Abstract
Vengono esaminate la natura delle fondazioni e le diverse tipologie esistenti, confrontando la scarna disciplina legislativa, ancora ispirata a una sostanziale avversione verso i corpi intermedi e a un rigoroso controllo pubblicistico, con la concreta varietà di ruoli e configurazioni che l’istituto ha assunto nella prassi, ove la struttura della fondazione assolve ormai a diverse e complesse funzioni, pur dovendosi costantemente riferire agli elementi essenziali delineati nel codice civile. Muovendo pertanto dall’analisi dell’atto costitutivo e della funzione del riconoscimento, si prendono in esame le vicende che riguardano l’ente, in particolare in ordine allo scopo perseguito e alla eventuale trasformazione. Nel corso della trattazione si fa anche cenno alle più recenti e dibattute questioni in merito alle fondazioni, dall’esercizio di attività d’impresa, ai nuovi modelli di organizzazione, alle fondazioni fiduciarie, alla trasformazione da o in società di capitali.
La distinzione tradizionale tra associazioni e fondazioni, risalente al diritto comune, opponeva l’universitas personarum alla universitas bonorum. Tuttora, sebbene nelle fondazioni non manchi un elemento personale (identificato normalmente negli amministratori, o addirittura nei beneficiari), la presenza di un patrimonio destinato allo scopo rimane invero una caratteristica essenziale dell’ente, necessaria per il perseguimento delle finalità programmate. In effetti, un patrimonio può sussistere anche nelle associazioni, ma non solo esso non ne rappresenta un elemento indefettibile (lo scopo può essere perseguito anche soltanto grazie all’attività degli associati), bensì - ove sussista - assolve piuttosto a una funzione di garanzia nei confronti dei terzi. Non a caso, pertanto, l’art. 27 c.c., nell’elencare le cause di estinzione comuni ai due principali modelli di enti non lucrativi, non menziona il venir meno del patrimonio, che è invece espressamente previsto dall’art. 28 in relazione alla possibile trasformazione della fondazione (lo ricorda Zoppini, A., Note sulla costituzione della fondazione, in Riv. dir. comm., I, 1997, 307).
Nella prassi non è dato tuttavia riscontrare una distinzione così netta, essendo frequentemente presenti negli statuti delle fondazioni organi collegiali, diversamente denominati e rappresentativi dei diversi interessi coinvolti, i quali spesso assumono un ruolo addirittura prevalente rispetto all’elemento patrimoniale: si pensi alle fondazioni culturali o di ricerca, o alle cd. fondazioni di partecipazione, ove il fine di utilità sociale riunisce stakeholders pubblici e privati. A tale fenomeno di progressiva ibridazione del modello organizzativo proprio delle fondazioni con quello associativo, che si accompagna a un più generale processo di despecializzazione e destrutturazione delle Non Profit Organizations (le cui tipologie concrete confliggono ormai palesemente con la configurazione loro data dal codice civile), vanno aggiunti, da un lato, la frequente sovrapposizione della finalità non lucrativa tipica della fondazione con l’esercizio di attività d’impresa; dall’altro, l’uso dell’istituto per gli scopi più diversi, spesso favoriti o addirittura imposti dal legislatore (si pensi alle già citate fondazioni di partecipazione, alle fondazioni bancarie, alle fondazioni lirico-sinfoniche). Una metamorfosi profonda, che non solo sembra relegare ai margini della vita sociale la ‘classica’ fondazione di erogazione (volta, come nell’Idealtypus codicistico, a conseguire scopi di beneficenza e magari istituita per testamento), spingendo la più attenta dottrina a constatare che «il tipo (medio) empirico è individuato dal nesso genetico o funzionale tra fondazione e impresa» (così Zoppini, A., Le fondazioni. Dalla tipicità alle tipologie, Napoli, 1995, 6), ma rende addirittura difficile individuare una caratterizzazione tipologica costante dell’istituto, che consenta di identificarne dati strutturali ricorrenti e assumerli quali parametri tipici. Si è quindi giustamente affermato che la disciplina dell’istituto non riflette (più) un modello organizzativo univoco, limitandosi invece a delineare un «programma funzionale, ossia la coerenza attuativa, nella dinamica delle vicende dell’ente, del vincolo impresso all’attività per il conseguimento dello scopo» (Zoppini, A., Le fondazioni, cit., 132).
