flessione
La flessione è l’ambito della morfologia che riguarda le diverse forme che una stessa parola può avere secondo il contesto in cui è usata. Si differenzia dalla ➔ derivazione, che invece riguarda la formazione di parole nuove.
Si confrontino le forme del verbo lavorare nelle frasi seguenti:
(1) oggi Carlo lavora molto bene
(2) l’anno scorso Carlo lavorò molto bene
(3) oggi gli operai lavorano molto bene
(4) l’anno scorso gli operai lavorarono molto bene
Come si può notare, lavorare ha diverse forme per codificare la diversa collocazione temporale dell’evento descritto e in relazione al ➔ numero grammaticale del sintagma nominale soggetto. La flessione serve dunque a esprimere, per mezzo di morfi specifici, alcuni tipi di significato molto generali che un lessema deve esprimere quando viene usato in un contesto specifico. Tali tipi di significato, indicati di solito come categorie flessive, in italiano si riferiscono al ➔ genere grammaticale, al numero (come già detto sopra) e alla ➔ persona verbale.
Ciascuna categoria flessiva si articola in due o più valori: ad es. l’italiano distingue due valori per il genere grammaticale (maschile e femminile), due per il numero (singolare e plurale) e tre per la persona (prima, seconda e terza). L’➔accordo obbligatorio di un aggettivo per le categorie di genere e di numero con il nome che modifica, produce nel caso di un aggettivo come buono quattro forme distinte: una mela buona, due mele buone, un cornetto buono, due cornetti buoni. Anche nel caso che la classe di appartenenza dell’aggettivo non permetta di esprimere esplicitamente la distinzione di genere (ad es., una mela grande / un palazzo grande), il valore (femminile o maschile) è ugualmente presente, e riemerge laddove la forma lo consenta (ad es. nel grado superlativo: una mela grandissima / un palazzo grandissimo). Lo stesso vale per la distinzione singolare / plurale nei nomi accentati sulla vocale finale (città, tribù) o in alcuni aggettivi di colore (avana, marrone, rosa, viola), i quali, come tutti gli altri nomi e aggettivi, sono necessariamente impiegati o al singolare o al plurale (una città italiana, le città italiane; una maglia rosa, due maglie rosa). Non costituiscono quindi un’eccezione quei nomi che sono solo al plurale (esequie, nozze, terme, viveri), in quanto sono impiegati necessariamente in uno dei due valori previsti dalla categoria numero.
Secondo una classificazione consolidata, le parti variabili del discorso (cioè modificabili secondo categorie flessive) dell’italiano sono: verbo, nome, aggettivo, pronome, articolo. Avverbi, preposizioni, congiunzioni, interiezioni sono invece invariabili, dato che non portano informazione morfologica flessiva (➔ parti del discorso).
La flessione dei verbi è detta tradizionalmente coniugazione (➔ coniugazione verbale), quella delle altre parti variabili del discorso è chiamata declinazione. L’italiano contemporaneo ha ridotto le varianti formali della flessione rispetto all’➔italiano antico, anche se le varietà regionali possono tuttora determinare una certa eterogeneità nel comportamento dei parlanti.
La parte del discorso che presenta maggiore ricchezza flessiva è di gran lunga il verbo: un normale verbo dell’italiano conta circa cinquanta forme flesse. I nomi invece si flettono solo per numero (alcuni anche per genere), gli aggettivi per genere e numero, così come gli articoli; i pronomi, oltre a genere e numero, possono esprimere persona e caso (ad es. i pronomi tonici di prima e seconda persona hanno forme diverse se usati come soggetti – io, tu – o negli altri ruoli sintattici – me, te; ➔ caso).
