Fondamentalismo
di Massimo Introvigne
Fondamentalismo
sommario: 1. Il Fundamentalism project e la discussione sulla nozione di fondamentalismo. a) Premesse metodologiche; b) Il Fundamentalism project e i suoi critici. c) Un modello idealtipico. 2. Il fondamentalismo protestante dal 1990 al XXI secolo. 3. Ambiguità delle tesi sull'esistenza di un fondamentalismo cattolico. 4. L'estensione della categoria di fondamentalismo. a) Nota sul fondamentalismo mormone. b) Fondamentalismi ebraici?. c) Fondamentalismo o nazionalismo indù? 5. Il fondamentalismo islamico prima e dopo l'11 settembre 2001. a) Il problema delle definizioni. b) Le due branche del fondamentalismo islamico. c) Fondamentalismo, millenarismo, mahdismo. d) Fondamentalismo, tradizionalismo, nazionalismo. e) La tesi del declino del fondamentalismo e la 'sindrome di Voltaire'. □ Bibliografia.
1. Il Fundamentalism project e la discussione sulla nozione di fondamentalismo
a) Premesse metodologiche
Il problema del fondamentalismo è emerso come uno dei principali temi nell'ambito sia della sociologia delle religioni, sia della geopolitica, dopo la caduta del muro di Berlino nel 1989, la dissoluzione dell'Unione Sovietica nel 1991 e il riemergere di conflitti che la logica di un mondo diviso in due blocchi aveva, se non sopito, quantomeno messo tra parentesi. Dall'ampia discussione che ne è seguita sono emersi alcuni principî ampiamente condivisi, che in questa sede assumiamo come premesse metodologiche.
Un primo principio è che i movimenti religiosi hanno molto spesso cause e motivazioni religiose. Il marxismo, la psicanalisi e la critica della cultura di massa espressa dalla Scuola di Francoforte sostenevano invece - e tale posizione aveva convinto generazioni di studiosi - che i fenomeni che si presentano come religiosi sono spesso solo la maschera di fattori materiali. Friedrich Engels, il più stretto collaboratore di Karl Marx, spiegava nell'Antidühring (1878) che ogni religione non è altro che il riflesso fantastico nella mente degli uomini di potenze esterne che dominano la loro esistenza quotidiana, come le condizioni economiche e i mezzi di produzione. Così, per anni, si è sostenuto che la prima crociata è stata la conseguenza di un surplus demografico all'interno della nobiltà europea (nel senso che bisognava trovare qualche cosa da fare per i figli cadetti in soprannumero delle famiglie nobili), che le eresie medievali e la Riforma rappresentavano una lotta di classe della borghesia urbana contro la nobiltà rurale e che i 'grandi risvegli' che contraddistinguono la storia del protestantesimo inglese e americano sono forme primitive di rivolta contro la moderna economia di mercato. Sebbene gli storici abbiano lentamente smantellato queste costruzioni ideologiche, tuttavia, ogni volta che un fenomeno sembra religioso, un riflesso condizionato derivato in gran parte dal marxismo spinge molti a chiedersi di quale 'struttura' economica reale la 'sovrastruttura' asseritamene religiosa sia la maschera o il prodotto. La riflessione più recente delle scienze sociali ha mostrato che la domanda, in molti casi, è mal posta e che i fenomeni che si presentano come religiosi hanno spesso, certo insieme ad altre concause, cause principali che sono effettivamente di natura religiosa.
Un secondo principio è che - venuto meno il congelamento delle situazioni regionali durante la guerra fredda, quando qualsiasi conflitto era ricondotto al bipolarismo Unione Sovietica/Stati Uniti - sono riemersi i conflitti locali che la guerra fredda aveva nascosto, ma non risolto. Questi conflitti hanno certamente componenti nazionali, etniche, politiche, economiche, ma molto spesso hanno anche un'importante componente religiosa. Il libro di Samuel Huntington (v., 1996) sullo scontro di civiltà, è spesso più criticato che letto. Un esame attento dell'aspetto religioso invita a integrarlo con un modello di scontro all'interno delle civiltà.
Ancora, dopo la fine della guerra fredda è emerso come il rapporto fra religione e politica e più in generale fra religione e realtà secolari, fra religione e cultura, sia il problema fondamentale che sta all'origine di numerose crisi regionali. Proprio questo ha determinato un'ampia discussione sul fondamentalismo, di natura anzitutto terminologica.
b) Il Fundamentalism project e i suoi critici
Il termine 'fondamentalismo' nasce, come è noto, in ambito protestante di lingua inglese, per designare la difesa dei 'fondamentali' del protestantesimo contro quella che - fra la fine del secolo XIX e gli inizi del XX - era percepita come una minaccia, ossia il cedimento di molte comunità protestanti storiche alla modernità, soprattutto nell'adozione del metodo storico-critico per l'interpretazione della Bibbia e nell'accettazione dell'evoluzionismo scientifico. Questo movimento di reazione contro la modernità è arrivato fino ai giorni nostri, anche se - nello stesso ambito protestante - non è sempre facile stabilire confini esatti fra i 'conservatori' (evangelical, in quanto contrapposto a liberal) e gli esponenti di quella forma più radicale di conservatorismo chiamata, più propriamente, 'fondamentalismo'. Nel corso del secolo XX, estrapolando alcune caratteristiche del fondamentalismo protestante, la categoria è stata usata per identificare movimenti e correnti nell'ambito dell'ebraismo, dell'induismo, del buddhismo e dell'islamismo. Molto più rari (per quanto non inesistenti) sono i tentativi di costruire una categoria del 'fondamentalismo cattolico'; al riguardo il termine più usato è 'integrismo', un vocabolo di origine francese impiegato inizialmente per indicare i sostenitori più convinti della lotta del pontefice Pio X contro la corrente teologica detta 'modernismo'. Peraltro, un certo numero di dizionari e di testi inglesi traduce semplicemente il francese intégrisme (e gli italiani 'integrismo' e 'integralismo') con 'fondamentalismo', e l'espressione 'integrismo islamico' appare - nonostante periodici tentativi di distinguere le due realtà - come un semplice sinonimo di 'fondamentalismo islamico'.
L'uso del termine fondamentalismo si è ormai talmente dilatato da essere, spesso, scarsamente scientifico. Negli ultimi decenni non sono mancati, tuttavia, apprezzabili tentativi scientifici di definire le caratteristiche generali del fondamentalismo, culminati in un progetto dell'American Academy of Arts and Sciences, il Fundamentalism project, che ha prodotto cinque volumi pubblicati fra il 1991 e il 1995 (v. Marty e Appleby, 1991-1995). Tali caratteristiche generali sono riassunte dai ricercatori del Fundamentalism project facendo riferimento sia all'ideologia, sia all'organizzazione. Dal punto di vista ideologico il fondamentalismo è definito come un movimento di reazione all'emarginazione della religione; è selettivo, in quanto sceglie alcuni aspetti della tradizione che vuole difendere e identifica nell'ambito della modernità alcuni bersagli da colpire (mentre altri aspetti della modernità sono accettati); tende a una sorta di 'manicheismo morale', dividendo il mondo in 'noi' e 'loro'; adotta un principio di assolutismo e d'infallibilità relativamente alle sue Sacre Scritture; tende ad adottare una prospettiva millenarista. Dal punto di vista organizzativo, il fondamentalismo - o meglio i fondamentalismi, giacché ne esistono specie diverse - tende a considerare i propri membri come un gruppo di 'eletti' in lotta contro il 'mondo' corrotto; stabilisce frontiere nette fra chi fa parte del gruppo e chi ne è fuori; si organizza in modo piuttosto autoritario; ed emana regole di comportamento che spesso coinvolgono i segni esteriori (come gli abiti) e hanno un grande valore simbolico.
