Fondamentalismo
Denominazione sorta in ambito cristiano negli Stati Uniti agli inizi del 20° secolo per indicare le correnti protestanti dichiaratamente ostili al mondo moderno in nome dei cosiddetti fondamenti (fundamentals) della fede, in particolare di quelli biblici interpretati con stretta adesione alla lettera del testo. La denominazione è stata estesa poi alle due altre religioni monoteiste, ebraica e musulmana, per indicare genericamente i movimenti, dapprima religiosi e culturali, poi anche sociali e politici, d'opposizione radicale al mondo moderno, opposizione spesso rivolta anche agli adattamenti agli usi e costumi odierni intrapresi da correnti opposte (e in genere prevalenti), soprattutto in ambito cristiano ed ebraico, all'interno delle stesse religioni. È opportuno osservare che il f. va distinto dal fenomeno che si suole definire integralismo (o anche, meno propriamente, integrismo), con il quale invece è nell'uso comune assimilato e che definisce piuttosto l'applicazione integrale, in ogni ambito di vita, dei principi desunti da una religione o da un'ideologia. Per quanto riguarda il f. islamico (fr. islamisme), un primo ampio panorama è già nella voce islamismo dell'App. V (ii, p. 783). *
Fondamentalismo cristiano
di Francesco Scorza Barcellona
Movimento teologico e culturale sorto tra la fine del sec. 19° e gli inizi del 20° all'interno del protestantesimo statunitense come reazione alla teologia liberale, alle teorie evoluzionistiche e soprattutto ai nuovi metodi introdotti nella critica biblica. Il f. ha le sue radici immediate nel più vasto movimento dell'evangelicalismo, espressione del 'grande Risveglio' del sec. 19° che era centrato sull'autorità della Bibbia, sull'idea della salvezza possibile solo attraverso una 'nuova nascita' e la fede nell'opera redentrice del Cristo, su un'intensa vita spirituale contrassegnata da una rigorosa condotta morale, dalla lettura della Bibbia, dalla preghiera e dallo zelo missionario.
Il f. combina la difesa dei più tradizionali principi dell'evangelismo dei riformatori del sec. 16°, quali l'autorità assoluta della Scrittura e la necessità della fede personale in Cristo, con alcune innovazioni dell'evangelicalismo revivalista del sec. 19°. Tra queste il cosiddetto dispensazionalismo, cioè quel complesso sistema di interpretazione biblica che, partendo dal principio che la Scrittura deve essere interpretata letteralmente dove è possibile, sostiene che le profezie bibliche debbano riferirsi a eventi reali e, ricollegandosi alle speculazioni sulla settimana cosmica e sul millenarismo apocalittico dei primi secoli cristiani, ma anche alla tradizione del gioachimismo medievale, arriva a delineare una storia del genere umano suddivisa in sette dispensazioni o ere, caratterizzate ognuna da una diversa economia di rapporti tra l'uomo e Dio. L'ultima dispensazione è il millennio, preceduto dal ritorno di Gesù, venuto a sottrarre al mondo i suoi fedeli, quindi da un periodo di sette anni di guerre tra quanti sono rimasti sulla terra, coronato dalla vittoria di Cristo, dalla conversione degli ebrei e dall'instaurazione del regno millenario di Gesù a Gerusalemme, prima del giudizio universale.
Il movimento, che ancora non aveva assunto la denominazione di f., si riconobbe nelle riunioni annuali delle Niagara Biblical Conferences. In occasione della prima di esse, nel 1878, fu formulato il cosiddetto Niagara creed, consistente in una serie di articoli di fede che costituiranno in futuro la base ideologica del movimento: essi riguardavano l'ispirazione divina della Scrittura estesa a tutte le sue parti e alle singole parole da essa utilizzate, la Trinità, la vera divinità del Cristo, la sua nascita verginale, la redenzione attraverso il suo sangue, la sua risurrezione corporea, il suo atteso ritorno, sempre corporeo, su questa terra per edificare il regno di Dio. Nel 1880 Dw. L. Moody (1837-99), esponente dell'evangelicalismo americano, promosse le Northfield Conferences e diede poi origine alla fondazione dei Bible Institutes per una formazione dei giovani nelle scienze bibliche rigidamente centrata sul principio dell'ispirazione divina e dell'inerranza della Scrittura, in contrapposizione alla tendenza di questi stessi studi nelle università. Nel 1910 ebbe inizio a opera di L. e M. Stewart la serie intitolata The fundamentals: a testimony to the truth, in cui fino al 1915 apparvero dodici fascicoli, per un totale di novanta contributi di teologi ed ecclesiastici conservatori europei e statunitensi, su temi ritenuti fondamentali e irrinunciabili, che si ricollegavano allo spirito e agli articoli del Niagara creed. Nel 1919 fu fondata a Philadelphia la World's Christian Fundamentals Association, ispirata da W.B. Riley, che ebbe breve durata. Le sopravvisse tuttavia il movimento che continuò a chiamarsi fondamentalista, con la ripresa del titolo della serie di fascicoli (già introdotto nel nome dell'associazione del 1919). L'accettazione dei principi esposti nei Fundamentals fu del resto sin da allora riconosciuta come il criterio per identificare gli aderenti al movimento.
Negli anni Venti i fondamentalisti cominciarono l'offensiva contro la modernizzazione nella Chiesa e nella società, giungendo a sensibilizzare il pubblico e a provocare gravi scissioni all'interno di vari gruppi protestanti. I fondamentalisti s'impegnarono particolarmente nel campo dell'insegnamento nella scuola pubblica, combattendo le teorie dell'evoluzionismo, in cui vedevano la negazione della dottrina biblica della creazione dell'uomo a immagine e somiglianza di Dio, e in questa battaglia culturale riuscirono a ottenere in alcuni Stati del Sud la promulgazione di precise leggi contro l'insegnamento dell'evoluzionismo, che nel 1925 a Dayton (Tennessee) portarono alla condanna dell'insegnante di biologia J.T. Scopes in quello che è conosciuto come il 'processo delle scimmie'. Tuttavia questo processo, nel quale intervenne anche l'allora leader del movimento W.J. Bryan (1860-1925) per sostenere l'autenticità dei miracoli biblici, segnò un momento d'arresto nel tentativo dei fondamentalisti di arrivare a dominare la cultura degli USA. Nel frattempo tuttavia il f. si era diffuso in Canada e, in misura minore, in Gran Bretagna. Negli USA tra il 1925 e il 1945 il f. si organizzò in denominazioni ecclesiastiche secondarie, pur se molti dei suoi seguaci restarono in quelle maggiori. Espressioni del f. di questo periodo sono il Moody Bible Institute di Chicago e il Bible Institute di Los Angeles, oltre un'intensa attività di conferenze, pubblicazioni e trasmissioni radiofoniche. È questa l'epoca di convergenze ma anche di tensioni tra il f. e l'evangelicalismo statunitense: l'American Council of Christian Churches, di tendenza separatista, fu fondato nel 1941 dal fondamentalista C. McIntire, mentre l'anno seguente nasceva la National Association of Evangelicals (NAE), che includeva anche pentecostali e membri di altre denominazioni protestanti (anche delle maggiori), caratterizzata dall'accento posto su un evangelicalismo positivo che spesso attenuava gli aspetti più militanti e millenaristici del fondamentalismo.
