Folklore
Il termine 'folklore' designa sia un complesso generico di materiali della tradizione (miti, leggende popolari, racconti, proverbi, indovinelli, superstizioni, giochi, ecc.) trasmessi oralmente o con l'esempio da persona a persona, sia lo studio scientifico di tali materiali.Il termine venne coniato dall'inglese William Thoms (1803-1885) in una lettera scritta sotto lo pseudonimo di Ambrose Merton a "The Athenaeum" il 22 agosto 1846. Thoms, che nel 1849 fondò la rivista "Notes and queries", proponeva di utilizzare il nuovo termine al posto di 'antichi usi e costumi popolari' o di 'letteratura popolare'. Mettendo in rilievo come il suo neologismo avesse il merito di essere un "autentico sostantivo composto sassone", Thoms evidenziava lo stretto rapporto sussistente tra l'interesse per il folklore e un acceso nazionalismo.
Questo stesso atteggiamento nazionalistico, peraltro, ha scoraggiato l'uso del termine inglese da parte di studiosi di altre nazioni. I Francesi preferiscono l'espressione 'traditions populaires', gli Spagnoli 'tradiciones populares', gli Italiani 'tradizioni popolari' (sebbene il grande studioso siciliano Giuseppe Pitrè - 1841-1916 - proponesse il termine 'demopsicologia' nella celebre prolusione tenuta nel 1911 all'Università di Palermo: v. Pitrè, 1969). I Tedeschi privilegiano il vocabolo 'Volkskunde', che venne coniato prima dell'inglese folklore, a quanto pare già nel 1782 (v. Hartmann, 1988), mentre gli Scandinavi adottano variazioni locali del termine 'folkeminder' o 'folklivsforskning' (che può essere tradotto all'incirca come 'studio della vita popolare'). Per quanto ogni nazione e comunità linguistica abbia i propri termini specifici, l'inglese folklore si è gradualmente imposto a livello internazionale - anche se nei paesi di lingua romanza persiste una certa resistenza linguistico-nazionalistica nei confronti della grafia col k anziché con il c.Il passaggio da questa forma di nazionalismo linguistico all'adozione internazionale del termine folklore è stato lento ma costante, come attesta il mutare dei titoli nei vari periodici dedicati alla materia.
Le prime pubblicazioni, risalenti al XIX secolo, non usavano questo termine. Il periodico fiammingo intitolato "Grootmoederken" nel 1842 e "Wodana" nel 1843 (v. Schmidt, 1943) venne pubblicato prima che Thoms proponesse il nuovo vocabolo (Jacob Grimm collaborò al "Wodana" con una breve nota). Un altro periodico del XIX secolo dedicato al folklore fu lo "Zeitschrift für deutsche Mythologie und Sittenkunde" (1853-1859). Il cambiamento si verificò più tardi, come attesta un confronto tra i titoli delle seguenti pubblicazioni: "Archivio per lo studio delle tradizioni popolari" (1882-1902) e "Folklore italiano" (1925-1935), o ancora "Revue des traditions populaires" (1886-1918) e "Revue de folklore français et de folklore colonial" (1930-1942). A volte si è giunti a un compromesso tra l'uso del termine locale e quello del termine inglese. Ne è un esempio la pubblicazione olandese "Volkskunde" (1888 ss.) che ha come sottotitolo Tidjschrift voor Nederlandsche Folklore.Alcuni studiosi, tra cui diversi antropologi, hanno proposto di sostituire il termine folklore con l'espressione 'letteratura orale' o 'letteratura non scritta', ma queste alternative poco convincenti non sono che il riflesso di un privilegiamento della sfera letteraria. L'espressione 'letteratura orale' è un ossimoro: il concetto di letteratura si riferisce a testi scritti, e di conseguenza non può esistere una letteratura orale. Inoltre, poiché il folklore in ogni area geografica ha sempre preceduto l'invenzione della scrittura, è a esso che si dovrebbe dare la priorità, non alla letteratura. Gli studiosi di folklore quindi adottano di norma il termine inglese. (C'è da osservare peraltro che le analisi più esaurienti del termine non sono in lingua inglese, bensì tedesca e francese: v. Schulze, 1949; v. Legros, 1962; v. inoltre Corso, 1920-1921; v. Romero, 1938; v. Meyer, 1944).
Il concetto di folk è assai complesso e ha una varietà di significati (v. Hultkrantz, 1960, pp. 126-129). Nella sua accezione più comune esso era sinonimo di 'ceto contadino': il folk, in altre parole, veniva considerato un segmento specifico di una popolazione complessiva, distinto e differenziato dall'élite. Ampiamente diffuso nell'Europa del XIX secolo, il concetto di folk veniva definito esclusivamente in termini di opposizione rispetto all'élite colta. Folk era quindi lo strato inferiore della società, il vulgus in populo, gli analfabeti in una società alfabetizzata, ossia quelli che non sapevano né leggere né scrivere in una società che conosceva la scrittura; folk era inoltre la popolazione rurale contrapposta a quella urbana.
Dato che la prima definizione del concetto era basata su un principio di opposizione (il folk come contrapposto della popolazione urbana e dell'élite), chi viveva in una società senza scrittura era automaticamente escluso dalla categoria del folk. Di conseguenza nel XIX secolo, e in certa misura anche nel nostro, le popolazioni indigene dell'Africa, della Nuova Guinea, gli aborigeni dell'Australia nonché del Nordamerica e del Sudamerica non erano classificati come folk. Non si trattava di illetterati in una società alfabetizzata, bensì di popoli senza scrittura, per definire i quali si faceva ricorso a una serie di etichette inappropriate - 'primitivi', 'selvaggi', ecc. Secondo una corrente della teoria evoluzionistica, tutto il genere umano aveva attraversato o era destinato ad attraversare tre stadi distinti: lo stato selvaggio, la barbarie (in cui rientrava la cultura contadina e quindi il folk) e la civilizzazione. Questa rigida forma di evoluzionismo unilineare - sebbene non sia più ritenuta valida, in quanto si pensa che esistano molti possibili percorsi evolutivi - riveste un'importanza cruciale per comprendere le prime, erronee formulazioni del concetto di folk.
Come abbiamo già accennato, data l'identificazione tra folk e ceto contadino le popolazioni indigene dell'Africa non erano considerate come folk. Senza dubbio esse avevano tradizioni musicali locali, ma si aveva una certa riluttanza ad attribuire a queste la qualifica di folklore musicale. In pratica, per musica e arte folkloristica si intendevano esclusivamente la musica e l'arte del mondo rurale europeo, e ancora oggi alcuni studiosi europei e latinoamericani continuano a sostenere l'opportunità di circoscrivere il concetto di folk al mondo rurale occidentale, escludendo i popoli 'selvaggi' o 'primitivi' le cui tradizioni artistiche, musicali e narrative rientrerebbero più propriamente nel campo di studi dell'etnomusicologia e dell'antropologia.
Nel XIX secolo, quando lo studio del folklore cominciò ad assumere il rango di disciplina, il concetto dominante di folk era quello ristretto descritto in precedenza. Allorché ad esempio i fratelli Grimm, Jacob (1785-1863) e Wilhelm (1786-1859), cominciarono la loro raccolta di fiabe popolari nella prima decade del secolo (i due volumi dei Kinder- und Hausmärchen vennero pubblicati nel 1812 e 1815), si basarono su testimonianze attinte dal mondo contadino, mettendo in pratica la massima di J. G. von Herder (1744-1803), secondo la quale l'anima di un popolo è riflessa nei suoi canti popolari. Fu proprio Herder, del resto, a coniare il termine Volkslied nel 1773. Nel 1778 egli pubblicò la sua fondamentale antologia Volkslieder, ispirata in parte al precedente lavoro del vescovo Thomas Percy (1729-1811), Reliques of ancient English poetry, pubblicato nel 1765.
Sin dagli inizi della disciplina gli studiosi di folklore ebbero un atteggiamento alquanto ambivalente nei confronti del folk. Da un lato tendevano a disprezzarlo identificandolo con il ceto rurale illetterato e arretrato; dall'altro lato a esaltarlo in quanto rappresentava in un certo senso le radici nazionali di un popolo. La nozione di folk era affine a quella paradossale di 'buon selvaggio' (v. Cocchiara, 1952, pp. 33-48), che associava una qualifica negativa ('selvaggio') a una positiva ('buono'). Tale atteggiamento ambivalente prevalse nel periodo iniziale degli studi sul folklore che coincise con l'emergere degli Stati nazionali europei. Sussisteva la convinzione che i contadini o le classi inferiori avessero conservato come sopravvivenze i resti e i frammenti della presunta cultura nazionale originaria di un intero popolo. Per salvare o ricostruire la cultura originaria del loro paese, i fratelli Grimm si rivolsero pertanto ai contadini tedeschi, considerati l'unica fonte vivente disponibile.
La definizione restrittiva che identificava il folk con il ceto contadino illetterato comportava parecchi problemi teorici. A parte l'esclusione di gran parte dei popoli della terra - in quanto selvaggi o primitivi - si riteneva erroneamente che il folklore fosse incompatibile con il contesto urbano. Gli studiosi tuttavia si rendevano perfettamente conto che anche nelle città si era sviluppato un folklore non riducibile a un semplice residuo frammentario di quello rurale, tenuto in vita da quanti erano immigrati dalle campagne nella città in cerca di condizioni di vita migliori. I bambini delle città praticavano giochi tradizionali, cantavano canzoni tradizionali e recitavano filastrocche tradizionali. Inoltre diverse categorie di lavoratori urbani avevano un proprio linguaggio e un proprio patrimonio di usanze e racconti tradizionali.
La definizione proposta dai marxisti rappresentò un progresso rispetto a quella, prevalente nel XIX secolo, che identificava folk e mondo rurale, in quanto gli studiosi di folklore marxisti sostenevano a ragione che nella categoria del folk andavano inclusi sia la popolazione rurale che il proletariato urbano, che era diverso dal ceto contadino e aveva un proprio folklore. Gli operai di una fabbrica potevano avere un folklore al pari degli agricoltori. La definizione marxista aveva il difetto di essere anch'essa eccessivamente ristretta. Per gli studiosi di folklore marxisti ortodossi il folk si identificava con le classi oppresse (sia contadini che proletariato) o, nei termini di Gramsci (1891-1937), con le "classi subalterne" in opposizione alle classi egemoni (v. Byrne, 1982; v. Cirese, 1982). Ma anche gli oppressori hanno un proprio folklore, e pertanto sono anch'essi un tipo di folk.Secondo la nuova definizione affermatasi nel XX secolo folk è qualunque gruppo di individui che presenta un fattore unificante quale la nazionalità, l'appartenenza regionale o etnica, la religione, l'occupazione, ecc. Si può pertanto parlare di un folklore nazionale - canadese, giapponese, italiano, ecc. Quasi tutti gli Italiani, sia al Sud che al Nord, conoscono il 'malocchio', anche se non credono necessariamente al suo influsso malefico. D'altro canto esiste anche un folklore regionale, sicché è senz'altro lecito distinguere tra un folklore milanese e un folklore napoletano.