Qualche anno dopo la sua pubblicazione, il Fundamentalism project è stato oggetto anche di diverse critiche. Due previsioni, condivise da molti collaboratori al progetto, non sembrano essere state confermate dai fatti: la prima, che i fondamentalismi fossero in declino; la seconda, che si stessero ritirando in ghetti o enclaves rinunciando sempre di più alla pretesa di influire sulla vita pubblica. Al contrario, tutti i fondamentalismi hanno continuato a mostrare un notevole vigore e hanno accumulato un capitale simbolico e organizzativo che - dagli Stati Uniti alla Turchia - non hanno esitato a spendere anche in chiave elettorale, con risultati tutt'altro che trascurabili.
c) Un modello idealtipico
Nel momento in cui la discussione sollevata dal Fundamentalism project accenna a placarsi, molti ritengono opportuno, per semplificare una realtà ben altrimenti complessa, tentare di ridurla a modelli idealtipici nel senso weberiano del termine: tipi ideali, anziché inventari ricavati dalla grande molteplicità dei casi concreti. In questa chiave si può affermare che all'interno di ciascuna civiltà, sul tema diventato nuovamente essenziale dei rapporti tra religione e cultura, si confrontano laicismo, fondamentalismo e laicità. Per il laicismo, tra fede e cultura ci deve essere totale separazione: una sorta di muraglia cinese che valuta negativamente ogni tentativo del credente di far diventare la sua fede cultura e di giudicare la cultura, quindi anche la politica, alla luce della fede. Per il fondamentalista, fede, cultura e politica coincidono in una sorta di fusione (che chi fondamentalista non è valuterà facilmente come confusione), per cui ogni produzione della cultura che non parta esplicitamente dalla fede, ogni politica che non sia direttamente e senza mediazioni religiosa, sarà considerata necessariamente sospetta, se non demoniaca. Per l'uomo religioso non fondamentalista, tra fede e cultura non c'è separazione: vi è tuttavia distinzione, nel senso che la cultura, come la politica e tutte le realtà terrene e secolari, ha una sua sfera di autonomia che va riconosciuta e difesa, pur potendo e dovendo essere giudicata alla luce della fede e della morale.
È, quest'ultima, una posizione di 'laicità', che non coincide con il laicismo e che, in quanto indica la strada di una collaborazione fra fede e cultura, non è la laïcité à la française di cui ci parla la tradizione giuridica e politica di quel paese; in questo senso il francese laïcité andrebbe tradotto piuttosto con 'laicismo'. Beninteso, come tutti gli idealtipi, questi tre modelli hanno un rapporto di semplice analogia con realtà molto più complesse e sfumate. Tuttavia, il confronto fra laicismo, fondamentalismo e laicità può contribuire a rendere ragione di un gran numero di crisi locali ed è essenziale per impostare la questione del fondamentalismo.
2. Il fondamentalismo protestante dal 1990 al XXI secolo
In gran parte dei riferimenti al fondamentalismo protestante degli ultimi anni presenti sui giornali vengono sistematicamente confuse due correnti diverse: quella evangelical (un'espressione talora tradotta in lingua italiana come 'evangelicale', e che comunque non va tradotta come 'evangelica', parola che in italiano identifica più spesso i protestanti in genere, non una loro corrente) e quella fondamentalista in senso stretto. Se l'origine dei due movimenti è comune, nel corso del XX secolo essi si differenziano: gli evangelical costituiscono l'ala conservatrice (e, negli Stati Uniti, maggioritaria) del mondo protestante, i fondamentalisti una versione radicale delle premesse 'evangelicali' che corrisponde pienamente alla nostra proposta di definizione e che nega la possibilità di mediazioni fra fede e cultura. Mentre gli evangelical sono, come si è accennato, la maggioranza relativa dei protestanti negli Stati Uniti (e per la verità quasi ovunque nel mondo, con l'eccezione di alcuni paesi europei), i fondamentalisti in senso stretto sono una minoranza. Anche all'interno del mondo fondamentalista non mancano peraltro sfumature.
Quindi, per esempio, è del tutto scorretto definire il presidente degli Stati Uniti George W. Bush (che appartiene alla Chiesa metodista) un 'fondamentalista', mentre è corretto definirlo un evangelical, con riferimento alla sua appartenenza a una corrente trasversale situata sul versante conservatore di una spaccatura che divide al loro interno i metodisti, così come i battisti, i presbiteriani e gli esponenti di altre grandi denominazioni protestanti. Gli evangelical mantengono sicuramente l'idea di una certa autonomia della cultura e della politica; semplicemente, assumono una costellazione di scelte politiche e culturali sulla base di scelte teologiche che sono di tipo conservatore e non progressista o liberal. Né, a stretto rigore, si può considerare segno di 'fondamentalismo' l'interesse per i temi della fine del mondo, oggi così diffuso negli Stati Uniti: il fatto che i romanzi della fortunata serie Left behind, di Tim LaHaye e Jerry B. Jenkins (il cui primo volume è apparso nel 1995; v. LaHaye e Jenkins, 1995), abbiano superato nel loro complesso i cento milioni di copie vendute dimostra che i loro lettori sono diffusi in tutto il mondo protestante, e non si riducono ai soli 'fondamentalisti'. In questa sede non ci occupiamo della tendenza evangelical, mentre citiamo alcuni sviluppi recenti che possono essere considerati esemplari all'interno del mondo fondamentalista internazionale.
Un primo caso, quello dell'evoluzione dei 'Fratelli', rappresenta un esempio di movimento fondamentalista avviato verso una trasformazione in senso evangelical. Il termine 'fratelli' nel mondo protestante indica due movimenti diversi. Il primo, quello dei Brethren, origina dal risveglio pietista all'interno del mondo luterano, ed è estraneo alla nostra trattazione. Del tutto diversi sono i 'Fratelli' che nascono in varie parti d'Europa (Svizzera, Irlanda, Inghilterra, Italia) dal 1820 in poi sulla scia della predicazione di John Nelson Darby, e si dividono in seguito in un'ala di 'Fratelli stretti', più esclusivisti e non disponibili a una collaborazione con chi non condivide il loro rigoroso fondamentalismo, e una di 'Fratelli larghi', che è alla base dei maggiori gruppi europei detti oggi 'Assemblee dei Fratelli' o semplicemente 'Chiese cristiane evangeliche (dei Fratelli)'. Agli inizi del XXI secolo i Fratelli (larghi) hanno raggiunto nel mondo il milione di membri, presenti in 125 nazioni con oltre undicimila assemblee locali. Non esistono istituzioni rappresentative su scala mondiale, ma tramite convegni internazionali e istituzioni paraecclesiali i contatti fra Fratelli di diversi paesi si sono fatti frequenti. Particolare successo nella predicazione hanno conseguito le Assemblee dei Fratelli italiane: nel 2002 le Assemblee erano 216, con un totale di quattordicimila membri. L'identità contemporanea dei Fratelli mette in risalto il ruolo centrale riconosciuto alla Bibbia, il sacerdozio universale dei credenti e l'enfasi missionaria. Anche la conduzione delle Chiese è collegiale. I Fratelli dichiarano di rappresentare un protestantesimo rigoroso, ma il dibattito sulla loro identità e sul rapporto con altre forme di 'fondamentalismo' è stato negli ultimi anni molto acceso in tutti i paesi dove sono presenti i Fratelli cosiddetti 'larghi'. Ci si può chiedere se, in Italia e altrove, i Fratelli escludano oggi totalmente una mediazione fra fede e cultura e rientrino quindi ancora nella nostra definizione di fondamentalismo. Forse, almeno per una parte rilevante delle congregazioni, la risposta è negativa. Più rigorosamente fondamentalisti rimangono, naturalmente, i Fratelli cosiddetti 'stretti', che mantengono assemblee in quasi tutta Europa e in molti paesi degli altri continenti. Nel mondo i Fratelli 'stretti' contano circa 1.500 congregazioni, e in Italia le assemblee sono attualmente diciassette, con un centinaio di membri.
Un secondo esempio ci introduce a un aspetto del tutto diverso della questione del fondamentalismo protestante. Negli ultimi quindici anni, il movimento fondamentalista internazionale è stato caratterizzato dalla diffusione su scala mondiale della Chiesa locale, un movimento originariamente diffuso soltanto fra i Cinesi e le comunità di origine cinese degli Stati Uniti. Presente in tutti i continenti, la Chiesa locale è stata fondata da Witness Lee, un predicatore cinese allievo del famoso Watchman Nee (pseudonimo di Ni Shu-Tsu). Le oltre mille Chiese locali presenti nel mondo alla fine degli anni novanta giungono a superare i centomila membri (oltre a qualche decina di migliaia in Cina, appartenenti a Chiese che operano nella clandestinità). Ogni Chiesa locale rimane peraltro autonoma ed è guidata da un gruppo di anziani (da due a cinque), anche se esistono missionari che visitano le diverse Chiese esistenti e ne fondano di nuove. Una piccola presenza esiste anche in Italia, dove la prima Chiesa locale è stata aperta a Napoli, con un lavoro missionario iniziato nel 1995, e la seconda a Roma nel dicembre 2000.