Il negozio di fondazione è allo stesso tempo un atto di disposizione patrimoniale, con il quale il fondatore decide di destinare un bene o un complesso di beni a uno scopo, e un negozio di organizzazione: il fondatore, infatti, con lo stesso atto costituisce una struttura più o meno complessa finalizzata proprio all’attuazione di quella finalità per la quale, nell’esercizio della sua privata autonomia, ha impresso una destinazione ai beni. I due momenti sono indissolubilmente legati, poiché il risultato deve essere raggiunto attraverso l’attività di corretto e proficuo impiego dei beni stessi, svolta dagli amministratori attraverso un’efficiente organizzazione; tuttavia, la prevalenza dell’uno o dell’altro profilo si atteggia in modo completamente diverso nei vari modelli concreti, potendo l’elemento patrimoniale assumere talora un rilievo preponderante (è il caso della fondazione di mera erogazione), altre volte invece limitarsi a una funzione meramente strumentale. In pratica, comunque, il contenuto patrimoniale e quello organizzativo dell’atto costitutivo sono talmente connessi che risulta esercizio meramente teorico, anche se diffuso in dottrina, distinguere tra atto di fondazione in senso stretto (ove devono essere contenute le indicazioni necessarie al funzionamento dell’ente e alla disciplina della sua organizzazione) e atto di dotazione (che contiene la destinazione dei beni allo scopo): dirimente, ai fini della conferma dell’unitarietà del negozio, appare non solo la considerazione formale che la facoltà di revoca sancita dall’art. 15 riguarda solo l’atto nella sua interezza (sì che se fosse permesso, ad es., revocare la sola disposizione dei beni si consentirebbe di lasciare «un guscio vuoto»: Ferrara sr., F., Le persone giuridiche, a cura di Ferrara jr., F., in Tratt. Vassalli, Torino, 1956, 335, nt. 5), ma soprattutto l’esigenza sostanziale di valutare l’adeguatezza del patrimonio in relazione alla specifica organizzazione delineata, e questa a sua volta «secondo la dimensione concreta che allo scopo viene conferita dall’entità del patrimonio» (Guarino, G., Le fondazioni. Alcune considerazioni generali, in Rescigno, P., a cura di, Le fondazioni in Italia e all’estero, Padova, 1988, 16).
Anche nel caso di fondazione testamentaria, pertanto, l’attribuzione patrimoniale disposta dal testatore non sarà regolata dalle disposizioni relative alle successioni, trattandosi comunque di un tipo negoziale più complesso, nel quale la destinazione dei beni effettuata (nella forma del legato, o dell’istituzione di erede) è comunque preordinata allo svolgimento di una precisa attività finalizzata a uno scopo, per il raggiungimento del quale viene istituita una apposita organizzazione (cfr. Galgano, F., Delle persone giuridiche, in Comm. c.c. Scialoja-Branca, Bologna, 1969, 166). In pratica, comunque, la necessità di delineare l’organizzazione dell’ente comporta l’obbligo per il testatore di indicare tutti gli elementi previsti dall’art. 16 c.c., a pena di nullità della disposizione.