Gli abitanti di una determinata città o di un determinato villaggio costituiscono un folk nel senso di questa nuova definizione. Si può affermare quindi che ogni villaggio possiede un suo corpus di tradizioni speciale e unico: toponimi, leggende, termini dialettali e specialità culinarie locali. Con questa definizione flessibile, un determinato folk può essere ampio quanto una nazione o piccolo quanto un villaggio.
A seconda che il fattore unificante sia la religione, l'appartenenza etnica o l'occupazione parleremo di folklore cattolico, ebraico o islamico; di folklore italoamericano e cino-americano; di folklore dei vinificatori, dei fabbri, dei minatori o dei pastori. La nuova definizione ampliata consente addirittura di considerare la singola unità familiare come un tipo legittimo di folk. Ogni famiglia avrà le sue tradizioni speciali: nomignoli per i familiari, storie tramandate delle vicende della famiglia, rituali familiari particolari. Rispetto alla vecchia definizione, non si tratta di negare che i contadini siano un tipo di folk: senza dubbio essi lo sono, ma è importante sottolineare che si tratta di un tipo tra gli altri, non dell'unico possibile.
La nuova definizione consente anche di includere tutti i gruppi di 'selvaggi' esclusi dalla precedente definizione ristretta. Ogni popolazione africana costituisce un autentico folk con il suo complesso di tradizioni folkloristiche, miti, leggende e fiabe, e lo stesso vale per le tribù indiane del Nordamerica e del Sudamerica. Con questa nuova definizione è possibile anche riconoscere l'esistenza di svariati gruppi di folks urbani (v. Freudenthal, 1961; v. Dundes, 1980).
È chiaro inoltre che un individuo può appartenere a diversi tipi di folk in quanto membro di una famiglia, di un gruppo etnico, religioso, professionale e nazionale. Nel corso della sua vita egli dovrà passare da un codice all'altro, usando il folklore appropriato al gruppo in cui si trova in un dato momento. Chi svolge il servizio militare, ad esempio, si approprierà del folklore specifico dell'esercito, della marina o dell'aviazione. Le reclute generalmente imparano a tenere il passo cantando le marce tradizionali del corpo a cui appartengono. È importante altresì tener presente che quando si formano nuovi gruppi si sviluppa un nuovo folklore. I nuovi leaders politici ad esempio possono diventare oggetto di cicli di barzellette. Secondo molte delle vecchie teorie il folklore era circoscritto al mondo rurale, e poiché questo andava scomparendo a seguito del processo di urbanizzazione, si traeva l'errata conclusione che anche il folklore nel suo complesso fosse destinato a scomparire. L'idea fallace secondo la quale il folklore consiste solo di sopravvivenze in via di estinzione di epoche passate è essa stessa un esempio di sopravvivenza. Di fatto nel mondo contemporaneo gli individui continuano, ora come prima, a utilizzare forme dialettali, a raccontare barzellette tradizionali o a praticare giochi tradizionali.
La seconda componente del termine folklore, lore (letteralmente 'sapienza'), designa quella serie pressoché illimitata di generi che costituiscono il corpus delle tradizioni popolari: miti, epopee, racconti, leggende, canti, proverbi, indovinelli, superstizioni, giochi, danze, medicina, costumi, strumenti ed edifici (fienili, rimesse, ecc.), incantesimi, benedizioni, maledizioni, ricette di cucina, filastrocche, forme dialettali, similitudini, metafore, usanze, gesti, ecc. Esistono probabilmente tre o quattrocento generi differenti di folklore, e molti non sono ancora stati identificati o studiati. Alcuni di questi generi sono più importanti, come i miti, le feste, le epopee; altri possono essere considerati minori, ad esempio gli scioglilingua, le formule mnemoniche (per ricordare i colori dell'arcobaleno o l'ordine dei pianeti), gli scongiuri. All'interno di un genere inoltre possono esservi vari sottogeneri. Nel genere del racconto popolare, ad esempio, possiamo distinguere favole che hanno per protagonisti animali, fiabe, racconti incentrati su formule, su dilemmi (questi ultimi sono assai diffusi in Africa), su inganni; all'interno del canto popolare distinguiamo la ninnananna dalla ballata, i canti conviviali dai canti funebri e così via. Di solito solo gli specialisti del folklore conoscono tutti i vari sottogeneri di una categoria generale (per le differenti specie di indovinelli v. Bødker, 1964; per i numerosi sottogeneri della narrativa popolare v. Bødker, 1965).
Gli studiosi di folklore di norma si specializzano in un determinato genere di un determinato gruppo di folk. Vi sono così esperti di epica araba, di miti coreani, di blues afro-americani, di leggende siciliane. L'ambito del folklore è così vasto che è impossibile per un singolo studioso conoscere tutti i generi di tutti i folks. Di solito gli specialisti di un determinato genere si riuniscono in società internazionali e pubblicano i risultati delle loro ricerche in periodici specializzati: ad esempio "Proverbium" (1965 ss.) per i proverbi, "Fabula" (1958 ss.) per i racconti popolari e così via. Gran parte della ricerca contemporanea in questa disciplina è organizzata secondo specializzazioni di genere. (Per una rassegna dell'ampia gamma di ricerche sui proverbi v. Mieder, 1982; per i racconti popolari europei v. Holbek, 1987; per un'introduzione alla vasta letteratura sull'approccio orale basato su formule al genere epico v. Foley, 1985). A volte un settore di studi non è incentrato su un genere ma su una nazione (ad esempio l'Italia: v. Falassi, 1985) o su un continente (ad esempio l'Africa: v. Görög, 1981). Il repertorio bibliografico internazionale sul folklore è l'Internationale Volkskundliche Bibliographie (1917 ss.).
Per comprendere la natura del folklore occorre distinguerlo da altri due tipi di cultura: la cultura cosiddetta 'alta' e la cultura di massa. Nella prima rientrano l'arte, la musica e la letteratura di élite di autori in genere famosi: le opere di Dante, Mozart e Rembrandt ne possono essere degli esempi. I programmi della maggior parte degli istituti di istruzione superiore occidentali si basano sullo studio di questa cultura.Per cultura di massa si intende quella divulgata dai media come film, programmi televisivi, fumetti, e include generi come la fantascienza, il poliziesco, la soap opera, il western e così via. La differenza fondamentale tra la cultura di massa e il folklore va individuata in due caratteristiche proprie di tutto il folklore: l'esistenza multipla e la variazione. 'Esistenza multipla' significa che ogni manifestazione del folklore per essere considerata autentico folklore deve esistere in diversi tempi e diversi luoghi. Per definizione, quindi, di un racconto popolare o di una ballata devono esistere almeno due versioni perché si possa parlare di folklore (in genere ve ne sono centinaia).
Poiché inoltre il folklore è trasmesso da persona a persona, quasi inevitabilmente vengono introdotte delle variazioni e di conseguenza non esistono due versioni identiche di uno stesso racconto popolare. Ciò significa altresì che non esiste una versione giusta, ma una molteplicità di versioni o testi egualmente legittimi. Per contro, sia la cultura alta che la cultura popolare sono caratterizzate da testi fissi (di solito opera di autori noti). Sappiamo chi è l'autore di un romanzo poliziesco o di fantascienza, e queste opere, fissate in testi stampati, film o videotapes, non cambiano nel tempo. Un libro di fumetti o un film sono esattamente gli stessi ogni volta che li leggiamo o vediamo. Un canto popolare o una leggenda invece varieranno a seconda del narratore o dell'esecutore (e anche a seconda della particolare composizione del pubblico). C'è senza dubbio un rapporto di interazione e di mutuo scambio tra alta cultura, cultura di massa e folklore: un racconto popolare può ispirare il compositore di un'opera, oppure una leggenda può diventare la base per un film.
I primi viaggiatori e collezionisti di testimonianze del passato tendevano a raccogliere il materiale folkloristico per puro interesse personale, senza preoccuparsi di classificarlo o analizzarlo. A seguito della pubblicazione, nel 1812 e nel 1815, dei due volumi di fiabe dei fratelli Grimm, molti si sentirono stimolati a raccogliere il folklore della propria regione o del proprio paese. In generale, il maggiore interesse nei confronti del folklore era associato a un senso di inferiorità regionale o nazionale. I fratelli Grimm, ad esempio, cercavano di dimostrare attraverso la raccolta del folklore 'teutonico' che esisteva un patrimonio culturale tedesco degno di essere paragonato alla cultura francese o a quella classica greca e latina (non bisogna dimenticare che l'area della Germania in cui vivevano i fratelli Grimm era sotto la dominazione napoleonica).
Non è un caso che alcune delle raccolte folkloristiche più sistematiche siano state effettuate in paesi in cui esisteva un problema di identità nazionale. Il paese che si è maggiormente dedicato alla ricerca folkloristica è forse la Finlandia. Assoggettati in varie epoche al dominio della Russia e della Svezia, i Finlandesi sentivano fortemente il bisogno di affermare o dimostrare la propria identità nazionale; così nel 1831 venne formata la Società Letteraria Finnica e cominciò col massimo zelo la raccolta del folklore locale (v. Hautala, 1968).