La dottrina della Chiesa locale - così come è stata sviluppata e precisata, in occasione di controversie interne, negli anni 1990 e 2000 - è simile a quella dei Fratelli, ma l'insistenza sul fatto che in ogni città la Chiesa di Gesù Cristo non può che essere rappresentata da una sola congregazione ha provocato accuse di settarismo e controversie. Alcune pratiche introdotte da Witness Lee sono state considerate eccessivamente innovative dal mondo evangelico conservatore, che pure apprezza in genere gli scritti di Watchman Nee. Tali pratiche comprendono il pray reading, o ripetizione reiterata della stessa frase della Bibbia come preghiera, l'invocazione, anch'essa reiterata, del nome di Gesù e il burning, un momento di fervente testimonianza cristiana nel corso del quale talora sono letteralmente bruciati oggetti che simboleggiano la fase della vita del fedele precedente alla conversione. Negli ultimi decenni del XX secolo la Chiesa locale ha ripetutamente citato in giudizio i critici che l'accusavano di essere una setta, ottenendo alcune importanti vittorie giudiziarie.
Esaminandole da vicino, e collocandole nel contesto delle loro origini cinesi, le 'innovazioni' della Chiesa locale sembrano piuttosto riaffermare l'immediatezza della relazione fra fede e cultura che costituisce lo specifico del fondamentalismo. Quest'ultimo è un movimento antimoderno nella sua ideologia, ma capace di utilizzare le forme più avanzate della modernità nell'organizzazione e nella comunicazione. L'organizzazione 'ultramoderna' della Chiesa locale nasconde un'agenda e parole d'ordine 'antimoderne' che ne fanno un esempio tipico di movimento fondamentalista cresciuto negli ultimi anni all'insegna della buona organizzazione e di uno svecchiamento del modo di presentarsi che non ha però inciso sulla sostanza della dottrina.
Un terzo esempio riguarda i Two-by-Twos (Due a due) o The Truth o Workers. La loro storia è stata chiarita dagli studiosi solo negli ultimi anni del Novecento e spiega la sorprendente persistenza di un movimento che a prima vista potrebbe apparire perfino anacronistico. Alle sue origini si trova, con altri, William Irvine, scozzese di origine, che a partire dal 1903 chiede ai suoi seguaci - uomini e donne - di abbandonare tutti i loro beni, vivere in castità e povertà, e andare a due a due per il mondo diffondendo una Chiesa i cui membri non dovranno avere altro nome che quello di 'cristiani'. La diffusione attuale del movimento interessa l'Australia e la Nuova Zelanda (dove il successo è particolarmente notevole), il Sudafrica, la Cina, l'Europa continentale e l'America Settentrionale e Meridionale. I seguaci di questo movimento (che rifiutano il nome di Two-by-Twos, così come rifiutano ogni altro nome) non costruiscono chiese o cappelle, non ordinano ministri o pastori, non stampano libri né opuscoli dottrinali, affidandosi solo alla Bibbia, agli inni e alla predicazione orale. A seguito di dissidi interni, i Two-by-Twos si presentano oggi divisi in tre branche rivali: una (la più grande), che origina dai supervisori regionali dopo la loro rottura con Irvine, una che è rimasta fedele all'eredità di Irvine, e una che si ispira al dirigente dissidente Edward Cooney. Le stime numeriche relative agli ultimi anni - in cui il movimento mantiene comunque diverse decine di migliaia di membri - sono difficili, perché la caratteristica più saliente del gruppo è la segretezza: esiste una gerarchia, ma i nomi dei dirigenti non sono comunicati a chi non fa parte del gruppo, e non esistono sedi (ci si ritrova in case private). Uno dei pochi libri tuttora stampati dal movimento è una raccolta di inni, e sia da questa pubblicazione, sia dalle interviste che diversi studiosi hanno potuto compiere, emergono una teologia e uno stile di vita tipicamente fondamentalisti.
I Two-by-Twos rappresentano, peraltro, più un modo di vivere che una teologia. Le donne non usano cosmetici né gioielli (tranne la fede nuziale); l'uso della televisione è scoraggiato. Oltre che alla cena del Signore, celebrata settimanalmente, i fedeli partecipano a una 'convenzione' annuale che si tiene in ognuna delle 'zone', normalmente in una casa colonica o fattoria, senza alcuna forma di pubblicità. I fedeli sono anche chiamati a sostenere i 'due' (o le 'due', giacché si tratta spesso di donne) che visitano la loro zona, animano le riunioni e cercano di diffondere il movimento in nuove città. Questi missionari e missionarie a tempo pieno, che rinunciano al matrimonio, non ricevono alcun salario, ma sono mantenuti dalle offerte dei fedeli in ciascuna delle zone che visitano. In Italia i Two-by-Twos sono presenti dagli anni quaranta (ma sono stati rilevati e studiati solo di recente) e contano circa duecento fedeli, concentrati prevalentemente nelle zone centro-meridionali del paese; l'apostolato si svolge mediante incontri in 'tende' o locali privati; due volte l'anno si svolgono in Italia raduni internazionali, ai quali partecipano i 'servitori' provenienti da vari paesi del mondo, oltre ai membri del gruppo e a simpatizzanti. Nonostante la loro leggendaria riservatezza, i Two-by-Twos non riescono più a sfuggire all'attenzione degli studiosi e anche dei semplici curiosi. Il fatto che non siano scomparsi mostra come anche un fondamentalismo 'duro e puro' (ancorché, paradossalmente, accusato di derive eterodosse sul tema della Trinità), che non rinuncia solo alle idee ma anche agli stili di vita moderni, abbia la possibilità, se non di espandersi, almeno di sopravvivere e di trasmettersi nel XXI secolo.
3. Ambiguità delle tesi sull'esistenza di un fondamentalismo cattolico
Esistono fondamentalisti cattolici? Una delle critiche principali rivolte al Fundamentalism project riguarda proprio questo punto. Gli autori del progetto ritenevano di potere estendere a gruppi cattolici la loro definizione del fondamentalismo e pensavano di poterne individuare un caso tipico - se non l'esempio principale - nel movimento italiano di Comunione e Liberazione. In realtà, l'applicazione della categoria a Comunione e Liberazione appare forzata e gli autori (non italiani) mostrano di non conoscere bene la storia di questo movimento, che originariamente non deriva affatto da una tradizione antimoderna, ma riscopre alcuni aspetti della critica cattolica della modernità attraverso un itinerario lungo e faticoso, non senza che tali elementi continuino a coesistere con altri che sono di segno del tutto diverso e veramente non hanno nulla a che fare con il fondamentalismo.
Più in generale, non è facile immaginare un fondamentalismo cattolico, né secondo la definizione del Fundamentalism project né secondo i tipi ideali proposti in questo articolo. In effetti, l'accostamento dei cattolici alla Bibbia non è mai stato fondamentalista nel senso protestante del termine: anzi, proprio i cattolici più conservatori si avvicinano semmai alla Bibbia sottolineando la mediazione della Chiesa e del magistero, senza nessuna immediatezza di lettura o riferimenti a un testo che sarebbe capace di auto-interpretarsi. Le correnti cattoliche più conservatrici rimangono legate all'idea di mediazioni tra fede e cultura e di una certa autonomia delle realtà temporali, che è precisamente quanto distingue i non fondamentalisti dai fondamentalisti (almeno secondo la definizione che abbiamo proposto).
È vero, per contro, che a partire dagli anni novanta in certi ambienti cattolici si sono diffusi - ma in genere su punti specifici, senza un vero quadro di fondo - elementi della visione del mondo fondamentalista, mutuati da contatti frequenti (iniziati negli Stati Uniti ma proseguiti altrove) con fondamentalisti protestanti. Il terreno su cui si sono manifestati spunti di fondamentalismo cattolico è soprattutto quello della critica alla cultura popolare. Negli ultimi secoli la cultura popolare (per tacere di quella colta) è ampiamente prodotta a prescindere dalla Chiesa e dalla comunità cristiana: essa non è anzitutto indirizzata alla missione e alla formazione, ma al consumo. Rifiutare pregiudizialmente tutta la cultura popolare moderna e postmoderna in quanto i suoi modi di produzione non sono religiosi è una conclusione cui il fondamentalismo, concepito in modo rigoroso, non può sottrarsi: ma è anche una conclusione che chiude il credente fondamentalista in un ghetto e lo condanna ad alimentarsi di quel poco che è ancora prodotto dall'interno della sfera religiosa.
