro si consolida nell'arco degli anni '60, con la l. 23.10.1960, n. 1369 sull'appalto di mano d'opera, con la l. 18.4.1962, n. 230 di sostanziale sfavore per il contratto a termine, con la l. n. 604/1966 sui licenziamenti individuali che riduce sensibilmente l'area del recesso libero del datore di lavoro, e infine con lo Statuto dei lavoratori, che irrigidisce la disciplina del rapporto sia nel momento costitutivo del rapporto, intervenendo nuovamente in materia di collocamento rispetto alla disciplina del 1949, sia in materia di mansioni, sia infine nel momento estintivo del rapporto prevedendo e regolando la reintegrazione del lavoratore in caso di licenziamento ingiustificato.
La procedimentalizzazione dell'esercizio dei poteri datoriali e la disciplina della reintegrazione poste dallo Statuto rappresentano le ultime e più vistose tappe dell'ascesa della normativa vincolistica del rapporto individuale.
Certamente l'estensione progressiva della disciplina vincolistica ha costituito, almeno inizialmente, un incentivo per il lavoratore a rivendicare la natura subordinata del rapporto, e questo ha favorito indubbiamente una notevole dilatazione della fattispecie.
Una seconda causa di estensione della stessa è dipesa dalla circostanza che la subordinazione, come presupposto per l'applicazione della disciplina del tipo, prescinde dall'accertamento della situazione di dipendenza economica e di debolezza contrattuale del prestatore di lavoro, e include perciò nell'area della relativa tutela, o meglio delle diverse tutele, ogni lavoratore alla sola condizione che sia qualificato come lavoratore subordinato in senso tecnico, mentre esclude quei lavoratori che, pur essendo contrattualmente deboli, non possono essere qualificati come subordinati in senso tecnico (Santoro-Passarelli, G., Chiose sulla parasubordinazione, in Dir. lav., 1989, I, 209; Ichino, P., Il lavoro e il mercato, Milano, 1996. Cfr., più recentemente, Santoro-Passarelli, G., Falso lavoro autonomo e lavoro autonomo economicamente debole ma genuino: due nozioni a confronto, in Riv. it. dir. lav., 2012, I, 103).
Come ebbi già a sottolineare, la qualificazione della fattispecie come subordinazione tecnica funzionale ha favorito e continuerà a favorire la cd. tendenza espansiva della subordinazione.
Ma non c'è dubbio che questa tendenza è stata agevolata anche dall'uso da parte degli interpreti del cd. metodo tipologico in luogo di quello cd. sussuntivo.
Quest'ultimo, come è noto, consente di applicare la disciplina del lavoro subordinato soltanto alle fattispecie concrete che siano perfettamente sussumibili in quella astratta e quindi, almeno in teoria, riduce il tasso di discrezionalità del giudice nell'individuazione della disciplina applicabile.
Il metodo tipologico, invece, ha consentito, invece, di estendere la disciplina inderogabile del diritto del lavoro anche a rapporti di lavoro non perfettamente sussumibili nella cd. fattispecie astratta, ma soltanto riconducibili in via di approssimazione al tipo normativo (cfr., in argomento, Mengoni, L., La questione della subordinazione in due trattazioni recenti, in Riv. it. dir. lav., 1986, I, 3 ss.).
È il caso della parasubordinazione, che, almeno nell'accezione da me proposta (Santoro-Passarelli, G., Il lavoro «parasubordinato», Milano, 1979) quando ancora non esisteva alcuna articolazione delle tutele nell'ambito del tipo lavoro subordinato, serviva ad apprestare un minimo di garanzie a prestatori di lavoro non subordinati e, tuttavia, deboli ma privi di qualsiasi tutela.
Bisogna comunque riconoscere che il mancato decollo della parasubordinazione come fattispecie intermedia tra lavoro autonomo e lavoro subordinato, è dipeso sicuramente dalla scarsezza della disciplina sostanziale applicabile; ma, in ogni caso l'emersione nella realtà sociale di questa fattispecie è stata la prima spia dell'esigenza improcrastinabile nel nostro sistema economico di flessibilizzare la disciplina del rapporto di lavoro per renderlo più funzionale agli obbiettivi dell'impresa.