Dopo la Seconda guerra mondiale si affermò la tendenza moderata sotto il nome di 'neoevangelicalismo', che ebbe il suo centro propulsore nel Fuller Theological Seminary di Pasadena, e si espresse dal 1956 nel periodico Christianity today. Quando un esponente rappresentativo del movimento, il predicatore B. Graham, nel 1957 si alleò con i leader di alcune Chiese noti per i loro atteggiamenti più liberali, questi fu duramente condannato dai fondamentalisti più stretti quali B. Jones sr. (1883-1968), fondatore della Bob Jones University, e J.R. Rice (1895-1968), editore del periodico Sword of the Lord. I seguaci del neoevangelicalismo si distinsero allora dai fondamentalisti, preferendo tornare alla denominazione di evangelicals: invece in Gran Bretagna, raggiunta da una missione dello stesso Graham nel 1954, i neoevangelicalisti continuarono a chiamarsi fondamentalisti, ingenerando una confusione terminologica che non aveva più ragion d'essere negli USA (dove ormai la distinzione tra evangelicals e fondamentalisti in senso stretto era in atto), anche se il f. è un fenomeno più ampio che, pur avendo prodotto movimenti e denominazioni specifiche, ha raggiunto le maggiori denominazioni ecclesiastiche (Assemblee di Dio, battisti, episcopali, metodisti, presbiteriani), e se l'una o l'altra delle denominazioni tipiche dell'evangelicalismo può avere assunto idee o atteggiamenti propri del fondamentalismo.
Nei decenni successivi alla Seconda guerra mondiale non si registrò un'attività politica del movimento, anche se alcuni dei suoi rappresentanti, quali C. McIntire e B. James, si segnalarono nelle campagne anticomuniste dell'epoca della guerra fredda. I fondamentalisti assunsero quindi un ruolo importante con la formazione nel 1979, a opera del pastore J. Falwell, del movimento della Moral majority, che tra i suoi obiettivi si poneva quello di difendere i valori tradizionali degli Stati Uniti compromessi, secondo gli aderenti al movimento, dall'evoluzione della società e della cultura: in particolare il movimento sostenne posizioni molto conservatrici relativamente alla concezione della famiglia, al ruolo della donna nell'ambito della società e all'etica sessuale. Nel 1980 i fondamentalisti s'impegnarono in una campagna, appoggiata dai predicatori televisivi, a favore del candidato presidenziale R. Reagan. I principali gruppi fondamentalisti negli USA sono la Baptist Bible Fellowship, la First Baptist di Hammond (Indiana), la Lee Roberson's Highland Park Baptist Church di Chattanooga (Tennessee), la Jerry Falwell's Thomas Road Baptist Church di Lynchburg (Virginia), tutte più o meno strutturate con chiese, scuole, pubblicazioni, trasmissioni radiofoniche e televisive, attività missionarie e servizi specializzati.
Ma il f. non è ristretto al solo ambito statunitense: esso ha registrato un'ampia diffusione dapprima nel mondo di lingua inglese, raggiungendo poi il resto dell'Europa (in Germania ha dato vita negli anni Settanta al movimento Kein anderes Evangelium), la Repubblica Sudafricana (dove l'apartheid è stata giustificata sul piano teologico con posizioni fondamentaliste) e altre terre di missione del protestantesimo statunitense, come l'America Latina. Secondo alcuni si potrebbe considerare espressione del f. anche il movimento oltranzista protestante dell'Irlanda del Nord (guidato dal pastore I. Paisley, noto fondamentalista legato a esponenti del f. statunitense), in cui il protestantesimo conservatore va di pari passo con un violento anticattolicesimo politico.
Se il f. condivide vari aspetti dell'evangelicalismo, esso si caratterizza per suoi atteggiamenti peculiari, come la condanna del liberalismo teologico e la tendenza al separatismo, anche rispetto a gruppi e movimenti come i neoevangelicalisti, i pentecostali e i carismatici, o addirittura rispetto a fondamentalisti che non siano ritenuti tali in senso stretto. La polemica dei fondamentalisti si estende al movimento ecumenico, e quindi al Consiglio ecumenico delle chiese (CEC) che, dopo il secondo conflitto mondiale, se ne è reso promotore: non a caso, la settimana immediatamente precedente alla prima assemblea del CEC, nel 1948, il fondamentalista American Council of Christian Churches promosse l'istituzione dell'International Council of Christian Churches allo scopo di opporsi alle posizioni del CEC ritenute moderniste, filocomuniste, pacifiste e filocattoliche.
Nei confronti della Bibbia, anche se la dottrina dell'inerranza riguarda i testi in lingua originale, alcuni fondamentalisti più radicali hanno difeso il valore assoluto della traduzione inglese del 1611 nota come King James version, soprattutto contro la Revised standard version apparsa tra il 1946 e il 1952, considerata il prodotto di un complotto liberal-comunista. Il tradizionale dispensazionalismo, che in ogni caso non si può considerare appannaggio esclusivo del f., ha avuto una ripresa negli anni Settanta grazie alla popolarità del volume di H. Lindsey, The late great planet earth (1970). Il dispensazionalismo spiega anche le simpatie dei fondamentalisti (come di altri evangelicals che ne condividono i principi) nei confronti dello Stato di Israele, la cui esistenza è considerata uno dei compimenti delle profezie bibliche. La crociata antievoluzionista ha poi avuto un seguito con l'impegno della Moral majority, che è riuscita a ottenere in alcuni Stati degli USA l'introduzione dell'insegnamento di una 'scienza della creazione', d'ispirazione fondamentalista, secondo cui l'età della terra non è superiore a diecimila anni. Sul piano del comportamento i fondamentalisti proibiscono l'uso dell'alcol, il fumo, il gioco a carte, il ballo e gli spettacoli, come del resto molti evangelicals, ma si sono opposti anche a varie tendenze della moda, come l'uso dei pantaloni per le donne, e dei capelli lunghi, barba e baffi, o particolari fogge di abbigliamento per gli uomini.
Anche se negli Stati Uniti la storia del f. s'intreccia con quella dell'evangelicalismo, non sarebbe corretto identificare i due fenomeni. L'evangelicalismo presenta infatti aspetti diversi che sarebbe inesatto ridurre ai principi del f.: in generale, infatti, il primo accoglie l'esegesi storico-critica, e non si sente legato alla necessità di praticare l'interpretazione letterale del testo biblico. D'altra parte, però, il f. è più diffuso nelle Chiese sorte dal Risveglio del sec. 19° che nelle Chiese nate dalla Riforma del sec. 16°. Si potrebbe anche dire che il classico principio del sola Scriptura sostenuto dai primi riformatori sia una posizione fondamentalista, in quanto si oppone a ogni altra autorità e a ogni riserva sul medesimo principio. Ma, per es., le tesi dell'inerranza della Scrittura e della sua ispirazione verbale sono anche anteriori alla Riforma, rientrando nella tradizione ecclesiastica più antica. Di fatto, come nota J.-P. Willaime, il protestantesimo è anche un liberalismo, nella sua rivendicazione del libero esame come nella relativizzazione del magistero ecclesiastico, teologico e morale, rispetto al quale il f. rappresenta il polo opposto, ma pur sempre interno alla tradizione protestante. In ogni caso il f., condizionato e connotato dall'ambiente in cui è nato, rientra nel numero dei movimenti che sorgono in periodi di crisi e di cambiamenti per riconfermare e sostenere i principi morali e dottrinali, ma anche gli assetti sociali e i quadri di riferimento culturale, messi in discussione.
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Fondamentalismo ebraico
di Anna Foa
Per quanto riguarda l'ebraismo, sotto l'etichetta di fondamentalismo si possono designare quelle tendenze e quei gruppi caratterizzati dalla mescolanza di religione e politica, dal richiamo ai fondamenti biblici e talmudici, dal messianismo, dall'osservanza rigorosa dei precetti, dal radicalismo politico. Per M. Friedman, uno dei più recenti studiosi del fenomeno, il termine definisce "un punto di vista religioso condiviso da un gruppo di fedeli che fondano la loro credenza in una realtà ideale religioso-politica che è esistita in passato o che ci si aspetta che emerga in futuro" (Friedman 1990, p. 127).