La flessione dei verbi dell’italiano contempla cinque categorie: ➔ persona; ➔ numero; tempo; modo (➔ modi del verbo); ➔ aspetto (➔ coniugazione verbale). Si distinguono quattro modi finiti (indicativo, congiuntivo, imperativo, condizionale) e tre modi non-finiti (infinito, gerundio, participio). Infinito e gerundio non sono declinabili, mentre il participio – distinto in presente e passato – è declinabile in genere e numero in maniera analoga agli aggettivi, costituendo in effetti una forma che unisce proprietà verbali e nominali. I modi finiti, a eccezione dell’imperativo, distinguono tre persone al singolare e tre al plurale (l’imperativo prevede solo la seconda persona singolare e plurale). L’indicativo è il modo con più ricca articolazione di forme: distingue, infatti, tre tempi (presente, passato e futuro), e nel passato distingue diversi valori dell’aspetto (continuativo, perfettivo, puntuale), grazie rispettivamente all’imperfetto, al passato prossimo e al passato remoto.
Si è soliti distinguere tre coniugazioni verbali: verbi che all’infinito terminano in -are, in -ere e in -ire. La vocale che precede l’affisso flessivo dell’infinito -re è detta vocale tematica, in quanto caratterizza molte forme di ciascuna delle coniugazioni senza svolgere altra funzione se non quella di segnalare la coniugazione cui un verbo appartiene.
La prima coniugazione (verbi in -are) accoglie i verbi provenienti dai verbi latini terminanti in -āre, è quella con più alta percentuale di verbi regolari, ed è molto produttiva (incrementata dalla derivazione con i suffissi -izz-a-re, -ific-a-re, -eggi-a-re, ecc., oltre che dalla ➔ conversione).
La seconda coniugazione (verbi in -ere) è formata quasi esclusivamente da verbi di origine latina terminanti in -ēre e -ĕre, da cui derivano rispettivamente verbi all’infinito con accento sulla penultima (temere, volere) e sulla terzultima (credere, prendere), oltre che forme sincopate (porre, trarre). In ragione di tali differenze, alcuni preferiscono distinguere per i verbi in -ere due diverse coniugazioni, distinte per la posizione dell’accento sulla radice o sulla vocale tematica all’infinito. Non è possibile formare nuovi verbi in -ere, e molti di quelli in uso presentano irregolarità nella flessione.
I verbi della terza coniugazione (verbi in -ire) derivano dagli omofoni latini, oltre che da alcuni metaplasmi, cioè da mutamenti di classe flessiva nel passaggio dal latino all’italiano (lat. capĕre «prendere» > it. capire). Entro questa coniugazione si possono distinguere due gruppi, a seconda della presenza o meno dell’infisso -isc- (cfr. sentire / io sento, finire / io finisco). È una coniugazione debolmente produttiva, che si può arricchire di nuovi verbi solo tramite la parasintesi (ad es. appiattire, innervosire; ➔ parasintetici).
Flessione e derivazione sono espresse da elementi simili: si tratta sempre di affissi che si aggiungono a un morfema lessicale. La flessione in italiano si serve esclusivamente di suffissi. Non esistono infatti in italiano prefissi flessivi: la prefissazione è invece usata in derivazione (➔ prefissi). Oltre che da affissi, la flessione può essere espressa anche tramite altre strategie, tra cui la modificazione interna (vedo, vidi), alternanze di posizione dell’accento (ad es. guardo, guardò), costruzioni perifrastiche (ad es., nei tempi composti dei verbi: ho mangiato, avrò mangiato, ecc.; oppure nel grado comparativo dell’aggettivo: più giusto, meno largo).
La flessione ha in comune con la derivazione la capacità di esprimere in modo economico alcuni tipi di significato fondamentali. Così come in derivazione l’uso di suffissi permette di formare nomi di azione (➔ azione, nomi di) e di agente (➔ agente, nomi di) a partire da un verbo secondo schemi ripetuti e produttivi (lavorare → lavoratore, lavorazione; donare → donatore, donazione), la flessione permette di esprimere ad es. la differenza tra singolare e plurale tramite la modifica del solo affisso, mantenendo invariato il morfema lessicale (person-a / -e; cfr. persona / gente).
