Abstract
La voce affronta tre profili dell’ampia tematica della flexicurity: la genesi di tale indirizzo di riforma del diritto del lavoro nell’ambito delle politiche dell’Unione europea del primo decennio del nuovo millennio e la difficile armonizzazione con la Carta dei diritti fondamentali dei cittadini europei; la realizzazione squilibrata delle politiche di flexicurity nei principali paesi europei specie a seguito della crisi economica iniziata nel 2007/2008; i condizionamenti della flexicurity sulle riforme del mercato del lavoro italiano realizzate negli ultimi 10 anni.
Con il termine “flexicurity” si indica una importante politica di riforma di aspetti fondamentali dello Stato sociale e del diritto del lavoro emersa nell’Unione europea agli inizi del terzo millennio e concretizzatasi per la prima volta con il rapporto “Affrontare la sfida”, presentato, nel novembre del 2004, dal “Gruppo di alto livello” incaricato dalla Commissione europea e presieduto da Wim Kok, un socialdemocratico olandese. Di rilievo è che Kok era stato premier nei Paesi Bassi dal 1994 al 2002 e che la prima legge nella quale viene utilizzata l’espressione “flexicurity” è una legge olandese del 1999. Pur con sensibili differenze, le linee di riforma contenute in questa legge si ritrovano in interventi coevi di altri paesi dell’Europa settentrionale e, in particolare, in Danimarca, che diventerà una sorta di modello ideale in materia. Nel cd. rapporto Kok del 2004 si legge comunque la seguente indicazione: «il mercato del lavoro deve trovare un giusto equilibrio tra flessibilità e sicurezza, un obiettivo alla cui realizzazione devono contribuire datori di lavoro, dipendenti, parti sociali e governi»; e, poco dopo, «il concetto di sicurezza sta assumendo una dimensione diversa. L’idea non è più quella di garantire il posto di lavoro per tutta la vita, ma di permettere alle persone di rimanere e di progredire sul mercato del lavoro» (p. 37). Ancora più esplicitamente, circa un anno prima, la relazione della Task force europea per l’occupazione (presieduta sempre da Kok) aveva indicato la necessità di rivedere profondamente la disciplina dei licenziamenti individuali e collettivi. Appare dunque subito chiaro che, in prima approssimazione, con il termine flexicuriy si fa riferimento ad una linea riformatrice che va oltre la mera flessibilità cd. “ai margini” (cioè dei contratti di lavoro non standard: part-time, termine, più tardi lavoro interinale) o “interna” (soprattutto orari di lavoro) e che ha riflessi sul “cuore” del modello sociale europeo, cioè la sicurezza complessiva connessa allo svolgimento dell’ attività lavorativa.
Gli esiti di quella linea non sono però scontati in termini di maggiore o minore “sicurezza sociale”; e nemmeno la strumentazione da utilizzare. In effetti per questo aspetto la “sfida” del rapporto Kok consiste nel tentativo di riempire il termine “sicurezza sociale” di contenuti comuni agli Stati dell’Unione europea, andando a toccare proprio ciò che caratterizza il percorso istituzionale partito nel dopoguerra in Inghilterra con Lord Beveridge. Tale percorso ha consegnato agli europei un gioiello istituzionale come il Welfare State, di cui si celebrano ancora i fasti, ma che non è stato realizzato in tutta Europa con gli stessi contenuti e con gli stessi tempi, né con la medesima tipologia di interventi o con eguale sostenibilità economico-finanziaria.
Sebbene le tracce della flexicurity a livello europeo si trovino dunque già nel 2003/2004, solo nel novembre 2006 si prova in effetti a precisarne i contenuti, con il Libro verde della Commissione europea che apre una pubblica consultazione su «Modernizzare il diritto del lavoro per rispondere alle sfide del XXI secolo». Si tratta di un documento articolato nel quale si pone la “sfida politica” di realizzare un mercato del lavoro flessibile ed inclusivo e si formulano specifici quesiti (per la precisione 14) sui temi dove appare necessaria una modernizzazione del diritto del lavoro comune a tutti gli Stati europei: transizioni professionali, insicurezza giuridica, rapporti di lavoro triangolari, organizzazione dell’orario di lavoro, mobilità dei lavoratori, effettività della legislazione e repressione del lavoro sommerso. Seppure in un orizzonte problematico ampio, risalta nel Libro Verde un approccio unilaterale alla modernizzazione, vista essenzialmente dal punto di vista delle imprese e dei Paesi del Nord Europa. Nella consultazione pubblica – che raccoglie una documentazione imponente (v. Labourweb-virtual documentation Centre on European Labour Law, in www.csdle.lex.unict.it) – molti lo rileveranno (con particolare incisività un documento ufficiale di un gruppo di giuslavoristi italiani: v. appendice Zoppoli, L.-Delfino, M., Flexicurity e tutele. Il lavoro tipico e atipico in Italia e in Germania, Roma, 2008). Ma già in comunicazioni di poco successive della Commissione al Consiglio, al Parlamento, al Comitato economico e sociale e al Comitato delle regioni si introducono importanti novità, come l’individuazione di 4 diversi percorsi di flessicurezza (v. Com(2007)359 def. del giugno 2007). Anche in questo documento però la Commissione propone tra i principi comuni di flexicurity «una sufficiente libertà di assumere e licenziare» (punto 5).
Quella proposta non raccoglie il consenso totale del Parlamento europeo, che, con una risoluzione del luglio 2007, esprime piena condivisione della «necessità di rafforzare il diritto del lavoro per rispondere alle sfide del XXI secolo» (punto 1), ma indica una precisa scala di priorità parzialmente divergente da quella proposta dalla Commissione. Preliminarmente si precisa che la riforma del diritto del lavoro è da realizzare nel rispetto dei principi di sussidiarietà e proporzionalità e in coerenza «con i principi della Carta dei diritti fondamentali, con particolare riferimento al titolo IV» (sulla solidarietà), salvaguardando i valori del modello sociale europeo e i diritti sociali consolidati (punto 2). Le priorità sono (anche qui punto 5): a) la facilitazione del passaggio tra situazioni diverse di occupazione e disoccupazione; b) la garanzia di un’idonea protezione per i lavoratori con forme di lavoro atipiche; c) il chiarimento dell’ambito del lavoro dipendente e della zona grigia esistente tra lavoratori autonomi e lavoratori con rapporti di lavoro dipendente; d) la lotta contro il lavoro sommerso.