Due grandi studiosi, autori di fondamentali raccolte di folklore, E. Tang Kristensen (1843-1929) e Giuseppe Pitrè, provenivano uno dallo Jütland e l'altro dalla Sicilia, due regioni guardate con un certo disprezzo dal resto delle rispettive nazioni. Kristensen pubblicò più di 30.000 pagine di materiale (circa 79 volumi) comprendente 3.000 canti popolari, 1.000 melodie, 2.700 racconti popolari e 25.000 storie e leggende. Pitrè fu un ricercatore altrettanto infaticabile; gli impegni della professione medica da lui esercitata con successo a Palermo non gli impedirono di raccogliere una quantità prodigiosa di materiale folkloristico. Fondatore e condirettore di una importante pubblicazione sul folklore, l'"Archivio per lo studio delle tradizioni popolari" (33 volumi, 1880-1906), egli compilò la prima esauriente bibliografia del folklore italiano, Bibliografia delle tradizioni popolari d'Italia (1894), che conteneva oltre 6.000 voci, facendo così conoscere alla comunità internazionale la ricerca italiana sul folklore. Pitrè curò anche la pubblicazione delle Curiosità popolari tradizionali in 16 volumi (1885-1899). La sua opera più monumentale resta comunque la Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane (1872-1913), una raccolta del folklore siciliano in 25 volumi con varie sezioni dedicate ai canti popolari, ai racconti, ai proverbi, alle leggende, ai giochi, ai costumi, ecc. Pitrè era assolutamente contrario ad alterare il materiale originale, e il folklore da lui raccolto viene riportato fedelmente in dialetto. La ricchezza delle raccolte di Pitrè resta ineguagliata: il volume dedicato ai giochi infantili, ad esempio, ne descrive più di trecento, per ognuno dei quali sono registrate le varianti sia siciliane che italiane.
Mentre la maggior parte degli studiosi preferiva basarsi sulle testimonianze di singoli individui, alcuni optarono per la tecnica del questionario. Uno dei primi a utilizzare questo metodo fu Wilhelm Mannhardt (1831-1880), che inviò un questionario in vari paesi europei per ottenere dati sulle tradizioni agricole (comprese le usanze relative al raccolto). Nel 1865 Mannhardt inviò 2.000 copie di una lista di circa 33 domande a vari corrispondenti in Germania, Austria e altri paesi dell'Europa occidentale, ma nemmeno il 2% dei destinatari rispose. Tuttavia Mannhardt riuscì a racimolare una serie di dati che utilizzò per il suo Die Korndämonen (1868) e per l'importante studio Wald- und Feldkulte in due volumi (Berlino 1875-1877).
Nonostante i risultati scarsi e sostanzialmente deludenti ottenuti da Mannhardt, l'impiego dei questionari per la raccolta del folklore fece nascere l'idea di elaborare una rappresentazione cartografica dei dati raccolti. Nel XX secolo questo metodo si diffuse in tutta Europa, dando luogo alla pubblicazione di esaurienti atlanti del folklore. Si tratta di una serie di mappe di elementi folkloristici quali costumi, strumenti, idiomi e proverbi popolari. L'Atlas der deutschen Volkskunde cominciò a essere pubblicato negli anni trenta; l'Atlas der schweizerischen Volkskunde nel 1949 e l'Atlas över Svensk folkkultur nel 1957.Uno dei vantaggi del metodo del questionario per la raccolta del materiale era quello di consentire una omogeneizzazione delle domande poste - a ogni corrispondente o informatore la domanda veniva formulata esattamente negli stessi termini - e inoltre di raccogliere un numero di risposte assai maggiore che non con il metodo delle interviste individuali. Il principale svantaggio per contro era dato dal fatto che i destinatari del questionario avevano raramente la possibilità di aggiungere informazioni contestuali o supplementari. Una critica che viene mossa ai vari atlanti del folklore è che essi si limitano a visualizzare la distribuzione dei dati sulle mappe senza fornire alcuna analisi. Tuttavia la visualizzazione degli schemi di distribuzione dei vari elementi folkloristici non è priva di interesse.Con il crescere della mole del materiale raccolto - attraverso il metodo dei questionari o attraverso le interviste individuali - si rese necessario istituire degli archivi per immagazzinare i risultati di queste attività di ricerca.
Gli archivi di cui è dotata la maggior parte dei più importanti centri per lo studio del folklore rivestono un'importanza decisiva, perché la quantità di materiale raccolto sopravanza di gran lunga le possibilità di pubblicazione.Il materiale custodito in alcuni dei principali archivi del folklore è imponente. Citeremo a titolo di esempio gli archivi della Società Letteraria Finnica, che nel 1965 contenevano circa 22.000 racconti popolari, 70.000 indovinelli, 100.000 leggende sui miti e 500.000 proverbi. Quasi 8.000 studiosi hanno depositato i risultati delle proprie ricerche in questi archivi, che contengono anche circa 30.000 fotografie in bianco e nero (il che consente di registrare anche la cultura popolare materiale). La Irish Folklore Commission, fondata nel 1935, inviò questionari e studiosi in tutta l'Irlanda, accumulando più di due milioni di pagine di dati (v. Almqvist, 1977-1979). Tale commissione fu sostituita nel 1971 dal Department of Irish Folklore dell'University College di Dublino. Un altro celebre archivio per il folklore è il Deutsches Volksliederarchiv di Friburgo. Fondato nel 1914 dallo specialista di canti popolari John Meier (1864-1953), nel 1970 esso conteneva più di 48.000 canzoni popolari pubblicate e 209.000 inedite. (Per un'idea del materiale custodito nei principali archivi del folklore scandinavi v. Herranen e Saressalo, 1978).
Il materiale conservato negli archivi riguardava il folklore verbale, in un primo tempo registrato in manoscritti e in seguito in cassette e videocassette, ma già alla fine dell'Ottocento si avvertì l'esigenza di preservare anche il folklore materiale istituendo dei musei all'aperto. Il museo svedese Skansen, fondato da Arthur Hazelius (1833-1901) e aperto al pubblico nel 1891, raccoglie diversi edifici tradizionali e oggetti provenienti da tutta la Svezia. Questi edifici vengono demoliti con cura e dislocati nell'area del museo all'aperto, dove vengono pazientemente ricostruiti pezzo per pezzo. Anche le suppellettili e gli attrezzi agricoli vengono trasferiti nel museo, e si cerca di ricostruire nel modo più fedele possibile il contesto originario del fabbricato. In questo modo vengono preservati più o meno in toto, per gli studiosi delle generazioni future, fienili, mulini a vento, botteghe di fabbri, drogherie e simili. Alcuni musei del folklore assumono tra il personale una serie di artigiani, in modo che i visitatori possano osservare all'opera tessitori, vasai, intagliatori, ecc.
Nella seconda metà del XX secolo il metodo per la raccolta del folklore ha subito un cambiamento radicale. Mentre prima l'attenzione si concentrava esclusivamente sui testi - al punto che le parole di alcuni canti popolari venivano pubblicate senza la melodia di accompagnamento - ora viene privilegiato lo studio contestuale. Il folklore si comprende appieno facendo riferimento al contesto dell'esecuzione piuttosto che al testo; la pubblicazione di quest'ultimo è solo una testimonianza parziale e inadeguata di una esecuzione (v. Ben-Amos e Goldstein, 1975). Occorre tener conto anche del sottile rapporto che si instaura tra esecutore e pubblico (v. Falassi, 1980), e di quello, altrettanto delicato, tra raccoglitore e informatore (v. Glassie, 1982). Un dato testo folkloristico è il risultato unico e irripetibile di una determinata esecuzione di un determinato narratore o cantore di fronte a un determinato pubblico.
Sebbene all'origine dell'interesse per lo studio e la raccolta del folklore vi sia quasi sempre stato un forte sentimento nazionalistico (v. Wilson, 1976; v. Herzfeld, 1982), ben presto risultò evidente che la maggior parte del folklore non era delimitata dai moderni confini geopolitici. Anche i fratelli Grimm, i quali avevano sperato di presentare un campione di cultura popolare teutonica 'pura', scoprirono ben presto che in altri paesi esistevano fiabe molto simili a quelle da loro raccolte. Nelle note alla raccolta Kinder- und Hausmärchen, ad esempio, essi elogiarono la raccolta di fiabe in dialetto napoletano di Giambattista Basile (1575-1632) pubblicata postuma a Napoli nel 1634-1636 - Il Pentamerone - definendola "la migliore e la più ricca che sia mai stata fatta in qualsiasi paese". Jacob Grimm, che scrisse un'introduzione alla traduzione tedesca dell'opera fatta nel 1846 da Felix Liebrecht (1812-1890), definì le fiabe di Basile "incontestabilmente l'ultima, straordinaria eco di miti assai antichi, che hanno messo radici in tutta Europa". I fratelli Grimm riconoscevano quindi che le stesse fiabe esistevano in diversi paesi europei, anche se pensavano erroneamente che si trattasse di una derivazione laica o di una degenerazione di antichi miti sacri. L'idea che i racconti popolari fossero una sorta di detritus di miti si associava a un'altra fallace teoria evoluzionistica secondo la quale le ballate sarebbero i residui frammentari dell'epica.
Uno dei problemi che dovettero affrontare i folkloristi del XIX secolo fu quello di spiegare le palesi similitudini e i parallelismi sussistenti tra popoli diversi, a volte assai distanti tra loro nello spazio e nel tempo. Per quale motivo due popolazioni distinte e prive di contatti avevano gli stessi racconti popolari, le stesse usanze e gli stessi giochi infantili tradizionali?
Tra le varie teorie proposte per spiegare queste affinità transculturali vi era quella che postulava una struttura psichica unitaria comune a tutta l'umanità. Tutti gli esseri umani, secondo questa teoria, hanno la medesima struttura psichica e attraversano gli stessi stadi di un processo evolutivo unilineare, passando dallo stato selvaggio alla barbarie alla civilizzazione. Sulla base di queste premesse, per spiegare i parallelismi si faceva ricorso all'ipotesi poligenetica, secondo la quale gli 'stessi' racconti popolari sarebbero stati elaborati da diverse culture in modo indipendente e autonomo. Poiché inoltre si assumeva che tutte le popolazioni del mondo avessero attraversato gli stessi stadi evolutivi, si riteneva perfettamente legittimo comparare le pratiche popolari europee con le culture dei cosiddetti 'selvaggi' che esistevano ancora in Africa o in Nordamerica. Secondo questa teoria 'antropologica' della fine del secolo, la sopravvivenza della cultura rurale-popolare si poteva comprendere solo comparandola con la forma 'originale' e più completa, ancora osservabile tra i 'selvaggi' dell'epoca moderna.
