Abstract
L’esperienza italiana nel campo dei fondi pensione costituisce un modello “originale”, la cui struttura si connota della distinzione tra fonte istitutiva e fonte costituiva, della definizione dei confini che delimitano l’individuazione dei soggetti destinatari di una previdenza nella sua genesi “professionale” e, infine, della presenza di organi statutari, indipendenti e distinti rispetto ai soggetti che hanno partecipazione alla istituzione del fondo. Il presente contributo ne illustra sinteticamente la vigente disciplina, dopo le modifiche operate dal d.lgs. n. 147/2018 a seguito del recepimento della dir. 2016/2341/UE (IORP II), mettendone in evidenza la caratteristica di elementi indefettibili del sistema di previdenza complementare e la cui valutazione è da condursi alla stregua dei principi generali di fonte costituzionale e civilistica.
Il campo di applicazione soggettivo della disciplina introdotta dal d.lgs. n. 252/2005 è quello che era stato delineato dal testo previgente del 1993, il quale a sua volta era stato a più riprese già oggetto di diversi ampliamenti (si pensi ai soci lavoratori di cooperative e di produzione e lavoro ricompresi per effetto delle previsioni contenute già nella l. n. 335/1995; si v. in generale Vianello, R., Il nuovo campo di applicazione delle forme pensionistiche complementari di cui al d.lgs. n. 124/93: i soggetti e le fonti, in La riforma del sistema pensionistico, a cura di C. Cester, Torino, 1996, 406 ss.).
Il criterio generale per l’individuazione dei destinatari dei fondi pensione è l’esistenza di una copertura previdenziale di base. L’art. 1 d.lgs. n. 252/2005 riferisce espressamente delle «forme di previdenza per l’erogazione di trattamenti pensionistici complementari del sistema obbligatorio pubblico»: il carattere, per così dire, “occupazionale” della previdenza complementare non è messo in discussione dal legislatore delegato.
L’art. 2 d.lgs. n. 252/2005 stabilisce che alle forme pensionistiche complementari possano aderire in modo individuale o collettivo: a) i lavoratori dipendenti, sia privati sia pubblici, anche secondo il criterio di appartenenza alla medesima impresa, ente, gruppo di imprese, categoria, comparto o raggruppamento, anche territorialmente delimitato, o diversa organizzazione di lavoro e produttiva, ivi compresi i lavoratori assunti in base alle tipologie contrattuali previste dal d.lgs. 15.6.2015, n. 81; b) i lavoratori autonomi e i liberi professionisti, anche organizzati per aree professionali e per territorio; c) i soci lavoratori di cooperative, anche unitamente ai lavoratori dipendenti dalle cooperative interessate; d) i soggetti destinatari che, in base al d.lgs. 16.9.1996, n. 565, hanno titolo per iscriversi al «Fondo di previdenza per le persone che svolgono lavori di cura non retribuiti derivanti da responsabilità familiari» istituito in seno all’INPS, anche se non iscritti al fondo medesimo.
Il richiamo tra i lavoratori subordinati ai «lavoratori assunti in base alle tipologie contrattuali previste dal decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81», e precedentemente dal d.lgs. 10.9.2003, n. 276, rende privo di fondamento, a nostro avviso, l’idea di escludere dal proprio ambito di applicazione i lavoratori aventi determinati tipi di contratto o svolgenti attività limitate nel tempo (sul contratto di apprendistato, ad esempio, v. Squeglia, M., Lavoratori assunti con contratto di apprendistato e accesso alla previdenza complementare, in Commentario al Testo Unico dell’apprendistato, a cura di M. Tiraboschi, Milano, 2011, 219 ss.).
Si aggiunga che l’art. 2, co. 2, prevede inderogabilmente la possibilità di istituire fondi «a contribuzione definita» per i lavoratori dipendenti, per i soci lavoratori di cooperative e per i soggetti destinatari del d.lgs. 16.9.1996, n. 565: è dunque imposto l’obbligo di stabilire in anticipo la quota dei contributi che si intende versare al fondo pensione in modo che la rendita che ne deriverà sarà strettamente collegata all’entità dei contributi versati e agli investimenti del gestore del fondo. La norma tiene conto delle esigenze di governabilità dei fondi e di equilibrio finanziario delle gestioni, al fine di evitare loro l’esposizione al rischio di variazione degli oneri contributivi (cfr. Bessone, M., Previdenza complementare, Torino, 2000, 156; Squeglia, M. Il regime finanziario della capitalizzazione nella previdenza complementare: un sistema “perfetto” per le generazioni future?, in Dir. rel. ind., 2019, 81 ss.).