In ogni caso, la necessità della forma pubblica per la costituzione, che nelle associazioni costituisce solo una condizione per il riconoscimento, è disposta a pena di nullità per le fondazioni istituite per atto tra vivi non solo e non tanto per la necessità del conferimento della personalità giuridica, ma anche perché la dotazione patrimoniale costituisce una liberalità, per la quale il legislatore vede nella solennità delle forme un necessario corollario della gratuità dell’attribuzione. Quanto agli eventuali vizi, torna invece a prevalere, rispetto alle regole generali sul negozio giuridico, la peculiarità della complessa fattispecie nella quale l’atto unilaterale di fondazione è inserito: sebbene, infatti, non si dubiti dell’applicabilità delle norme in materia di invalidità e inefficacia del negozio, è giustamente prevalente in dottrina e in giurisprudenza l’opinione secondo la quale l’invalidità dell’atto costitutivo non determini effetti ex tunc, ma – una volta ottenuto il riconoscimento – si converta in una causa di scioglimento dell’ente, grazie a un’applicazione analogica dell’art. 2332 c.c. che consente di aprire un procedimento di liquidazione a tutela di tutti i soggetti coinvolti dall’attività posta comunque in essere.
Peculiare è anche la disciplina della facoltà di revoca dell’atto, la quale risente del vincolo di destinazione impresso ai beni dal fondatore; essa, quindi, non può intervenire (come dispone l’art. 15 c.c.) dopo il riconoscimento, non può essere trasmessa agli eredi e neppure può essere esercitata dopo l’inizio dell’attività. Deve, infatti, ravvisarsi nella destinazione dei beni una promessa al pubblico, la cui vincolatività, a prescindere – si badi – dal riconoscimento, «va ricercata nella specifica funzione che essa assolve e segnatamente nel fatto che essa è in grado di suscitare un comportamento adeguato al programma reso pubblico» (Zoppini, A., Le fondazioni, cit., 191).
È l’art. 16 c.c. che elenca gli elementi essenziali dell’atto costitutivo, tra i quali assume particolare rilevanza l’assenza di qualunque riferimento alla natura dello scopo, in particolare alla presunta necessità di una finalità non lucrativa o ideale, o anche alla pubblica utilità (la conferma di tale impostazione «neutrale» del legislatore viene anche, come vedremo subito, dalla nuova normativa sul riconoscimento). Risulta, perciò, assolutamente lecita la connessione, come detto assai frequente, tra la fondazione e l’impresa, nelle due distinte forme della fondazione titolare di un’impresa e della «fondazione d’impresa» in senso stretto (definizione più adatta a un ente che solo indirettamente persegue finalità imprenditoriali, operando per il conseguimento di scopi che oscillano tra la beneficenza e la promozione aziendale per conto di un’impresa di riferimento: sul punto si veda ancora Zoppini, A., Le fondazioni, 54 ss.). Alla fondazione, infatti, non è affatto precluso l’esercizio di un’attività imprenditoriale, ma solo l’eventuale divisione degli utili (esiste quindi incompatibilità con lo scopo di lucro in senso soggettivo: Campobasso, G., Associazioni e attività d’impresa, in Riv. dir. civ., 1994, II, 583); è indubbio però che la neutralità delle forme giuridiche rispetto all’attività economica svolta, già rilevata già decenni orsono dalla più avveduta dottrina (il riferimento obbligato è a Rescigno, P., Fondazione e impresa, in Riv. soc., 1967, 833), consente comunque di applicare nella sua interezza all’ente (formalmente) non lucrativo lo statuto dell’imprenditore, soprattutto in relazione all’assoggettamento ad eventuali procedure concorsuali (sia consentito il rinvio a Cavalaglio, L., Il fallimento della fondazione titolare d’impresa: sottocapitalizzazione e abuso della persona giuridica, in Nuova giur. civ. comm., 1999, 246 ss.).