La Commissione, nella comunicazione dell’ottobre 2007 al Consiglio, al Parlamento, al Comitato economico e sociale e al Comitato delle regioni (Com(2007)627 def.), sui risultati della consultazione pubblica avviata con il Libro verde tiene relativamente in poco conto la risoluzione del Parlamento. Cosicché il medesimo Parlamento adotta un’altra risoluzione del 29.11.2007 sui «Principi comuni di flessicurezza», dove, oltre a ribadire analisi e priorità espresse nella precedente risoluzione, inserisce un considerando (contrassegnato con la lett. O) in cui rammenta che «l’Ocse recentemente ha stabilito che la legislazione in materia di tutela del lavoro non ha un impatto significativo sul tasso di disoccupazione totale e che gli elevati tassi di sostituzione nei sussidi di disoccupazione hanno un effetto positivo sulla produttività»; inoltre sottolinea pure che «l’Oil ha dimostrato che sicurezza del posto di lavoro e produttività sono direttamente proporzionali».
Giunge infine «la versione definitiva e concordata dei principi comuni della flessicurezza», approvata dal Consiglio dell’Unione europea il 14.12.2007, come si conviene ad un importante atto di indirizzo politico. Questa versione si discosta sensibilmente da quella indicata dalla Commissione nel giugno 2007. I “principi comuni” sono 8 e valgono a precisare che : a) la flessicurezza è un mezzo per modernizzare i mercati del lavoro e promuovere lavoro di qualità; b) si basa su una combinazione di quattro elementi, cioè forme contrattuali flessibili e affidabili, strategie integrate di apprendimento permanente, efficaci politiche attive del mercato del lavoro e sistemi di protezione sociale moderni, adeguati e sostenibili; c) ciascuno Stato membro dovrebbe elaborare proprie modalità di flessicurezza i cui progressi dovrebbero essere soggetti ad un’efficace sorveglianza; d) serve a promuovere mercati del lavoro aperti, reattivi ed inclusivi, superando la segmentazione e aiutando tutti – inoccupati, disoccupati e occupati – a “progredire verso un’occupazione stabile e giuridicamente sicura», a «rimanere occupabili, progredire e gestire le transizioni verso il mondo del lavoro e da un posto di lavoro all’altro»; e) va promossa tanto la flessicurezza interna all’impresa quanto quella esterna, ovvero «una sufficiente flessibilità contrattuale deve essere accompagnata da transizioni sicure da un lavoro all’altro»; f) la flessicurezza deve “supportare” la parità di genere e offrire misure per conciliare lavoro, famiglia e vita privata; g) si basa su un clima di fiducia e un ampio dialogo tra le parti interessate nel quale «benché le parti pubbliche continuino a detenere una responsabilità generale, un’importanza decisiva riveste il coinvolgimento delle parti sociali nell’elaborazione ed attuazione delle politiche di flessicurezza attraverso il dialogo sociale e la contrattazione collettiva»; h) richiede un’assegnazione efficiente di risorse, da realizzare nella compatibilità con bilanci sani e finanziariamente sostenibili e prefiggendosi «un’equa distribuzione di costi e benefici, specie tra imprese, autorità pubbliche e singoli individui».
Anche per analizzare i successivi sviluppi è da questi principi comuni che occorre prendere le mosse. E allora, specie a guardarli dopo la dura crisi economica mondiale 2007/2008, appaiono molto importanti alcuni dei punti di partenza. Innanzitutto uno dei principi comuni proposti dalla Commissione in piena coerenza con il rapporto Kok (n. 5 nella comunicazione del giugno 2007) viene sensibilmente modificato ed è proprio quello riguardante il rapporto tra flexicurity e disciplina dei licenziamenti che risulta assai più sfumato. Nei principi del dicembre 2007 non c’è nessun esplicito accenno al fatto che la flexicurity debba comportare una modifica del regime del licenziamento (si parla genericamente, come si è detto, di flessibilità contrattuale che «deve essere accompagnata da transizioni sicure da un lavoro all’altro»). Inoltre l’occupazione, che le politiche di flexicurity dovrebbero assicurare, deve essere stabile e assistita da garanzie giuridiche: si recupera quindi una relazione, per quanto assai generica, tra politiche e diritti, che pareva assente nel Libro Verde del 2006. Infine si pone più volte l’accento sul fatto che le politiche di flexicurity – sebbene necessariamente proteiformi – comportano costi che possono sostenere solo bilanci pubblici finanziariamente solidi e che, comunque, non possono essere accollati unicamente al pubblico erario, ma vanno distribuiti tra le parti sociali. Del tutto conseguente è che non può esservi flexicurity senza il coinvolgimento dei rappresentanti delle parti sociali, che devono garantire fiducia e coesione sociale.
Con queste precisazioni la riforma del diritto del lavoro pare muoversi ancora pienamente all’interno del “modello sociale europeo”, come esplicitamente chiedevano le risoluzioni del Parlamento europeo. Resta però un limite di fondo: la funzionalizzazione del diritto del lavoro alle esigenze dell’impresa caratterizza un percorso di modernizzazione che pare entrare in tensione con i valori complessivi intorno ai quali è stata edificata l’Unione europea, innervata in Stati nazionali a forte caratterizzazione sociale. Tra l’altro in questa chiave la flexicurity sulla quale si imposta la consultazione pubblica nel 2006 appare segnata da un anacronismo di tipo istituzionale: sembra ignorare i faticosi percorsi attraverso cui l’Unione si sta dotando di una propria Carta costituzionale (o Bill of Rights) che contiene anche principi e diritti che vanno oltre le classiche libertà economiche. Il Parlamento europeo, come s’è visto, sottolineerà questo limite. Ma il momento non è dei più felici per disegnare una strategia complessiva riguardante il profilo della regolazione giuridica del lavoro in Europa. La flexicurity in realtà nasce in un circuito più politico che giuridico con la pretesa di incidere su uno dei diritti che è a fondamento degli Stati moderni nell’intera Europa; e, probabilmente, con la preoccupazione che il progredire dell’Unione, invece di consegnare alla storia istituzioni costose e garantiste, le recuperi in una dimensione più allargata.
