flessibilita
flessibilità Capacità di un sistema economico di adattarsi ai mutamenti della realtà.
Nel mercato del lavoro la f. è un concetto evocato continuamente, ma spesso in modo indefinito ed erroneamente associato alla sola facilità di licenziamento e assunzione delle imprese. La f. del lavoro esprime, invece, più in generale, una sorta di indicatore dell’intensità e della velocità con cui le variabili fondamentali proprie di questo mercato reagiscono al verificarsi di particolari eventi. La letteratura ha definito una serie di componenti che contribuiscono a rendere un mercato del lavoro flessibile. Nella definizione OCSE sono inclusi 5 aspetti: f. esterna, f. numerica interna, f. funzionale, f. salariale e f. di esternalizzazione. Tutte e 5 le componenti della f. sono utili a ottenere un mercato del lavoro flessibile e tra loro possono esserci rapporti di complementarità o sostituibilità.
Riguarda la capacità da parte dell’impresa di aumentare e ridurre il numero di lavoratori al suo interno. È tanto più elevata quanto minori sono i costi di assunzione e licenziamento e quanto meno rigida è la legislazione di protezione del lavoro (➔ lavoro, legislazione di protezione del).
Misura l’abilità dell’impresa di variare l’input lavoro (le ore di lavoro per unità di tempo) senza licenziare o assumere lavoratori, per es. ricorrendo al lavoro straordinario (➔). È rilevante soprattutto dove ci siano variazioni stagionali o inattese nella produzione.
Misura la capacità dell’impresa di riorganizzare i propri lavoratori su diverse mansioni, differenti luoghi e tipi di lavoro.
Nei termini più tradizionali, si riferisce alla misura in cui i salari, e specificamente quelli reali, sono reattivi rispetto a variazioni di domanda e offerta di lavoro. Consiste quindi nella capacità dei datori di lavoro di alterare la retribuzione pagata ai propri lavoratori quando le condizioni del mercato lo richiedano e in relazione all’andamento della produttività. Se i saggi salariali reali variano in senso inverso al variare del tasso di disoccupazione (cioè diminuiscono al determinarsi di un eccesso dell’offerta di lavoro rispetto alla domanda e, viceversa, aumentano al verificarsi di un eccesso di domanda di lavoro rispetto all’offerta), il mercato del lavoro raggiunge spontaneamente l’equilibrio, ossia la domanda e l’offerta di lavoro si eguagliano; se invece l’esistenza di ostacoli impedisce l’aggiustamento salariale al mutamento della domanda e dell’offerta, il mercato del lavoro non può realizzare il suo equilibrio. Questo strumento viene spesso invocato per accrescere la domanda di lavoro in imprese caratterizzate da bassa produttività. La f. salariale è generalmente limitata dove la contrattazione salariale è fortemente centralizzata, mentre può essere favorita dalla contrattazione decentrata (➔ contrattazione, struttura della).
Consiste nella capacità delle imprese di utilizzare lavoro fornito da lavoratori esterni all’impresa instaurando rapporti di tipo commerciale anziché lavorativo. Non è molto diffusa in Italia e prende le forme, per es., del telelavoro (➔) o del lavoro a distanza. Le misure di liberalizzazione attuate in Italia a partire dagli anni 1990 (pacchetto Treu e legge Biagi, ➔ Biagi, legge) hanno introdotto tipologie contrattuali nuove, con l’effetto di un aumento della f. numerica esterna attraverso la riduzione dei vincoli fronteggiati dall’impresa relativi ai propri lavoratori e la limitazione in alcuni casi della tutela del posto di lavoro, ma anche, in senso generale, offrendo all’impresa la possibilità di disporre del lavoratore per mansioni diverse, per periodi di tempo determinati, secondo orari lavorativi particolari, in differenti luoghi eccetera. Molti economisti hanno attribuito alla rigidità del mercato del lavoro, in particolare alle restrizioni ai licenziamenti, un ruolo importante nella spiegazione delle differenze tra Paesi, e nel tempo nei tassi di occupazione e disoccupazione e nella durata e composizione di quest’ultima. Nei modelli con costi di aggiustamento (➔ licenziamento, costi di) la rigidità del lavoro è interpretata come un costo che l’impresa deve pagare per aggiustare la propria manodopera. Secondo questa impostazione, la rigidità non ha effetto sull’occupazione (e quindi sulla disoccupazione) media, perché se da un lato riduce la propensione delle imprese ad assumere, dall’altro induce a diminuire il meno possibile la forza lavoro a fronte di shock negativi. Ciò implica, tuttavia, una perdita di efficienza e quindi profitti mediamente inferiori per le imprese. Come conseguenza si osserva, nel lungo periodo, una riduzione dell’occupazione e una crescita della disoccupazione. Maggiore rigidità comporta inoltre una minore variabilità dell’occupazione e della disoccupazione durante il ciclo economico, una maggiore durata della disoccupazione e quindi maggiori difficoltà di accesso al mercato del lavoro per i giovani e, in generale, per le fasce più deboli dei lavoratori. Secondo altri economisti, il ruolo della rigidità dovrebbe essere considerato con cautela, in quanto il suo impatto sull’occupazione e sulla disoccupazione dipende anche da altri fattori istituzionali quali la generosità dei sussidi di disoccupazione e la loro durata prolungata, il ruolo del sindacato o il livello della pressione fiscale complessiva.
Caratteristica per la quale i prezzi aumentano quando vi è un eccesso di domanda sull’offerta di beni, diminuiscono quando vi è un eccesso di offerta di beni sulla domanda.