In questa chiave, non sono mancati ambienti cattolici che si sono accodati alle critiche nate nel mondo fondamentalista protestante di lingua inglese nei confronti di fenomeni di culto della cultura popolare contemporanea, dai romanzi per bambini della fortunatissima serie Harry Potter a sceneggiati televisivi come Charmed ('Streghe', nella versione italiana) o a cartoni animati come i giapponesi Pokémon e Digimon. Le campagne che ne sono nate accusano tutti questi prodotti - certamente di consumo (anche se, almeno nel caso di Harry Potter, non privi secondo molti di valori letterari) e certamente non nati in un ambito religioso e cristiano - di diffondere presso i bambini e i giovani un'ideologia magica antitetica al cristianesimo e di preparare la loro futura adesione a movimenti esoterici. Per la verità, le statistiche sugli aderenti a questi movimenti (che rimangono in numero minimo rispetto ai fans dei prodotti letterari e televisivi citati) non confermano i timori dei fondamentalisti sul punto. D'altro canto, la nascita intorno a queste campagne di un fondamentalismo cattolico rimane, per così dire, incompiuta. I fondamentalisti protestanti si battono coerentemente per censurare ogni forma di cultura popolare che non nasca esplicitamente in un contesto cristiano: così, attaccano come infette da elementi magici non solo le storie di Harry Potter, ma anche favole come Biancaneve o Cenerentola, quando non invitano ad allontanare i bambini dalla letteratura 'profana' e dalla televisione in genere. Il 'fondamentalista' cattolico sceglie singolarmente questa o quella battaglia nella gamma offerta dai suoi ispiratori protestanti, senza impegnarsi nell'elaborazione di una strategia generale o forse ritraendosi dalle conseguenze più radicali di principî che pure applica a casi singoli. In ogni caso, è nelle campagne contro certi prodotti della cultura popolare che si ritrovano tracce di fondamentalismo vero nomine nel mondo cattolico, assai più che nelle complesse strategie di rapporto con la modernità di movimenti come Comunione e Liberazione, la cui stessa complessità rende inadeguato ogni tentativo di rinchiuderle nell'etichetta 'fondamentalista'.
4. L'estensione della categoria di fondamentalismo
Come si è accennato, il Fundamentalism project ha consacrato la pratica, già invalsa da alcuni anni, di estendere la categoria del fondamentalismo al di là del mondo protestante (e cattolico), ricercandone esempi, oltre che nel mondo islamico, fra gli ebrei, gli indù e i seguaci di altre religioni. Si può dire che soltanto la categoria di 'fondamentalismo islamico' si è decisamente affermata (anche se, come vedremo, non senza problemi terminologici), mentre in altri casi la legittimità dell'uso del termine 'fondamentalismo' rimane assai controversa. In questo articolo si è scelto di privilegiare, tra i fondamentalismi al di fuori della sfera cristiana, il fondamentalismo islamico, categoria i cui confini sono stati ormai precisati e definiti, mentre ci siamo limitati a qualche cenno a proposito di altri casi più problematici.
a) Nota sul fondamentalismo mormone
Un caso particolare riguarda l'uso del termine 'fondamentalisti' in riferimento ad alcuni gruppi scismatici che si sono separati dalla Chiesa mormone, un uso venuto alla ribalta internazionale in occasione di una serie di fatti di cronaca, tra cui il rapimento a Salt Lake City nel 2002 dell'adolescente Elizabeth Smart, poi ritrovata nel 2003, da parte di un 'fondamentalista'. Nel secolo XIX, i mormoni praticavano la poligamia. Il 25 settembre 1890 il presidente della Chiesa mormone Wilford Woodruff rendeva pubblica una dichiarazione, nota come Manifesto, votata dalla Conferenza generale il successivo 6 ottobre, in cui invitava i mormoni a sottomettersi alle leggi degli Stati Uniti che vietano la poligamia. Successivamente, con il cosiddetto Secondo manifesto, del 1904, i mormoni avrebbero considerato il Manifesto come una rivelazione, punendo i poligamisti con la scomunica e determinando la nascita di vari scismi fedeli alla poligamia, scismi che contano ancora oggi diverse migliaia di seguaci a Salt Lake City, in Messico e in qualche villaggio isolato del West, alcuni turbolenti e altri del tutto pacifici e rispettosi delle leggi, spesso tollerati dalle autorità americane, ma costantemente denunciati come eretici dalle autorità della Chiesa di Gesù Cristo ufficiale, con cui non vanno in ogni caso in nessun modo confusi. I seguaci di questi gruppi scismatici sono definiti nel mondo mormone come 'fondamentalisti', con un uso del termine del tutto peculiare, probabilmente destinato a permanere nel tempo ma che non fa riferimento né all'idealtipo del fondamentalismo né alle categorie del Fundamentalism project (che pure di questi 'fondamentalisti' ha voluto occuparsi), concentrandosi invece sull'attaccamento pertinace alla teoria e alla pratica della poligamia.
b) Fondamentalismi ebraici?
L'uso del termine fondamentalismo è diventato corrente per descrivere alcuni gruppi ebraici attivi in Israele e negli Stati Uniti, ma non è privo di ambiguità ed è contestato da alcuni specialisti, per quanto difeso da altri (v. Guolo, 1997). In effetti, il termine è utilizzato per designare due gruppi che hanno posizioni antitetiche sullo Stato di Israele. Da una parte, lo si riferisce a gruppi che contestano la fondazione terrena di Israele come Stato laico, considerandola un'usurpazione di un disegno messianico che avrebbe dovuto essere realizzato soltanto da Dio. Questi gruppi fanno tutti riferimento, diretto o indiretto, alla fondazione nel 1912 del partito antisionista Agoudat Israel; ma si sono divisi in correnti alcune delle quali rimangono ai margini della vita civile e politica israeliana, sostanzialmente vivendo in un ghetto autocostruito, e altre che - pur mantenendo le loro riserve sull'ideologia sionista - hanno accettato di partecipare al gioco politico ed elettorale israeliano per condizionare il sistema dall'interno e ottenere concessioni che vadano nel senso di una 'ebraizzazione' del paese e di un sostegno statale alle istituzioni religiose ultraortodosse.
Dall'altra parte, gli oppositori chiamano fondamentalisti anche i nazionalisti dell'estrema destra israeliana (e i loro sostenitori negli Stati Uniti) che considerano lo Stato di Israele, per quanto secolare, la realizzazione (talora inconsapevole) di un sogno religioso messianico. Questi gruppi - molti dei quali riconoscono come maestri il rabbino ultranazionalista Abraham Isaac Kook e suo figlio, il rabbino Zvi Yehuda Kook - investono di significati religiosi anche le più laiche delle istituzioni israeliane.
Entrambe le correnti (antisionista l'una e ultrasionista l'altra) sono accomunate dal fatto di essere etichettate come fondamentaliste (un'etichetta che esse rifiutano) dai loro oppositori. Come scrive Jean-François Mayer, "malgrado questi tentativi di riunire [due] correnti opposte sotto una sola etichetta, rimane l'impressione di un tentativo problematico [...]. Possiamo quindi domandarci se il riunirli sotto una medesima etichetta comune ci consenta di comprendere meglio il fenomeno, o se non si tratta di un tentativo da parte degli elementi laicisti della società di porre chiaramente al margine dei gruppi percepiti a vario titolo come irritanti" (v. Mayer, 2001, p. 39). Nonostante la sua popolarità presso un certo giornalismo, l'etichetta 'fondamentalismo ebraico' sembra corrispondere più a un'operazione polemica messa in atto dagli avversari delle correnti così designate che a una reale riflessione sulle caratteristiche 'fondamentaliste' di gruppi che potrebbero forse essere meglio descritti facendo riferimento alle abituali categorie nell'ambito della religione ebraica (ortodossi e ultraortodossi) e della politica israeliana (destra o estrema destra sionista).
c) Fondamentalismo o nazionalismo indù?
Tralasciando in questa sede movimenti che si ispirano alla religione sikh o all'una o all'altra forma di buddhismo, vale la pena di dedicare qualche cenno alla questione se la grande organizzazione indiana Rashtriya Swayamsevak Sangh (RSS, Associazione dei Volontari della Nazione) - che a diverso titolo è alle origini dell'associazione internazionale di propaganda dell'induismo Vishva Hindu Parishad (VHP) e del Bharatiya Janata Party (BJP), il partito politico, che dopo una lunga marcia dall'emarginazione al centro della scena politica, apertasi con la partecipazione a governi di coalizione, nel 1998 è diventato il partito di maggioranza relativa in India e ha espresso il primo ministro, Atal Binari Vajpayee - possa essere definita fondamentalista. Queste due realtà (e molte altre) fanno parte del Sangh Parivar, la 'famiglia' di organizzazioni che derivano dall'RSS e ne condividono gli ideali (v. Jaffrelot, 1993; v. Kanungo, 2002; v. Katju, 2003). Il Sangh Parivar propone una difesa intransigente - ancorché attenuata dagli inevitabili compromessi politici, per ragioni interne e internazionali, nell'azione di governo del BJP - dell'identità indù dell'India, con campagne contro i missionari cristiani e musulmani e gesti simbolici come la distruzione da parte della folla, nel 1992, della moschea eretta in epoca moghul ad Ayodhya, il luogo in cui la tradizione indù colloca la nascita di Rama, una delle più popolari incarnazioni di Vishnu.