Infatti proprio in quel periodo viene approvata la Carta dei diritti fondamentali dei cittadini europei all’interno del trattato di Lisbona, che entrerà pienamente in vigore dal 2009. La flexicurity in salsa europea nasce mentre la Costituzione europea affronta le sue maggiori difficoltà; si può persino pensare, almeno nel 2006, che la Carta sia destinata ad essere accantonata o, comunque, che la sua rilevanza giuridica non sarà di primo piano. Si può capire allora che si decida di aprire un altro percorso, più politico che giuridico, dove Stato e mercato, pubblico e privato tornano a confrontarsi, questa volta partendo da un tentativo di assorbimento della sicurezza garantita dallo Stato nelle dinamiche del mercato (un percorso opposto a quello faticosamente disegnato nella Costituzione europea proprio con la Carta dei diritti). Anche su questo versante però il neo-liberismo non sfonda sul piano dei programmi e degli atti di indirizzo. L’Europa sociale lascia la sua impronta anche sugli atti di nascita della flexicurity. Dopo, come vedremo, la stessa flexicurity, nella versione compromissoria (o “concordata”, come diplomaticamente la definisce il Consiglio dell’Unione europea), ha fatto poca strada perché su di essa si è riversata come un ciclone la crisi mondiale iniziata dal 2007/2008. Oggi, comunque, le disposizioni della Carta dei diritti fondamentali sono pienamente vigenti; in particolare l’art. 30, che testualmente prevede che «ogni lavoratore ha diritto alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato». Nessun percorso di flexicurity che voglia tradursi in normative di rango europee può ignorare quella norma, che è vincolante per tutte le autorità europee. Anche sulla Carta però c’è l’impronta di chi teme la rinascita di uno Stato sociale vecchio stampo, magari su impulso di questo o quel paese, forte delle sue tradizioni costituzionali o più latamente giuridiche: l’art. 51 – secondo cui «le disposizioni della Carta ai applicano alle istituzioni, organi e organismi dell'Unione nel rispetto del principio di sussidiarietà, come pure agli Stati membri esclusivamente nell'attuazione del diritto dell'Unione» – sta infatti lì a ricordare che gli equilibri politici tra diritti e mercato si giocano solo a livello europeo, solo in atti e norme che promanano dagli organi investiti da tutti i popoli d’Europa a bilanciare valori, principi e ideologie, seppure sotto il velo di un pragmatico richiamo alle pressioni dell’economia e della finanza mondiali.
Dopo la genesi e una faticosa prima fase applicativa strozzata sul nascere dalla crisi finanziaria del 2007-2008 (su cui si dirà comunque qualcosa infra), oggi siamo alla seconda fase della flexicurity, come è stata denominata dalla Comunicazione della Commissione europea del 3.3.2010 intitolata Europa 2020 e diretta a sostenere una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva. Prima ancora di menzionare la flexicurity (p. 18), la Comunicazione della Commissione fissa però gli obiettivi quantitativi da raggiungere, che, per le politiche del lavoro, si concretizzano in un 75 per cento di occupati per i cittadini compresi nella fascia di età 20/64 anni (oggi è al 69 per cento), con particolare attenzione a donne, anziani e migranti.
In ogni caso la seconda fase della flexicurity dovrebbe soprattutto comportare una migliore gestione delle «transizioni economiche, la lotta alla disoccupazione e l’aumento della produttività del lavoro». All’interno di una riproposizione di precisi obiettivi quantitativi e di ambiti di intervento alquanto generici, due aspetti importanti possono essere colti. Il primo è il ritorno di una certa enfasi sull’attuazione dei percorsi nazionali di flessicurezza per ridurre la segmentazione dei mercati del lavoro. Ma come superare la segmentazione non si dice, salvo precisare che vanno agevolate le transizioni e un migliore equilibrio tra vita lavorativa e vita privata. Il secondo aspetto, forse quello più innovativo, attiene alle politiche della formazione, rispetto alle quali pure si pongono obiettivi quantitativi e percorsi istituzionali e di forte coinvolgimento delle parti sociali. Insomma in questo quadro la flexicurity sembra sempre più diventare uno dei tanti tasselli delle politiche europee, un po’ più incerto e sbiadito. Tant’è che mi pare si abbiano buone ragioni a rilevare che il successo della parola è forse più politico che giuridico-istituzionale (Valdes Dal Re, F., Il dibattito sulla flessicurezza all’interno dell’Unione Europea, in Loy, G., a cura di, Diritto del lavoro e crisi economica, Roma, 2011).
Un orientamento simile è riscontrabile anche nella Conferenza di alto livello sulla flexicurity promossa dalla Commissione europea il 14.11.2011, nella quale il Commissario Andor ribadisce che «il concetto di flexicurity è stato basato sull’idea che robuste politiche attive del lavoro, investimenti sulla formazione per tutto l’arco della vita e sistemi moderni di sicurezza sociale possono assicurare sicurezza di impiego e reddito, anche se la strumentazione contrattuale diventa più flessibile e la mobilità del lavoro più frequente», e afferma «lasciatemi essere chiaro al riguardo. Quanto alla flessibilità, io non intendo allentamento delle regole di “assunzione/licenziamento”. E non intendo nemmeno una semplice estensione dei sussidi per la disoccupazione in atto. È importante non confondere la flexicurity con pratiche frammentarie o disordinate che non abbracciano contemporaneamente le quattro componenti indicate». Andor poi conclude con questa significativa affermazione, seguita da ulteriori problematiche indicazioni: «dovremmo domandarci se la flexicurity è l’unica risposta. Può essere una soluzione onnicomprensiva o ha bisogno di essere sostenuta con altre misure al fine di promuovere un livello più alto e una qualità più elevata dell’occupazione? Le quattro componenti attuali devono essere allargate con altre componenti? La struttura della flexicurity deve essere rivisitata, ponendo maggiore enfasi su altri strumenti di policy come flexicurity interna, incentivi fiscali o mobilità del lavoro? Oppure la flexicurity andrebbe vista soltanto come una parte di una più ampia agenda di politiche occupazionali per l’era post-crisi?».
Al di là di profondi dubbi e rimeditazioni, la flexicurity è tornata di moda in Italia verso la metà del 2011, in connessione con una famosa lettera della BCE al Governo italiano sulle condizioni per arginare la speculazione finanziaria che stava determinando un’insostenibile impennata dei tassi di interesse sui titoli di Stato (lettera del 6.8.2011). Molti dei mantra vecchi e nuovi della flexicurity riecheggiano in alcune delle 39 domande (dalla 17 alla 21) di chiarimento sul documento del governo Berlusconi dell’11.11.2011. In particolare, nell’impegno a rendere più dinamico il mercato del lavoro italiano, anche una generica revisione della disciplina dei licenziamenti può apparire ragionevole e compatibile con la salvaguardia dei diritti fondamentali dei lavoratori. Nel 2011 però la flexicurity non può più essere utilizzata come fonte ispiratrice di una riforma diretta in qualche modo ad eliminare il controllo giudiziario sui licenziamenti o sulla reintegrazione prevista dall’art. 18 st. lav. Una tale interpretazione sarebbe in contrasto con norme sovranazionali europee e internazionali (v. Carinci, F., Provaci ancora, Sam”: ripartendo dall’art. 18 dello Statuto, in W.P. C.S.D.L.E. Massimo D’Antona.IT – 138/2012, sul Contrat nouvelles embauches che la Cassazione francese ha ritenuto in contrasto con la convenzione OIL 158 del 1982; v. anche Cass., sez. lav., 9.5.2007, n. 10549, in Riv. it. dir. lav., 2008, II, 335 ss.) ed esporrebbe a boomerang giudiziari.