Nonostante i movimenti ebraici più radicali facciano volentieri riferimento al passato biblico e alla tradizione, la loro origine risale soltanto alla fine del 18° secolo, quando la religiosità tradizionale, costretta a confrontarsi con il cambiamento - con l'illuminismo ebraico (haśkalah) e poi con l'emancipazione - prese a definirsi con il termine del tutto nuovo di ortodossia. Le forme della religione e dell'osservanza sostenute dagli ortodossi non erano però semplicemente la continuazione di quelle del passato, ma una loro trasformazione. Come l'illuminismo, e in una direzione opposta, l'ortodossia è un'innovazione, il frutto dell'incontro del mondo ebraico con la modernità. Al centro dell'osservanza e della trasmissione dei valori delle comunità ortodosse è lo studio e l'educazione, studio che è organizzato nel sistema delle yeshivōt (plur. di yeshivah), scuole dove i giovani - i maschi -vivono una vita collettiva centrata sullo studio dei testi religiosi e sulla pratica religiosa, con la più rigida esclusione, almeno nelle yeshivōt ultraortodosse, della cultura secolare.
Nel corso dell'Ottocento, e soprattutto negli ultimi decenni, nel momento in cui il mondo ebraico era percorso da nuovi fermenti di cambiamento e di trasformazione, indotti, tra l'altro, da fenomeni macroscopici quali l'emigrazione di milioni di ebrei dell'Europa orientale, la mappa della religiosità tradizionale si presentava in maniera assai variegata. Essa comprendeva tanto ebrei pronti a vivere nel mondo e ad accettare la trasformazione indotta dall'emancipazione - come gli aderenti al movimento neo-ortodosso creato in Germania da S.R. Hirsch - quanto comunità ultraortodosse, in particolare in Ungheria, organizzate in una radicale chiusura rispetto all'esterno e nella più rigida osservanza. Presentavano aspetti di netta chiusura alle istanze della modernizzazione anche le comunità hasidiche (da ḥasīd "pio"), diffuse in Polonia e in parte anche in Russia e centrate intorno a un capo carismatico, il rebbe. Si trattava di una forma di religiosità misticheggiante e cabbalistica che risaliva al primo Settecento e che rappresentava anch'essa una trasformazione radicale della tradizione religiosa.
In questo quadro complesso, l'apparizione allo scorcio del 20° secolo del progetto sionista pose il mondo tradizionale di fronte a nuove sfide e a nuove minacce. La Palestina aveva in realtà costituito un richiamo per gli ebrei della diaspora già prima dell'apparizione del sionismo. In Palestina vivevano ebrei da secoli, nel 'Vecchio Yishuv' (comunità ebraica in Palestina): nel 19° secolo vi erano circa 25.000 ebrei che conducevano una vita di stretta ortodossia, di studio e di preghiera nelle città 'sante' di Gerusalemme, Hebron, Safed e Tiberiade. Nel 'Vecchio Yishuv' confluì nella seconda metà del secolo un'ondata di emigrazione ortodossa, in particolare ebrei ungheresi desiderosi di salvaguardare la tradizione dai pericoli della secolarizzazione. Non c'è da stupirsi che questi gruppi palestinesi abbiano visto nelle prime ondate di migrazione sionista - che, al volger del secolo, e poi nel decennio precedente la prima guerra mondiale, si riversarono in Palestina con uno spirito secolarizzato e lontano da ogni rapporto con la tradizione religiosa - una vera e propria sconsacrazione della terra d'Israele. Sia nella diaspora sia in Palestina, il sionismo divenne per gli ortodossi la forma più pericolosa assunta dalla secolarizzazione, un nemico peggiore di quanto non fosse nella diaspora l'assimilazione, perché coinvolgeva il rapporto con la terra d'Israele tradizionalmente connotato in senso messianico. La lotta della tradizione contro la modernizzazione finì così per prendere la forma di un'opposizione intransigente e radicale al progetto sionista.
Era un'opposizione di principio, interna alla logica religiosa, fondata sull'idea che il ritorno in Israele, interpretato come il momento essenziale dell'avvento del Messia, potesse essere determinato solo da Dio e non dagli uomini. Il progetto di stabilire in Palestina uno Stato ebraico è quindi agli occhi degli ultraortodossi un progetto blasfemo in sé, indipendentemente dal suo orientamento effettivamente laico e areligioso: un modo di affrettare indebitamente la venuta del Messia.
Nei primi anni del Novecento, gli ḥaredīm (plur. di ḥaredī, termine generico per designare gli ultraortodossi, che in ebraico ha il significato di "timoroso di Dio") diedero vita all'organizzazione separatista e antisionista Agudat Israel. Successivamente, dopo l'attenuazione delle istanze più radicali e antisioniste in seguito all'avvento del nazismo in Germania e all'intensificarsi dell'emigrazione ebraica in Palestina, Agudat Israel si scisse e diede vita al gruppo dei Neturei Karta (aramaico per "guardiani della città").
Una conciliazione tra sionismo e ortodossia non era però impossibile, almeno a livello teorico. Essa trovò espressione nei primi anni del Novecento nel pensiero di rabbi A.I. Kook, il primo rabbino capo ashkenazita in Palestina, che fondò a Gerusalemme l'importante yeshivah di Merkaz ha-rav. Per Kook il ristabilimento degli ebrei in Palestina si caricava di significati mistici e messianici, e diveniva un momento del processo di redenzione. Il sionismo, da laico, diventava religioso. L'impatto della Shoah, con la distruzione del 90% del mondo ebraico tradizionale dell'Europa orientale - una distruzione che gli ultraortodossi hanno interpretato in chiave religiosa come una punizione divina per i peccati della secolarizzazione e del sionismo - ha paradossalmente favorito una ripresa del movimento ultraortodosso. Molti rabbini e capi di yeshivōt sopravvissuti allo sterminio si sono stabiliti in Palestina e hanno avviato un'opera di ricostruzione di scuole, comunità, istituzioni rigorosamente fedeli alla tradizione ortodossa.
Con la creazione dello Stato, nel 1948, la maggior parte degli ḥaredīm è approdata a un compromesso con lo Stato stesso, o almeno con alcune delle sue funzioni, per ottenere il riconoscimento necessario a gestire in maniera autonoma la vita comunitaria, mentre i Neturei Karta e altri gruppi hanno accentuato il loro isolazionismo, rifiutandosi di partecipare alle elezioni e di collaborare in qualsiasi modo con lo Stato sionista.
A mutare il panorama politico-religioso sono state soprattutto le trasformazioni indotte nella società israeliana dalle guerre del 1967 e del 1973. Nel 1967, dopo la vittoria sui paesi arabi e la conquista di Gerusalemme, della Cisgiordania (i territori biblici di Giudea e Samaria), del Golan e di Gaza, il paese è stato come percorso da un'ondata di esaltazione nazionalistica, e la vittoria stessa ha assunto un sapore miracolistico. È questo il contesto in cui nasce il Gush Emunim ("blocco dei fedeli"). Il movimento si ricollega direttamente alla tradizione di sionismo religioso di Kook, ripresa e potenziata dal figlio, suo successore nella direzione della yeshivah, rabbi Z.Y. Kook. Da questa matrice, il Gush Emunim trae la sua interpretazione del sionismo e della fondazione dello Stato come momenti di un percorso messianico in fieri, che si attua nonostante il carattere laico dello Stato e in maniera assolutamente indipendente dalla volontà dei fondatori stessi dello Stato, ridotti a meri strumenti dell'opera divina. Lo Stato ne riceveva così una piena legittimazione. Il ruolo politico del Gush Emunim era centrato non tanto sulla necessità di imporre allo Stato caratteristiche religiose, di farne cioè uno Stato della Torah, come sarà in anni più recenti, quanto sul processo, da esso interpretato in senso messianico, di reintegrazione dei confini biblici di Israele. Al centro della connessione fra religione e politica proposta dal Gush Emunim è la terra, una terra di cui si vuole difendere fin la più piccola porzione, perché terra santa, terra integralmente ebraica, Eretz Israel appunto, la terra d'Israele. Di qui, l'azione concreta di creazione di insediamenti, posta al centro dell'opera dei sostenitori del Gush Emunim.