E per soddisfare questa esigenza di diversificazione delle tutele nell'ambito dello stesso tipo lavoro subordinato, lo strumento legislativo appare sicuramente più idoneo dello strumento interpretativo affidato al giudice perché, come si è detto, il primo riduce il margine di incertezza nell'individuazione della disciplina applicabile.
Se così stanno le cose, a maggior ragione, l’individuazione di nuovi tipi non può che appartenere alle valutazioni politiche del legislatore e non alla valutazione dell’interprete.
Dalla metà degli anni '70 la crisi economica e l'alto tasso di inflazione provocato dalla crisi petrolifera determinarono la lievitazione del costo del lavoro, (accentuata dalle normative vincolistiche), come già detto non più compatibile con le esigenze di competitività delle imprese, imposta dalla internazionalizzazione dei mercati e dalla filosofia mercantilistica dell'integrazione comunitaria.
Questi sono stati i motivi che nella prima metà degli anni '80 innescarono un dibattito tra le parti sociali sull'opportunità di conciliare le ragioni di efficienza e di produttività dell'impresa con la tutela degli interessi dei soggetti deboli.
E per realizzare questo obbiettivo le parti sociali d'intesa con il governo stipularono i primi accordi neocorporativi che segnano l'inizio sia pure timido e comunque notevolmente oscillante, perché segnato anche da arresti prolungati e rapide inversioni di marcia, della stagione della concertazione (cfr. Giugni, G., La lunga marcia della concertazione, Bologna, 2003).
Come è noto, la concertazione tra le parti sociali e il governo ha contribuito ad avviare un processo che ha legittimato quest'ultimo, come parte del negoziato, ad assumere una serie di iniziative legislative in materia di lavoro dirette a flessibilizzare le tutele in ragione della presenza o assenza di requisiti o modalità del rapporto o di esecuzione della prestazione, senza mettere in discussione l'unità del tipo.
L'ultima esperienza significativa di concertazione si è avuta con il cd. Protocollo Welfare del 23.7.2007 (Treu, T., Il Protocollo del 2007 e le riforme del welfare, in Scritti in onore di Edoardo Ghera, Bari 2008, 1235), prima che il governo Berlusconi del 2008 ponesse fine al metodo concertativo a favore del cd. «dialogo sociale», senza ripensamenti da parte dei governi successivi (Santoro-Passarelli, G., Diritto dei lavori, Torino, 2013, 132).
La flessibilità della disciplina del rapporto di lavoro indica un assetto dei vari interessi e profili di tutela meno favorevole al lavoratore rispetto a quello sotteso dalla cd. disciplina rigida. Se è così, la disciplina legale e collettiva del rapporto di lavoro privato diventa flessibile se e nella misura in cui il baricentro della tutela si sposta progressivamente dall'interesse del lavoratore alla sostanziale continuità e stabilità del rapporto di lavoro all'interesse dell'imprenditore alla temporaneità dei vincoli contrattuali.
I primi segnali normativi di questo spostamento, che vede nel cd. “Pacchetto Treu” (l. 24.6.1997, n. 196) il suo momento più importante, si rinvengono nella l. 19.12.1984, n. 863 che istituisce una nuova forma di contratto di formazione e lavoro e così pure i contratti di solidarietà, diretti a ridurre orario di lavoro e retribuzione per evitare licenziamenti o promuovere nuove assunzioni.
La l. 28.2.1987, n. 56, flessibilizza l’originaria disciplina del contratto a termine, capovolgendo l’orientamento (allora) di sfavore per questo tipo di contratto e assegnando alla contrattazione collettiva il compito di introdurre nuove ipotesi di contratto a termine.
Poi, come è noto, con il d.lgs. n. 368/2001, la tecnica legislativa delle ipotesi tipiche è stata abbandonata a favore di una individuazione in termini generali delle ragioni giustificatrici dell’apposizione del termine al contratto di lavoro. Successivamente la disciplina del contratto a tempo determinato è stata più volte modificata in senso non sempre univoco, ma è innegabile che una tendenza in senso ulteriormente flessibilizzante si comincia a rinvenire con l'introduzione del contratto a temine cd. «acausale» da parte della l. 28.6.2012, n. 92, per culminare, da ultimo, nella definitiva abrogazione delle causali giustificatrici dell'apposizione del termine da parte del d.l. 20.5.2014, n. 34, conv. con mod. in l. 16.5.2014, n. 78.