Difficile per di più, in quella fase, è anche far passare nel nome della flexicurity grandi reti di nuova sicurezza sociale. Non ci sono i soldi né privati né pubblici. Si tratta allora di interpretare la flexicurity in coerenza con tradizioni e condizioni dei diversi Stati, come d’altronde è sempre accaduto (v. Meardi, G., Flexicurity meets State Traditions, in Int. jour. comp. lab. law ind. rel., 2011, 256 ss.), specie per le limitate possibilità di manovre nazionali su costosi sistemi di sicurezza sociale. Proprio questo in fondo è il significato delle diverse pathways delineate dalla stessa Commissione nel 2007 e ribadite nella Conferenza di Novembre 2011.
Va comunque tenuto conto che in molti paesi europei il timore indotto dalla crisi economico-finanziaria mondiale, avvertibile già nel 2007, fa aumentare riforme all’insegna della flessibilità. Una delle più significative è l’ennesima riforma del mercato del lavoro spagnolo – dove si registra un tasso di disoccupazione di oltre il 22 per cento – approvata nel febbraio 2012 dal Governo Rajoy, che, sempre per aggredire i dualismi del mercato del lavoro, rende più facili i licenziamenti (riduzione delle indennità di licenziamento sia per giusta causa, abbassata a 20 giorni per anno lavorato, sia arbitrario, da 45 a 33 giorni) e meno costose le assunzioni di giovani sotto i trent’anni per le imprese con meno di 50 dipendenti (sgravio fiscale di 3000 euro e salari al 50 per cento, con conservazione del 25 per cento di indennità di disoccupazione da parte del lavoratore). Ma pone anche il limite di 24 mesi per i contratti a termine e di 25 anni per i contratti di apprendistato.
Anche la Francia e la Germania nel corso del decennio di inizio secolo hanno sensibilmente inciso sulla regolamentazione dei loro mercati del lavoro. La Francia ripetutamente e, in modo più significativo, con un accordo interconfederale del 2008 incentrato su una peculiare forma di rupture conventionelle, recepita nella l. 25.6.2008 (v. Laulom, S., Il diritto del lavoro francese di fronte alla crisi, in Loy, G., op. cit.) e con un ulteriore ampio Accord interprofessionnel pour un nouveau modèle économique et social au service de la compétitivité des enterprise et de la sécurisation de l’emploi et des percours professionels des salariés dell’11.1.2013, cui ha fatto seguito la l. 14.6.2013, n. 504, che spostano l’accento sulle misure per incrementare la produttività, anche attraverso ulteriori spazi per la contrattazione aziendale. La Germania soprattutto con le cd. riforme Hartz, che risalgono al 2004 e che hanno fortemente flessibilizzato tutele legali e contrattuali (v. Schuld, C., La flexicurity in Germania, in Zoppoli, L.-Delfino, M., op. cit.), senza peraltro intaccare i pilastri del sistema di relazioni industriali – in particolare, la partecipazione in azienda, che secondo alcune ricerche è stata più efficace delle stesse riforme Hartz nell’affrontare la crisi (Dustmann, C.-Fitzenberger, B.-Schonberg, U.-Spitz-Oener, A., Il segreto della ripresa tedesca, in www.lavoce.info dell’11.2.2014) – e del sistema di sicurezza sociale (i sussidi di disoccupazione, cui sono stati affiancate misure di sostegno al reddito in caso di riduzione dell’orario di lavoro per far fronte a crisi produttive). Anche in Germania però alla fine del 2014 le riforme riguardano piuttosto nuove garanzie dei redditi minimi e un rafforzamento dell’efficacia dei contratti collettivi sovraziendali.
Tra gli Stati forti su cui è basato il modello va poi considerato che le performance del sistema danese – pur essendo tra le migliori – non sono entusiasmanti in fase recessiva, perché hanno determinato un significativo incremento dei tassi di disoccupazione con conseguenti difficoltà o arretramenti proprio sul piano della security e un depotenziamento sensibile del ruolo del sindacato (quindi con gravi lesioni del cd. triangolo d’oro e rilevanti sbilanciamenti verso la flexibility: v. Madsen, P.K., Reagire alla tempesta. La flexicurity danese e la crisi, in Dir. rel. ind., 2001, 78 ss.; Amoroso, B., Il modello sociale danese, in Dir. lav. merc., 2010, 227 ss.; Tangian, A., Not for bad weather: macroanalysis of flexicurity with regard to the crisis, Brussels, 2010; Auer, P., La flexicurity nel tempo della crisi, in Dir. rel. ind., 2011, 37 ss.; Bekker, S., Flexicurity. Explaining the development of a European concept, Nijmegen, 2011; Jorgensen, H. Danish flexicurity in crisis or just stress-tested by the crisis?, Friedrich, Ebert Stiftung, paper, 2011; Treu, T., Flessibilità e tutele nella riforma del lavoro, in Giorn. dir. lav. rel. ind. 2013).
Anche i paesi dell’Est, cd. new-comers, hanno riformato i mercati del lavoro nel corso degli anni 2000, in qualche misura riducendo le distanze rispetto agli old members UE, ma restando ben lontani dal realizzare un potenziamento della security in grado di bilanciare le forti dosi di flessibilità nell’uso della forza lavoro presenti in quegli ordinamenti (Meardi, G., op. cit.; nonchè il report del giugno 2013 Flexicurity in Europe).
A fronte di un incremento della flessibilità, segnano il passo anche il potenziamento dei servizi pubblici per l’impiego e dei sistemi formativi, specie negli Stati dove più ci sarebbe stato bisogno di tale potenziamento, come Italia e Spagna (v. Escudero Rodriguez, R., Un Requiem per la flessicurezza. Teoria e pratica del modello in alcuni paesi dell’Europa del Sud, in Riv. giur. lav., I, 2013, 503 ss.; Rodriguez Pinero, M.-Ferrer, B., Globalizzazione, flessicurezza e crisi economica, in Riv. giur. lav., I, 2013, 521 ss.
