GUERCIO, Folco
Figlio del console Guglielmo, il G., che possiamo presumere nato a Genova negli ultimi anni del XII secolo, è uno dei membri meno documentati dell'importante famiglia di origine vicecomitale, che ebbe un ruolo di primo piano nella vita politica del Comune di Genova nella fase di dominio dell'aristocrazia consolare. Le attestazioni del G. nelle fonti riguardano infatti quasi esclusivamente il biennio della sua più intensa attività pubblica (1238-39).
Il momento era politicamente cruciale: con la vittoria di Federico II a Cortenuova sulle truppe della Lega lombarda nel 1237, il vecchio progetto svevo di imporre l'autorità dell'Impero ai riottosi Comuni dell'Italia centrosettentrionale sembrava a un passo dal realizzarsi. Proprio in questo frangente Genova, che aveva cercato di mantenere una prudente neutralità, si riavvicinò in modo esplicito alle uniche due potenze che, a fianco di Milano, ancora contrastavano il passo all'imperatore in Italia: Venezia e il Papato.
Se l'accordo con Milano e con il papa rientrava in consolidate tradizioni politiche, il compromesso con Venezia incontrava pesanti difficoltà per le controversie fra le due potenze conseguenti all'egemonia veneziana sugli spazi economici dell'Impero latino d'Oriente a discapito degli interessi genovesi. A dispetto di queste difficoltà, una tregua fu siglata fra le due potenze nel 1238, con la benedizione di papa Gregorio IX. Il riallineamento di Genova fra i sostenitori della causa guelfa fu marcato lo stesso anno dall'elezione a podestà, avvenuta non senza contrasti interni, di Paolo da Soresina, esponente influente del guelfismo lombardo. Il collegamento ormai esplicito di Genova al fronte antimperiale non lasciò indifferente Federico II, che mobilitò i suoi numerosi sostenitori sia in Genova sia nei centri della Riviera di Ponente. Mentre in Genova i partigiani dell'imperatore tentavano invano di impedire la nomina del nuovo podestà, sulla Riviera, in pochi giorni, prima Savona e quindi Albenga, Porto Maurizio e Ventimiglia, si ribellarono a Genova, cacciando i castellani e i podestà genovesi incaricati del loro governo.
Di fronte al rischio di perdere il controllo di tutta la Riviera di Ponente, dove la sola Noli si manteneva fedele, le autorità genovesi reagirono con decisione, inviando una flotta al comando del G. e di Rosso Della Turca, più volte console del Comune, a reprimere le insurrezioni.
Il primo obiettivo della flotta genovese fu Ventimiglia, che appariva l'epicentro della rivolta e dove, diversamente dalle altre località, il podestà Bonifacio Embriaco si era asserragliato nel castello della rocca, opponendo resistenza agli insorti. Nonostante l'insuccesso di una prima operazione di sbarco, il 21 maggio 1238 le forze genovesi riuscirono a sbaragliare la resistenza dei Ventimigliesi che furono costretti a una resa incondizionata in conseguenza della quale i capi della ribellione furono tradotti prigionieri a Genova. Consolidato il controllo su Ventimiglia, la flotta proseguì per attaccare l'isola Gallinara (o Gallinaria), di fronte ad Albenga, dove si erano arroccati i ribelli. Dopo un lungo assedio, che vide anche l'impiego di pesanti macchine da guerra montate sulle navi, il 14 agosto anche questa posizione dal rilevantissimo valore strategico cadde in mano ai Genovesi. Neutralizzati due dei principali centri della rivolta, che rimaneva sostanzialmente confinata alla sola Savona, il G. e il suo collega rientrarono trionfalmente in Genova con un cospicuo numero di prigionieri.
Il ritorno degli ammiragli avveniva nel momento opportuno, in quanto nel frattempo erano intercorsi fra il governo genovese e la corte imperiale fitti scambi di ambascerie; per evitare un'aperta rottura, le autorità genovesi avevano prestato giuramento di fedeltà all'Impero, ma questo non bastava a Federico, che richiedeva esplicito atto di omaggio e sottomissione alla Corona imperiale. La proposta, presentata al podestà e ai suoi consiglieri, fu lungamente dibattuta e i molti sostenitori di Federico presenti in quell'occasione nel Consiglio premevano perché fosse immediatamente approvata, indubbiamente facendosi forti dell'argomento della difesa degli importantissimi interessi economici genovesi nel Regno di Sicilia, che un'aperta rottura con Federico avrebbe compromesso irrimediabilmente; ma proprio il G. riuscì abilmente a evitare che la riunione si concludesse con l'adozione di una deliberazione.