Resta invece possibile per i lavoratori autonomi e per i liberi professionisti l’istituzione di forme pensionistiche complementari in regime di “prestazioni definite”, volte ad assicurare, come si è già anticipato, una prestazione determinata al momento dell’adesione con riferimento al livello del reddito ovvero a quello del futuro trattamento pensionistico obbligatorio e la cui contribuzione si adeguerà nel tempo per raggiungere questo obbiettivo.
All’ambito “occupazionale”, il legislatore delegato ne affianca uno “universale”, segnatamente riferibile ai soggetti non appartenenti al mondo del lavoro e, dunque, in condizione non professionale per i quali rimane ammissibile la sola adesione alle forme pensionistiche individuali disciplinate dall’art. 13 e, in forza del rinvio contenuto nel co. 10 del medesimo art. 13, ai fondi pensione aperti su base individuale. In questa prospettiva potrebbe parlarsi, più che di una copertura complementare, di una previdenza che, presentandosi “sostituiva” di quella pubblica (cfr. anche Mazziotti, F., Sub art. 2, in Disciplina delle forme pensionistiche complementari, in Commentario al d.lgs. n. 124/1993, a cura di M. Cinelli, in Nuove leggi civ., 1995, 179), riempie di contenuti quella privata della quale l’ultimo comma dell’art. 38 Cost. garantisce una libertà e realizza una forma di risparmio da tutelare comunque, ai sensi dell’art. 47 Cost.
Offre una conferma di questa impostazione la possibilità di consentire la partecipazione anche dei soggetti fiscalmente a carico dell’aderente alla previdenza complementare (art. 8, co. 1, ultimo periodo, d.lgs. n. 252/2005). Ebbene l’idea che il legislatore riveli interesse alle esigenze previdenziali di coloro che risultano privi di reddito e inoccupati, porta a ritenere che l’estensione del campo di applicazione è motivata dallo spirito fortemente solidaristico e dall’importanza di un progetto previdenziale di lungo periodo (Squeglia, M., Gli incentivi alla diffusione della previdenza complementare, in AA.VV., La Previdenza complementare nel pubblico impiego. Terzo Rapporto, INPDAP, Roma, 2011, 122 ss.). Una partecipazione che si presenta simbiotica solo nella fase iniziale di instaurazione del rapporto dal momento che non comporta necessariamente la caducazione dell’iscrizione al fondo pensione del soggetto fiscalmente a carico ove successivamente venga meno quella dell’iscritto principale, tenuto conto che l’iscrizione del soggetto fiscalmente a carico, una volta attivata, assume una propria e distinta autonomia (v. risposta COVIP quesito novembre 2013).
Per quanto concerne la definizione dei confini che delimitano l’ambito “collettivo” dei destinatari di un singolo fondo pensione è devoluta dal legislatore all’azione negoziale delle parti sociali. Precisamente, la forma previdenziale autodefinisce il proprio ambito di applicazione, escludendo chi non fa parte dello specifico gruppo a priori individuato (Tursi, A., La previdenza complementare nel sistema italiano di sicurezza sociale, Milano, 2001, 242). A conferma che il legislatore, nonostante l’equiparazione tra fondi chiusi e aperti, tuttora assegna al contratto collettivo il ruolo di fonte privilegiata di istituzione delle forme pensionistiche complementari (Squeglia, M., La «previdenza contrattuale». Un modello di nuova generazione per la tutela dei bisogni previdenziali socialmente rilevanti, Torino, 2014, 9; Mazziotti, F., Sub art. 2, cit., 179).
I criteri di aggregazione dei lavoratori sono articolati su due livelli: verticale e trasversale. Nel primo caso, l’ambito più vasto coincide con il livello “categoriale” (sebbene neppure pare possa escludersi la possibilità di una soluzione intercategoriale) per poi scendere a quello di “comparto” (si pensi al comparto casse rurali all’interno della categoria del credito), di “raggruppamento”, di “gruppo di imprese” (o di impresa o di ente), finanche di «qualsiasi altra organizzazione di lavoro e produttiva» (si pensi ad un determinato stabilimento produttivo oppure ad una divisione dell’azienda). Se si consideri la trasversalità occorre, da un lato, valutare le “categorie contrattuali” (si pensi alla possibilità di istituire fondi pensione riservati al solo personale direttivo) e, dall’altro, la dimensione territoriale, nella quale il comune denominatore è rappresentato dal fatto di appartenere non ad una specifica categoria o ad una stessa identità produttiva aziendale, bensì a una determinata zona o area geografica (è il caso di Labourfonds in Trentino-Alto Adige, di Solidarietà Veneto, e di Fopadiva per i lavoratori residenti in Valle d’Aosta).