Tornando più specificamente all’Italia, il nostro Paese è in effetti intervenuto più volte sul mercato del lavoro, prima e dopo lo sviluppo del dibattito sulla flexicurity europea. La riforma più significativa risale, com’è noto, al 2003 (l. 14.2.2003, n. 30 e d.lgs. 10.9.2003, n. 276) ed ha essenzialmente incrementato la frammentazione dei contratti di lavoro senza potenziare l’intervento pubblico, affidato pressoché integralmente a Regioni istituzionalmente sovraccaricate ed economicamente indebolite dalle restrizioni della spesa pubblica e dall’incedere della crisi economica. Ne è derivata una crescente lacerazione del tessuto sociale e politiche del lavoro (attive e passive) sempre più frammentarie e occasionali, seppure con qualche punta di eccellenza (soprattutto al Nord). Quelle riforme non sono estranee alle condizioni in cui successivamente l’Italia si è trovata ad affrontare la fase più complessa della crisi economico-finanziaria, che ci coglie con una strumentazione giuridico-istituzionale fragile o logora e mercati del lavoro stremati. Infatti l’outlook della Commissione europea del 2008 sull’attuazione della flexicurity addirittura ci collocava nel raggruppamento dei paesi dell’Est e non in quello cui classicamente apparteniamo (cioè i paesi euro-mediterranei) (v. Meardi G., op. cit., 265).
Successivamente la riforma del mercato del lavoro è stata affrontata con un approccio più ampio, che va dalla disciplina dei licenziamenti, alla tipologia dei contratti in entrata, agli ammortizzatori sociali.
La riforma del 2003, pure diretta ad un riordino dei contratti a contenuto formativo e alla razionalizzazione di una varia tipologia di lavoro non standard, interviene soprattutto introducendo il nuovo contratto di lavoro a progetto, che finisce per portare nuovo dis-ordine da riordinare al più presto.
Proprio per porre riparo ai guasti di questo primo riordino/revisione/razionalizzazione – a seguito del quale il nostro mercato del lavoro è divenuto insopportabilmente segmentato – si è, in tempi molto brevi, confezionato, nella primavera del 2012, l’ambizioso intervento della l. 28.6.2012, n. 92, destinata a tracciare un’invalicabile linea di demarcazione tra la flessibilità “buona” e quella “cattiva”, l’una e l’altra veicolate da distinte tipologie contrattuali. Tra quelle più sospettate proprio il lavoro a progetto; tra quelle più incentivate il contratto di apprendistato, da utilizzare per arricchire la formazione dei lavoratori giovani e meno giovani. Il riordino delle tipologie contrattuali avrebbe dovuto restituire centralità al contratto di lavoro a tempo indeterminato, veicolo di occupazione stabile, da incentivare con un allentamento della flessibilità in uscita, realizzato con un ridimensionamento notevole ma poco lineare della tutela reintegratoria prevista dall’art. 18 st. lav., dal quale ci si sarebbe aspettato un miracoloso incremento dell’occupazione. I risultati, misurati con tassi di disoccupazione crescenti specie per i giovani, non confortano quella linea di riforma. Molti, dopo appena due anni, addossano alla l. n. 92/2012 grandi responsabilità, anche se forse ha “solo” un vizio di origine: invece di frenare la perdita, quantitativa e qualitativa, di lavoro subordinato, la ha assecondata, come largamente previsto. Nel “riordino”, secondo alcuni, vi sarebbero state troppe restrizioni alla flessibilità in ingresso. Eppure la l. n. 92/2012 ha introdotto in Italia il contratto a termine acausale per un anno: ed è questo, con grande evidenza, ad essersi “mangiato” il rilancio dell’apprendistato. Troppo poco secondo un’opinione dilagante: l’acausalità per “soli” 12 mesi e i vincoli intertemporali ai rinnovi (questi ultimi rimossi dal governo Letta: v. d.l. 28.6.2013, n. 76 conv. dalla l. 9.8.2013, n. 99) avrebbero ridotto il potenziale bacino di neo-assumibili a termine. Né la nuova nebulosa dell’art. 18 sarebbe stata sufficiente a rassicurare le imprese che volessero assumere a tempo indeterminato sicure di poter licenziare il lavoratore divenuto superfluo. Al di fuori del lavoro subordinato a tempo determinato o indeterminato, i nuovi vincoli per le co.co.pro. e cd. partite IVA (per la verità pure questi piuttosto sbiaditi alla fine) avrebbero impaurito le imprese. Insomma dopo solo due anni da un’ampia e complessa riforma in Italia si è di nuovo tornati ad interrogarsi su quali contratti siano veicolo di flessibilità “buona” e quali di flessibilità “cattiva”.
Pure sul fronte degli ammortizzatori sociali la l. n. 92/2012 indica una strada interessante, ma innova abbastanza poco. Riguardo alla Cassa integrazione guadagni (Cig) – un istituto cruciale nel mercato del lavoro italiano per gestire le crisi di impresa anche temporanee – si registrano modifiche abbastanza ridotte: a) si elimina l’integrazione straordinaria in caso di imprese sottoposte a procedure concorsuali; b) restano escluse da qualsiasi intervento le imprese con meno di 15 dipendenti; c)per le imprese con più di 15 dipendenti nei settori esclusi dalla Cig si introduce l’obbligo di istituire fondi di solidarietà autofinanziati, sulla base di accordi collettivi efficaci erga omnes. In attesa degli sviluppi si conserva comunque, fino al 2016, la possibilità della assai discussa Cassa integrazione in deroga, sempre sulla base di accordi collettivi. Sul piano del sostegno al reddito dei lavoratori disoccupati, c’è invece l’introduzione dell’assicurazione sociale per l’impiego (Aspi), che assorbe l’indennità di mobilità e l’indennità ordinaria di disoccupazione ed è la misura di carattere più universalistico, riguardando tutti i dipendenti del settore privato, gli apprendisti e i lavoratori a termine delle pubbliche amministrazioni. Sul piano normativo, le novità appaiono frutto di un compromesso diretto a ridurre i trattamenti di mobilità a favore di quelli previsti per la disoccupazione, equiparando categorie prima distinte in modo abbastanza casuale ed estendendo un trattamento certamente migliore a settori e lavoratori prima esclusi dal sistema di sostegno al reddito connesso alla mobilità, che coincideva con l’area della Cassa integrazione guadagni. I miglioramenti riguardanti i trattamenti di disoccupazione veri e propri non appaiono però soggettivamente così consistenti quanto i drastici tagli operati ai percettori delle indennità di mobilità. Questi ultimi, se collocati al Sud (dove più gravi sono le difficoltà occupazionali di ogni genere) e ultracinquantacinquenni, si vedono, seppure gradualmente, ridurre il sostegno al reddito sia nell’entità sia nella durata. Per valutare l’impatto di questa parte della riforma, occorre avere un quadro ben chiaro della platea dei destinatari, condizione non facile da realizzare (come dimostra la questione, insorta proprio in concomitanza con le riforme dell’epoca, dei cd. esodati, cioè di quei lavoratori over 50, espulsi dal mondo del lavoro, ma non ancora in grado di accedere ai trattamenti pensionistici, in conseguenza delle innovazioni in materia previdenziale consistenti nell’innalzamento dell'età o nella modifica dei requisiti per accedere ai trattamenti previdenziali). Ma le modalità della pur graduale sostituzione dell’Aspi all’indennità di mobilità comportano di sicuro forti penalizzazioni per le regioni Meridionali, dove sono destinate ad operare meno anche le misure di compensazione delle riduzioni delle indennità previste per territori più prosperi.