Lo spostamento graduale del baricentro della tutela del lavoro dall'interesse del prestatore di lavoro alla continuità del rapporto a quello del datore di lavoro alla temporaneità del vincolo contrattuale appare tanto più visibile, quanto più risultano ridimensionate le limitazioni al potere di recesso del datore di lavoro.
Sotto quest’ultimo punto di vista non può essere sottaciuto il tentativo operato dalla l. n. 92/2012 di «alleggerire» le conseguenze per le imprese in caso di illegittimità del licenziamento, limitando i casi in cui è prevista la reintegrazione nel posto di lavoro (cfr. il nuovo testo dell’art. 18 st. lav., in dottrina, per tutti, Maresca, A., Il nuovo regime sanzionatorio del licenziamento illegittimo: le modifiche dell'art. 18 statuto dei lavoratori, in Riv. it. dir. lav., 2012, I, 415).
Sotto un altro punto di vista, esempi di flessibilità attuata dal legislatore possono essere tutte quelle discipline che costituiscono eccezioni a divieti posti da norme più generali.
Si pensi, per esempio, alle ipotesi legalmente tipiche di legittima adibizione a mansioni inferiori (l. 12.3.1999, n. 68; l. 23.7.1991, n. 223; d.lgs. 26.3.2001, n. 151; d.lgs. 9.4.2008, n. 81), a fronte del generale divieto stabilito dall'art. 2103 c.c.
Oppure, sulla scorta della precedente l. n. 196/1997, alla disciplina della somministrazione stabilita dal d.lgs. 10.9.2003, n. 276, alla luce del divieto di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro originariamente previsto dalla l. n. 1369/1960, e certamente ancora ricavabile dal sistema nonostante l'abrogazione della stessa.
Certamente, in alcuni casi le eccezioni si rivelano talmente ampie e di tale portata che finiscono per circoscrivere in modo rilevante il divieto stesso, se non quasi per superarlo (emblematica, sotto questo punto di vista, la vicenda del divieto di intermediazione ed interposizione, prima assoluto, poi circoscritto dalla l. n. 196/1997 solo con riferimento ad ipotesi temporanee, e ancora successivamente quasi superato dal d.lgs. n. 276/2003, che consentiva anche la somministrazione a tempo indeterminato).
C'è da dire che anche la flessibilità ad opera del legislatore, a seconda delle sensibilità delle diverse maggioranze politiche, può essere realizzata con tecniche diverse.
Così, ad esempio, la l. n. 196/1997 proponeva un modello di flessibilità governato dal contratto collettivo, mentre il d.lgs. n. 276/2003 valorizza molto di più l'autonomia individuale, in controtendenza rispetto ai principi ispiratori del diritto del lavoro, tradizionalmente fondato sull'inderogabilità da parte del contratto individuale delle norme di legge e delle clausole del contratto collettivo (sul problema generale cfr. Liebman, S., Individuale e collettivo nel contratto di lavoro, Milano, 1993; Romagnoli, U., "Collettivo" e "individuale" nel diritto del lavoro, in Lav. dir., 2008, 207 ss.; Mariucci, L., Autonomia individuale e collettiva: l'attualità di un vecchio problema, ivi, 212 ss.).
Se l'esigenza di diversificazione delle tutele trova sicuramente nello strumento legislativo il mezzo più idoneo per individuare la disciplina applicabile con minori margini di incertezza, anche la giurisprudenza ha contribuito, con la sua attività interpretativa (cfr. Santoro-Passarelli, G., Note per un discorso sulla giustizia del lavoro, op. cit.) a flessibilizzare determinate discipline, anche forzando le maglie di normative troppo rigide.
Occorre, in verità, sottolineare che spesso gli interventi legislativi hanno preso atto di precedenti orientamenti giurisprudenziali, sostanzialmente legificando quelli maggiormente consolidati.
Questo processo è molto evidente, per esempio, con riguardo alla legittima adibizione a mansioni inferiori: le attuali deroghe legislativamente previste, infatti, sono state ispirate dalla giurisprudenza e quest'ultima continua ancora oggi in un'opera di flessibilizzazione potenzialmente anticipatrice di futuri interventi legislativi.