Il progetto di insediamenti in Cisgiordania e a Gaza, iniziato in realtà già nel 1967, a opera del governo laburista, venne ripreso nel 1975 dal Gush Emunim su fondamenti ideologici nazional-religiosi, e fu poi continuato su linee molto simili dalla politica del Likud dopo il 1981. Da parte del Gush Emunim, come anche da parte dei governi, sia laburisti sia del Likud, l'intento era quello di popolare di colonie ebraiche i territori occupati, rendendo impossibile o comunque difficile una loro eventuale restituzione. Gli insediamenti religiosi del Gush Emunim furono caratterizzati in particolare da una forte ostilità antiaraba e da una decisa impronta religiosa. La politica degli insediamenti è proseguita anche dopo la creazione dei territori dell'Autonomia palestinese, e rappresenta uno degli scogli più ardui per una ripresa del processo di pace. Essa è stata attivamente appoggiata dal governo Netanyahu, ed è gestita dal comitato Jesha (Judea, Samaria e Gaza), formato per la maggior parte da ex militanti del Gush Emunim. La punta più estrema è l'insediamento di Hebron, città considerata sacra dalla tradizione, e divenuta nel 1997 parte dei territori retti dall'Autonomia palestinese, in cui un piccolo gruppo di coloni, per lo più americani di origine, vive nella città, in mezzo agli Arabi, in una convivenza rischiosissima, nella fanatica convinzione di mantenere alta la fiaccola dell'ebraismo nella città di Abramo, seconda in santità solo a Gerusalemme.
Il movimento del Gush Emunim presenta aspetti innovativi del tutto diversi da quelli 'conservatori' degli ḥaredīm. La vita in Israele è vista dagli ḥaredīm come una vita nell'esilio, reso ancora più duro dall'essere tra ebrei e non tra le nazioni. Per il Gush Emunim, la vita in terra d'Israele è un momento della redenzione. Sia gli uni sia gli altri condividono, tuttavia, una prospettiva fortemente messianica (anche se per gli ḥaredīm si tratta di un'attesa necessariamente passiva, per i sionisti religiosi di una realizzazione attiva). Ambedue condividono la necessità di un'osservanza rigorosa e minuziosa delle norme della vita ebraica, la kashrūt (l'osservanza delle regole alimentari), il sabato, le preghiere.
Ma essi divergono profondamente nel rapporto con l'esterno, nel modo in cui l'osservanza è inserita nella vita. Per gli ultraortodossi, vige l'isolazionismo più netto nei confronti dello Stato e, della politica, dei non ebrei e degli ebrei non religiosi, considerati come non ebrei. Di qui, la vita separata, l'uso dell'yiddish e non dell'ebraico, l'educazione tradizionale e chiusa alla cultura profana, un modo di vita che riproduce il ghetto aperto ebraico dell'Europa orientale nei quartieri di Meah Shearim a Gerusalemme, di Bene Berak presso Tel Aviv, in alcune zone di Brooklyn a New York. Gli appartenenti al Gush Emunim vivono nel mondo, liberi da palandrane e da nostalgie passatistiche. Essi vestono in jeans e maglioni, anche se la kippah all'uncinetto e le frange da preghiera degli ṣīṣīt ne marcano l'identità. Ambedue le tendenze condividono l'intolleranza proclamata verso ogni modello diverso dal loro e la visione di uno Stato teocratico. Ma la violenza è caratteristica del Gush Emunim assai più che degli ḥaredīm. Nel 1984 è stato scoperto un piano terrorista clandestino di appartenenti al Gush Emunim, che stavano, fra l'altro, progettando di far saltare per aria le moschee sulla spianata del Tempio, in modo da consentire la ricostruzione del Tempio stesso e l'avvento del Messia. Imprigionati e condannati, i terroristi sono stati sostenuti da un notevole, sia pur minoritario, movimento di opinione pubblica, di rabbini e di politici. Nello stesso 1984, le elezioni hanno portato in Parlamento un nuovo gruppo estremista, il Kack, fondato dal rabbino americano M. Kahana, a carattere apertamente violento e razzista. Il Kack è stato successivamente messo fuorilegge ma non è scomparso completamente dalla scena politica. Apparteneva tuttavia non al Kack ma all'area del Gush Emunim il medico B. Goldstein che nel 1994 aprì il fuoco contro un gruppo di arabi in preghiera nella tomba dei Patriarchi a Hebron, uccidendone ventinove. La tomba di Goldstein, ucciso nel corso della sua azione, è divenuta meta di pellegrinaggio.
La più catastrofica realizzazione della violenza politico-religiosa di matrice fondamentalista è stata l'omicidio del primo ministro Y. Rabin, il 4 novembre 1995. Opera di un estremista ebreo, Y. Amir, l'omicidio è stato preceduto da una vasta campagna di stampa e di propaganda volta a giustificare la rimozione, con qualunque mezzo, di colui che veniva considerato un nemico della religione e del popolo d'Israele, per i suoi sforzi in direzione della pace con i paesi arabi e i palestinesi. La campagna propagandistica faceva volentieri uso di argomenti religiosi, si appoggiava su interpretazioni delle fonti della tradizione, arrivava perfino, a opera di alcuni rabbini ultraortodossi, a rituali pubblici di maledizione di stampo cabbalistico.
Negli ultimi anni, e in particolare dopo l'assassinio di Rabin, la mappa del f. ebraico si è complicata ulteriormente: i movimenti religiosi contrapposti dei sionisti religiosi e degli ḥaredīm hanno avviato un processo di riavvicinamento, caratterizzato da una parte da un incremento del livello di osservanza religiosa dei sionisti religiosi, e dall'altra da una progressiva accettazione dello Stato da parte dei gruppi di ḥaredīm tradizionalmente ostili al sionismo. È nata una nuova definizione, gli ḥarda'līm, cioè ḥaredīm nazionalisti.
Restano così una piccola minoranza gli ḥaredīm decisamente separatisti, mentre cresce il livello di estremismo e di integralismo dei sionisti religiosi. Si assiste, inoltre, a una ripresa dei gruppi hasidici di Lubavich e di Breslavia, in cui affluiscono i ba‚alei teshūvah, i non osservanti che rientrano nei ranghi dell'ortodossia religiosa. Essi sono caratterizzati da un atteggiamento intensamente missionario, che non consente loro il separatismo, e da forme di misticismo (uso della kabbalah, di droghe leggere per facilitare esperienze estatiche ecc.). Nello schieramento politico si trovano anch'essi all'estrema destra, pur se in maniera meno militante degli ḥarda'līm.
Il f. ebraico è un fenomeno che, anche se ha le sue radici nella diaspora, ha preso slancio e forma soprattutto nella società israeliana. Esso rappresenta infatti una reazione estrema e complessa all'incontro con la modernità, un incontro che, seppur iniziato nel Settecento con l'illuminismo ebraico e l'emancipazione, si è realizzato compiutamente solo con la nascita dello Stato di Israele, con i problemi posti dall'impatto sulla vita tradizionale dapprima dalla fondazione dello Stato e poi dalle forme, quanto mai lontane da quelle diasporiche, assunte dalla vita politica. L'impatto è stato, evidentemente, più forte e problematico su gruppi provenienti da paesi in cui il mondo ebraico viveva separato e lontano da ogni forma di emancipazione, privi quindi di abitudine alla partecipazione politica, di memoria storica di democrazia: i paesi dell'Europa orientale, per una parte, e poi quelli arabi.
Ma, da Israele, il f. ebraico ha da tempo cominciato a irradiarsi verso le comunità diasporiche occidentali. Questa tendenza radicalizzante, che potremmo definire f. liminare, assume per ora solo forme religiose, lontano dalla connessione strettissima tra politica e religione che rende il fenomeno esplosivo in Israele. Essa si concretizza in un progressivo allontanamento dalle tradizioni religiose peculiari del mondo ebraico dell'Europa occidentale, verso forme di osservanza sempre più rigorose: una trasformazione in cui gioca un notevole ruolo il fenomeno del ritorno all'ortodossia delle giovani generazioni che non si riconoscono in un ebraismo, quello dei padri, che viene considerato assimilato, integrato, volto a valori terreni: la teshūvah (penitenza), non priva di legami con il fenomeno più generale e complesso del ritorno al sacro nelle società occidentali. Non si tratta però qui soltanto di fenomeni marginali, folklorici. In Israele, proprio per la sua dimensione 'politica', le conseguenze di una simile radicalizzazione religiosa sono, come abbiamo visto, rilevanti. Ma questo può diventare un fenomeno non privo di peso anche nella diaspora, influenzando direttamente non solo la vita interna del mondo ebraico, ma l'immagine stessa dell'ebraismo come forza culturale vitale e aperta al futuro.