Si noti, infine, che l’art. 16 prevede che lo statuto indichi «i criteri e le modalità di erogazione delle rendite». È evidente in tale richiamo l’ispirazione della normativa al tradizionale modello della fondazione cd. erogatrice, che nella prassi è ormai sovrastato, tuttavia, dal diverso modello della fondazione operativa; la quale, invece di erogare risorse a favore di progetti gestiti da soggetti esterni all’ente, per fornire servizi di pubblica utilità organizza direttamente i fattori della produzione. In tal modo la fondazione operating attua sicuramente un miglior controllo sulla destinazione delle risorse rispetto alle fondazioni grant-making, ma subisce necessariamente il peso di un’organizzazione più articolata e, soprattutto, dei costi conseguenti, sì da aggravare alcuni dei difetti tipici degli enti non lucrativi (quali la fisiologica sottocapitalizzazione, l’oneroso accesso al capitale di debito, i ridotti stimoli all’efficienza gestionale e all’innovazione). La forte rigidità strutturale tipica delle Non Profit Organizations, pertanto, può in questo modello operativo essere aggravata, conducendo l’ente a erogare servizi in quantità eccessiva, o, viceversa, troppo ridotta rispetto alla domanda (si veda il fondamentale lavoro di Hansmann, H., The Ownership of the Enterprise, Cambridge, Ma, 1996, 240).
Tradizionalmente al riconoscimento veniva attribuita efficacia costitutiva, muovendo dall’asserita assenza di soggettività giuridica in capo agli enti non riconosciuti. Tale impostazione, invero strettamente connessa alle teorie che vedevano nell’attribuzione della personalità la vera e propria creazione di un soggetto di diritto, è da ritenersi superata sotto un duplice profilo: da un lato, infatti, è stata riequilibrata la prospettiva teorica nella quale inquadrare il riconoscimento, ormai correttamente interpretato come (mera) attribuzione da parte dell’ordinamento di uno speciale statuto normativo a determinate organizzazioni di mezzi e persone; dall’altro, è definitivamente consolidata nella prassi – e filtrata nella legislazione – la considerazione della (quasi) piena soggettività degli enti privi di personalità, intesi quali centri di imputazione di situazioni giuridiche a prescindere dal riconoscimento statale. Inoltre, lo smantellamento del rigido sistema di controlli sugli acquisti degli enti, avvenuto con l’abrogazione degli artt. 17, 600 e 786 c.c., ha di fatto ridotto la distinzione tra enti con o senza personalità al solo diverso regime di responsabilità di coloro che operano in nome e per conto dell’ente, i quali si troveranno a rispondere con il proprio patrimonio per le obbligazioni assunte ove l’organizzazione non abbia ottenuto il riconoscimento.
È tuttora prevalente, però, l’opinione negativa sull’ammissibilità di fondazioni non riconosciute, fortemente influenzata dal diffuso sfavore verso la figura stessa della fondazione e dettata dalla necessità teorica di rispettare alcuni principi cardine del sistema successorio (dal divieto di fedecommesso, a quello di usufrutto successivo), ma soprattutto dal concreto timore di eludere le aspettative creditorie, destinando (e quindi segregando) patrimoni a uno scopo senza che la meritevolezza del fine sia vagliato dalla pubblica autorità. Tuttavia, tali preoccupazioni appaiono infondate. Intanto perché non si rinviene nell’ordinamento un divieto espresso (che tra l’altro, potrebbe facilmente essere eluso attraverso la costituzione di un’associazione non riconosciuta che persegua scopi analoghi), anzi si rinvengono alcuni indici di una considerazione del fenomeno: dal riferimento implicito dell’art. 32 (che nel riferirsi alla trasformazione o scioglimento «di un ente, al quale sono stati donati o lasciati beni con destinazione a scopo diverso da quello proprio» sembra piuttosto riferirsi a «negozi che imprimono sui beni “donati” o “lasciati” un vincolo reale, e non solo personale, di destinazione», sì che l’ente destinatario non sarebbe «null’altro che l’amministratore … di una fondazione che differisce dalle altre … solo perché si tratta di una fondazione non riconosciuta»: Galgano, F., Delle