La fonte istitutiva di un fondo pensione, da intendersi quale atto negoziale da cui origina l’obbligo di costituzione del fondo pensione (v. Tursi, A., La previdenza complementare, cit., 196), configura la maturata volontà di istituire per l’appunto la forma pensionistica complementare, definendone «identità, programma, ambito e modalità dei soggetti legittimati ad aderire, regime delle contribuzioni e quant’altro rappresenti iniziale regolazione dell’istituenda iniziativa previdenziale» (Squeglia, M., La «previdenza contrattuale», cit., 12 ss.). Essa costituisce un chiaro indizio della vocazione della fonte contrattuale ad esaltare l’autonomia delle organizzazioni sindacali, della quale indubbi segni possono cogliersi nella disposizione di stabilire «le modalità di partecipazione alla forma pensionistica complementare» e di garantire «la libertà di adesione individuale» (art. 3, co. 3, d.lgs. n. 252/2005). Conseguentemente, il rapporto tra fonti istitutive e fonti negoziali è da concepire non in termini di svuotamento delle competenze, bensì semplicemente di subordinazione gerarchica con la conseguenza per le fonti costitutive, come si vedrà infra, di subire, per un verso, la disciplina di quelle istitutive, al pari delle norme imperative di legge e, per un altro verso, di essere coinvolte nella loro connaturata complessità.
Una previsione, quella del co. 3 dell’art. 3, che nei suoi profili essenziali appare estremamente rilevante nella ricostruzione delle fonti della forma pensionistica complementare per modo che non sembra azzardato sostenere che essa si traduce nella «volontà di fare dei fondi pensione controllati dalle organizzazioni sindacali quasi degli strumenti di palingenesi sindacale» (Zampini, G., La previdenza complementare. Fondamento costituzionale e modelli organizzativi, Padova, 2004, 38). Anzi, essa sembra pervenire anche ad un altro risultato: l’art. 39, co. 1, Cost. e con esso il principio di libertà sindacale dell’autonomia collettiva sancisce la competenza delle organizzazioni sindacali contrapposte di regolare i bisogni previdenziali dei lavoratori, trattandosi di una specificazione di quella funzione economica sociale cui una nota dottrina (Balletti, E., Contributo alla teoria dell’autonomia sindacale, Milano, 1963, 174) non aveva esitato ad assegnare «funzione di tutela degli interessi tipici dell’individuo lavoratore».
Ne sono esempio le pattuizioni di fonte contrattuale che introducano in favore di tutti i lavoratori dipendenti del settore di riferimento un contributo mensile, a carico del solo datore di lavoro, da versare al fondo pensione individuato dal medesimo contratto collettivo (sul punto v. Squeglia, M., La disciplina del welfare aziendale: linee evolutive, questioni aperte e prospettive di sviluppo, in Riv. dir. sic. soc., 2018, 807 ss.).
La questione non meriterebbe di essere approfondita in questa sede se ragionassimo come lavoratori già iscritti al fondo pensione, in quanto giungeremmo alla conclusione di aggiungere a questo contributo contrattuale quello posto a carico del datore di lavoro dalla fonte contrattuale. Per intenderci: un contributo aggiuntivo che si sommerebbe a quello ordinario previsto dalla fonte contrattuale.