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Fondamentalismo islamico
di François Burgat
L'uso del termine fondamentalismo (fr. islamisme), applicato alla descrizione delle relazioni fra società, politica e religione islamica pone evidenti problemi. Agli occhi degli occidentali esso riveste una connotazione negativa, mentre nelle società arabe la sua configurazione è perlomeno polisemica; il termine tende, il più delle volte, a sostenere l'idea di una strumentalizzazione della religione a fini politici da parte di un'unica categoria di attori sociali, quando invece anche i regimi mirano con altrettanta naturalezza dei loro oppositori a far propri i preziosi vantaggi del discorso religioso. Nell'accezione mediatica corrente si ritiene che i fondamentalisti islamici, più che proporre un progetto di società, manifestino rabbia e frustrazione nei confronti di una società moderna che, a loro dire, li respinge. Nel mondo musulmano non pochi regimi vorrebbero accreditare a livello internazionale l'esistenza di un Islam apolitico e modernizzatore del quale essi sarebbero i naturali promotori, per contrapporlo a un Islam politico che si configurerebbe necessariamente come antimoderno, intollerante, o addirittura terroristico e che le forze della ragione e del progresso sarebbero perciò invitate a combattere, al di là di tutte le frontiere. Questo spartiacque, che bada poco a una realtà più complessa e al tempo stesso più dinamica, va ridimensionato.
In senso stretto il termine fondamentalista rinvia a una volontà di tornare alla purezza di una fede e, quindi, alle sue fonti originarie, liberandole all'occorrenza da ogni successivo apporto.
Il termine è nato negli Stati Uniti alla fine dell'Ottocento, nell'ambito della religione cristiana, e designava la reazione degli ambienti protestanti tradizionali dinanzi alla spinta del liberalismo teologico e ai fautori di una lettura sociale dei Vangeli (v. sopra: Fondamentalismo cristiano). La restaurazione fondamentalista si traduceva in particolare nel rifiuto da parte dei suoi propugnatori di qualsiasi genere d'impegno politico e sociale. Si era dunque ben lontani dalla politicizzazione del religioso, oggi elemento essenziale della percezione del f. islamico. Di fatto, all'interno stesso delle società musulmane, la volontà di tornare alle origini può farsi portatrice di tendenze passatiste e conservatrici; spesso è moralizzatrice ma può anche essere, e lo è stata di frequente, "riformista molto più che tradizionalista" (Roy 1992), o addirittura rivoluzionaria. I fondamentalisti possono ritenere necessario far prevalere una lettura del dogma depurato dalle aggiunte successive apportate dall'uomo, e dunque lottare contro le sue interpretazioni passate. Ma in nome di questa stessa fedeltà alle fonti, essi possono in eguale misura voler proteggere questo dogma da qualsiasi rilettura modernizzante, giudicata fuorviante. Tuttavia il senso comune spesso continua ad astenersi dal prendere in considerazione qualsiasi confine storico, geografico o sociologico e ad attribuire una stessa denominazione all'insieme delle diverse correnti politiche, insistendo su quei riferimenti simbolici tipici della cultura musulmana. In tal modo si tende dal di fuori ad assimilare forze politiche che vanno dai Fratelli musulmani - eredi del fondatore Ḥasan al-Bannā', alcuni dei quali, in Giordania e nello Yemen, sono pervenuti al vertice di parlamenti democraticamente eletti - ai gruppuscoli parafascisti sorti dalla tempesta algerina, o ai kamikaze della guerra arabo-israeliana, che evolvono, in realtà, in contesti così diversi che l'appellativo di fondamentalista non è in alcun modo sufficiente per definirli. In comune queste correnti hanno certamente la medesima ambizione di ripristinare il legame simbolico fra Stato e religione (dawla e dīn), condividendo di conseguenza la volontà di collegare etica religiosa e governo pubblico, e a questo scopo negando l'universalità della separazione laica europea.
Nel mondo musulmano contemporaneo il termine fondamentalismo, dunque, non dovrebbe più indicare soltanto un atteggiamento dottrinale o politico proprio di una categoria limitata di individui, che per via del loro conservatorismo e della loro rigidità dottrinale si troverebbero relegati ai margini sia dell'ortodossia musulmana sia delle società in cui vivono. Per non approfondire fra le due sponde del Mediterraneo un pericoloso fossato di incomprensioni, la nozione deve infatti permettere di classificare le molteplici manifestazioni di un processo storico assai complesso e diversificato: una volta concluso il periodo coloniale, il risorgere multiforme del punto di riferimento fondamentalista esprime la volontà da parte di un numero crescente di attori sociali e politici di utilizzare la terminologia, il vocabolario e le categorie della loro cultura-religione, un tempo emarginata per via del trionfo del suo omologo occidentale, ma esso non consente di giudicare aprioristicamente l'atteggiamento di questi attori di fronte al contenuto universale della modernizzazione, rinviando dunque di fatto a una dinamica multiforme, in parte connessa alle lotte interne per il potere, anche se non risolta interamente in esse. Da parte dei non musulmani è oggetto di distorsioni, in quanto si trova al centro delle tensioni di identità e degli interrogativi politici nutriti, una volta chiusasi la parentesi coloniale, dalla crescita demografica, politica e culturale del loro vecchio alter ego musulmano.
In ambito politico, questa dinamica è oggetto di un tentativo di appropriazione da parte sia delle élites al potere (f. di Stato) sia dei loro oppositori (f. di contestazione). Quando viene utilizzata non più dai regimi nati dalle lotte per l'indipendenza ma dalla generazione in ascesa degli oppositori, essa diviene logicamente una delle componenti della banalissima dinamica di opposizione in corso in ciascuna delle società coinvolte, poiché i fondamentalisti sono oggi i più intraprendenti fra gli oppositori ai regimi costituiti. I sommovimenti di questa spinta interferiscono anche con la rappresentazione da parte del Nord industrializzato del suo rapporto con il Sud: rendono inoltre ancora più difficile la lenta integrazione delle comunità musulmane insediatesi in paesi di tradizione cristiana, in particolare in Europa e negli Stati Uniti.
"Tre fondamentalismi?"
Per comprendere la specificità del f. islamico, può risultare interessante sotto alcuni aspetti raffrontarlo con i processi di rigiudaizzazione e di ricristianizzazione; tale confronto permette di dar conto delle tensioni proprie a ciascuna delle sfere sociali e politiche delle tre grandi religioni rivelate. Tuttavia, se ci si limita a stabilire un legame puramente analogico fra i tre f. - islamico, cristiano ed ebraico - esso rischia di alimentare una certa confusione di idee, piuttosto che chiarirle. La prospettiva esplicativa dei tre f. ha come primo risultato quello di sovradeterminare la dimensione strettamente religiosa del f. islamico e di celare il fatto, essenziale, che la terminologia religiosa serve in ampia misura a esprimere rivendicazioni di fatto molto profane. Le richieste veicolate dalla retorica religiosa, in parte culturali, sono spesso anche banali rivendicazioni politiche (nazionaliste nel caso del conflitto palestinese, democratiche altrove), sociali ed economiche. Il gran numero di coloro che sono considerati fondamentalisti, inoltre, non è rappresentato soltanto dai gruppuscoli con i quali è stato spesso identificato, ma è oggi capace, quasi ovunque nel mondo arabo, di influenzare maggioranze elettorali, e svolge dunque negli ordinamenti interni (arabi), e nel contesto regionale del conflitto arabo-israeliano, un ruolo quantitativamente più significativo e comunque molto diverso da quello dei gruppi d'importanza limitata nati dai movimenti di ricristianizzazione o di rigiudaizzazione. L'approccio analogico ai tre integralismi tende anche a nascondere le profonde divergenze che separano fra loro gli ambienti politici musulmano, cristiano ed ebraico. L'accostamento dei fondamentalisti ebraici, dei new born Christians o di altri free men americani ai loro supposti omologhi musulmani attribuisce ben poca importanza al fatto che i primi evolvono in ambienti democratici dove le porte dell'attività parlamentare sono loro ampiamente aperte, mentre i secondi si mobilitano contro dittature o addirittura (nel caso del conflitto palestinese) contro un'occupazione militare straniera; un parallelismo troppo stretto cela in eguale misura lo squilibrio delle forze fra il Sud (musulmano) e il Nord (giudeo-cristiano). Il ricorso all'ascesa del f. come unico elemento esplicativo finisce egualmente con l'ostacolare qualsiasi lettura profana, cioè soltanto politica, della guerra civile algerina e del conflitto palestinese, poiché nasconde gli elementi essenziali costituiti, a Gaza, dal persistere dell'occupazione militare e, ad Algeri, dal rifiuto costante da parte del potere militare di rispettare il verdetto delle urne del quale non ha la possibilità di predeterminare il risultato.