Poco o nulla si fa invece nella l. n. 92/2012con riguardo al sostegno al reddito per i lavori non standard; né c’è alcuna introduzione di un reddito generale di cittadinanza, pure previsto dall’art. 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Solo con il d.l. n. 76/2013 si è cominciato a stanziare un fondo significativo per introdurre il «sostegno all’inclusione attiva» (Sia), una sorta di reddito minimo fortemente condizionato all’attivazione sul mercato del lavoro da parte del soggetto beneficiario, destinato a subentrare alla, davvero ridottissima, “carta di inclusione sociale”.
Sul piano delle politiche previdenziali e assistenziali non si riduce dunque il rischio della povertà, allargando l’accesso ai consumi non di mera sopravvivenza, né si ristruttura il sistema degli ammortizzatori sociali ampliando i beneficiari, bensì riducendo tempi ed entità del sostegno al reddito. Nell’insieme non appare né visibile né facilmente apprezzabile il contributo che la riforma del 2012 fornisce con riguardo alla social security; e, anzi, si paventano rischi seri per le aree più deboli del paese, come il Sud.
L’impressione complessiva è che la l. n. 92/2012 accentui il carattere workferistico del nostro Stato sociale (v. da ultimo Ales, E., Il lavoro di scarsa qualità, in Pinelli C., a cura di, Esclusione sociale. Politiche pubbliche e garanzie dei diritti, Bologna, 2012, 220): ovvero che, sempre con una terminologia europea, non si accentui l’income/social security che prescinda dalla titolarità di un rapporto di lavoro di qualità. Viene rinsaldato il nesso giuridico-istituzionale lavoro-reddito; il lavoro è ancora più al centro del sistema; ma la sua qualità complessiva non pare migliorata dalla riforma. La riforma del 2012 tende in effetti ad incidere soprattutto sull’aspetto della quantità occupazionale. Non si vede alcun passo avanti verso una vera e propria flexicurity, seppure reinterpretata alla luce delle nostre tradizioni.
Dinanzi al rapido e prevedibile fallimento della l. n. 92/2012 in periodo di crisi economica – emblematizzato dalla riduzione dall’aumento dei tassi di disoccupazione e dalla vertiginosa percentuale del 68 per cento nel 2013 raggiunta dagli accessi con contratto a termine – si annuncia nella primavera del 2014 una nuova riforma, racchiusa nella suggestiva denominazione di Jobs Act. Essa, stando al disegno di legge delega governativo n. 1428 presentato in Senato il 3.4.2014 e, con sensibili modifiche, divenuto la l. 10-12-2014 n. 183, dovrebbe nuovamente avere ad oggetto un ampio spettro di problemi tra cui: a) ammortizzatori sociali e misure di sostegno al reddito per i disoccupati; b) servizi per il lavoro e politiche attive; c) semplificazione di procedure e adempimenti; d) riordino delle forme contrattuali, con la previsione «per le nuove assunzioni, del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio» e l’introduzione, eventualmente anche in via sperimentale, «del compenso orario minimo applicabile a tutti i rapporti aventi ad oggetto una prestazione di lavoro subordinato, nonché fino al loro superamento, ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, nei settori non regolati da contratti collettivi»; e) conciliazione dei tempi di vita e di lavoro. Pur potendosene discutere i dettagli, il disegno sembra rispondere ad alcuni rilievi sulla l. n. 92/2012 formulati in sede europea. La Commissione europea infatti, con una tempestiva raccomandazione (29.5.2013, COM (2013) 362 final), rilevava come «la riforma profonda del mercato del lavoro, volta a superarne rigidità e segmentazioni … dev’essere completata con l’adozione delle disposizioni attuative in itinere e ne dev’essere monitorata attentamente l’applicazione concreta sul campo. Inoltre per l’attuazione di strategie di attivazione efficaci manca ancora il sostegno che può offrire l’integrazione dei servizi pubblici per l’impiego con l’amministrazione competente in materia di indennità di disoccupazione» (considerando 14) e raccomandava di «dare attuazione effettiva alle riforme del mercato del lavoro …; realizzare ulteriori interventi a promozione della partecipazione al mercato del lavoro, specialmente quella delle donne e dei giovani, ad esempio tramite la Garanzia per i giovani; potenziare l’istruzione professionalizzante e la formazione professionale, rendere più efficienti i servizi pubblici per l’impiego e migliorare i servizi di orientamento e di consulenza per gli studenti del ciclo terziario…».
Intanto non si possono però trascurare né alcune innovazioni normative precedenti al Jobs Act né i contenuti dei primi decreti attuativi della l. delega n. 183/2014.