I morfemi flessivi sono dunque i responsabili delle diverse forme di una stessa parola, in quanto rappresentano l’elemento variabile che si combina con l’elemento stabile, costituito dal morfema lessicale. Essi costituiscono un inventario chiuso, mentre i lessemi sono un inventario aperto.
La flessione si distingue dalla derivazione essenzialmente per tratti come: la maggiore generalità dei significati espressi; il minore impatto sul significato del morfema lessicale (ad es., la differenza di significato tra giornale e giornalista è maggiore di quella tra giornale e giornali; in generale, un morfema flessivo non modifica il significato del morfema lessicale a cui si unisce); e soprattutto per la sua obbligatorietà (l’uso di una parola appartenente alle classi suscettibili di flessione determina necessariamente l’espressione delle categorie flessive) e per essere organizzata in serie paradigmatiche (ad es., la flessione di tutti i tempi dell’indicativo prevede tre persone al singolare e tre al plurale; ➔ paradigmi).
Dal punto di vista della posizione dei morfemi nella parola, i morfemi flessivi sono più esterni rispetto a quelli derivazionali (informa-zion-e, informa-tor-e). È inoltre possibile formulare alcune generalizzazioni sull’ordine relativo dei morfemi flessivi: nel verbo, ad es., l’indicazione di numero e persona è esterna rispetto a quelle del modo e del tempo: ama-v-o. Ma dal momento che l’italiano appartiene al tipo morfologico fusivo (o flessivo; ➔ morfologia; ➔ lingue romanze e italiano) i suoi morfemi flessivi tendono a svolgere più funzioni nello stesso tempo, per es. genere e numero nell’aggettivo: cfr. ross-o (sing. masch.), ross-i (plur. masch.). Inoltre il morfema lessicale può essere realizzato nelle varie forme flesse da più allomorfi: pres-i, prend-emmo.
L’italiano presenta novità di tipo analitico rispetto al latino (lingua più decisamente flessiva), tra cui: l’impiego di preposizioni invece che di desinenze di caso (lat. pueris, it. ai ragazzi); tempi verbali composti con ausiliare (con la formazione del passato prossimo: lat. laudavi, it. lodai / ho lodato < *laudatum habeo), forme passive del verbo e grado comparativo degli aggettivi realizzati tramite perifrasi invece che con affissi (lat. laudatur, it. è lodato; lat. velocior, it. più veloce). Ma l’italiano è più vicino al tipo flessivo rispetto al francese (ha un numero maggiore di forme nelle coniugazioni verbali) e anche rispetto allo spagnolo per quanto riguarda la flessione aggettivale (cfr. it. bell-o, bell-a, bell-i, bell-e; spagn. hermos-o, hermos-a, hermos-o-s, hermos-a-s).
Una funzione importante della flessione è segnalare i rapporti fra parole in un enunciato. Si usa il termine ➔ accordo quando una parola assume alcune caratteristiche flessive condividendole con quella da cui dipende nel sintagma (per es., l’accordo di genere e numero di aggettivi e articoli con i nomi: una casa luminosa). Si parla invece di ➔ reggenza quando la flessione del lessema dipendente è determinata dal lessema reggente ma non è condivisa, come ad es. nell’assegnazione di caso del pronome da parte del verbo (il maestro ha punito me / *io). Si parla di flessione inerente nel caso in cui i tratti flessivi non dipendono né dall’accordo né dalla reggenza, ma sono interni all’attualizzazione di un elemento nel discorso, come ad es. il numero dei nomi o il tempo dei verbi delle frasi principali.
Skytte, Gunver (1988), La flessione, in Lexikon der romanistischen Linguistik (LRL), hrsg. von G. Holtus, M. Metzeltin & C. Schmitt, Tübingen, Niemeyer, 8 voll., vol. 4º (Italienisch, Korsisch, Sardisch), pp. 39-51.
Thornton, Anna M. (2005), Morfologia, Roma, Carocci, pp. 49-61.