Più in generale, un confronto troppo rigido finisce in realtà con il nascondere la responsabilità dei potenti attori statuali sia del Nord sia del Sud dinanzi alle rivendicazioni dei loro oppositori di ogni parte: per non essere obbligati a tener conto delle rivendicazioni (sociali, democratiche in alcuni casi, nazionaliste nel caso del conflitto palestinese), che rappresentano evidenti elementi di disturbo, essi si limitano a delegittimare la terminologia che serve a esprimere tali rivendicazioni, e a questo scopo relegano i loro oppositori in quel formidabile ghetto semantico rappresentato ai tempi nostri dalla denominazione molto riduttiva di fondamentalista.
Sul piano della storia contemporanea delle società musulmane, la corrente detta fondamentalista ha prodotto, in realtà, delle espressioni abbastanza mutevoli, che si confondono con le vaste dinamiche politiche delle varie società coinvolte, e a proposito delle quali il ricorso a un concetto unico, in ambiti storici profondamente diversificati, mostra tutti i suoi limiti.
Dal wahhabismo ai Fratelli musulmani
Il grande movimento riformista, nato alla fine del 19° sec. dalla volontà dei suoi fondatori di trovare nel riferimento all'Islam la risposta risolutiva di fronte alla crescita della potenza dell'Occidente, viene il più delle volte considerato come il vero predecessore dei movimenti fondamentalisti contemporanei, anche se questa ascendenza è tuttora oggetto di discussioni. L'irano-afgano Ǧamāl al-Dīn al-Afġānī (1837-1897), l'egiziano Muḥammad ‚Abduh (1849-1905), e poi il siriano Rašīd Riḍā (1865-1935) sono i maggiori esponenti di questa prima fase, intellettuale e quindi meno conflittuale, dell'aspirazione dei musulmani a reintrodurre nel corso della storia i loro riferimenti religiosi e culturali e a riconciliare rivelazione e ragione per poter rimettere piede sulla scena della modernità universale. Al-Afġānī, il cui percorso individuale (dalla Persia all'Afghānistān, passando per l'India e l'Egitto) non può essere considerato nell'ambito ristretto delle storie nazionali, ha svolto un ruolo di agitatore politico e ideologico. Fin dal 1884 i Salafī (da al-Salaf al-ṣāliḥ, "antenati ben guidati"), che si ispiravano ad al-Afġānī, enunciarono quello che si può considerare, con beneficio di inventario, il postulato di base, più identitario che strettamente religioso, di tutti i movimenti fondamentalisti contemporanei: "Soltanto la piena applicazione della legge islamica può permettere di restaurare la passata grandezza della comunità dei musulmani e di porre fine alle incursioni militari e commerciali e ancor più ideologiche e culturali degli Occidentali". Al-Afġānī vi aggiunse un appello per una lettura razionale delle fonti della religione e per il ricorso sistematico a quel iǧtihād da alcuni ritenuto ormai inutile. Queste due componenti del pensiero di al-Afġānī segnano tuttora le principali tendenze del dibattito islamico e fondamentalista contemporaneo.
‚Abduh, coeditore con al-Afġānī della rivista al-‚Urwa al-Wuṯqā (Il legame indissolubile), fu Gran mufti d'Egitto (1889) e successivamente membro del consiglio supremo dell'Università islamica di al-Azhar: si trovò quindi a misurarsi, più del suo maestro al-Afġānī, con le esigenze dell'azione, e a lui spettò il compito di tradurre questi orientamenti in direttive concrete capaci di permettere ai suoi correligionari di affrontare il mondo moderno. Rašīd Riḍā, allievo di ‚Abduh e direttore del giornale al-Manār (Il faro), precisò ulteriormente questo legame indissolubile fra il rispetto del sistema normativo musulmano e il risorgere della civiltà musulmana.
Nel 1929, con la costituzione dell'Associazione dei Fratelli musulmani (Ǧam‚iyyat al-Ih̠wān al-Muslimūn), a opera di Ḥasan al-Bannā' (1906-1949), questo grande movimento, detto della salafiyya, conoscerà uno sviluppo soprattutto in senso politico. Occorre ricordare, tuttavia, che già nel corso dell'Ottocento si erano verificati altri ibridi tra riformismo e mobilitazione politica imperniati sul fattore religioso. Il mahdismo sudanese (1853-85) in primo luogo, ma anche l'epopea politico-militare della confraternita ṣūfī algerino-libica fondata da Muḥammad Ibn 'Alī al-Sanūsī (1791-1859). Più ancora, lo stesso potente movimento wahhabita può essere considerato anticipatore delle correnti fondamentaliste contemporanee nonché precursore dei Fratelli musulmani. È dall'alleanza, in seguito ulteriormente rafforzata da legami di sangue, fra un capo religioso o ideologico, come Muḥammad Ibn 'Abd al-Wahhāb (1703-1787) e un capo tribù come Muḥammad Ibn Sa 'ūd che nacque, in effetti, l'influenza politica della dinastia saudita su quell'Arabia che ancora oggi porta il suo nome. Il riformismo moralizzatore del movimento sarebbe stato alimentato dal timore del suo fondatore Ibn 'Abd al-Wahhāb, che riprese le tesi rigoriste della scuola hanbalita quali le rinnovò Ibn Taymiyya (1263-1328), di vedere le tribù abbandonare l'ortodossia dell'Islam per tornare all'idolatria e al politeismo dell'epoca dell'ignoranza preislamica (ǧāhiliyya). Benché in Arabia Saudita, dove esso si identifica oggi con un regime privo dell'originario rigore, il wahhabismo abbia perduto le sue capacità di opposizione, esso costituisce ancora una corrente particolarmente conservatrice del f., che impone un rispetto meticoloso delle pratiche cultuali (in particolare le cinque preghiere) e della morale pubblica e privata. Sul modello della maggior parte delle correnti fondamentaliste contemporanee e di quante le hanno precedute (come i riformisti della salafiyya) il wahhabismo si oppone a qualsiasi forma di esoterismo e di culto dei santi, forme che vengono assimilate al politeismo; esso combatte in particolare - e in ciò consiste un altro comune denominatore dei movimenti fondamentalisti - le espressioni marabutiche (venerazione di uno šayh̠ vivente o scomparso) del sufismo. Nonostante la ricchezza petrolifera dei suoi attuali promotori, la corrente wahhabita tuttavia non si può in alcun modo paragonare per importanza a quella dei Fratelli musulmani.