Innanzitutto è entrata in vigore nel maggio 2014 una modifica legislativa introdotta d’urgenza (d.l. 20.3.2014, n. 34, convertito dalla l. 16.5.2014, n. 78), grazie alla quale non è più richiesta alcuna causale per assunzioni a termine fino a 36 mesi e nel limite del 20 per cento dell’organico dell’impresa e si snelliscono alcuni adempimenti connessi all’apprendistato. In sostanza, liberalizzando ulteriormente i contratti a termine, si scommette di nuovo sulla flessibilità/precarietà per migliorare le performance occupazionali di breve periodo. I risultati su periodi più lunghi continuano a non essere scontati, dal momento che nulla garantisce un accettabile tasso di continuità delle occupazioni a termine. È fin troppo ovvio però che anche quest’ultima riforma trascura la qualità dei lavori da incentivare e, soprattutto, non tiene in gran conto la necessità che le politiche di flexicurity per esser tali devono azionare contemporaneamente tutte le leve dell’intervento sui mercati del lavoro.
In secondo luogo i primi decreti attuativi della l. delega n. 183/2014 incrementano ulteriormente la flexibility anziché la social security. Il d.lgs. 4.3.2015 n. 23 ha sì introdotto il contratto a tutele crescenti (catuc), ma regolandolo in modo tale da farne l’unico contratto per le assunzioni a tempo indeterminato che vengono effettuate dal 7.2.2015 caratterizzato esclusivamente da una disciplina contro il licenziamento illegittimo molto attenta alle esigenze delle imprese. Nel catuc l’anzianità del lavoratore rileva solo per determinare l’entità della sanzione risarcitoria in caso di licenziamento immotivato, fissata peraltro in una misura molto esigua per almeno sei anni (quattro mensilità di retribuzione per il primo anno che crescono in ragione di due all’anno fino ad un massimo di 24 mesi). La sanzione reintegratoria quasi scompare, in quanto non è mai invocabile per i licenziamenti “economici”, nozione innovativa utilizzata dalla l. delega e interpretata dal d.lgs. n. 23/2015 in modo da comprendere anche i licenziamenti collettivi.
Impostazione non dissimile nel valorizzare la flessibilità si riscontra anche nel d.lgs. sul riordino delle forme contrattuali, approvato dal Governo il 20.2.2015, ma ancora in attesa del parere delle Commissioni parlamentari. Basti dire che anche per il contratto a termine non solo non si rivede la liberalizzazione realizzata con la l. n. 78/2014, ma addirittura se ne sciolgono vari nodi interpretativi nel senso di ulteriore riduzione di vincoli per le imprese.
Per quanto riguarda tutti gli altri aspetti della l. delega, in prossimità dello scadere del termine semestrale per l’esercizio della decretazione delegata si registrano ancora solo due decreti. Il primo, ancora all’esame delle Commissioni parlamentari, ha ad oggetto la “conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro” e prevede alcune modifiche, interessanti ma limitate, al d.lgs. 26.3.2001, n. 151 sul lavoro delle donne e sui congedi parentali e poco altro. Il secondo già in vigore (d.lgs. 4.3.2015 n. 22) e dedicato alla riforma degli strumenti di sostegno al reddito introdotti dalla l. n. 92/2012, migliora sì i trattamenti dell’Aspi, sostituendola con la Naspi (nuova assicurazione per l’impiego) di più ampia applicazione, e introduce, ritoccando talora istituti già esistenti, altre due forme di sussidi per la disoccupazione dei lavoratori parasubordinati (cd. Discoll: indennità di disoccupazione per i lavoratori con rapporto di collaborazione coordinata e continuativa) e per la disoccupazione dei lavoratori subordinati che, avendo al dicembre 2015 beneficiato della Naspi per l’intera sua durata (2 anni), siano in una condizione economica di bisogno. Ma nell’insieme configura un intervento di portata limitata che ben poco incide sulle caratteristiche di fondo del sistema italiano.
Mancano all’appello quasi del tutto (fa eccezione il cd. contratto di ricollocazione, previsto dall’art. 17 del d.lgs. n. 22/2015, ma scarsamente finanziato) proprio quelle misure più attese da tempo in materia di servizi per l’impiego, di cassa integrazione guadagni e di raccordo tra politiche del lavoro passive e attive, nonché le norme sui salari minimi e su misure universali di contrasto della povertà crescente.
Non meraviglia allora che nel 2015 per l’Italia l’espressione più appropriata per descrivere l’attuale condizione dei lavoratori sul mercato del lavoro sia ancora flex-insecurity (v. Berton, F.-Ricchiardi, M.-Sacchi, S., Flex-insecurity. Perché in Italia la flessibilità diventa precarietà, Bologna, 2009; Del Punta, R., La stabilità reale nell’epoca dell’instabilità, in Dir. lav. merc., 2010, 753 ss.; Meardi, G., op. cit.; Zoppoli, L., Flex/insecurity. La riforma Fornero (l. 28 giugno 2012, n. 92) prima durante e dopo, Napoli, 2012.) piuttosto che flexicurity. E, seppure con indicazioni tra loro contrastanti, sembra aver chiaramente percepito tale rischio il Consiglio dell’Unione europea che, nella raccomandazione del 2.6.2014 sul programma di riforma 2014 dell’Italia, osservava sul punto specifico che sono da «valutare entro la fine del 2014 gli effetti delle riforme del mercato del lavoro e del quadro di fissazione dei salari sulla creazione dei posti di lavoro, sulle procedure di licenziamento, sulla dicotomia del mercato del lavoro e sulla competitività di costo, valutando la necessità di ulteriori interventi». La medesima raccomandazione indicava puntigliosamente priorità, metodologia e persino scadenze: «adoperarsi per una piena tutela sociale dei disoccupati, limitando tuttavia l’uso della cassa integrazione guadagni per facilitare la riallocazione della manodopera; rafforzare il legame tra le politiche del mercato del lavoro attive e passive, a partire dalla presentazione di una tabella di marcia dettagliata degli interventi entro settembre 2014, e potenziare il coordinamento e l’efficienza dei servizi pubblici per l’impiego in tutto il paese; intervenire concretamente per aumentare il tasso di occupazione femminile; fornire in tutto il paese servizi idonei ai giovani non iscritti alle liste dei servizi pubblici ed esigere un impegno più forte da parte del settore privato a offrire apprendistati e tirocini di qualità entro la fine del 2014, in conformità agli obiettivi della garanzia per i giovani; per far fronte al rischio di povertà e di esclusione sociale, estendere gradualmente il regime pilota di assistenza sociale, senza incidenze di bilancio, assicurando un’assegnazione mirata, una condizionalità rigorosa e un’applicazione uniforme su tutto il territorio, e rafforzarne la correlazione con le misure di attivazione; migliorare l’efficacia dei regimi di sostegno alla famiglia e la qualità dei servizi a favore dei nuclei familiari a basso reddito con figli». In sintesi, la ricetta che dall’Unione europea si consiglia al nostro paese è ancora costituita da tutta la flessibilità necessaria per aumentare la produttività e di una nuova rete minima di sicurezza sociale volta ad arginare la sofferenza sociale connessa ad una povertà che si ritiene in aumento. Se si tratta ancora di un percorso di flexicurity, sembra un percorso fatto a bella posta per ripartire equamente la povertà più che la ricchezza.