Egli infatti sostenne che un argomento di così grande importanza non poteva essere deciso nell'ambito di un semplice "Consiglio di campana" (organismo consultivo ristretto), ma doveva essere portato all'attenzione di un parlamentum plenario, in modo che tutta la cittadinanza esprimesse la propria opinione e il proprio voto su una materia che avrebbe condizionato in modo decisivo il futuro della città. Il tentativo ghibellino di affrettare i tempi decisionali veniva così sventato e il podestà riguadagnava un ampio margine di azione nell'ambito di un'assemblea dove il richiamo alla tradizionale autonomia nei confronti dei poteri esterni avrebbe potuto, come in effetti fu, prevalere su quello alla tutela di interessi economici e commerciali che, per quanto importanti, in quel momento particolare coinvolgevano soprattutto alcune famiglie dell'aristocrazia mercantile non a caso schierate dalla parte dell'imperatore.
Il successo dei guelfi inasprì il conflitto con Federico II, radicalizzò lo scontro tra le fazioni nella città - come provano i provvedimenti difensivi immediatamente adottati dal podestà con la fortificazione di una serie di torri urbane, chiaramente rivolta più verso una minaccia interna che verso una esterna - e, per intervento degli agenti dell'imperatore, riaccese i focolai della ribellione nella Riviera di Ponente.
In questo frangente il G. fu chiamato nel 1239 a far parte del Collegio degli otto nobili che affiancavano il nuovo podestà, il piacentino Filippo Visdomini, nell'amministrazione del Comune, venendo quasi subito incaricato di guidare una nuova flotta di 14 galee contro i ribelli del Ponente, in aiuto dei quali erano scesi in campo anche i Comuni di Acqui e Alba e i vari rami della casa marchionale aleramica fedeli all'Impero.
Per evitare l'ulteriore estendersi dei focolai di rivolta, il G. condusse una manovra diversiva ottenendo, con la concessione di convenzioni, la sottomissione e la fedeltà delle Comunità di Cervo, Diano, Oneglia e Bestagno, riuscendo a porre nei locali castelli guarnigioni genovesi, la cui presenza di fatto neutralizzava gran parte del pericolo nell'area savonese. Forte della posizione acquisita in Oneglia, il G. poté inoltre condurre una serie di attacchi devastanti contro la vicina Porto Maurizio, ancora tenuta dai ribelli, e quindi portarsi ancora più a ovest per liquidare definitivamente gli ultimi focolai di rivolta ancora esistenti nell'area di Ventimiglia: una parte di irriducibili ribelli si era infatti arroccata intorno alla torre del capo Sant'Ampelio e da questa posizione minacciava continuamente la solidità del controllo genovese sulla città. Il G. condusse le sue forze contro questa posizione ed ebbe ragione dei ribelli che furono in parte catturati, in parte dispersi, mentre le abitazioni e le fortificazioni della località venivano rase al suolo, eliminando così gli ultimi residui di resistenza filoimperiale nell'estrema Riviera di Ponente.
Lasciata una parte delle sue forze a custodia delle posizioni riconquistate, il G. rientrò in Genova proprio nel momento in cui la situazione interna della città minacciava di precipitare verso uno scontro aperto tra le fazioni.
Una serie di matrimoni decisi improvvisamente per unire famiglie da sempre divise tra loro, ma accomunate dalla simpatia dichiarata nei confronti dell'imperatore, aveva allarmato il podestà e i maggiorenti della fazione guelfa, ulteriormente preoccupati dall'intercettazione di corrispondenza fra i ghibellini interni e i Comuni di Pavia e Tortona, alleati dell'Impero, che avevano offerto sostegno militare per un eventuale colpo di mano contro il governo in carica.
Per rafforzare le misure di sicurezza, il podestà decise di farsi affiancare da due capitani del Popolo e del Comune di Genova, ai quali affidare la vigilanza sull'ordine pubblico in città; la scelta dei candidati si orientò in modo quasi naturale sul G. e su Rosso Della Turca, i quali vennero nominati l'uno capitano per le quattro "compagne deversus civitatis" e l'altro per le quattro "compagne deversus burgi", ciascuno con un seguito di 25 armati e 600 lire di stipendio.
Che il provvedimento fosse quanto mai tempestivo fu dimostrato poco tempo dopo dallo scontro fra una di queste compagnie e un numeroso gruppo di armati raccolto da Guglielmo Spinola che si era rifiutato di cedere le armi, evento che produsse un innalzamento della tensione a stento placato dal podestà in cambio di espliciti impegni di lealtà da parte dei capi della fazione ghibellina.
Dopo questi episodi non abbiamo più testimonianze relative all'attività del G., ma alcuni documenti del 1253 relativi alla cessione effettuata dai suoi figli Montanino e "Stelinus" dei diritti di pedaggio in Val Trebbia goduti dal G. in quanto erede di Guglielmo Guercio, che li aveva ricevuti a sua volta dai marchesi Corrado e Guglielmo Malaspina, ci confermano che egli era sicuramente già morto in quell'anno, e il fatto che una sua figlia, rimasta uccisa nel corso dei tumulti verificatisi in Genova nel 1265, venga definita fanciulla nel racconto degli Annali ci fa pensare che la data della sua morte possa effettivamente essere stata di poco precedente alla redazione di questi atti notarili.
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