persone giuridiche, cit., 370 s.), a quello esplicito del nuovo art. 473 c.c. (che nel riferirsi all’accettazione con beneficio d’inventario parla di «eredità devolute alle persone giuridiche o ad associazioni, fondazioni ed enti non riconosciuti»), al chiarissimo disposto dell’art. 15 (che stabilisce l’irrevocabilità dell’atto di fondazione quando l’ente abbia iniziato la propria attività, indipendentemente dal riconoscimento, in ciò sancendo chiaramente il fatto che l’opera seguita alla creazione della fondazione non rimane più nella sfera soggettiva del fondatore). Inoltre, l’eventuale violazione delle disposizioni poste a presidio della libertà testamentaria va valutata in concreto; mentre non può rinvenirsi nella responsabilità patrimoniale sancita dall’art. 2740 c.c. uno scopo di protezione del ceto creditorio sovraordinato al generale principio di tutela dell’autonomia privata. Non solo, infatti, l’ordinamento stabilisce a difesa delle aspettative dei creditori specifiche e precise disposizioni (dall’art. 2901 c.c. al nuovo art. 2929 bis c.c.), ma è ormai, per espressa previsione normativa (gli artt. 167 ss., l’art. 2645 ter c.c., gli artt. 2447 bis e ss. c.c.) o per arrembante diffusione nella prassi (i trusts), definitivamente accettata e praticata la possibilità di istituire patrimoni separati. Ciò, naturalmente, a non voler poi considerare la nota interpretazione dei comitati (artt. 39-42 c.c.) quali ipotesi di fondazione costituita per pubblica sottoscrizione (che, stante la mera eventualità a norma dell’art. 42 c.c. dell’acquisizione da parte del comitato della personalità giuridica, per Galgano, F., Delle associazioni non riconosciute e dei comitati, in Comm. c.c. Scialoja-Branca, Bologna, 1967, 293 rappresenterebbero appunto il sicuro indice di «ammissibilità per il diritto vigente di una fondazione non riconosciuta») e a non volersi soffermare sulla figura delle fondazioni fiduciarie, che nelle disposizioni modali, nella citata disciplina dei comitati e nello stesso art. 32 c.c. trovano conferme pratiche di un’innegabile possibilità di esistenza nel nostro ordinamento. Infine, pur non dovendo sovrapporre il problema della fondazione non riconosciuta con la nozione di fondazione fiduciaria, è giusto ricordare che secondo una condivisibile opinione quest’ultima costituisce «lo schema normativo, il paradigma di riferimento per strutturare l’appartenenza dei patrimoni destinati ad uno scopo, in tutte le ipotesi, codicistiche o create dalla legislazione speciale, in cui esiste un vincolo di destinazione reale su una massa di beni, senza che questo sia finalizzato all’acquisto della personalità giuridica» (Manes, P., Fondazione fiduciaria e patrimonio allo scopo, Padova, 2005, 41).
Tuttavia, come è noto, il riconoscimento è previsto per le fondazioni, e la sua disciplina ha subito una profonda revisione con la riforma introdotta dal d.P.R. 10.2.2000, n. 361, che ha modificato il regime concessorio previsto in precedenza, abrogando l’art. 12 c.c. che lo faceva dipendere da un decreto del Presidente della Repubblica, quindi da atti amministrativi discrezionali emanati di volta in volta in relazione a ciascun ente, a seguito di una valutazione dell’iniziativa e dei mezzi che la dovevano sostenere. Attualmente, invece, ai sensi dell’art. 1 del d.P.R. n. 361/2000, le fondazioni «acquistano la personalità giuridica mediante il riconoscimento determinato dall'iscrizione nel registro delle persone giuridiche, istituito presso le prefetture», ma viene limitato il controllo discrezionale della pubblica autorità alla liceità e possibilità dello scopo, oltre che all’adeguatezza della consistenza patrimoniale, significativamente eliminando ogni riferimento espresso all’utilità sociale. In pratica, pur non trattandosi in senso stretto dell’introduzione di un sistema cd. normativo, l’ingerenza della Pubblica Amministrazione sulle scelte dei privati è certamente ridotta. Sull’argomento, si rinvia comunque a De Giorgi, M.V. - Ponzanelli G. - Zoppini, A., a cura di, Il riconoscimento delle persone giuridiche – D.P.R. 10 febbraio 2000, n. 361, Milano, 2001.