Il caso degno di essere trattato attiene invece alla destinazione per opera della fonte istitutiva di un contributo contrattuale in favore dei lavoratori non iscritti ad alcuna forma pensionistica complementare per effetto della previsione contenuta nell’art. 1, co. 1172 e 1173, l. 27.12.2017, n. 205. Per questa via viene riaffermato uno degli aspetti promozionali che la legge assegna al contratto collettivo quale fonte istitutiva della previdenza complementare, sul duplice presupposto della garanzia della libertà consacrata nel predetto art. 39, co. 1, Cost. e nell’art. 38, co. 5, Cost.: il fine è quello di generare con questo unico versamento un’adesione, per così dire, “contrattuale” alla forma pensionistica complementare, senza che il lavoratore abbia espresso alcuna manifestazione in tal senso. Trattandosi di una scelta che è operata dall’autonomia contrattuale collettiva, è quest’ultima che individua il fondo pensione sul quale destinare il contributo contrattuale dei lavoratori non iscritti. Soltanto nel caso in cui al lavoratore sia richiesto di effettuare una scelta tra diversi fondi pensione, il suo silenzio imporrà al datore di lavoro di risolvere il concorso tra le diverse fonti contrattuali secondo i criteri indicati per il conferimento tacito del TFR e, dunque, dall’art. 8, co. 7, d.lgs. n. 252/2005 (e di cui si dirà infra). Ebbene, la vicenda si pone su un altro (duplice) profilo: da un lato, occorre confrontarsi, sul piano della teoria del contratto collettivo, con gli effetti normativi di quest’ultimo all’interno della cerchia di soggetti cui esso trova applicazione e, dunque, stabilire se una tale previsione possa contrastare con i predetti principi di libertà e volontarietà; dall’altro lato, occorre indagare sulla utilità di un’adesione contrattuale alla quale non faccia seguito un’adesione piena alla previdenza complementare specie ove si considerino le insufficienti posizioni individuali alimentate con il solo contributo contrattuale (cfr. i recenti indirizzi interpretativi della Commissione di Vigilanza contenuti nella recente nota prot. n. 1598/2; cfr. Squeglia, M., La disciplina del welfare aziendale, cit., 807 ss., secondo cui «la vicenda del “contributo contrattuale” costituisce un’applicazione evidente di quello che la “previdenza contrattuale” è in grado potenzialmente di realizzare»).
Se il dettato dell’art. 3 d.lgs. n. 252/2005, relativamente alle fonti istitutive, è in larga parte identico a quello del previgente art. 3 d.lgs. n. 124/1993, gli elementi di novità vanno rinvenuti nel collegamento con le altre norme fondamentali del decreto (si pensi, ad esempio, alla disciplina del conferimento del t.f.r. e al meccanismo del tacito conferimento, nei termini stabiliti dall’art. 8, co. 7, lett. b), nn. 1 e 2) dalle quali è possibile evincere un inequivocabile cambiamento dell’assetto complessivo del sistema della previdenza complementare.
Dunque, la “chiave” del collegamento tra forma pensionistica complementare e potere di normazione dei contratti e degli accordi collettivi nella definizione della forma pensionistica, nella modalità di partecipazione e nel regime delle contribuzioni è data dall’art. 3, secondo cui un fondo pensione negoziale (o chiuso) è istituito, secondo quanto sancito dall’art. 3, d.lgs. n. 252/2005 (lett. a, b, c, e, f), dalla contrattazione collettiva nelle sue diverse declinazioni (nazionale, territoriale e aziendale), dal regolamento aziendale e dagli accordi tra i lavoratori.
Così, conformemente all’opinione dottrinale dominante, il legislatore non sembra avere del tutto abdicato, nemmeno oggi, a quella «linea di promozione dell’autonomia collettiva che, unitamente alla promozione della previdenza complementare stessa, era già stata segnalata come cifra caratterizzante della legislazione in materia» (Tursi, A., La previdenza complementare, cit., 187).
Vale la pena segnalare che le parti sociali possono convenire, attraverso un accordo collettivo, l’adesione ad un fondo aperto, anziché ricorrere alla istituzione e alla conseguente costituzione di un fondo pensione di natura contrattuale (art. 12, co. 2, d.lgs. n. 252/2005). Questi accordi non devono, però, essere confusi con i contratti o gli accordi collettivi istitutivi della forma pensionistica di cui all’art. 3, co. 1, d.lgs. n. 252/2005: nel caso dei fondi aperti è soggetto istitutore soltanto il soggetto imprenditoriale, gestore del fondo, così come non vi è distinzione tra fonte istitutiva e fonte costitutiva del fondo, identificandosi funzionalmente entrambe nella delibera di adozione del regolamento del fondo (Squeglia, M., La «previdenza contrattuale», cit., 30). Il che denota che nei fondi aperti «la fonte istitutiva è del tutto neutra rispetto ai rapporti laburistici e si fonda sul potere aggregante che un gestore può ottenere proponendo un programma previdenziale e la relativa gestione» (Candian, A.D., Linee ricostruttive in materia di fondi pensione, in Fondi di previdenza e assistenza complementare, a cura di G. Iudica, Padova, 1998, 122).