Sir James George Frazer (1854-1941), nel saggio The scope of social anthropology (originariamente una conferenza tenuta all'Università di Liverpool il 14 maggio 1908), formulò esplicitamente questa teoria, sulla quale si basava gran parte delle sue ricerche. Mentre l'antropologia sociale consiste nello studio delle "credenze e delle usanze dei selvaggi", il folklore è lo studio dei "relitti di queste credenze e usanze, sopravvissuti come fossili tra i popoli di cultura superiore". Frazer definiva il folklore come "sopravvivenze di idee e pratiche più primitive tra popoli che per altri riguardi si sono elevati a un livello superiore di cultura" (v. Frazer, 1920², pp. 162 e 166).
La stessa teoria viene esposta da Andrew Lang (1844-1912) nel saggio The method of folklore, che costituisce il primo capitolo del suo Custom and myth (1884). Secondo Lang "esiste un tipo di studio, quello del folklore, che raccoglie e compara le reliquie simili ma immateriali delle antiche razze, le storie e le superstizioni che ancora sopravvivono, nonché le idee che pur presenti nel nostro tempo non appartengono a esso". Partendo dall'assunto che "nei proverbi e negli indovinelli, nelle fiabe e nelle superstizioni scorgiamo i relitti di uno stadio del pensiero che va scomparendo in Europa, ma continua a esistere in molte parti del mondo", Lang legittima la sua forma di metodo comparativo illustrandola nei seguenti termini: "Ogni volta che in un qualche paese si incontra un'usanza apparentemente irrazionale e anomala, [occorre] individuare un paese dove esiste una pratica analoga e nel quale essa non può più essere considerata irrazionale e anomala, ma in armonia con le idee e i costumi della popolazione che la ha adottata". Secondo Lang, quindi, "il nostro metodo consiste nel comparare le usanze o le consuetudini apparentemente prive di senso delle razze civilizzate con quelle analoghe che esistono tra i popoli non civilizzati, presso i quali conservano ancora il loro significato. Per una comparazione di questo tipo non è necessario che la razza civilizzata e quella non civilizzata siano dello stesso ceppo, né occorre dimostrare che vi sia stato un qualche contatto reciproco. Strutture mentali simili danno luogo a pratiche simili, a prescindere dall'identità di razza o dal mutuo scambio di idee e di consuetudini" (v. Lang, 1884, pp. 11, 12-13, 21).
Nessuno studioso moderno condivide più questa tesi né pratica questa forma di metodo comparativo, e tuttavia alcuni continuano erroneamente a definire il folklore come un relitto o una sopravvivenza del passato.
Il metodo comparativo adottato dalla maggior parte dei folkloristi moderni non si basa su un'ipotesi poligenetica. Prevale piuttosto l'idea che una determinata manifestazione del folklore abbia avuto origine in un determinato luogo e in una determinata epoca e si sia poi diffusa da individuo a individuo, da cultura a cultura. Questa teoria è detta monogenetica e diffusionista. Il teorico svedese Carl Wilhelm von Sydow (1878-1952) proponeva di distinguere tra quelli che definiva "portatori attivi" e "portatori passivi" di una tradizione. I primi sono gli 'attori', gli individui che narrano le fiabe o eseguono i canti popolari, mentre i portatori passivi costituiscono il pubblico: essi conoscono i canti e i racconti, ma sono solo spettatori. Secondo von Sydow un racconto o un canto popolare si diffondono solo se un portatore attivo li trasmette a un altro portatore attivo (v. von Sydow, 1948, pp. 11-43; per una eccellente discussione sulla trasmissione del folklore v. Ortutay, 1959).
Il metodo comparativo sviluppato dagli studiosi del folklore si è ispirato in larga misura a quello utilizzato nell'Europa del XIX secolo per lo studio storico delle lingue indoeuropee. In particolare un linguista, Franz Bopp (1791-1867), aveva pubblicato nel 1816 uno studio in cui le forme grammaticali del sanscrito venivano comparate a quelle delle lingue persiana, greca, latina, tedesca. In retrospettiva appare ovvio che queste e altre lingue indoeuropee presentino anche affinità lessicali oltre che grammaticali. Il sanscrito nas, ad esempio, è affine al latino nasus, all'italiano naso, al francese nez, al lituano nosis e al russo nos nonché all'inglese nose e al tedesco Nase. Analogamente, il termine sanscrito pitar è affine al latino pater, all'italiano e allo spagnolo padre, al francese père e con la prevedibile alternanza f/v all'inglese father e al tedesco Vater. Le somiglianze sia fonetiche che semantiche tra questi vocaboli sono troppo spiccate per poter essere considerate puramente fortuite o frutto di coincidenze.
Utilizzando lo stesso tipo di ragionamento si concluse che esistevano altre affinità culturali nell'area indoeuropea, tra cui la mitologia e altre forme di folklore. Max Müller (1823-1900), tra gli altri, condusse uno studio comparato di diverse mitologie mostrando, ad esempio, che l'affinità del sanscrito Dyaus con Deus e Zeus indica l'equivalenza degli dei greci e romani con le divinità vediche. Come indica il suo stesso nome, Jupiter (Ju=dio, piter=padre) era chiaramente il padre degli dei. Müller - un insigne indianista che, fatto curioso, non mise mai piede in India - oltre a studiare le affinità tra le lingue indoeuropee elaborò una nuova teoria del mito, la mitologia solare, secondo la quale il sorgere e il tramontare del sole avrebbero costituito una fonte di incessante meraviglia per l'uomo primitivo, per cui tutti i miti in sostanza descriverebbero questa quotidiana avventura dell'astro. Nel XIX secolo vennero formulate altre teorie mitologiche di diversa natura, ad esempio la mitologia lunare, secondo la quale i miti (al pari di altre forme di folklore) si riferirebbero alle fasi lunari anziché ai fenomeni solari.
La forma scientifica del metodo comparativo fu adottata per la prima volta nello studio del folklore in Finlandia. Julius Krohn (1835-1888) ideò un metodo per determinare l'ipotetica forma originaria di ogni singolo verso dell'epopea finnica, il Kalevala, ricostruita da Elias Lönnrot (1802-1884), uno dei principali promotori della fondazione della Società Letteraria Finnica. Lönnrot, che al pari di Pitrè era un medico, aveva condotto una serie di ricerche sul campo in Carelia, nella Finlandia orientale. Unendo diversi brevi canti in un'unità più ampia, egli credeva di aver ridato vita a quello che un tempo era un'autentica epopea orale, il Kalevala appunto, che pubblicò nel 1835. In questa prima versione il poema constava di 32 canti e 12.078 versi. Lönnrot continuò le sue ricerche sul campo e raccolse altro materiale, dando alle stampe nel 1849 una versione ampliata del poema, che comprendeva ora 50 canti e 22.795 versi. I nazionalisti finnici erano soddisfatti di avere la loro epopea, sebbene una versione orale del poema completo non fosse mai stata raccolta nella ricerca sul campo.
Il metodo di Julius Krohn consisteva nel raccogliere il maggior numero possibile di versioni di ogni singolo verso per analizzarle sulla base di criteri sia storici che geografici, ossia tenendo conto della data in cui era stata raccolta o pubblicata per la prima volta una determinata versione, nonché della diffusione geografica di un determinato particolare. Il criterio fondamentale è che quanto più è diffuso un particolare o un tratto, tanto più antico lo si deve ritenere (si tratta di un principio grosso modo analogo alla cosiddetta 'ipotesi età-area' dell'antropologia). Sulla base di questi criteri storici e geografici Julius Krohn cercò di determinare, verso per verso, l'ipotetica forma originaria del Kalevala.Il figlio di Julius, Kaarle Krohn (1863-1933), impiegò lo stesso metodo per studiare i racconti popolari. Tale metodo - noto come metodo storico-geografico o, in onore della nazionalità dei due Krohn, metodo finnico - è forse il più importante tra quelli utilizzati nello studio del folklore. Kaarle Krohn lo impiegò per la prima volta nell'analizzare vari racconti popolari che hanno per protagonisti animali, per la sua dissertazione di laurea all'Università di Helsinki nel 1887. In seguito egli scrisse uno studio su questo tema, Die folkloristische Arbeitsmethode, pubblicato nel 1926. Il metodo finnico è stato impiegato principalmente per l'analisi dei racconti popolari, ma si è rivelato altresì utile in una serie di studi storico-geografici sulle ballate e sui giochi (v. Goldberg, 1984). I migliori di tali studi riportano non meno di un migliaio di versioni di un particolare racconto popolare, provenienti dal mondo indoeuropeo e da altre aree (v. Roberts, 1958; v. Rooth, 1951). Ci vogliono anni per realizzare un valido studio storico-geografico, che comporta l'individuazione di tutte le versioni disponibili pubblicate o conservate negli archivi, la loro traduzione nella lingua del ricercatore e così via. Sebbene non si ritenga più che con questo metodo sia possibile ricostruire la forma originale di un racconto popolare, di un mito o di una ballata, tuttavia esso consente di individuare una serie di sottotipi nonché i loro schemi di diffusione e le loro probabili interrelazioni.Un'utile integrazione del metodo finnico è data dal concetto di oicotipo, o forma locale, proposto nel 1927 da von Sydow. Nel processo di trasmissione da individuo a individuo e da cultura a cultura, un determinato elemento folkloristico può assumere una forma o un contenuto locali. Così, ad esempio, di un racconto popolare presente nelle culture romanze o nell'area indoeuropea e semitica può esistere un oicotipo italiano, definito dalle caratteristiche o dai tratti specifici presenti solo nella versione italiana di tale racconto. Sul piano teorico il punto cruciale è dato dal fatto che per individuare un oicotipo è indispensabile aver condotto prima uno studio comparato. Se si dispone solo di una singola versione di un racconto popolare o di una ballata, è impossibile determinare quali aspetti, eventualmente, siano realmente unici o peculiari di una data località. Il concetto di oicotipo riveste una grande importanza per gli studiosi di folklore interessati a isolare i dati folkloristici al fine di definire il cosiddetto carattere regionale o nazionale (per il concetto di oicotipo v. Bødker, 1965, p. 220; v. Honko, 1980). Va osservato che sono assai pochi gli studiosi di scienze sociali che conoscono e applicano il metodo comparativo scientifico utilizzato dai folkloristi.
Verso la fine dell'Ottocento i folkloristi dell'Europa nordoccidentale si resero conto che lo studio del folklore doveva assumere una dimensione internazionale, in quanto l'oggetto stesso della disciplina aveva una distribuzione internazionale. Mentre l'interesse per il folklore locale era stato stimolato dai sentimenti nazionalistici legati ad alcune correnti del romanticismo, ormai ci si rendeva conto che la maggior parte del folklore non conosceva confini nazionali.