Si pensi, per esempio, alla giurisprudenza che ammette l'adibizione a mansioni inferiori per evitare il licenziamento anche al di fuori delle ipotesi legalmente previste, o che considera validi i patti di demansionamento preventivi finalizzati alla conservazione del posto di lavoro nonostante la nullità formalmente prevista dall'art. 2103 (cfr. Cass. 18.3.2009, n. 6552; Cass. 10.10.2006, n. 21700; Trib. L'Aquila, 16.1.2013).
Resta da chiedersi se anche la contrattazione collettiva contribuisca a flessibilizzare determinate discipline.
La contrattazione collettiva, ad esempio, ha consentito una maggiore mobilità intraaziendale intervendendo autonomamente in materia di mansioni ed inquadramento ad integrare o specificare il contenuto di norme di legge.
Si pensi, ad esempio, alle clausole che consentono l’arricchimento e la ricomposizione delle mansioni e la rotazione su diverse posizioni di lavoro, o che sostituiscono come criteri di inquadramento le aree professionali ai livelli retributivi.
La giurisprudenza, parimenti, legittima clausole del contratto collettivo che introducono meccanismi di mobilità orizzontale e prevedono una fungibilità funzionale di mansioni diverse al fine di sopperire a contingenti esigenze aziendali (Cass., S.U., 24.11.2006, n. 25033; Cass., 5.4.2007, n. 8596).
Con questa interpretazione, certamente ardita, si attenua, o meglio si neutralizza, il rigore del co. 2 dell'art. 2103 c.c. perché si affida al contratto collettivo e non più al giudice, anche nel lavoro privato, la funzione di stabilire l'equivalenza tra mansioni di contenuto obiettivamente diverso.
Ma a ben vedere, posto che il contratto collettivo non può in ogni caso prevedere una disciplina contraria a norme di legge, in queste ipotesi la flessibilità resta propria della disciplina legale, seppur “filtrata” dall’interpretazione e/o integrazione esplicitata dal contratto collettivo.
In altri termini, il contratto collettivo può privilegiare, nell’ambito di possibili diverse interpretazioni di una determinata normativa (si pensi, ad esempio, alla nozione di “mansioni equivalenti”), quella più flessibile ai fini del miglior contemperamento degli interessi coinvolti, senza porsi, però, in contrasto con la norma di legge.
È opportuno, a questo punto, chiarire la distinzione concettuale tra flessibilità e derogabilità: anche quest'ultima, infatti, è di grande attualità nel diritto del lavoro.
Flessibilità e derogabilità sono concetti diversi che, sebbene a volte accostati (cfr. Hernandez, S., La flessibilità nel rapporto di lavoro, in Mass. giur. lav., 1998, 528 ss. da ultimo, problematicamente, Zoppoli, A., Il declino dell’inderogabilità?, Dir. lav. merc., 2013, 60), non sono e non possono essere fungibili.
La flessibilità, nelle accezioni qui proposte, è sempre un attributo di normative legali. Viceversa la derogabilità riguarda i rapporti tra legge e contratto collettivo o tra contratti collettivi di diverso livello.
Affinché il contratto collettivo possa derogare norme di legge è necessaria, ovviamente, un'espressa abilitazione in tal senso da parte della legge stessa, pena la nullità delle clausole contrarie a norme imperative.
Molti sono gli esempi di norme che abilitano la contrattazione collettiva a stabilire deroghe alla disciplina legale: da ultimo, con un'operazione analoga (ma non identica) a quella intrapresa con la già citata l. n. 56/1987, il d.l. n. 76/2013, abilita la contrattazione collettiva ad individuare altre ipotesi di contratti a termine cd. «acausali», per i quali, cioè, si prescinde dalle ragioni giustificatrici di carattere tecnico organizzativo produttivo o sostitutivo.
C'è da dire che oggi la funzione «derogatoria» del contratto collettivo appare pienamente legittimata non soltanto da specifiche norme, ma su un piano più generale, con riferimento al contratto aziendale, dall'art. 8 del d.l. 13.8.2011, n. 138, conv. con mod. in l. 14.9.2011 n. 148, e può esplicarsi, oltre che nei confronti delle discipline contenute nei contratti nazionali, anche nei confronti di norme di legge.
Viceversa nei rapporti tra contratti collettivi di diverso livello, in linea di principio, il contratto aziendale può derogare in peius le clausole del contratto nazionale senza una espressa e preventiva autorizzazione di quest'ultimo. In questo caso infatti, non vige un principio di gerarchia alla stregua di quanto previsto, dall'art. 2077 c.c., con riferimento ai rapporti tra contratto collettivo e contratto individuale.