I Fratelli musulmani di Ḥasan al-Bannā'. - Ḥasan al-Bannā' nacque nei pressi di Alessandria. Frequentò la Scuola normale di Damanhūr, poi la celebre università Dār al-‚ulūm fondata da Rašīd Riḍā al Cairo. Nel 1927 iniziò a insegnare nelle scuole elementari a Ismā῾īliyya, la città del canale ancora occupata dalle forze britanniche, dove, nel marzo del 1928, fondò con sei colleghi un'associazione religiosa volta a promuovere, secondo la tradizione, il principio coranico del "comandamento del bene e della proibizione del male". L'associazione si configurò, in un primo momento, come un semplice ramo della confraternita ṣūfī al-Ǧam'iyya al-Ḥaṣāfiyya al-H̠ayriyya alla quale era affiliato al-Bannā', e la denominazione Fratelli musulmani non si impose che a partire dal 1929. Inizialmente l'associazione beneficiò dell'appoggio della potente società del Canale e soltanto a partire dal 1933 affermò la propria vocazione politica. E fu questo passaggio al politico, assunto con chiarezza cinque anni dopo la creazione dell'associazione, che caratterizzò l'essenza del movimento e lo annoverò al tempo stesso tra i protagonisti delle tormentate lotte per il potere. La dottrina dei Fratelli si fonda su una lettura relativamente classica dell'insegnamento religioso; la loro forza proviene dall'aver saputo trarre da quell'insegnamento "gli strumenti ideologici di un potente movimento popolare" (Delanoue 1971).
I Fratelli organizzarono allora una sezione speciale o militare composta, secondo la terminologia propria dell'associazione, da quei membri "che combattono in prima linea". A partire dall'ottavo Congresso (1945), e soprattutto dopo aver preso parte nel 1948 alla prima guerra arabo-israeliana, l'associazione affermò con chiarezza la sua vocazione internazionale. Nel 1929 il movimento infatti contava quattro sezioni, quindici nel 1932, trecento nel 1938 e duemila nel 1948. All'indomani della prima guerra arabo-israeliana, in cui i Fratelli si erano distinti, il governo giudicò più sicuro sciogliere l'associazione e confiscare tutti i suoi beni. Il 12 febbraio 1949 Ḥasan al-Bannā' fu assassinato dalla polizia del regime egiziano. Due anni dopo, grazie a una nuova legge sulle associazioni, i Fratelli ebbero ancora modo, seppure per breve tempo, di agire sul terreno legale. Il Movimento degli ufficiali liberi che prese il potere nel 1952 aveva un programma che di fatto poco si differenziava da quello dei Fratelli, e buona parte dei dirigenti, fra i quali Ǧamāl 'Abd al-Nāṣir (noto come Nasser) erano simpatizzanti dell'associazione. Forse questa vicinanza di vedute spiega la violenza della repressione che nel 1954, dopo un periodo di collaborazione, il nuovo regime, sulla base di un'accusa molto discussa di tentativo di omicidio del capo dello Stato, lanciò contro quanti apparivano allora - e sarebbero apparsi per lungo tempo - come i principali avversari del potere stabilito. Le opere di al-Bannā' non sono tuttavia apologie della violenza. Anche se gli scritti di Sayyid Quṭb verranno talvolta considerati come ispirati a quelli del suo grande predecessore, al-Bannā' non è fautore di una visione terroristica dell'azione militante. La giustizia sociale occupa un posto di primo piano nella sua considerazione del mondo islamico, e se riconosce l'inevitabile esigenza del ǧihād, non per questo si dimostra ostile ai modelli istituzionali liberali ereditati dalla presenza occidentale.
Alla morte di al-Bannā', una durevole spaccatura già si percepiva nella sua eredità intellettuale, nella quale coabitano perlomeno due scuole di pensiero: una di tendenza riformista promossa soprattutto da Sa'īd Ramaḍān, suo genero e fondatore della rivista al-Muslimūn (I Musulmani), e l'altra, più radicale, guidata da Ṣāliḥ al-Ašmāwī e che aveva per organo la rivista al-Da'wa (La propaganda).
Abū 'l-'Alā' Mawdūdī e Sayyid Quṭb
Nato da una religiosissima famiglia ṣūfī del subcontinente indiano, Abū 'l-'Alā' Mawdūdī (1903-1979) può anch'egli considerarsi uno dei grandi teorici del f. contemporaneo. Egli sostiene che i popoli musulmani sono al giorno d'oggi tornati a uno stato d'ignoranza preislamica e che, per controbilanciare l'influenza delle ideologie straniere che hanno portato solo danni, l'Islam vada quindi reintrodotto nel cuore degli uomini così come nella società, se necessario con la rivoluzione. L'Islam rappresenta in tal modo la terza via fra il capitalismo e il socialismo. Nel 1941 Mawdūdī fondò la Ǧamā'at-i Islāmī, movimento più elitario di quanto non fosse quello dei Fratelli musulmani, e non esitò a far ricorso all'infiltrazione del movimento nella sfera pubblica e a lanciarsi personalmente nella competizione politica.
Mawdūdī condivise quest'analisi pessimistica delle società musulmane con un altro grande teorico del f. contemporaneo, Sayyid Quṭb (1906-1966), in dissenso con i Fratelli musulmani. Poeta, critico letterario, pensatore brillante, Quṭb era nato nel 1906 nei pressi di Asyūṭ nell'Alto Egitto, da una famiglia di origini indiane. Suo padre era membro del Partito nazionalista di Muṣṭafā Kāmil. Quṭb imparò a memoria il Corano fin dall'età di dieci anni, frequentò il kuttāb (insegnamento coranico), poi la scuola governativa. Ottenne nel 1933 un diploma in Scienze dell'educazione alla Dār al-'ulūm dove fu poi nominato professore, pur lavorando contemporaneamente (1933-51) come funzionario del Ministero dell'Educazione dove sarebbe giunto al grado di ispettore. Lo incoraggiarono nel suo lavoro di letterato e di critico Ṭāhā Ḥusayn e ‚Abbās Maḥmūd al-'Aqqād che egli in seguito accusò rispettivamente di 'occidentalismo' e di 'intellettualismo'. Nel 1948 fu inviato negli Stati Uniti per studiarvi i metodi d'insegnamento; tornò nel 1951 dopo un lungo viaggio in Europa. La religione assunse da allora un posto determinante nella sua vita. Rifiutò una promozione a consigliere del ministro, e si dimise in segno di protesta contro i metodi d'insegnamento e la sottomissione del ministro agli Inglesi.
Si unì ai Fratelli musulmani nel 1953, divenne direttore del settimanale al-Ih̠wān al-Muslimūn, responsabile della sezione da'wa, poi membro del Maktab al-Iršādāt della Laǧna Tanfiḏiyya. Sarebbe stato, nel corso delle relazioni intercorse fra i Fratelli e il potere, l'unico civile a prendere parte alle riunioni del Consiglio del comando della rivoluzione nel quale svolse per breve tempo il ruolo di consigliere per gli Affari culturali. Tuttavia i rapporti fra il governo e i Fratelli musulmani - che criticavano in particolare l'accordo del luglio 1954 con la Gran Bretagna - si andarono rapidamente deteriorando. Nell'ottobre 1954 i colpi di arma da fuoco sparati contro Nasser mentre pronunciava un discorso diedero il via a una vasta campagna di repressione. Imprigionato e torturato, Quṭb fu poi impiccato nel 1966. Nelle prigioni nasseriane aveva elaborato la base dottrinale della più radicale filiazione dell'eredità di al-Bannā', che costituisce tuttora il punto di riferimento per una parte del panorama fondamentalista. Fin da allora, anche se dal 1948 i Fratelli musulmani avevano affermato la loro ambizione extranazionale, la corrente fondamentalista egiziana, più che esportarsi o internazionalizzarsi, ha conosciuto, in contesti politici simili al suo, espressioni vicine in quasi tutti i paesi della regione. La violenza delle lotte di opposizione ha offuscato in maniera durevole la comprensione di questa componente essenziale delle dinamiche politiche contemporanee. Il vero ruolo dei fondamentalisti musulmani si dissolve attualmente nel dedalo della politica di ogni giorno di ciascuno degli Stati considerati.