Il controllo sull’amministrazione delle fondazioni, affidato dall’art. 25 c.c. all’autorità governativa, che secondo alcuni sarebbe ancora giustificato dai classici timori di immobilizzazione del patrimonio, è piuttosto da ritenersi orientato «a tutela di un vincolo di destinazione di diritto privato», poiché «la sua azione è volta ad assicurare che il patrimonio di fondazione sia effettivamente destinato allo scopo voluto del fondatore» (così, giustamente, Galgano, F., Delle persone giuridiche, cit., 341). L’estensione dei poteri attribuiti alla pubblica autorità (dopo la riforma del 2000, spettano alle prefetture, o a regioni e province autonome) è comunque piuttosto ampia: si va, infatti, dalla nomina e sostituzione dei rappresentanti ove non possano attuarsi le disposizioni contenute nell’atto di fondazione, all’annullamento di delibere contrarie all’atto stesso, a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume, fino alla nomina di un commissario straordinario ove gli amministratori agiscano in difformità «dello statuto o dello scopo della fondazione o della legge». Ancor più penetranti sono poi le facoltà attribuite all’autorità governativa dall’art. 26 c.c., in forza del quale essa «può disporre il coordinamento dell’attività di più fondazioni ovvero l’unificazione della loro amministrazione», sia pur nel rispetto, «per quanto possibile», della volontà del fondatore. È vero, infatti, che il limite sancito dallo scopo che il fondatore intendeva perseguire con la creazione dell’ente deve essere preservato, ma la funzione di coordinamento, finalizzata a evitare interferenze nelle attività e inefficienze organizzative, può tradursi ad es. nella precisazione degli ambiti di operatività e nella migliore definizione delle categorie dei beneficiari, incidendo comunque direttamente sugli statuti.
Rilevante è anche il potere conferito alla pubblica amministrazione in relazione alle cause di estinzione dell’ente. L’art. 27 c.c. prevede infatti che, «oltre che per le cause previste nell’atto costitutivo e nello statuto, la persona giuridica si estingue quando lo scopo è stato raggiunto o è divenuto impossibile», mentre l’art. 6 del d.P.R. n. 361/2000 affida agli enti preposti l’accertamento, «su istanza di qualunque interessato o anche d’ufficio», dell’esistenza di una delle cause di estinzione previste. Tale provvedimento ha natura costitutiva: il verificarsi degli eventi previsti dall’art. 27 c.c. (o anche l’eventuale accertamento fattone dagli amministratori della fondazione) non è infatti sufficiente in sé a determinare l’estinzione dell’ente.
In alternativa all’estinzione della fondazione, l’art. 28 prevede la possibilità per l’autorità governativa di disporne la trasformazione «quando lo scopo è esaurito o divenuto impossibile o di scarsa utilità o il patrimonio è divenuto insufficiente», anche qui, tuttavia, «allontanandosi il meno possibile dalla volontà del fondatore». Come nelle trasformazioni societarie, il procedimento è informato a un principio di conservazione (sì che la fondazione conserva la titolarità di tutti i rapporti giuridici, attivi e passivi), ma non si tratta di un mutamento del tipo, bensì dello scopo, disposto dalla pubblica autorità al fine di evitare la disgregazione della fondazione medesima. Il rispetto della volontà del fondatore, consacrata nello statuto, impedisce invece di procedere a questa «trasformazione» quando nello statuto essa sia esclusa espressamente o implicitamente, ovvero quando «i fatti che vi darebbero luogo sono considerati nell’atto di fondazione come causa di estinzione della persona giuridica e di devoluzione dei beni ad altre persone» (art. 28, co. 2).