Per facilitare la cooperazione internazionale, un gruppo di eminenti studiosi si riunì nel 1907 per costituire un'organizzazione designata con la sigla FF, che può stare per Folklore Fellows in inglese, Fédération des Folkloristes in francese, Folkloristischer Forscherbund in tedesco, e così via (v. Krohn, 1910). I primi membri di tale organizzazione furono il finlandese Kaarle Krohn, il danese Axel Olrik (1864-1917), lo svedese C. W. von Sydow e il tedesco Johannes Bolte (1858-1937). Questa organizzazione ha pubblicato e continua a pubblicare una serie di importanti monografie, le Folklore Fellows Communications (FFC).Data l'imponente quantità di materiale folkloristico raccolto, si poneva con particolare urgenza il problema della sua classificazione. L'istituzione di archivi richiedeva che il materiale folkloristico fosse classificato in base a qualche criterio - ad esempio per generi o sottogeneri - al fine di schedarlo in modo ordinato rendendone agevole la consultazione. I racconti popolari furono una delle prime forme di folklore ad essere classificate seguendo questi criteri. Un valido allievo di Krohn, Antti Aarne (1867-1925) preparò un indice tipologico dei racconti popolari basato in parte sulla raccolta dei fratelli Grimm, sui materiali dell'archivio del folklore danese fondato da Svendt Grundtvig (1824-1883), sull'imponente documentazione contenuta negli archivi della Società Letteraria Finnica, nonché su altre raccolte di racconti popolari dell'Europa nordoccidentale. Questo catalogo, Verzeichnis der Märchentypen, apparve nel 1910 come terzo numero delle Folklore Fellows Communications. Aarne considerava ogni tipo di racconto un'entità distinta, e il suo sistema di classificazione tripartito comprendeva favole che hanno per protagonisti animali (da 1 a 299), racconti popolari ordinari, incluse le fiabe (da 300 a 1.199), aneddoti e barzellette (da 1.200 a 1.999).
La pubblicazione del catalogo di Aarne stimolò altri studiosi europei - soprattutto coloro a cui sembrava che quel catalogo non desse adeguato rilievo all'insieme della narrativa popolare del proprio paese - a costruire analoghi indici tipologici regionali o nazionali. Apparvero così un indice tipologico di racconti fiamminghi (1921), un indice preliminare norvegese (1922) e un indice prussiano (1927). La comunità internazionale degli studiosi di folklore comprese che si rendeva necessaria una revisione del lavoro di Aarne al fine di incorporarvi le tipologie registrate in questi indici. Dopo la morte di Aarne, nel 1925, Krohn invitò lo studioso americano Stith Thompson (1885-1976) a realizzare quest'opera di revisione. Una prima revisione apparve nel 1928 come n. 74 delle FFC, e da allora i racconti popolari europei sono indicati convenzionalmente con il numero con cui figurano nella tipologia di Aarne-Thompson: Cappuccetto Rosso ad esempio è AT 333, Cenerentola AT 510A e così via. Le 66 pagine originarie dell'indice di Aarne erano diventate 279, e continuavano ad apparire ulteriori indici regionali e nazionali: uno spagnolo nel 1930, uno olandese nel 1943, uno toscano nel 1953. Thompson intraprese un'altra revisione e questa nuova versione di 588 pagine apparve nel 1961 come n. 184 delle FFC. Attualmente il catalogo include non solo una sinossi completa di ognuno dei circa 2.000 tipi di racconti popolari, ma anche i riferimenti bibliografici alla letteratura critica su ciascun racconto nonché ai materiali inediti conservati negli archivi. Se un determinato racconto rientra tra quelli contenuti nella raccolta dei fratelli Grimm, Thompson fornisce i riferimenti appropriati rimandando al superbo compendio di note comparative contenuto nell'opera in 5 volumi di J. Bolte e G. Polivka, Anmerkungen zu den Kinder- und Hausmärchen der Brüder Grimm (Leipzig 1913-1932), opera fondamentale nell'ambito dello studio comparato dei racconti popolari. A partire dal 1961 sono stati pubblicati ulteriori indici nazionali, tra cui quelli di nazioni extraeuropee come la Cina (1978), la Corea (1979) e il Giappone (1983). (Per una rassegna di questi vari indici v. Azzolina, 1987).
Gli indici tipologici riguardano esclusivamente i racconti popolari, ma gran parte della narrativa popolare del mondo non occidentale non ha ancora avuto un'adeguata classificazione. Esiste comunque un sistema di classificazione valido per i racconti popolari di tutto il mondo, basato sul concetto di motivo. Un motivo può essere un personaggio, un soggetto, o un evento di un racconto popolare. Stith Thompson pubblicò un Motif-index of folk-literature in sei volumi (1932-1936; un'edizione riveduta dell'opera apparve nel 1955-1958). Come dice il sottotitolo dell'opera, si tratta di una "classificazione degli elementi narrativi di racconti popolari, ballate, miti, favole, romanzi medievali, exempla, fabliaux, raccolte di celie, leggende locali". A differenza dell'indice tipologico, che riguarda esclusivamente i racconti popolari, l'indice dei motivi include altri generi di narrativa come ad esempio miti e leggende. Un sistema di indici alfabetici divide il materiale in categorie: la lettera A indica i motivi mitologici, la B i motivi di animali, la C i motivi dei tabù, la D quelli magici e via dicendo. Così ad esempio A641 indica il motivo dell'uovo cosmico (l'idea che l'universo sia nato da un uovo), B13 il motivo dell'unicorno, C31 il tabù dell'offesa a una consorte sovrannaturale, D1.451 il motivo della borsa magica che produce denaro.I motivi differiscono dalle tipologie per un elemento fondamentale. Mentre si assume che le differenti versioni di un tipo di racconto siano correlate sul piano storico-genetico - le differenti versioni di Cenerentola, ad esempio, sono ritenute affini - le diverse ricorrenze di uno stesso motivo non sono necessariamente collegate storicamente. Qualunque mito che spiega la presenza della morte nel mondo può essere classificato nella categoria A1.335 - origine della morte - sicché miti distinti e completamente differenti possono essere classificati sotto la stessa rubrica.Vi sono stati altri tentativi di elaborare schemi di classificazione del folklore (v. Boggs, 1949; v. D'Aronco, 1963-1964), ma nessuno è risultato altrettanto valido o accettato a livello internazionale quanto quelli ideati per la tipologia dei racconti e per i motivi.
La maggior parte degli studiosi di folklore si è limitata a raccogliere e classificare il folklore del proprio villaggio, provincia o nazione, e solo occasionalmente ha cercato di analizzarlo. Tuttavia un piccolo gruppo di studiosi ha cercato di formulare una serie di principî generali applicabili al folklore di qualunque parte del mondo. Alcuni di questi studiosi erano più interessati alla speculazione che alla ricerca sul campo, e preferivano studiare in modo approfondito il materiale folkloristico raccolto da altri, alla ricerca di principî o di leggi generali della disciplina.Il tentativo di Max Müller di individuare interpretazioni basate sulla mitologia solare di miti e racconti popolari provenienti da varie culture potrebbe costituire un esempio di questa ricerca di principî generali, ma purtroppo questa elaborazione teorica del XIX secolo non ha resistito alla prova del tempo. Tuttavia un altro tentativo di definire principî generali risalente allo stesso secolo, l'ingegnosa analisi della magia di Frazer, gode tuttora di un'alta considerazione da parte di alcuni studiosi. Sviluppata nella monumentale opera in più volumi The golden bough (2 volumi nell'edizione del 1890, 3 in quella del 1900 e ben 12 in quella del 1911-1915), che si ispirava in larga misura a Wald- und Feldkulte di Mannhardt, l'analisi di Frazer viene considerata ancora valida dai ricercatori del nostro secolo. Secondo Frazer la magia si basa universalmente su due principî fondamentali: primo, che cause simili producono effetti simili, e che l'effetto assomiglia alla causa; secondo, che elementi che sono stati una volta in contatto continuano anche dopo a interagire. Questi due principî, la legge della similarità o della magia omeopatica e la legge del contatto o del contagio, sembrano essere valide estrapolazioni transculturali, sebbene sia teoricamente possibile che entrambi i principî operino in una stessa pratica magica. L'envoûtement (maleficio), ad esempio, che consiste nel conficcare degli spilli nell'immagine di cera del nemico al fine di danneggiarlo, oppure nel bruciare o impiccare l'effigie di un oppositore politico, sarebbe un caso di magia omeopatica. Se però per costruire l'effigie o l'immagine si utilizza qualcosa che è stato a diretto contatto con la vittima designata - capelli, unghie, un capo di vestiario - il maleficio implica anche la legge del contatto. (Per ulteriori esempi di magia e superstizione si può consultare uno degli strumenti fondamentali degli studiosi di folklore contemporanei, l'Handwörterbuch des deutschen Aberglaubens, 10 voll., 1927-1942).
Un altro importante caposaldo nella ricerca di leggi o principî del folklore è costituito dalle ricerche dello studioso norvegese Moltke Moe (1859-1913) e del suo allievo danese Axel Olrik. Nel 1889 Moe introdusse la nozione di 'legge epica' per indicare un principio generale applicabile a tutto il folklore verbale. Nell'accezione originaria di Moe tale concetto designava una tendenza di sviluppo in grado di spiegare l'evoluzione delle ballate e dei racconti popolari. Nell'accezione di Olrik per contro, il quale era interessato all'individuazione di caratteristiche stilistico-formali comuni al folklore verbale, le leggi epiche si configurano come principî strutturali anziché evolutivi. Tra esse citiamo la legge dell'incipit, della conclusione e della ripetizione, del numero 3, delle scene a due, del contrasto, della posizione iniziale e finale, del singolo intreccio, della concentrazione su un personaggio principale, ecc. Olrik espose le sue leggi epiche della narrativa popolare - da lui ritenute obbligatorie - nel 1908 in Danimarca e nel 1909 in Germania e propose di utilizzarle per differenziare il folklore dalla letteratura. Egli sosteneva che gli scrittori non erano vincolati da leggi epiche come lo erano invece i narratori orali. Nei racconti e nei canti popolari, ad esempio, l'enfasi può essere ottenuta mediante la legge della ripetizione, eventualmente in associazione alla legge del 3, ma uno scrittore moderno di racconti o novelle non ricorrerebbe certo a questo sistema di triplice ripetizione. Alcuni studiosi hanno obiettato che l'uso del termine 'legge' è un maldestro tentativo di scimmiottare le scienze naturali, e per designare queste caratteristiche stilistiche preferiscono parlare di 'tendenze'. In ogni caso il tentativo di Olrik di individuare queste tendenze o principî generali costituisce un fondamentale progresso nella teoria del folklore.