E tuttavia è noto che già in passato nel lontano 1962 le parti sociali stabilirono, con il protocollo sulla contrattazione articolata e, successivamente, con il protocollo del 23.7.1993, che il contratto aziendale poteva intervenire solo sulle materie allo stesso rinviate o delegate da quello nazionale.
Le ipotesi di deroga peggiorativa, invero non sono mai state frequenti. E anche laddove eccezionalmente il contratto aziendale travalicava le proprie competenze intervenendo su materie non delegate, solitamente stabiliva trattamenti migliorativi per il personale di particolari realtà produttive, che spesso costituivano il «volano» per un generale miglioramento delle condizioni stabilite dal successivo contratto nazionale di categoria.
Fino a quando la situazione economica lo ha consentito non si sono mai posti particolari problemi.
Le cose cambiano, ovviamente, con la crisi degli ultimi anni, che costringe con maggiore frequenza determinate aziende in difficoltà a concordare trattamenti peggiorativi rispetto a quelli stabiliti dal contratto nazionale perché impossibilitate a sostenerne ulteriormente i costi.
E infatti nel 2011, con l'accordo interconfederale del 28 giugno, le parti sociali, pur confermando il principio della delega, si sono spinte oltre e hanno preso atto formalmente che il contratto nazionale può individuare limiti e procedure secondo cui il contratto aziendale può derogare in peggio le clausole del contratto nazionale (principio della deroga, espresso dalla clausola 7. Cfr. Santoro-Passarelli, G., Accordo interconfederale 28 giugno 2011 e art. 8 d.l. 138/2011 conv. con mod. l. 148/2011: molte divergenze e poche convergenze, in Arg. dir. lav., 2011, 1224 ss.. In generale cfr. Carinci, F., a cura di, Contrattazione in deroga, Milano, 2012).
E, in assenza di indicazioni del contratto collettivo nazionale, le modifiche peggiorative possono essere stabilite da intese a livello aziendale ma, in questo caso, tali accordi devono essere stipulati di intesa con le organizzazioni sindacali territoriali di categoria espressione delle confederazioni firmatarie dell'accordo interconfederale. In alternativa le suddette organizzazioni territoriali possono formalmente accettare tali accordi (inciso aggiunto dal Testo Unico sulla Rappresentanza del 10.1.2014).
In questa seconda ipotesi, la necessaria approvazione del sindacato di categoria supplisce alla mancanza del filtro costituito dal contratto nazionale ed è richiesto, inoltre, il rispetto di ulteriori condizioni relativamente alle materie derogabili e alle finalità dei contratti aziendali in deroga.
E la postilla del 21.9.2011 all'accordo del giungo del 2011 testimonia la volontà delle parti sociali di attenersi alle procedure previste dallo stesso accordo nell'introduzione e nella regolamentazione delle deroghe peggiorative da parte del contratto aziendale, ed è un invito implicito a non seguire la procedura prevista dall'art. 8, che affida direttamente ai contratti aziendali la competenza a derogare norme di legge e di contratto collettivo nazionale bypassando completamente la funzione di «controllo» che a quest'ultimo assegna l'accordo interconfederale.
Altro aspetto interessante è che i contratti aziendali sottoscritti nel rispetto di queste procedure producono effetti nei confronti di tutto il personale in forza, anche se, come vedremo (§ 8.2) non si tratta di una vera e propria efficacia generale.
Ma è evidente che, come già accennato, l'esigenza di derogabilità è maggiormente sentita rispetto alle norme inderogabili di legge, se è vero che, in alcuni casi, esse realizzano una uniformità ritenuta addirittura «oppressiva» (Vallebona, A., L'efficacia derogatoria dei contratti aziendali o territoriali: si sgretola l'idolo della uniformità oppressiva, in Mass. giur. lav., 2011, 682).