Ulteriore eccezione a tale procedimento di trasformazione è sancita dal co. 3 dello stesso art. 28 c.c., che ne esclude l’applicazione «alle fondazioni destinate a vantaggio di una o più famiglie determinate». La norma assume particolare rilievo: costituisce, infatti, uno degli indici normativi che confermano, nonostante le tradizionali opinioni contrarie, la possibilità che le fondazioni abbiano una finalità esclusivamente «privatistica». Di diverso parere sono gli autori che subordinano anche la liceità di tali fondazioni al perseguimento di uno scopo di pubblica utilità (che pure si è visto essere scomparso dai requisiti per il riconoscimento), affermando ad es. che i beneficiari «non possono essere i discendenti in quanto tali, bensì solo in quanto versino in quella particolare situazione soggettiva di indigenza, di meritevolezza, ecc. che il negozio di fondazione ha preso in considerazione» (Moscati, E., Associazioni e fondazioni: finalità fiduciarie e loro rilevanza, in Nuova giur. civ. comm., 2005, II, 31). In realtà, sostenere l’illiceità di una fondazione familiare «pura» in virtù di un’applicazione analogica dell’art. 699 c.c. (che prevede la validità del legato avente ad oggetto l’erogazione a tempo indeterminato di somme a favore dei discendenti di determinate famiglie solo per fini di pubblica utilità) o dell’art. 692 c.c. sul divieto di sostituzione fedecommissaria costituisce un’indebita sovrapposizione di piani, (imponendo piuttosto le disposizioni in questione, dettate nell’ambito delle successioni a causa di morte, una valutazione in concreto dell’eventuale invalidità) e contrasta con un dato inconfutabile, ovvero la possibilità di ottenere il medesimo risultato attraverso il trust (avvalendosi magari di leggi che – a differenza del modello originario inglese – non impongono limiti di durata). Si consideri inoltre la difficoltà di rintracciare una pubblica utilità nel diffuso modello delle fondazioni d’impresa, o anche la possibilità, sancita dagli artt. 2500 septies e 2500 octies c.c., di trasformazione delle società lucrative in fondazioni e viceversa: in particolare, proprio la possibilità per le imprese lucrative di adottare il modello organizzativo della fondazione ne rende palese acquisita neutralità e impone, pur mantenendo fermo il non distribution constraint, di considerare la fondazione come un contenitore aperto alle più diverse opzioni. Appare evidente, pertanto, la necessità di svincolare definitivamente la riconoscibilità (o la modificazione) dell’ente dal precetto «supernormativo» della pubblica utilità, che appare ormai nulla più di una superfetazione dottrinale, a fronte di una disciplina legislativa (e soprattutto, di una prassi) definitivamente orientata verso il pieno riconoscimento dell’autonomia privata.
Una volta dispostane l’estinzione, l’art. 30 c.c. prevede la liquidazione del patrimonio della fondazione; tuttavia, secondo parte della dottrina, occorrerebbe comunque la definizione dei rapporti pendenti, «altrimenti l’ente, nonostante la sua formale cancellazione, non potrà dirsi estinto ed i creditori insoddisfatti potranno ancora agire nei suoi confronti, mentre le cause pendenti al momento della cancellazione non subiranno alcuna interruzione» (così Galgano, F., Delle persone giuridiche, cit., 363). In realtà l’art. 31 c.c. prevede che «i creditori che durante la liquidazione non hanno fatto valere il proprio credito, possono chiedere il pagamento a coloro ai quali i beni sono stati devoluti, entro l’anno dalla chiusura della liquidazione», in ciò confermando l’orientamento legislativo (art. 2495 c.c.) e giurisprudenziale in materia di società di capitali, che al contrario attribuisce efficacia costitutiva alla cancellazione dal Registro delle imprese.