È opportuno osservare che secondo Olrik queste leggi epiche avevano una natura superorganica (v. Kroeber, 1917), ossia costituivano un ordine di realtà a sé stante, indipendente dal volere umano. Si tratta di un esempio classico di separazione tra il folk e il lore. Altri studiosi hanno cercato di individuare i principî superorganici che operano presumibilmente in modo autonomo nel lore, ma nella maggior parte dei casi non erano altrettanto verificabili empiricamente quanto le leggi epiche di Olrik. Molti di tali principî riguardavano la trasmissione del folklore. Kaarle Krohn propose il concetto di automigrazione, secondo il quale i racconti popolari sono capaci di 'spostarsi' autonomamente da un luogo all'altro, senza che i narratori stessi si muovano dal posto. Questo concetto (v. Krohn, 1922, p. 21) può essere illustrato con l'esempio del gioco infantile in cui i partecipanti sono disposti in circolo e ognuno sussurra un messaggio all'orecchio del vicino, il quale lo trasmette a sua volta al compagno accanto e così via, finché il messaggio ritorna alla prima persona, di solito in qualche misura alterato. Il messaggio quindi si 'muove' senza che gli individui che lo trasmettono si spostino essi stessi.Un'altra legge superorganica è la cosiddetta 'legge dell'autorettifica' proposta da Walter Anderson (1885-1962), secondo la quale i testi narrativi si autocorreggono conservando una notevole stabilità rispetto ai possibili stravolgimenti dovuti a errori o a cambiamenti inavvertiti introdotti da narratori maldestri dotati di poca memoria. La legge dell'autorettifica (v. Anderson, 1923, pp. 397-403; v. Glade, 1966) implica anch'essa una separazione tra il patrimonio narrativo e i soggetti umani, tra il folk e il lore, rendendo quest'ultimo sostanzialmente superiore al primo. Un analogo pregiudizio verso la creatività del folk è espresso dallo studioso svizzero Eduard Hoffmann-Krayer nel suo saggio del 1903 Naturgesetz im Volksleben? (ristampato in Lutz, 1958, pp. 67-72), in cui si afferma: "Il folk non produce, riproduce soltanto". Ciò ovviamente ripropone la questione dell'origine ultima del folklore: presumibilmente esiste sempre un individuo creativo che inventa un nuovo materiale folkloristico, anche se è forse corretto affermare che la maggior parte degli esecutori si limita a riprodurre anziché a produrre i materiali del proprio repertorio.
Meno controverso, ma più significativo è il contributo dello studioso francese Arnold Van Gennep (1873-1957) col suo studio pionieristico Les rites de passage pubblicato nel 1909, nello stesso periodo in cui Olrik formulava la teoria delle leggi epiche. Prima della stimolante analisi di Van Gennep gli studiosi di folklore erano soliti considerare i rituali associati alla nascita e alla pubertà, le cerimonie nuziali e le usanze funebri come segmenti distinti e separati del ciclo di vita dell'individuo. Anticipando la corrente strutturalista, Van Gennep comprese che tutti questi riti legati a momenti critici della vita si basavano sullo stesso schema tripartito: separazione, transizione, incorporazione. Per illustrare tale schema si può utilizzare l'esempio di un viaggio da un paese all'altro. In primo luogo, si prende ufficialmente congedo dal proprio paese d'origine (mostrando alla frontiera il proprio passaporto); poi si è in transito, ossia né nel paese d'origine né in quello di destinazione (le sale d'aspetto per i passeggeri in transito negli aeroporti internazionali sono un buon esempio di questo peculiare status marginale o liminale). Infine si entra ufficialmente nel nuovo paese, in genere passando attraverso il controllo passaporti. Lo stesso Van Gennep utilizza questo esempio per illustrare lo schema generale da lui individuato. Ognuna di queste tre fasi può avere i propri rituali. I riti di separazione assumono particolare rilievo in alcune culture, in cui le donne vengono isolate dal resto della comunità alla comparsa del menarca, e dopo un determinato periodo di emarginazione vengono sottoposte a un rito di purificazione per poter essere reincorporate nella società. Le conclusioni di Van Gennep sono tuttora pienamente convincenti: "Ciò che ci interessa non sono i singoli riti ma il loro significato essenziale e la loro posizione relativa all'interno dei cerimoniali nel loro insieme, vale a dire il loro ordine [...]. La struttura di base è sempre la stessa. Al di là di una molteplicità di forme, ricorre sempre uno schema tipico, che può essere sia esplicito che implicito: lo schema dei riti di passaggio" (v. Van Gennep, 1909, p. 191). La tesi di Van Gennep è universalmente accettata, tanto che l'espressione francese rites de passage è entrata stabilmente nel vocabolario degli studiosi di tutto il mondo.
Le leggi della magia simpatetica di Frazer, le leggi epiche di Olrik e i riti di passaggio di Van Gennep in teoria sono principî universali, validi senza eccezione per il folklore di tutte le popolazioni. Non sono mancati però i tentativi di individuare principî del folklore, generali ma non universali. Un primo esempio è il tentativo di definire la sequenza degli episodi che caratterizzano la biografia dell'eroe nelle culture indoeuropee. Johann Georg von Hahn (1811-1869) fu il primo che cercò di fissare questi elementi. Analizzando le biografie di Perseo, Ercole, Edipo e di undici altri eroi leggendari, von Hahn individuò uno schema biografico basato su sedici eventi, che definì "formula ariana dell'espulsione e del ritorno" nei suoi Sagwissenschaftliche Studien pubblicati postumi nel 1876. Lo psicanalista Otto Rank nel suo classico studio del 1909, Der Mythus von der Geburt des Helden, basò il suo schema biografico dell'eroe sull'analisi di quindici personaggi tra i quali Mosè, Edipo e Gesù. Nel 1934 lord Raglan pubblicò nella rivista "Folklore" un saggio, The hero of tradition (v. Dundes, 1965, pp. 142-157), che due anni più tardi costituì la base del suo studio The hero. Raglan si servì delle biografie di ventuno eroi per costruire uno schema basato su ventidue episodi. Tra le caratteristiche comuni a questi diversi modelli biografici vi sono la verginità della madre, il concepimento inusuale, una profezia che mette in guardia contro il nascituro, l'abbandono dell'eroe che viene allevato da genitori adottivi in un paese lontano, il suo ritorno in patria per sconfiggere il persecutore originario - un re, un gigante o un dragone - e infine il matrimonio con una principessa. Raglan attribuisce dei punteggi agli eroi calcolando quanti dei ventidue episodi tipici dello schema sono presenti nelle biografie di ognuno; per Edipo e Teseo il totale è 20 su 22, per Romolo ed Ercole 17, per Perseo 16, per Giasone 14, ecc.
Lo schema di Raglan sembra potersi applicare a parecchi eroi indoeuropei, ma non a quelli di altre aree culturali, ad esempio quelli degli Indiani nordamericani e sudamericani. In altre parole, tale schema può costituire un principio generale valido per le biografie degli eroi indoeuropei, ma non è affatto universale. Inoltre, sebbene la validità dello schema biografico dell'eroe possa essere dimostrata empiricamente, resta qualche problema relativo al suo significato ultimo. Raglan, ad esempio, sosteneva che tale schema dimostra in modo conclusivo il carattere fittizio delle biografie degli eroi (è impossibile che tutti abbiano avuto biografie identiche). Per quanto gli eroi stessi possano essere stati personaggi storici, nella narrazione folkloristica le loro biografie sono state alterate per adattarle allo schema. Raglan riteneva che lo schema biografico da lui descritto derivasse da un antico rituale, ossia da un regicidio rituale. Questo è il tipo di interpretazione proprio della cosiddetta 'scuola del rituale', secondo la quale ogni tipo di folklore avrebbe un'origine rituale. Il problema di quasi tutte le interpretazioni di questo genere è che non sempre è chiara la provenienza del rituale originario, e di conseguenza resta incerta l'origine ultima del mito. Se i miti derivano da un rituale, da dove viene il rituale?
Otto Rank propose un'interpretazione completamente differente dello schema biografico, basata sulla teoria freudiana del complesso d'Edipo. Secondo Rank, ad esempio, la nascita dell'eroe da madre vergine costituisce un ripudio totale del padre (e del suo ruolo procreativo). Inoltre, per Rank, il tentativo del padre di sbarazzarsi del nuovo nato (si pensi alla strage degli innocenti nelle biografie di Mosè e di Gesù) è un esempio di quella che oggi verrebbe definita inversione proiettiva. Nella teoria edipica classica, infatti, è il figlio che vuole uccidere il padre, ma poiché questo è un pensiero tabù, nel folklore è sempre il padre che cerca di uccidere il figlio (anche se nella maggior parte delle società indoeuropee i padri desiderano ardentemente avere figli maschi e colpevolizzano le mogli che non sono in grado di dar loro eredi). Ciò libera il figlio da ogni senso di colpa: quando egli uccide il padre o il padre putativo (re, gigante, drago), lo fa per autodifesa.Per quanto riguarda la ricerca di principî generali nel folklore, si può accettare lo schema biografico dell'eroe che risulta empiricamente accertabile, anche se si respinge l'ipotesi ritualistica di Raglan o l'interpretazione freudiana di Rank. Quanto al tema degli schemi narrativi, occorre menzionare l'importante scoperta dello studioso russo Vladimir Propp (18951970). In Morfologia della fiaba, pubblicato nel 1928, Propp ha analizzato un campione di 100 fiabe russe dimostrando che esse si basano su una sequenza prevedibile di 31 unità di azione drammatica, da lui definite 'funzioni'. Non tutte le fiabe contenevano le 31 funzioni al completo, ma quelle presenti seguivano invariabilmente lo stesso ordine o sequenza. La conclusione di Propp è che tutte le fiabe (nn. 300749 secondo l'indice tipologico di Aarne-Thompson) appartengono a un unico tipo strutturale basato sullo stesso schema di successione. Il corpus analizzato da Propp si limitava alle fiabe russe, ma queste nella maggior parte dei casi rientrano nella tipologia internazionale secondo il sistema di classificazione di Aarne-Thompson. Ciò indica che le conclusioni di Propp si possono applicare, con alcuni adattamenti poco significativi, alle fiabe di altre culture indoeuropee. Lo schema di Propp però non sembra valido per i racconti popolari di altre aree culturali, ad esempio quelli degli Indiani dell'America settentrionale e meridionale. Pertanto sarebbe probabilmente errato considerare la sequenza delle 31 funzioni di Propp come un principio generale alla stessa stregua dei principî della magia simpatetica di Frazer o dei riti di passaggio di Van Gennep.