A tal proposito, l'’art. 8, rubricato, «sostegno alla contrattazione collettiva di prossimità», abilita i contratti aziendali o territoriali, sottoscritti da particolari soggetti e a determinate condizioni, a regolare specifiche materie indicate dalla legge con due effetti peculiari:
a) efficacia nei confronti di tutti i lavoratori interessati;
L’efficacia erga omnes dei contratti ex art. 8 è una vera e propria efficacia generale perché è stabilita da un atto normativo, diversamente da quanto osservato con riferimento alle clausole 4 e 5 dell’Accordo interconfederale, che in quanto fonte negoziale ha esso stesso un'efficacia limitata. Il riferimento a «tutto il personale in forza» deve essere inteso, pertanto, a tutto il personale iscritto alle associazioni espressione delle confederazioni firmatarie.
b) possibilità di derogare non solo ai contratti nazionali ma anche a norme di legge, con i soli limiti del rispetto della Costituzione e dei vincoli derivanti dalle normative comunitarie e dalle convenzioni internazionali sul lavoro.
È importante sottolineare che la legge lascia alle parti l’iniziativa in ordine all’effettiva stipulazione di questi particolari contratti aziendali e non stupisce che le ipotesi in cui la disposizione ha trovato applicazione tendano a non essere troppo pubblicizzate.
Ancora, come già accennato, l’art. 8 individua direttamente le materie sulle quali i contratti di prossimità sono abilitati ad intervenire con efficacia generale e/o derogatoria, con una attribuzione di competenza al contratto di prossimità «a titolo originario».
L'aspetto più rilevante, tuttavia, è senza dubbio la competenza derogatoria dei contratti ex art. 8 spinta fino alle norme di legge, diversamente dai normali contratti aziendali regolati dalla clausola 7 dell’Accordo interconfederale, che possono al massimo derogare le discipline contenute nei contratti nazionali.
Non vi è dubbio che l’efficacia derogatoria contemplata dall’art. 8 metta in discussione l’impianto generale del diritto del lavoro fondato sulla inderogabilità della norma a tutela del contraente debole.
Anche in considerazione della vaghezza dei limiti alla efficacia derogatoria (la norma fa salvi il rispetto della Costituzione, nonché i vincoli derivanti dalle normative comunitarie e dalle convenzioni internazionali sul lavoro), suscita perplessità che modifiche così rilevanti possano essere affidate alla sede sindacale aziendale, notoriamente più condizionata dalla controparte di quanto sia la sede sindacale nazionale.
L'esigenza di flessibilità è molto sentita anche in materia retributiva perché la retribuzione costituisce il principale componente del costo del lavoro e in periodi di crisi le esigenze di competitività delle imprese non possono prescindere da una più stretta relazione tra tale costo e i dati reali di produttività.
Già l'abolizione dell'automatismo retributivo costituito dall'indennità di contingenza da parte dell'Accordo interconfederale del 1993 costituisce un primo segnale dell'esigenza di eliminare determinate rigidità in materia di retribuzione.
Il Protocollo del luglio del 1993 aveva affidato alle parti il compito di adeguare in via negoziale, e quindi non automatica, la retribuzione già determinata dal contratto collettivo.
Oggi quel meccanismo è stato ulteriormente rivisto dall'accordo quadro sulla riforma degli assetti contrattuali del 22.1.2009 e dal successivo accordo interconfederale attuativo del 15.4.2009, non siglati, però, dalla CGIL, che introducono un diverso indice, denominato IPCA, ai fini della difesa del potere di acquisto delle retribuzioni.
Alla contrattazione aziendale è, inoltre, affidato un ruolo fondamentale, quello di accrescere, ove possibile, la retribuzione del lavoratore attraverso la corresponsione di emolumenti strettamente correlati ai risultati conseguiti dall'impresa. In altri termini alla retribuzione minima fissata a livello nazionale, la contrattazione aziendale aggiunge una parte variabile collegata ad incrementi di produttività o redditività dell'impresa (Cfr. Treu, T., Le forme retributive incentivanti, in Riv. it. dir. lav., 2010, I, 637 ss.).
Sotto questo punto di vista devono essere menzionati l'Accordo interconfederale del 16.11.2012, recante «Linee programmatiche per la crescita della produttività e della competitività in Italia», e l'Accordo interconfederale del 24.4.2013, sulla detassazione del salario di produttività.
Un moderno discorso sulla flessibilità non può essere concluso senza accennare ad alcuni argomenti solo apparentemente «limitrofi», ma in realtà sempre più centrali rispetto al campo d’indagine.
Sempre più spesso, infatti, la flessibilità si accosta al tema della precarietà, in un contesto economico in cui la continuità di occupazione non riesce ad essere assicurata non solo con riferimento a rapporti subordinati, ma spesso neppure attraverso forme di lavoro autonomo.