Si tratta di fondamentalismo? La tesi è stata sostenuta sia nella dialettica politica indiana (dagli avversari del BJP), sia da specialisti come Andreas Schworck (v., 1997), ed è stata vigorosamente rifiutata non solo da alcuni studiosi occidentali che hanno evidenti simpatie per il Sangh Parivar (v. Elst, 2001), ma anche da altri che si interessano del fondamentalismo come idealtipo (v. Mayer, 2001). Al di là di assonanze innegabili con l'idealtipo del fondamentalismo, il problema - per quanto riguarda l'induismo - sembra quello di identificare in modo chiaro quale sia il plesso di principî e dottrine religiose da cui dedurre senza mediazioni una cultura e una politica. L'induismo è un mosaico di principî e di correnti diverse, che la VHP ha tentato di unificare in una sorta di 'Chiesa' induista, senza però riuscire a costruire più di una federazione di gruppi che rimangono diversi e che comunque rappresentano solo una parte del variegato mondo induista. Le parole d'ordine intorno alle quali il Sangh Parivar raduna un numero cospicuo di seguaci fanno riferimento a un'immagine essenziale e mitica dell'induismo quale elemento unificatore della nazione indiana e bastione contro il colonialismo culturale 'straniero' (cioè musulmano e cristiano). Perché questa immagine tenga, occorre ridurre al minimo i dettagli (quindi le possibilità di deduzione diretta di elementi culturali da principî religiosi), così che il riferimento alla religione (senza volerlo necessariamente squalificare come strumentale o posticcio) costruisce più un nazionalismo religioso che non un autentico fondamentalismo.
5. Il fondamentalismo islamico prima e dopo l'11 settembre 2001
a) Il problema delle definizioni
La tragedia dell'11 settembre 2001 e le sue conseguenze hanno riportato all'attenzione generale il problema della terminologia da usare quando si parla di Islam, fondamentalismo e 'radicalismo'. Possiamo chiederci subito se il modello del Fundamentalism project sia adeguato a descrivere una tendenza all'interno dell'Islam. Come nota Mayer, per alcune delle caratteristiche e da un certo punto di vista, il modello del project non descrive tanto una corrente all'interno dell'Islam quanto l'Islam in genere: "I musulmani, in questo senso, sarebbero dunque tutti 'fondamentalisti'!" (v. Mayer, 2001, p. 29). Per esempio, la reazione contro l'emarginazione della religione, l'idea dell'infallibilità delle Sacre Scritture e così via sono caratteristiche su cui - certo con sfumature diverse - quasi tutti i musulmani, in genere, concordano. Negli anni novanta la categoria di fondamentalismo islamico è stata ampiamente costruita - anche tenendo conto del regime al potere in Iran dopo la rivoluzione fondamentalista del 1979 - facendo entrare in gioco un altro elemento, cui il Fundamentalism project non ha dato rilievo primario, pur non ignorandolo: la non distinzione (non solo la non separazione) fra religione e politica, e il desiderio di ristabilire "l'ordine ideale della Città di Dio" (v. Guolo, 1994, p. 22) nella città degli uomini, attraverso la rigorosa applicazione della legge islamica, la sharī᾿a.
In questi termini generalissimi, peraltro, non era ancora facile identificare lo specifico del fondamentalismo all'interno dell'Islam, dal momento che è impossibile rintracciare, immediatamente e negli stessi termini, la distinzione tipicamente occidentale fra religione e politica nella "legge sociale dell'Islam" (v. Cantoni, 2000). Quando si parla dell'Islam, alcuni (talora in esplicita polemica con il Fundamentalism project: v. Burgat, 20022) hanno preferito a fondamentalismo termini diversi come il già citato 'integrismo', o ancora 'islamismo' o 'radicalismo' (quest'ultimo usato da alcuni autori, come vedremo, in un senso più specifico, per indicare una corrente all'interno del fondamentalismo): ma il problema di fondo non cambia.
Sembra, in realtà, che la letteratura degli anni novanta parlasse di fondamentalismo islamico in due sensi diversi. Nel primo senso esso sarebbe un modello di pensiero e di atteggiamento, secondo le categorie del Fundamentalism project interpretate in senso rigoroso e restrittivo (diversamente, tutti o gran parte dei musulmani sarebbero, per le ragioni accennate, fondamentalisti), con una particolare insistenza sulle caratteristiche sociologiche che rimandano a un attivismo militante. Così inteso, il fondamentalismo islamico comprenderebbe una serie di correnti puritane e antimoderne - spesso nella scia della più rigorista delle scuole giuridiche, quella hanbalita fondata da Aḥmad ibn Ḥanbal, come notava nel 1995 Olivier Roy (v., 1995, pp. 29-30) - che si sono manifestate a partire dal XVIII secolo (il wahhabismo, ideologia ufficiale dell'attuale Arabia Saudita), quindi nel XIX (il movimento deobandi), e infine nel XX secolo. A favore dell'uso di questa prima nozione di fondamentalismo islamico depone il fatto che queste correnti oggi spesso collaborano fra loro. In un secondo senso, che sembra prevalere attualmente, l'espressione fondamentalismo islamico designa invece un movimento che ha uno specifico inizio e una precisa evoluzione storica: esso nasce dopo la prima guerra mondiale come reazione alla penetrazione di idee occidentali 'moderne' nel mondo musulmano, cui oppone come antidoto il ritorno al Corano, una certa ostilità all'Occidente e l'applicazione della sharī᾿a contro qualunque tentativo di instaurare nelle terre dell'Islam sistemi giuridici di tipo occidentale. Dopo l'abolizione del califfato nel 1924, il fondamentalismo si presenta anche come 'movimento del califfato' (nome con cui è noto ai suoi albori in India), in quanto propone la restaurazione di questa funzione, con un ruolo non soltanto meramente simbolico. Le date rilevanti sono, da questo punto di vista, il 1928 in Egitto, data della fondazione dei Fratelli Musulmani da parte di Ḥ asan al-Bannā', e il 1941 nel subcontinente indiano, dove Mawlana Sayyid Abū'l-'Alā' Mawdūdī fonda la Gíamā 'at-i Islāmī. Come teorico radicale, Mawdūdī è spesso accostato a Sayyid Quṭ b, esponente dei Fratelli Musulmani giustiziato in Egitto nel 1966.
A complicare il quadro, nella repressione sovietica del movimento indipendentista della Cecenia, nell'attuale Russia e negli Stati ex sovietici dell'Asia centrale, 'wahhabismo' è spesso usato come sinonimo di fondamentalismo; l'uso fa riferimento al fondamentalismo islamico in senso lato o come idealtipo, mentre se s'intende il fondamentalismo come un movimento storico il wahhabismo è un proto-fondamentalismo di tipo conservatore, perché i contatti fra l'Arabia settecentesca e la modernità (contro cui il fondamentalismo in senso stretto è una reazione) rimangono limitati, e oggi non tutti i wahhabiti sostengono il movimento fondamentalista, di cui il wahhabismo ufficiale non condivide lo stile populista e l'avversione alle autorità islamiche costituite (v. Roy, 1995, pp. 30-32). Quanto a 'salafita' (da salaf, i 'pii antenati' cui si deve ritornare), il termine - oggi a sua volta talora presentato come sinonimo di fondamentalista - più che a fondamentalismo equivale in via analogica all'espressione 'movimento di risveglio' in ambito protestante. I wahhabiti si autodefiniscono 'salafiti', ma si tratta - come ricorda François Burgat (v., 1988) - di una Salafiyya, non certo dell'unica. Lo stesso termine indica nel secolo XIX il risveglio islamico che mira a risollevare l'Islam dallo stato di decadenza in cui si trovava. In realtà, da questo risveglio salafita guidato da figure come Gíamāl al-Dīn al-Āfghānī e Muḥammad 'Abduh si alimentano nel secolo XX e XXI filoni diversi, in parte effettivamente fondamentalisti (che leggono la Salafiyya ottocentesca nell'interpretazione del suo tardo esponente Rashīd Riḍā'), in parte invece modernisti, giacché il programma di 'modernizzare l'Islam' e 'islamizzare la modernità' non manca di una certa ambiguità.