Fondamentalismo e opposizioni politiche
In sostanza, le risposte dei regimi alla contestazione fondamentalista sono state finora organizzate intorno a una identica struttura repressiva. Esse lasciano comunque un certo spazio a forme d'integrazione nel sistema politico legale. Per gli oppositori fondamentalisti queste possibilità di accesso nei parlamenti arabi, tuttavia, non hanno né la medesima dimensione né il medesimo significato. Tre casi esemplari si possono oggi prendere in considerazione, e vanno dall'ascesa dei fondamentalisti al potere (Iran, Sudan, Turchia quando era guidata dal primo ministro N. Erbakan) fino alla loro totale esclusione dalla scena politica legale. Questa dicotomia è in parte dovuta all'atteggiamento dei regimi, in parte a quello degli stessi fondamentalisti: alla fine del 20° secolo la frattura ideologica e politica fra legalisti e rivoluzionari perdura effettivamente in quasi tutti i paesi musulmani, contrapponendo fautori e avversari della partecipazione al gioco parlamentare. Tale frattura non è che l'evoluzione di quella determinatasi nel contesto egiziano fra la grande famiglia legalista che si rifaceva all'eredità di al-Bannā' e i discepoli di Quṭb. I Fratelli musulmani fautori del legalismo non sempre operano, oggi, sotto quest'unico appellativo. L'uso di altre denominazioni o la creazione di filiazioni politiche dell'associazione-madre sono divenuti frequenti: in Libano, in Libia (e in Egitto per una decina d'anni), i Fratelli sono o sono stati conosciuti con l'appellativo di Ǧamā'at Islāmiyya, a Tunisi sotto quello di Movimento della tendenza islamica (Ḥaraka al-Ittiǧāh al-Islāmī) e di Ḥizb al-Nahḍa a partire dalla fine degli anni Ottanta. In Palestina hanno creato, nel 1987, il Movimento della resistenza islamica (Hamas, acronimo di Ḥaraka al-Muqāwama al-Islāmiyya) e in Algeria hanno formato nel 1990 un altro Hamas (acronimo di Ḥaraka al-Muǧtama'a al-Islāmī, Movimento per la società islamica), prima di vedersi costretti per legge a trasformarsi nel 1997 in Movimento per la società della pace (Ḥaraka Muǧtama'a al-Silm). In Kuwait hanno dato vita al Movimento islamico costituzionale. Il sudanese Ḥasan al-Ṭurābī ha conservato per un certo periodo l'appellativo originario, pur riformando in profondità lo stile dell'organizzazione, prima di creare un Fronte islamico (al-Ǧabha al-Waṭaniyya al-Islāmiyya). Un ramo dei Fratelli ha fondato in Giordania alla fine degli anni Quaranta il Partito della liberazione islamica (Ḥizb al-Taḥrīr). Questo movimento politico appare tuttavia radicato nella maggior parte dei paesi musulmani così come è diffuso nella diaspora politica araba in Europa, dimostrandosi caratterizzato da una retorica più centrata sulla dimensione politica di quella dei Fratelli. Questa si impernia sul ristabilimento di una base istituzionale unica per tutto il mondo musulmano (il Califfato) e, contrariamente ai Fratelli, respinge la nozione di democrazia come antinomica al principio di guida divina.
La seconda grande famiglia fondamentalista è quella dei gruppi rivoluzionari, detti gihadiani (da ǧihād), che si richiamano a Quṭb, e che sono convinti della necessità dell'azione diretta contro i regimi (e i loro sostegni sociali) non osservanti "le regole rivelate da Dio".
Il peso rispettivo di questi due campi - legalista e rivoluzionario - è oggi ben lungi dall'equivalersi. I sostenitori a oltranza della lotta armata contro il ṭaġūt (tiranno, termine coranico utilizzato di frequente per indicare il capo non legittimo) rappresentano una minoranza nel panorama fondamentalista contemporaneo, mentre quasi ovunque si riscontra un chiaro vantaggio dal punto di vista numerico in favore dei seguaci del riformismo e della partecipazione alle istituzioni parlamentari. Il peso dei legalisti e la credibilità della loro strategia dipendono tuttavia moltissimo dalla risposta degli Stati, che possono scegliere di appoggiare i moderati o al contrario di screditarli e di rafforzare in tal modo i loro concorrenti più radicali. Per i regimi grande è la tentazione di trasformare quanto più possibile la minaccia strettamente politica, costituita dai loro principali oppositori, in una minaccia alla sicurezza, in modo da potervi rispondere su un terreno in cui il vantaggio delle armi e l'appoggio occidentale permettono loro di sperare in una vittoria meno problematica di quanto lo sarebbe una vittoria alle urne. La strategia adottata dai regimi è quindi spesso quella massimalista del 'tanto peggio, tanto meglio'. Essa consiste, per i governi e per chi li appoggia nell'ombra, nel rendere precaria e incerta l'azione dei moderati, fautori della via elettorale, di fronte a quella dei radicali, fautori della via terroristica: l'azione di questi ultimi diviene così il mezzo per giustificare i metodi che permettono alla classe dominante e ai governi che ne sono espressione di mantenersi al potere. Nel caso algerino, con particolare evidenza, ma non meno nel caso egiziano (dove le leggi sullo stato d'emergenza, in vigore ininterrottamente dalla morte del presidente Anwar al-Sādāt, rendono impossibile qualsiasi vera normalizzazione della vita politica), è manifesta la volontà di conferire la massima visibilità all'ala più radicale del campo fondamentalista a scapito della sua alternativa legalista. Imboccando la via della repressione, i regimi finiscono col favorire essi stessi lo spostamento del centro di gravità dell'opposizione verso la componente più radicale, poiché l'esistenza di quest'ultima, enfatizzata dai media, permette di giustificare l'imbavagliamento di qualsiasi genere di opposizione legale.
In margine alla politica in senso stretto, le mobilitazioni sociali continuano a costituire una dimensione importante della relazione fra i regimi e le opposizioni fondamentaliste. Alla chiusura dall'alto della dinamica politica d'islamizzazione risponde la dinamica dell'"islamizzazione dal basso" dell'universo associativo ed educativo e delle istituzioni della società civile, cioè quella di tutti gli spazi sociali suscettibili di sfuggire almeno in parte all'ingerenza dello Stato: le dinamiche proibite negli ambienti istituzionali si ritrovano nei sindacati, in associazioni professionali e studentesche, strutture educative, centri di ricerca, club sportivi, associazioni umanitarie o di mutua assistenza, leghe per la difesa dei diritti umani, ma anche tra magistrati e professionisti. I vettori della mobilitazione sono sia tradizionali (moschee, pellegrinaggi, porta a porta, circoli ecc.) sia moderni (cassette audio e video, programmi televisivi, bollettini diffusi via fax, siti Internet ecc.). Queste forme di azioni extrapolitiche conoscono da qualche anno uno sviluppo particolarmente significativo e altrettanto multiforme. Il moltiplicarsi dei centri di ricerca e di studio, la proliferazione delle associazioni umanitarie nazionali, regionali e internazionali a referente islamico e l'investimento sistematico della rete Internet ne costituiscono uno degli aspetti maggiormente percepibili. Sullo sfondo della crisi economica, si sviluppano nuovi modelli di azione sociale, come l'organizzazione di matrimoni collettivi. Questi permettono di far diminuire in maniera considerevole i costi di una cerimonia di cui, se si svolgesse nella sua forma individuale tradizionale, numerosi giovani delle classi medie non potrebbero sostenere le spese.
Nella realtà complessa delle società musulmane, la strategia dei movimenti fondamentalisti passa oggi attraverso l'inventario paziente di molteplici e complesse dinamiche sociali e di opposizione, annullate invece nell'immaginario collettivo occidentale.
Classe politica e opinione pubblica occidentali continuano così a celebrare le vittorie delle élites laiche al potere nel mondo arabo su una perdurante minaccia integralista, con il risultato di una perdita dell'intera dinamica di liberalizzazione politica e di rinnovamento di quegli stessi gruppi al potere in un'area molto vicina all'Europa.
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