La maggior parte degli studiosi di folklore, tra cui gli antropologi interessati alla materia, non si preoccupa di individuare principî generali. La ricerca di ipotetiche leggi globali è stata appannaggio dei folkloristi 'speculativi', mentre gli studiosi dediti alla ricerca sul campo si accontentano di norma di raccogliere il folklore di un determinato villaggio o popolo e di effettuarne analisi dalle pretese assai più modeste. Ciò deriva dall'adesione al relativismo culturale propugnato dagli antropologi, secondo il quale ogni singola cultura costituisce un'entità distinta, e in certo senso incomparabile, dotata di caratteristiche uniche. Per un ricercatore che lavora esclusivamente nel contesto di una singola cultura è difficile se non impossibile formulare una valida ipotesi transculturale, oppure verificare tale eventuale ipotesi. La crescente specializzazione fa sì che pochi antropologi o folkloristi moderni siano in grado di padroneggiare l'ingente quantità di materiale proveniente da tutte le parti del mondo, come era ancora possibile per Frazer o Van Gennep.
La scelta di concentrare l'attenzione su una singola cultura alla volta è dovuta in parte all'influsso dell'antropologo Franz Boas (1858-1942) e dei suoi seguaci, assai interessati al folklore, in particolare a quello degli Indiani d'America. L'approccio boasiano al folklore era in larga misura una reazione agli 'eccessi' delle teorie altamente speculative del XIX secolo, basate ad esempio sulla mitologia lunare e solare. Estremamente cauto per quel che riguarda le generalizzazioni (sia nell'ambito del folklore che in altri campi), Boas riteneva che il folklore fosse il riflesso di una cultura, e poiché era convinto che le culture degli indigeni d'America fossero in via di estinzione, si dedicò attivamente alla raccolta del folklore di varie tribù come a una sorta di opera di salvataggio. A suo avviso il folklore è il riflesso di una cultura in via di estinzione o pressoché estinta, e di conseguenza esisterebbe un rapporto biunivoco tra folklore e cultura: un determinato tratto presente in una cultura si troverebbe per così dire 'registrato' nel suo folklore. Boas riuscì a ottenere la preziosa collaborazione di alcuni indigeni americani istruiti allo scopo di preservare il loro folklore, prevenendo così l'inevitabile distorsione inerente alla ricerca sul campo condotta da osservatori esterni.
I miti e i racconti popolari presentati in Tsimshian mythology (1916), forse l'opera principale di Boas, erano stati registrati da Henry W. Tate, egli stesso un indiano tsimshian di Port Simpson, nella Columbia Britannica. Dopo aver presentato i miti (pp. 58-392), Boas introduce una sezione intitolata Descrizione degli Tsimshian basata sulla loro mitologia (pp. 393-477), in cui i particolari etnografici relativi alle abitazioni, all'abbigliamento, alle tecniche della caccia e alla raccolta del cibo, all'organizzazione sociale, alla vita familiare, ecc. sono attentamente estrapolati dal corpus dei miti. Vi è anche una sezione intitolata Studio comparativo della mitologia tsimshian (pp. 565-871) in cui Boas compara i testi degli Tsimshian con testi affini di altre tribù della costa del Pacifico nordoccidentale. Nel 1935 Boas pubblicò Kwakiutl culture as reflected in mythology, in cui, come indica il titolo, la stessa metodologia di base è applicata a un'altra popolazione, i Kwakiutl della costa nordoccidentale. Nel capitolo conclusivo di questa tarda opera Boas procede a una comparazione tra i Kwakiutl e gli Tsimshian basandosi sui dati ricavati dalle loro rispettive mitologie.Dopo Boas la maggior parte degli antropologi ha continuato a interpretare il folklore in modo letterale piuttosto che simbolico, ossia come riflesso diretto di una data cultura. Nella maggior parte dei casi il mito è l'unico genere preso in considerazione, escludendo tutti gli altri, e l'organizzazione sociale costituisce la caratteristica culturale cui si presta primariamente attenzione. Claude Lévi-Strauss, ad esempio, nella sua famosa analisi del ciclo narrativo di Asdiwal, del 1958, sostiene che una delle principali opposizioni binarie presenti in esso è legata alla distinzione tra modelli di residenza matrilocale e patrilocale dopo il matrimonio (v. Lévi-Strauss, 1973).
Nello studio del folklore, così come nel campo dell'antropologia, si è affermata la tendenza a privilegiare un approccio storico e letterale ai dati; di conseguenza la maggior parte delle interpretazioni simboliche e psicologiche di tali dati è guardata con grande diffidenza dagli studiosi tradizionali. È evidente però che il folklore, in quanto espressione della fantasia, contiene spesso riferimenti a eventi che non si verificano nella realtà di una determinata cultura. Nei racconti popolari che hanno per protagonisti furfanti e ribaldi spesso questi personaggi infrangono tabù di varia natura. Gran parte del folklore ha contenuti fantastici che ricordano quelli dei sogni: nella vita reale non si incontrano certo bacchette magiche o asini che defecano oro. Se si accetta l'idea che nel folklore trovino espressione le illusioni si può capire perché eroi ed eroine riescano là dove fratelli e sorelle falliscono (una chiara espressione della rivalità tra fratelli). Analogamente, il tema della regina o della matrigna cattiva che cerca di uccidere l'eroina, comune a tante fiabe, può essere interpretato - in base alla teoria freudiana del complesso di Elettra - come un'inversione proiettiva: in realtà è la fanciulla che desidera sbarazzarsi della madre, così come nei racconti con un protagonista maschile, è il giovane che desidera eliminare il padre. Il pensiero tabù è espresso attraverso un'inversione di ruoli in cui è la madre ad aggredire la figlia.
Si potrebbe mettere in discussione la legittimità di considerare la matrigna come un sostituto simbolico della madre biologica dell'eroina. Per rispondere a questa obiezione si può far riferimento al fatto che nella versione originale della fiaba di Hansel e Gretel (n. 327 nell'indice tipologico di Aarne-Thompson), raccolta dai fratelli Grimm, era la madre che decideva di abbandonare i figli nella foresta. I Grimm ritennero troppo snaturato un comportamento simile da parte di una madre, e decisero di sostituire il personaggio con quello di una matrigna, convinti che tale crudeltà compiuta da una matrigna sarebbe risultata più accettabile ai lettori.
Va osservato incidentalmente che simili manipolazioni del materiale folkloristico si sono verificate anche troppo spesso nella storia della disciplina, dando luogo a quello che gli studiosi chiamano 'fakelore' (fake=fasullo, falso) anziché autentico folklore (v. Dorson, 1950; v. Dundes, 1989). Si tratta di dati inventati di sana pianta da un famoso scrittore, oppure di materiali folkloristici censurati o alterati - come le versioni ad usum Delphini - che nondimeno vengono presentati come autentico materiale della tradizione popolare. Persino i moderni studiosi di folklore a volte non sanno resistere alla tentazione di 'migliorare' una tradizione orale trasformando così il folklore in fakelore. Tali manipolazioni dei materiali folkloristici, ovviamente, ne riducono notevolmente il valore di dati utilizzabili dalle scienze sociali. Se si pensa che la maggior parte dei racconti dei fratelli Grimm sono testi compositi, vale a dire compilazioni sintetiche che mettono insieme pezzi e frammenti di differenti versioni, e che molti studiosi hanno avventatamente utilizzato le versioni adulterate dei Grimm come punto di partenza per le loro analisi, si può comprendere perché i professionisti della ricerca folkloristica deplorino l'esistenza del fakelore - anche se i cambiamenti introdotti sono stati a volte ispirati da nobili fini nazionalistici o letterari, ad esempio dall'intento di diffondere un prezioso patrimonio culturale. È questo uno dei motivi per cui gli studiosi del folklore preferiscono basarsi su testi trasmessi oralmente e raccolti attraverso la ricerca sul campo, piuttosto che su quelli letterari riscritti e quindi alterati.Sigmund Freud (1856-1939) nutriva un profondo interesse per il folklore. Il suo importante saggio - scritto in collaborazione col mitologista D. E. Oppenheim intorno al 1911, ma pubblicato solo nel 1958 col titolo Sogni nel folklore - dimostra brillantemente come i sogni contenuti nei racconti popolari trasmessi oralmente siano interpretati dal popolo esattamente nello stesso modo in cui li interpreterebbe un freudiano. Carl G. Jung (1875-1961), che si interessò anch'egli al folklore, nella sua dottrina psicologica (definita psicologia analitica per distinguerla dalla psicanalisi) postula l'esistenza di un inconscio collettivo pan-umano e preculturale, i cui archetipi sarebbero all'origine di immagini oniriche analoghe ai tipi mitologici (v. Jung e Kerényi, 1941). Tuttavia il Motif-index of folkliterature dimostra in modo convincente che non esistono motivi o intrecci narrativi universali ma che, al contrario, la maggior parte dei miti e dei racconti popolari ha un'area di diffusione geografica ben circoscritta. Se esistessero archetipi pan-umani, dovrebbero esservi storie identiche in tutte le culture. Alcuni degli archetipi junghiani - la grande madre, il vecchio saggio, ecc. - sono talmente generici e vaghi da risultare pressoché privi di significato.
Senza dubbio tutte le culture hanno un concetto di 'madre' che gli individui acquisiscono vivendo in quella cultura, ma non è necessario postulare l'esistenza di un inconscio collettivo per spiegare le concezioni della madre nelle diverse culture. Jung manifesta una certa tendenza al misticismo, e sostiene che gli archetipi sono fondamentalmente inconoscibili. Per citare le sue parole, "essi non si riferiscono ad alcunché che sia o sia stato conscio, bensì a qualcosa di essenzialmente inconscio. In ultima analisi, pertanto, è impossibile dire a cosa si riferiscano" (v. Jung e Kerényi, 1941). Freud, per contro, ha un orientamento razionalistico: una delle premesse di fondo della teoria psicanalitica è che l'inconscio può essere conosciuto dalla mente cosciente.