b) Le due branche del fondamentalismo islamico
In una serie di scritti degli anni novanta, citati spesso anche al di fuori del nostro paese, il sociologo italiano Renzo Guolo (v., 1994 e 1999) - che utilizza il termine fondamentalismo riferendosi il più delle volte a un movimento storico anziché a un idealtipo - ha esaminato l'evoluzione del fondamentalismo islamico (ma il sociologo di Padova preferisce parlare di islamismo, considerando la parola fondamentalismo troppo legata al protestantesimo) individuando, nel suo divenire nel corso del XX secolo, una divisione in due branche. Divisione, precisa Guolo, e non "rottura poiché il fine, la reislamizzazione della società, è comune": ma divisione reale fra un'ala "radicale" e una "neotradizionalista" (v. Guolo, 1994, p. 120). Se il fine ultimo, infatti, è lo stesso, diverse sono le strategie attraverso cui è perseguito. Per l'ala radicale si tratta di una 'islamizzazione dall'alto', cioè di acquisire subito la titolarità del potere politico: nella maggior parte dei paesi, tramite una rivoluzione o un colpo di Stato, considerando irrecuperabili alla causa le autorità costituite, mentre in altri non è esclusa la partecipazione a elezioni. Per l'ala che Guolo chiama "neotradizionalista" si tratta invece di una 'islamizzazione dal basso' che - prima di affrontare qualunque ipotesi di conquista della titolarità del potere - ritiene necessaria una paziente opera di nuova diffusione della cultura islamica tramite una fitta rete di moschee e la penetrazione delle idee fondamentaliste sia fra studenti e intellettuali, sia nel mondo del lavoro e delle professioni, secondo modelli che si sarebbe tentati di paragonare alla strategia dell'egemonia teorizzata da Antonio Gramsci.
Naturalmente il fatto che il fine ultimo sia comune porta a non esagerare la profondità delle divisioni fra le due branche, che in diversi paesi possono allearsi per il raggiungimento di obiettivi comuni, così come gruppi neotradizionalisti e radicali possono coesistere nell'ambito di una stessa organizzazione, come avviene attualmente tra i Fratelli Musulmani. Se in Giordania, dove dal 1991 i Fratelli partecipano al governo, "la loro rivendicazione 'islamista' - come nota Edgard Weber (v., 2001, p. 176) - è naturalmente moderata dal pragmatismo e dall'elasticità che la responsabilità di governo e la partecipazione al potere esigono", in altri paesi le cose non stanno affatto così: per esempio, il movimento palestinese Ḥamās, tutt'altro che 'moderato', nasce come una branca palestinese dei Fratelli Musulmani (v. Introvigne, 2003). Tutto questo non fa venire meno l'utilità della distinzione fra neotradizionalisti e radicali, ma mostra come la sua applicazione così nei paesi islamici come nelle terre di emigrazione non sia sempre facile e immediata.
Quanto alla corrente radicale, che sostiene l'islamizzazione dall'alto, da un certo punto di vista si potrebbe ritenere che il suo trionfo sia stato rappresentato dal successo nel 1979 della rivoluzione islamica in Iran guidata dall'ayatollah Ruḥollah Khomeini, e che quanto è avvenuto negli anni novanta in paesi come il Sudan e l'Afghanistan sia stato una sorta di appendice al grande evento rivoluzionario iraniano. In realtà, tuttavia, la corrente radicale non considera unanimemente l'Iran khomeinista come un modello, sia per i suoi relativi insuccessi in politica interna ed estera, sia per il fatto che molti radicali, sunniti, sono tradizionalmente sospettosi nei confronti dell'Islam sciita, di cui la Repubblica Islamica dell'Iran rappresenta oggi non solo un'espressione, ma una guida internazionale. Peraltro, nel mondo del fondamentalismo islamico, le divergenze teologiche e ideologiche s'incontrano spesso con problemi politici squisitamente nazionali e regionali, determinando rotture fra gruppi che sembrerebbero dottrinalmente affini e, nello stesso tempo, strane alleanze che potrebbero apparire concettualmente impossibili.
c) Fondamentalismo, millenarismo, mahdismo
Coerentemente con il modello del Fundamentalism project, il fondamentalismo islamico, soprattutto a partire dagli anni novanta, recupera il millenarismo e ne fa una concreta guida per l'azione. Nell'Islam i riferimenti apocalittici - che non mancano - raramente (almeno fino a tempi recenti) sono stati applicati alla lettura di eventi del presente e a profezie concrete e 'politiche' per il futuro. Ma tutto questo è avvenuto finché l'apocalittica islamica è rimasta monopolio dei dotti, mentre il populismo fondamentalista ne ha, per così dire, aperto l'accesso alle masse musulmane. Nel mondo rigorosamente diviso in 'noi' e 'loro' dei fondamentalisti, il nemico appare come satanico e collegato all'Anticristo dei tempi ultimi (Dagígíāl nella tradizione islamica). Il sogno del califfato si confonde con le profezie messianiche sulla figura del Mahdī, il condottiero che sconfiggerà l'Anticristo.
Nonostante la disapprovazione di diverse autorità che in qualche modo rappresentano l'ortodossia islamica, questa letteratura millenarista ha avuto un notevole successo tra le masse arabe e ha costretto i suoi critici a prenderla in qualche modo in considerazione, non solo attraverso le condanne di teologi (legati in genere all'Università al-Azhar del Cairo, dove peraltro alcuni degli autori di testi apocalittici hanno studiato), ma anche con la nascita in Egitto di una scuola di 'neo-conservatori' che trattano gli stessi temi ma vorrebbero farlo in un modo rigorosamente islamico, senza utilizzare fonti protestanti o esoteriche occidentali. Naturalmente, altro è descrivere scenari di fantapolitica religiosa più o meno romanzati, altro è organizzare attentati. Tuttavia, la popolarità di questa letteratura millenarista (che - a differenza della stragrande maggioranza di quella fondamentalista protestante - è intrinsecamente violenta) aiuta a capire alcuni riferimenti di Osama bin Laden (Usāma Ibn Lādin) altrimenti incomprensibili, e contribuisce alla creazione, all'interno del mondo fondamentalista radicale, di un clima in cui la prospettiva terroristica può trovare simpatizzanti e seguaci.
Negli scritti di Osama bin Laden e del suo movimento al-Qā'ida (v. Introvigne, 2001), la prospettiva del millenarismo rivoluzionario diventa anche giustificazione del terrorismo: in tempi ultimi e apocalittici le tradizionali regole islamiche, che precisano quali atti di guerra siano leciti e quali no, non valgono più. Sarebbe peraltro sbagliato ritenere che il fondamentalismo ultraradicale di bin Laden si basi esclusivamente sulla letteratura apocalittica 'popolare' (dove l'aggettivo si riferisce al destinatario, non agli autori, che spesso hanno qualifiche accademiche). L'altro perno del suo millenarismo rivoluzionario è costituito da un'interpretazione del Corano che - pur criticata dalle autorità religiose più qualificate e considerata filologicamente scorretta da molti studiosi occidentali (contro i quali è fiorito, peraltro, un intero genere letterario di lingua araba, che deride le loro pretese di insegnare ai musulmani come leggere il testo coranico) - ha una lunga tradizione 'colta', e non solo popolare. Negli scritti di bin Laden sono frequenti i riferimenti a Taqī al-Dīn Ibn Taymiyya, un giurista di scuola hanbalita del XIV secolo morto in carcere a causa delle sue idee estremiste e considerato autorevole in Arabia Saudita.
Una tecnica non espressamente richiamata da bin Laden, ma usata da maestri che egli considera autorevoli - come Muḥammad 'Abd al-Salām Faragí, giustiziato nel 1982 come ispiratore dell'assassinio del presidente egiziano Anwār al-Sādāt - consiste nel dare rilievo alla nozione di versetti 'abrogati' e 'abroganti' (secondo cui rivelazioni cronologicamente successive potrebbero 'sostituire' rivelazioni precedenti). Si tratta di una nozione non unanimemente accolta dagli esegeti coranici, ma che ha una lunga tradizione. Nel fondamentalismo radicale e apocalittico questa è una delle strategie interpretative che permettono di togliere vigore ai passaggi coranici che condannano l'uccisione di civili, donne e bambini compresi.