L’art. 31 prevede anche che i beni residui siano devoluti «in conformità dell’atto costitutivo o dello statuto», ma «qualora questi non dispongano, se trattasi di fondazione, provvede l’autorità governativa, attribuendo i beni ad altri enti che abbiano fini analoghi». Tale devoluzione, assimilabile ad una successione mortis causa a titolo particolare, incontra secondo la prevalente dottrina dei precisi limiti nel caso di indicazione statutaria, non potendo «l’atto di fondazione disporre che i beni residui tornino al fondatore o vadano ai suoi eredi, a meno che il fondatore non sia esso stesso, come può accadere nelle fondazioni “a catena” o holdings, un ente perseguente “fini analoghi”» (così Galgano, F., Delle persone giuridiche, cit., 367). Anche in questo caso, tuttavia, la restrizione così introdotta sembra influenzata dalla nozione di pubblica utilità sottesa alla più risalente concezione dell’istituto; non solo, infatti, l’art. 28 c.c. consente al fondatore di prevedere espressamente ipotesi di «devoluzione dei beni a terze persone», ma la stessa Relazione al Codice Civile testualmente contempla l’ipotesi di reversibilità, al fine esplicito di favorire le liberalità e non comprimere l’autonomia privata.
Infine, come già accennato, la disposizione contenuta nell’art. 32 c.c. assume un’importanza sistematica fondamentale, rappresentando un’evidenza normativa dell’esistenza nell’ordinamento italiano (e quindi, dell’ammissibilità) della fondazione fiduciaria: sui beni, infatti, viene impresso un vincolo di destinazione, che, pur non dando luogo a una vera e propria segregazione (la limitazione di responsabilità nei confronti dei creditori, infatti, può essere conseguita solo in ipotesi tipiche, che espressamente la ammettano), comunque impone all’ente che amministra il lascito di disporre del patrimonio vincolato solo per la realizzazione dello scopo.
Artt. 14-35 c.c.; d.P.R. 10.2.2000, n. 361
Campobasso, G., Associazioni e attività d’impresa, in Riv. dir. civ., 1994, II, 581 ss.; Cavalaglio, L., Il fallimento della fondazione titolare d’impresa: sottocapitalizzazione e abuso della persona giuridica, in Nuova giur. civ. comm., 1999, I, 246 ss.; De Giorgi, M.V. – Ponzanelli, G. - Zoppini, A., a cura di, Il riconoscimento delle persone giuridiche – D.P.R. 10 febbraio 2000, n. 361, Milano, 2001; Ferrara sr., F., Le persone giuridiche, a cura di Ferrara jr., F., in Tratt. Vassalli, Torino, 1956; Fusaro, A., La fondazione di famiglia in Italia e all’estero, in Riv. notariato, 2010, I, 17 ss.; Galgano, F., Delle associazioni non riconosciute e dei comitati, in Comm. c.c. Scialoja-Branca, Bologna, 1967; Galgano, F., Delle persone giuridiche, in Comm. c.c. Scialoja-Branca, Bologna, 1969; Guarino, G., Le fondazioni. Alcune considerazioni generali, in Rescigno, P., a cura di, Le fondazioni in Italia e all’estero, Padova, 1988, 1 ss.; Hansmann, H., The Ownership of the Enterprise, Cambridge, Ma, 1996; Manes, P., Fondazione fiduciaria e patrimonio allo scopo, Padova, 2005; Moscati, E., Associazioni e fondazioni: finalità fiduciarie e loro rilevanza, in Nuova giur. civ. comm., 2005, II, 25 ss.; Rescigno, P., Fondazione e impresa, in Riv. soc., 1967, 812 ss.; Zoppini, A., Le fondazioni. Dalla tipicità alle tipologie, Napoli, 1995; Zoppini, A., Note sulla costituzione della fondazione, in Riv. dir. comm., I, 1997, 297 ss.