Né Freud né Jung hanno influenzato in modo significativo lo studio del folklore; l'atteggiamento antipsicologico e antisimbolico è troppo radicato negli studiosi della disciplina. Va rilevata però un'ulteriore distinzione tra la psicanalisi freudiana e la psicologia analitica junghiana, che ha una certa importanza per gli scienziati sociali interessati al folklore. Jung postula una forma di unità psichica che si presume esista indipendentemente dalle singole culture, e di conseguenza nella teoria junghiana ortodossa non c'è spazio per il relativismo culturale: se gli archetipi risalgono a una fase preculturale, allora il condizionamento culturale non può in alcun modo modificare né gli archetipi stessi né ciò che da questi è derivato. La teoria freudiana è invece compatibile col relativismo culturale: la sua ipotesi di un rapporto tra il condizionamento infantile e i sistemi proiettivi adulti (compreso il folklore) non risulta infatti inficiata dall'obiezione che i differenti condizionamenti infantili propri delle varie culture producono sistemi proiettivi differenti (v. Dundes, 1984).
Un approccio al folklore meno controverso ma non meno ambizioso sul piano teorico è quello che cerca di individuare i principî filosofici specifici di una cultura incorporati nei testi folkloristici. In tutte le forme di folklore si possono trovare sia norme cognitive che indicazioni relative ad orientamenti assiomatici di valore. Come per ogni tipo di analisi del contenuto, il problema in questo caso è quello di accertare in modo attendibile se tali principî di una Weltanschauung siano effettivamente presenti nel materiale analizzato, o non siano invece, come spesso avviene, costrutti artificiosi degli studiosi.
Per esemplificare questo procedimento di estrapolazione di principî di una Weltanschauung dai dati folkloristici consideriamo quella che è forse la forma più elaborata di folklore, la sagra. Le sagre di una nazione, di una regione, di una città o di un villaggio rappresentano una complessa espressione dello spirito o della 'psiche' di tali entità. Il Palio di Siena, una corsa di cavalli rituale che si svolge annualmente il 2 luglio e il 16 agosto in onore della Vergine Maria, esprime nel modo più autentico lo spirito della città. A ogni gara partecipano dieci delle diciassette contrade senesi; le regole sono assai complicate, ma in sostanza il Palio (uno stendardo di seta) è vinto dalla contrada il cui cavallo termina per primo i tre giri prescritti della Piazza del Campo, mentre la contrada il cui cavallo arriva secondo viene considerata perdente.
Un'ulteriore complicazione di questo schema è data dal fatto che ogni contrada ha una tradizionale rivalità nei confronti di una contrada 'nemica', ad esempio Oca-Torre. Secondo le regole del Palio la contrada rivale di quella vincente è considerata automaticamente sconfitta - anche se rientra tra quante non hanno partecipato a quella data edizione della corsa. Analogamente, alla contrada nemica di quella che arriva seconda è attribuita una sorta di vittoria - anche in questo caso indipendentemente dal fatto che abbia partecipato alla gara. Questa regola curiosa esemplifica quello che viene definito il principio del 'bene limitato'. In base a tale principio, diffuso in molte comunità contadine indoeuropee, un individuo può godere di buona salute o di benessere economico solo a danno di un altro. Così se l'Oca vince il Palio di Siena, la Torre per definizione deve perdere: la vittoria di qualcuno implica sempre la sconfitta di qualcun altro.
Un esempio meno complesso dello stesso principio della Weltanschauung senese è dato da una superstizione secondo la quale se una civetta lancia il suo grido dopo essersi posata sul tetto di una casa, porterà fortuna agli abitanti di quella casa e sfortuna alla casa dirimpetto, dove vi sarà un lutto nel giro di sette giorni. (Per un'ulteriore analisi del tema v. Dundes e Falassi, 1975, pp. 185-240).Questo nuovo approccio alla Weltanschauung racchiusa nel folklore differisce dalle precedenti definizioni più ristrette che la identificavano con la cosmologia. Con questa nuova definizione si può dimostrare che la stessa cosmologia tradizionale riflette una serie di principî fondamentali relativi all'ethos e alla visione del mondo.
Il folklorismo è un fenomeno di antica data di cui però gli studiosi hanno preso atto solo recentemente. Mentre il folklore vero e proprio scaturisce da un processo di creazione e di trasmissione relativamente inconscio, il folklorismo ha a che fare con una consapevole manipolazione del materiale folkloristico a scopi politici, propagandistici, turistici o commerciali. Un villaggio o una città in cerca di un simbolo di identità conveniente o proficuo sul piano economico può resuscitare a tal fine una determinata manifestazione del proprio folklore, per esempio può istituire una sagra per celebrare un particolare personaggio o una particolare usanza del folklore locale. Le manifestazioni commerciali che ne derivano - ad esempio la produzione di magliette, fibbie, tazze, paralumi, ecc. in cui viene raffigurato quel personaggio o quell'usanza - sono un esempio di folklorismo. A volte l'intera sagra o pseudo-usanza viene inventata di sana pianta da qualche intraprendente camera di commercio locale. In questo caso si tratta di fakelore oltreché di folklorismo.
Per lungo tempo i puristi della disciplina hanno preferito ignorare sia il fakelore che il folklorismo, considerati comportamenti e simboli spuri. Molto probabilmente questi studiosi si indignerebbero nel leggere sul programma illustrativo di uno spettacolo di danze folkloristiche il nome di un coreografo: le autentiche danze popolari non sono state create da nessun coreografo. In questo stesso programma si potrebbe leggere che i costumi indossati dai danzatori provengono da varie regioni di un paese. In altre parole, si avrebbe un corrispettivo dei testi compositi di racconti popolari elaborati dai fratelli Grimm o da altri compilatori di collezioni di narrativa popolare del XIX e del XX secolo. In certi casi anche i musei del folklore all'aperto collocano in un edificio tradizionale ogni genere di oggetti d'arredamento e di utensili risalenti a epoche diverse e provenienti da diverse regioni. Per giustificare tali assemblaggi si fa appello alla 'licenza poetica' o per meglio dire turistica; il fine è quello di attirare turisti disposti a pagare per assistere alle danze folkloristiche o per visitare il 'museo folkloristico' locale.
Gli accademici alla fine hanno dovuto prendere atto che fakelore e folklorismo non sono fenomeni transitori, ma elementi di crescente importanza nella società contemporanea. Anziché continuare a ignorarli, alcuni studiosi di folklore hanno ritenuto di essere le persone forse meglio qualificate per studiare tali fenomeni (v. Moser, 1962 e 1964; v. Bausinger, 1969). Questo nuovo ambito di indagine, che si potrebbe definire folklore applicato, porrà nuove sfide agli studiosi della disciplina.
Sebbene alcuni studiosi di altre discipline considerino il folklore un ramo dell'antropologia culturale o un sottoinsieme della letteratura comparata, esso costituisce in realtà una disciplina accademica autonoma e indipendente, che rientra in parte nell'ambito delle scienze sociali e in parte in quello degli studi umanistici. Il folklore come disciplina si affermò saldamente alla fine del XIX secolo. La prima cattedra di folklore fu quella di Moltke Moe, il quale nel 1886 fu nominato professore di Dialetto e tradizioni popolari norvegesi presso l'Università di Christiania (l'attuale Oslo). Poco dopo, nel 1888, Kaarle Krohn fu nominato docente straordinario di Folklore finnico e folklore generale presso l'Università di Helsinki. Analogamente, Axel Olrik divenne docente straordinario di Folklore nordico presso l'Università di Copenhagen nel 1897. Nel 1910 C. W. von Sydow fu nominato lettore di Folklore scandinavo e comparato presso l'Università di Lund.
Lo status di legittima disciplina accademica del folklore non è più messo in discussione, sebbene questa materia non figuri nei programmi di tutti gli istituti universitari (v. Erixon, 1955; v. Cirese, 1967; v. Dorson, 1974; Brückner e Beitl, 1983). Il momento preciso in cui il folklore divenne una disciplina accademica è controverso. Gli studiosi tedeschi, ad esempio, tendono a considerare come data cruciale il 1859, anno in cui apparve il saggio Volkskunde als Wissenschaft (oggi ristampato in Lutz, 1958, pp. 23-37) di Wilhelm H. Riehl (1823-1897). Ogni paese però ha una propria storia per quanto riguarda lo sviluppo della disciplina, e per questo motivo la maggior parte degli studi sulla storia del folklore tende a essere circoscritta ai singoli ambiti nazionali: Austria (v. Schmidt, 1943), Inghilterra (v. Dorson, 1968), Finlandia (v. Hautala, 1968), Francia (v. Sébillot, 1913), Germania (v. Freudenthal, 1955; v. Jacobeit, 1965; v. Weber-Kellerman e Bimmer, 1985²), Ungheria (v. Márot, 1938), Italia (v. Corso, 1923, pp. 85-120; v. Cocchiara, 1947; v. Cirese, 1974), Romania (v. Vrabie, 1968) e Stati Uniti (v. Zumwalt, 1988).
Alcuni studiosi si sono avventurati al di là dei confini nazionali, ad esempio Guichot y Sierra (v., 1922), Cocchiara (v., 1952) e Boberg (v., 1953), ma anch'essi si sono limitati all'Europa senza prendere in considerazione la situazione della disciplina in Africa, Asia, Nordamerica e America Latina. Lo studio del folklore esiste però anche al di fuori dell'Europa, per quanto si debba riconoscere che storicamente la disciplina e la maggior parte dei suoi metodi e delle sue teorie sono stati sviluppati nell'area europea. Esistono comunque dei lavori sugli studi folkloristici in Giappone (v. Yanagita, 1944), in India e Pakistan (v. Islam, 1970), in Cina (v. Hung, 1985), in Africa (v. Finnegan, 1970) e in America Latina (v. Carvalho-Neto, 1969).Lo studio del folklore, specialmente a livello internazionale, continuerà a svilupparsi. È impossibile infatti immaginare la specie umana senza racconti, canti e sagre popolari. È il folklore in ultima analisi che garantisce l'identità regionale, etnica e nazionale, allietando l'esistenza dell'individuo e conferendole gran parte del suo significato. Una parte così importante della cultura umana merita senz'altro di continuare a essere oggetto di uno studio approfondito. (V. anche Antropologia ed etnologia; Cultura).
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