Certamente occorre uno sforzo per interpretare sistematicamente le fonti nel modo più rigorista possibile arrivando a concludere (nella fatwā del 23 febbraio 1998 sottoscritta da bin Laden e dai suoi alleati) che non è solo lecito, ma anche doveroso uccidere civili statunitensi dovunque sia possibile farlo. Tale fatwā, peraltro, è stata sottoscritta non solo da bin Laden, ma anche da dirigenti che - diversamente da lui - possono vantare qualche credenziale come studiosi del Corano. Il millenarismo rivoluzionario di bin Laden e del suo movimento, così, conferma di essere un'interpretazione delle fonti tradizionali islamiche discutibile dal punto di vista filologico e che, a diversi snodi interpretativi, deve compiere scelte minoritarie fra gli stessi autori classici che il fondatore di al-Qā'ida cita. Esso si ricollega, tuttavia, a una corrente la cui importanza è tutt'altro che irrilevante negli stessi ambienti fondamentalisti, e che oggi può esercitare un certo fascino fra le masse islamiche grazie anche all'influenza di una letteratura popolare che ruota intorno al tema dell'Anticristo.
D'altro canto, gli attentati terroristici di Osama bin Laden sono stati condannati dalla maggioranza degli esponenti neotradizionalisti più noti; anche presso i fondamentalisti radicali il consenso non è unanime. Non tutti i fondamentalisti islamici sono terroristi, e non tutti i terroristi riconoscono la leadership di bin Laden.
d) Fondamentalismo, tradizionalismo, nazionalismo
Non solo non tutti i fondamentalisti sono terroristi, ma non tutti i musulmani sono fondamentalisti. In generale, si può affermare che quattro correnti vanno distinte dal fondamentalismo (stricto sensu), all'interno del complesso mondo islamico contemporaneo: l'Islam conservatore, i nazionalismi islamici, alcune correnti sufi e infine il modernismo islamico. Naturalmente, anche queste correnti sono a loro volta tipi ideali, costruzioni orientate a risultati cognitivi che tentano di rappresentare e ridurre a unità una realtà ben altrimenti complessa.
Il mondo islamico tradizionalista (il cui esempio più evidente è costituito dal regime wahhabita dell'Arabia Saudita) è stato, e rimane, uno degli obiettivi critici della corrente fondamentalista, anche se non mancano momenti di collaborazione e se il fondamentalismo condivide con i conservatori un'interpretazione rigorista dell'Islam e il desiderio di preservarlo da influenze occidentali corruttrici. Per i tradizionalisti - eredi di una lunga tradizione all'interno dell'Islam - si deve obbedienza al potere politico islamico, da chiunque detenuto, e la rivoluzione contro le autorità costituite, sempre foriera di disordine, è lecita soltanto in casi estremi. La custodia dell'atteggiamento tradizionalista è affidata agli 'ulamā', i 'dotti', che in questo senso agiscono come classici professionisti del sacro, affermandosi - anche in una religione senza clero come l'Islam sunnita - quali detentori di un sapere superiore a quello della massa dei fedeli. In molti paesi il sistema degli 'ulamā' è controllato dallo Stato, il che rafforza la loro tendenza a porsi come guardiani e sostenitori dell'ordine costituito.
Più violento di quello con i tradizionalisti è stato - storicamente - il conflitto fra i fondamentalisti e i nazionalisti, esponenti di quei movimenti che, non di rado ispirandosi anche a idee occidentali (in particolare socialiste), si sono proposti nel corso del secolo XX di costruire in terra islamica moderni Stati-nazione. La critica fondamentalista colpisce nel segno quando ricorda che il Corano non conosce nazioni ma solo l'umma, la comunità universale dei credenti in Dio. Per questo i nazionalismi di area islamica - pur presentandosi spesso come 'islamo-nazionalismi' e affermando che la rispettiva identità nazionale è vera e valida solo in quanto si radica nell'Islam - devono sottoporre la vita politica a un certo processo di laicizzazione. Non infrequenti sono l'adozione di sistemi legislativi che non coincidono con la sharī'a, la concessione di diritti (più o meno parziali) ai non musulmani e anche l'ascesa di cristiani a importanti cariche di governo. Non a caso, uno dei fondatori del partito Ba'th (o del 'rinascimento arabo'), fondato nel 1940 a Damasco e che si situa fra l'altro alle origini dei regimi di Ḥāfiẓ al-Asad in Siria e di Ṣaddām Ḥusain in Iraq, è il cristiano ortodosso - e socialista - Michel 'Aflāq, che peraltro (ma la questione è controversa) si sarebbe convertito all'Islam in Iraq prima della morte.
Il nazionalismo islamico varia a seconda delle sue incarnazioni nazionali - dall'Algeria all'Indonesia, dall'Egitto alla Tunisia - ma il conflitto sia con i fondamentalisti neotradizionalisti sia con quelli radicali è stato spesso duro e sanguinoso, come mostra in tutta la sua tragica evidenza l'assassinio del presidente egiziano Sādāt da parte di fondamentalisti radicali nel 1981. D'altro canto, anche di fronte a nemici comuni, i nazionalisti riescono di rado a mobilitare i fondamentalisti, come dimostra il sostanziale insuccesso dell'appello del nazionalista Ṣaddām Ḥusain affinché i movimenti fondamentalisti internazionali intervenissero in armi a salvare il suo regime in occasione dell'intervento militare anglo-americano del 2003.
Non è certamente questa la sede per un esame del sufismo, che rappresenta il cosiddetto 'Islam delle confraternite' in quanto distinto dall''Islam degli Stati' (tradizionalista o nazionalista) e (in certi paesi) dal cosiddetto 'Islam delle moschee' (inteso come rete di moschee autonome, dove può diffondersi il fondamentalismo). Esiste un 'sufismo politico'? L'interrogativo è stato posto soprattutto quando le confraternite sufi sono diventate l'anima della resistenza antisovietica nell'Asia centrale, per poi innervare - in competizione, ovvero in concorso, con residui del potere comunista precedente - la classe dirigente di molte repubbliche post-sovietiche nella stessa area. Il mondo delle confraternite sufi non è - evidentemente - unitario, né è caratterizzato da un unico atteggiamento nei confronti del rapporto fra Islam, politica, modernità e cultura, così che non mancano membri di confraternite che hanno partecipato e partecipano al movimento fondamentalista. D'altro canto, non è meno vero che il sufismo in genere privilegia l'aspetto interiore dello sforzo (gíihād) sulla via di Dio e diffida di chi cerca il proprio autoperfezionamento 'all'esterno', lungo le vie della lotta e della conquista politica. I teorici del fondamentalismo sono a loro volta tradizionalmente ostili al sufismo, sia perché lo considerano come un'innovazione rispetto al messaggio coranico dei primi secoli (una critica che mutuano dal wahhabismo), sia perché gli rimproverano quella che definiscono la sua apoliticità, una presunta passività di fronte alla prevaricazione delle autorità politiche e al colonialismo e neocolonialismo occidentali. Questo non toglie che vi siano esponenti del fondamentalismo che rivendicano con orgoglio la loro appartenenza alle confraternite sufi, come il marocchino 'Abd al-Salām Yāsīn, il quale ci ricorda che il fondatore dei Fratelli Musulmani, Ḥasan al-Bannā', era sufi, il che dimostra che non tutto il sufismo è un ripiegamento sul terreno spirituale senza più occuparsi del mondo, contrariamente alla critica più comune dei fondamentalisti contemporanei alle confraternite.
Rimarrebbe da considerare l'opposizione al fondamentalismo del modernismo islamico, categoria a sua volta tutt'altro che facile da identificare. Per alcuni il modernismo islamico ha alle sue origini l'ala del risveglio salafita del XIX secolo rappresentata da Muḥammad 'Abduh, la quale cercava d'introdurre nell'Islam quelli che considerava i frutti migliori della modernità occidentale. Ma dal momento che anche i fondamentalisti utilizzano selettivamente la modernità (pur condannandone i principî e la filosofia), si è già visto come il movimento salafita del XIX secolo possa essere considerato un antenato sia del modernismo sia del fondamentalismo e appaia come una corrente tipicamente riformista.