L. 20.5.1970, n. 300; l. 14.2.2003, n. 30; d.lgs. 10.9.2003, n. 276; l. 28.6.2012, n. 92; d.l. 28.6.2013, n. 76 conv. dalla l. 9.8.2013, n. 99; d.l. 20.3.2014, n. 34, convertito dalla l. 16.5.2014, n. 78; l. 10.12.2014, n. 183; d.lgs. 4.3.2015, n. 22; d.lgs. 4.3.2015, n. 23.
Ales, E., Il lavoro di scarsa qualità, in Pinelli, C., a cura di, Esclusione sociale. Politiche pubbliche e garanzie dei diritti, Bologna, 2012, (quad. Astrid), 217 ss.; Amoroso, B., Il modello sociale danese, in Dir. lav. merc., 2010, 227 ss.; Auer, P., La flexicurity nel tempo della crisi, in Dir. rel. ind., 2011, 37; Ballestrero, M., Declinazioni di flexicurity, in Lav. dir., 2012, 441 ss.; Bekker, S., Flexicurity. Explaining the development of a European concept, Nijmegen, 2011; Berton, F.-Ricchiardi, M.-Sacchi, S., Flex-insecurity. Perché in Italia la flessibilità diventa precarietà, Bologna, 2009; Carinci, F., “Provaci ancora, Sam”: ripartendo dall’art. 18 dello Statuto, in W.P. C.S.D.L.E. Massimo D’Antona.IT – 138/2012; Carinci, F., Il diritto del lavoro che verrà, paper presentato a Torino 11/12 aprile 2014; Caruso, B.-Massimiani, C., Prove di democrazia in Europa: la “flessicurezza” nel lessico ufficiale e nella pubblica opinione, in Dir. lav. merc., 2007, 457 ss.; Caruso, B.-Militello, M., L’Europa sociale e il diritto: il contributo del metodo comparato, in Risistemare il diritto del lavoro. Liber amicorum per Marcello Pedrazzoli, Milano, 2012, 383 ss.;Delfino, M., Diritti sociali e flexicurity, in Riv. it. dir. lav., III, 2009, 29 ss.; Del Punta, R., La stabilità reale nell’epoca dell’instabilità, in Dir. lav. merc., 2010, 753 ss.; Direzione generale per l’occupazione, gli affari sociali e l’inclusione, Flexicurity in Europe, rapporto per La Commissione europea, 10.6.2013; Dustmann, C.-Fitzenberger, B.-Schonberg, U.-Spitz-Oener, A., Il segreto della ripresa tedesca, in www.lavoce.info dell’11.2.2014; Escudero Rodriguez, R., Un Requiem per la flessicurezza. Teoria e pratica del modello in alcuni paesi dell’Europa del Sud, in Riv. giur. lav., I, 2013, 503 ss.; Gallino, L., Il lavoro non è una merce. Contro la flessibilità, Bari, 2007, 122; Gazier, B., La strategia europea per l’occupazione nella tempesta: il ripristino di una prospettiva a lungo termine,in Dir. rel. ind., 2011, 1; Ichino, P., Inchiesta sul lavoro, Milano, 2011, 116 ss.;Jorgensen, H.,Danish flexicurity in crisis or just stress-tested by the crisis?, Friedrich, Ebert Stiftung, paper; Laulom, S., Il diritto del lavoro francese di fronte alla crisi, in Loy, G., a cura di, Diritto del lavoro e crisi economica, Roma, 2011; Loy, G., Flessicurezza e precarietà, in Riv. giur. lav, I, 2013, 479 ss.; Madsen, P.K., Reagire alla tempesta. La flexicurity danese e la crisi, in Dir. rel. ind., 2001, 78 ss.; Meardi, G., Flexicurity meets State Traditions, in Int. jour. comp. lab. law ind. rel., 2011, 256 ss.; Rodriguez Pinero, M.-Ferrer, B., Globalizzazione, flessicurezza e crisi economica, in Riv. giur. lav., I, 2013, 521 ss.; Rusciano, M.-Zoppoli, L., a cura di, Jobs Act e contratti di lavoro dopo la legge delega 10 dicembre 2014 n. 183, in W.P. C.S.D.L.E. Massimo D’Antona.Collective Volumes – 3/2014;Schmid, G., Il lavoro non standard. Riflessioni nell’ottica dei mercati transazionali del lavoro,in Dir. rel. ind., 2011, 1; Schuld, C., La flexicurity in Germania, in Zoppoli, L.-Delfino, M., a cura di, Flexicurity e tutele. Il lavoro tipico e atipico in Italia e in Germania, Roma, 2008; Tangian, A., Not for bad weather: macroanalysis of flexicurity with regard to the crisis, Brussels, 2010; Treu, T., Flessibilità e tutele nella riforma del lavoro, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 2013, 1 ss.; Treu, T., Le istituzioni del lavoro nell’Europa della crisi, relazione Aidlass, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 2014; Treu, T., In tema di Jobs Act. Il riordino dei tipi contrattuali, in NewsletterNL, 2015, n. 150;Valdes Dal Re, F., Il dibattito sulla flessicurezza all’interno dell’Unione Europea, in Loy, G., a cura di, Diritto del lavoro e crisi economica, Roma, 2011; Zappalà, L., Flessicurezza ( nozione di), in Pedrazzoli, M., a cura di, Lessico giuslavoristico, Bologna, 2011, 3, 103 ss; Zappalà, L., La tutela della persona nel lavoro a termine. Modelli di regolazione e tecniche di regolamentazione al tempo della flexicurity, Torino, 2012; Zoppoli, L.-Delfino, M., a cura di, Flexicurity e tutele. Il lavoro tipico e atipico in Italia e in Germania, Roma, 2008; Zoppoli, L., Flexicurity e licenziamenti: la strict Employment Protection Legislation, in Dir. lav. merc., 2007, 3; Zoppoli, L., Flex/insecurity. La riforma Fornero (l. 28 giugno 2012, n. 92) prima durante e dopo, Napoli, 2012; Zoppoli, L., Contratto a tutele crescenti e altre forme contrattuali, in Dir. lav. merc., 2015, 2.