Emergono, quindi, due esigenze di tutela: quella «nel rapporto», e quella «nel mercato». Quest’ultima prescinde dall'esistenza del rapporto di lavoro e si colloca nella prospettiva certo rassicurante, ma assai indeterminata perché generalista, dei diritti di cittadinanza. A questo proposito sono note le difficoltà di attuare in Italia un sistema di flexicurity in grado di assicurare tutele al di fuori del rapporto per garantire una continuità di reddito nella discontinuità dell’occupazione.
In questa prospettiva, e alla luce dell’evoluzione delle forme di lavoro nell’attuale contesto economico, il modello di tutela dovrebbe includere anche i lavoratori autonomi genuini ma cd. «deboli», da non confondere con i falsi lavoratori autonomi, sostanzialmente subordinati (Santoro-Passarelli, G., Voce Lavoro autonomo, in Enc. dir. Annali, V, 2012, 711 ss.).
Certamente resta la difficoltà di individuare una nozione sicura e affidabile di debolezza contrattuale ed economica del collaboratore, ma questa circostanza non può risolversi in una negazione di tutela o comunque in una irragionevole disparità di trattamento tra lavoratori.
Invece, per quanto riguarda le tutele collegate al rapporto di lavoro, possono essere viste con interesse le proposte, variamente declinate, di «unificare» le varie tipologie di rapporti di lavoro oggi esistenti a favore di una figura unica, nell’ambito della quale, eventualmente, articolare diverse forme di tutela.
Oggi, anche sulla scia di disegni di legge già presentati in precedenza (cfr., da ultimo, il d.d.l. «Ichino» n. 1006/2013, che aggiorna l'originario d.d.l. n. 1873/2009) riemergono proposte che, nell’ambito di una sola tipologia contrattuale, scambiano una maggiore flessibilità in uscita, con una più estesa garanzia del reddito per il periodo immediatamente successivo al licenziamento. A tal fine si esclude la reintegrazione per un periodo iniziale di cd. lunga prova, a fronte dell'intervento di ammortizzatori sociali e di formazione esteso per un arco temporale ragionevolmente sufficiente a trovare una nuova occupazione e di outplacement.
Ma bisogna essere consapevoli che un tale piano presuppone una ingente disponibilità di risorse che può essere ottenuta realisticamente soltanto azionando la leva fiscale della redistribuzione del reddito.
Anche queste proposte, in definitiva, finiranno per privilegiare l’interesse dell’impresa alla temporaneità dei vincoli rispetto a quello del lavoratore alla continuità dell’occupazione se non propongono meccanismi di stabilizzazione del rapporto in particolare nelle ipotesi in cui il lavoratore si sia ben comportato nel cd. periodo di lunga prova.
Quello che è importante sottolineare, in conclusione, è che nel nostro ordinamento può avere cittadinanza solo la flessibilità in grado di contemperare gli interessi delle imprese con quelli dei lavoratori, ferma restando in ogni caso il rispetto della dignità di questi ultimi.
In questi termini la flessibilità è un valore meritevole di promozione da parte del legislatore; in caso contrario essa si traduce soltanto in una mera progressiva diminuzione delle tutele che sfocia nella vera e propria precarietà e non può trovare giustificazione alla luce dei nostri principi costituzionali.
Art. 35 Cost.; art. 2094 c.c.; art. 2239 c.c.; l. 18.4.1962, n. 30; l. 19.12.1984, n. 863; l. 28.2.1987, n. 56; art. 4, co. 11, l. 23.7.1991, n. 223; l. 24.6.1997, n. 196; art. 4, co. 4, l. 12.3.1999, n. 68; d.lgs. 25.2.2000, n. 61; art. 7, co. 5, d.lgs. 26.3.2001, n. 151; d.lgs. 6.9.2001, n. 368; artt. 20 e ss., d.lgs. 10.9.2003, n. 276; art. 42, d.lgs. 9.4.2008, n. 81; d.lgs. 14.9.2011, n. 167; art. 1, l. 28.6.2012, n. 92; art. 7, d.l. 28.6.2013, n. 76, conv. con mod. in l. 9.8.2013, n. 99; artt.1, 2, 2 bis, d.l. 20.5.2014, n. 34, conv. con mod. in l. 16.5.2014, n. 78.
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