Nel XX secolo sono stati chiamati 'modernisti' quei pensatori e uomini politici islamici che hanno ritenuto di poter introdurre nell'Islam una distinzione fra religione e politica e una certa secolarizzazione dello Stato. In questo senso, modernista è talora definito il sistema politico instaurato in Turchia da Kemāl Atatürk. A prescindere dalle difficoltà oggi incontrate dagli stessi eredi di Atatürk in Turchia, certificate dalla vittoria di un partito di origine fondamentalista nelle elezioni politiche del 2002, in molte altre aree geografiche sono certamente presenti intellettuali modernisti e occidentalisti. È dubbio, peraltro, che essi possano essere considerati dall'Occidente un interlocutore privilegiato. Infatti, se la loro disponibilità al dialogo è certamente massima, la loro rappresentatività nei confronti della maggioranza dei musulmani sembra invece minima. Le profezie secondo cui l'Islam - di fronte all'avvento delle tecnologie moderne, della televisione, di Internet - si sarebbe rapidamente occidentalizzato e secolarizzato non hanno finora trovato conferma. Piuttosto, Internet è stato ampiamente utilizzato da fondamentalisti ed estremisti di ogni genere. Non è del tutto impossibile che nelle terre di emigrazione la maggioranza dei musulmani, che non frequenta le moschee e i centri islamici, sia esposta a una lenta influenza secolarizzatrice e che lo stesso avvenga in paesi dove prevalgono classi dirigenti di tipo tradizionalista moderato o nazionalista. Sui tempi e sugli effetti mancano però dati statistici sicuri e studi convincenti.
e) La tesi del declino del fondamentalismo e la ' sindrome di Voltaire'
La politica occidentale nei confronti dei paesi dove è presente un forte movimento fondamentalista islamico è stata spesso quella di sostenere classi dirigenti che si presentavano come 'nazionaliste' e 'laiche', delegando loro il compito di disinnescare, con le buone o con le cattive, la minaccia costituita dai fondamentalisti. Questa politica ha assicurato a regimi dalle scarsissime credenziali democratiche - dall'Africa del Nord all'Iraq di Ṣaddām Ḥusain (che fu a suo tempo sostenuto come argine all'espansione verso ovest del fondamentalismo iraniano) - un certo sostegno da parte dell'Occidente. A partire dagli anni novanta questa politica, frutto di una 'sindrome di Voltaire' che portava talora a considerare il peggior interlocutore laico preferibile al migliore interlocutore fondamentalista, è entrata in crisi. Da una parte, il sostegno ai regimi chiamati in Francia (con riferimento soprattutto all'Algeria e alla Tunisia) éradicateurs, cioè 'sradicatori' dei fondamentalisti, ha comportato per le democrazie occidentali un forte costo in termini di immagine, dal momento che l'operazione di sradicamento è spesso avvenuta con scarso riguardo per i diritti umani (v. Burgat, 20022). Dall'altra, si è dovuto constatare che lo sradicamento non riesce e che la presenza fondamentalista rimane forte nonostante la repressione.
Per la verità, alcuni studiosi francesi (v. Roy, 1992; v. Kepel, 1995) hanno parlato negli anni novanta di un declino di quello che qui chiamiamo 'fondamentalismo islamico', e che essi preferiscono chiamare 'Islam politico' o 'islamismo'. Il fondamentalismo, secondo questi autori, sarebbe stato costretto a ricollocare la sua azione nell'ambito dello Stato-nazione, a declinare la sharī'a secondo il lessico della modernità a proposito di diversi temi importanti, a emarginare le sue correnti radicali dal centro della scena fondamentalista: e tutto questo dopo avere preso coscienza che, nonostante decenni di sforzi, gli scopi originari non erano stati conseguiti. Di più: secondo Olivier Roy, i fondamentalisti si sono proposti negli anni come una dirigenza religiosa separata dall'autorità politica; paradossalmente, il loro stesso successo in questo progetto ha inserito nella dialettica dei paesi dove operano un principio di separazione fra classe dirigente politica e classe dirigente religiosa che nega alla radice le premesse ideologiche del fondamentalismo.
L'idea del declino del fondamentalismo islamico, che secondo Roy e Kepel starebbe lasciando il posto a un 'post-islamismo' (o 'post-fondamentalismo'), è stata vigorosamente contestata da Burgat (v., 20022, p. 284) e dai suoi collaboratori. Secondo questi ultimi, non ci sono dei 'nuovi fondamentalisti', ma solo dei 'nuovi politologi' che li studiano con categorie diverse. Per ragioni politiche, studiosi come Kepel e Roy si erano concentrati sul fondamentalismo radicale, ignorando la corrente neotradizionalista che in realtà era già da decenni maggioritaria e presentava tutte le caratteristiche che oggi si attribuiscono al 'post-fondamentalismo'. "Gli uomini e le donne - scrive Burgat (ibid., p. 286) - che oggi ci sono presentati come attori sociali che 'non meritano più la qualifica di islamisti' assomigliano stranamente a coloro che altri autori hanno descritto da lunga data come espressioni assolutamente tipiche del fenomeno", così che, più che di declino del fondamentalismo, si dovrebbe parlare di declino della scienza politica che lo studia. Naturalmente, la tesi del declino è diventata un po' meno popolare sui mezzi di comunicazione di massa dopo l'11 settembre 2001, anche se Kepel ha sostenuto che i colpi di coda del fondamentalismo radicale confermano precisamente la sua disperazione e la sua crisi. Lo stesso Burgat, che attira giustamente l'attenzione sulla grande varietà di atteggiamenti - non solo sulla questione del terrorismo - evidente all'interno del mondo islamico comunemente definito fondamentalista, forse in parte sottovaluta le dimensioni della componente radicale e, all'interno di questa, del terrorismo, che rimangono cospicue. Peraltro, è difficile non condividere le osservazioni di Burgat quando (certo con accenti fortemente polemici) sottolinea lo scacco di una scienza politica che ha suggerito ai governi occidentali di puntare esclusivamente sull'alleanza con regimi laicisti ed éradicateurs.
Negli ultimi anni si assiste a una crescente presa di coscienza di questo scacco da parte di politologi e di governi occidentali. Al sostegno a regimi militari che promettono la laicizzazione forzata si è così sostituita, soprattutto nell'impostazione di consulenti accademici del governo degli Stati Uniti, la cauta ricerca di chi rappresenta nel mondo islamico una posizione intermedia fra laicismo e fondamentalismo: una laicità aperta alla religione che mantenga un radicamento nell'identità islamica ma si distingua dal fondamentalismo, insomma, l'"equivalente islamico delle Democrazie Cristiane europee" secondo una battuta più volte citata del primo ministro turco Recep Tayyip Erdogían. Ci si chiede però da dove possa emergere una tale posizione, relativamente nuova nel mondo islamico. Dall'itinerario personale di laicisti che riscoprono la religione, si risponde talora; e i casi non mancano, dalla Tunisia all'Egitto, dove però questi intellettuali hanno avuto un successo politico solo raccordandosi al preesistente fondamentalismo. Dall'esperienza dell'Islam in terra d'emigrazione in Europa, secondo quanto già avviene negli Stati Uniti, affermano altri; una speranza, in effetti, che richiede però lunghi tempi di maturazione. Né si può escludere che una posizione di questo tipo emerga paradossalmente proprio dallo stesso grande ambito dei movimenti fondamentalisti, sempre più diversificati fra loro. Per alcuni di loro, la legge islamica, la sharī'a, deve essere applicata letteralmente a tutti i problemi che richiedono una soluzione giuridica; per altri, la sharī'a è un semplice orizzonte o punto di riferimento ideale. Il cammino è lungo, e si deve certamente tenere conto delle differenze fra paesi di eredità turca, indiana, indonesiana, africana, araba. Ma, almeno negli Stati Uniti, molti politologi suggeriscono il tentativo di aprire un dialogo - il che non significa accedere immediatamente a tutte le loro richieste e proposte - con forze politiche che emergono dal variegato mondo fondamentalista e che dichiarano di volersi avviare, pur rifiutando il laicismo, sulla strada di una certa laicità (come dicono di essere quelle che le elezioni del 2002 hanno portato al potere in Turchia o, per altri versi, certi esponenti dell'ala detta riformista del mondo politico iraniano). Lo stesso Stato di Israele sembra mantenere prudenti e discreti contatti con esponenti del mondo fondamentalista palestinese, ormai così ampio sia da renderne difficile la semplice eliminazione per via militare, sia da essere diviso in fazioni e correnti diverse anche sul piano dottrinale. La strada è irta di ostacoli: ma sembra fra le poche percorribili per un dialogo fra civiltà che non può ridursi a conciliabolo di intellettuali e che, se vuole ottenere frutti di pace, non può non estendersi a chi veramente rappresenta porzioni importanti delle società civili nei paesi a maggioranza islamica.
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