Il rimando alla contrattazione collettiva inserisce il fondo pensione all’interno delle problematiche e dei principi che regolano la materia con tutte le sue luci e ombre (Squeglia, M., La «previdenza contrattuale», cit., 12 ss.; Persiani, M., La previdenza complementare tra iniziativa sindacale e mercato finanziario, in AA.VV., Scritti in onore di Giuseppe Suppiej, Padova, 2005, 715; Tursi, A., Contrattazione collettiva e previdenza complementare, in Riv. it. dir. lav., 2000, I, 269 ss.; Pessi, R., Conflitto o concorso tra fonti legali e fonti contrattuali della previdenza pensionistica complementare nell’ordinamento italiano. Gli spazi dell’autonomia individuale, in Mass. giur. lav., 1998, 776 ss.). La punta estrema, ma anche contraddittoria, del legislatore al decentramento del sistema di contrattazione collettiva è espressa nella «ipervalorizzazione della contrattazione plurima»: in questa sede occorre rammentare la possibilità di ricorrere ai diversi livelli di contrattazione territoriale o aziendale (in quest’ultimo caso, «anche ai soli soggetti firmatari»), ove il contratto nazionale non contenga alcuna previsione istitutiva di fondo pensione (Squeglia, M., La «previdenza contrattuale», cit., 9).
La voluntas legis di delimitare l’efficacia del contratto aziendale nei confronti dei soli aderenti alle associazioni firmatarie, sul presupposto che senza una siffatta norma il contratto stesso assumerebbe efficacia erga omnes, lascia perplessi per «l’indiretto avallo che esso fornisce ad una distorta configurazione giuridica del contratto collettivo» (cfr. Tursi, A., Le fonti istitutive nella riforma della previdenza complementare, in Newsletter MEFOP, 2006, 25, 5; v. anche Giubboni, S., Fonti istitutive e soggetti destinatari delle forme di previdenza complementare, in Cinelli, M., L’inquadramento sistematico delle forme di previdenza volontaria, in Previdenza complementare, Art. 2123 c.c., a cura di M. Cinelli, in Comm. c.c. Schlesinger, Milano, 2010, 126 ss.) alla stregua dei principi del diritto comune e, secondariamente, essendo la questione neutralizzata per mezzo dell’affermazione generale del principio di libertà di adesione individuale di cui all’art. 3, co. 3, del medesimo decreto.
La strada del regolamento aziendale è invece percorribile in via residuale: può essere individuata su iniziativa del datore di lavoro nel caso in cui il rapporto di lavoro non sia disciplinato da un contratto collettivo. Per il personale dipendente dalle amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1, co. 2, d.lgs. 30.3.2001, n. 165 (per intenderci, il personale “contrattualizzato”), le forme pensionistiche complementari possono essere istituite esclusivamente mediante i contratti collettivi nazionali. Per il personale dipendente “non contrattualizzato” di cui all’art. 3, co. 1, del medesimo decreto legislativo, le forme pensionistiche complementari possono essere istituite secondo le norme dei rispettivi ordinamenti ovvero, in mancanza, mediante accordi tra i dipendenti stessi promossi da loro associazioni.
L’accordo tra lavoratori è impiegato in alcuni casi come eccezione: ad esempio, in mancanza della contrattazione collettiva, sono possibili accordi fra lavoratori dipendenti promossi da sindacati firmatari di contratti collettivi nazionali di lavoro ovvero accordi, anche interaziendali per gli appartenenti alla categoria dei quadri, promossi dalle organizzazioni sindacali nazionali rappresentative della categoria, membri del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro; in altri casi, è utilizzato in via ordinaria dai lavoratori autonomi, dai liberi professionisti e dai soci lavoratori di cooperative (promossi da associazioni nazionali di rappresentanza del movimento cooperativo legalmente riconosciute). Sussiste tuttavia una differenza: nel caso degli accordi promossi dai lavoratori autonomi e liberi professionisti o tra soggetti destinatari del d.lgs. n. 565/1996, il fondo pensione deve essere promosso su iniziativa dei sindacati o di associazioni di rilievo almeno regionale.
La già evidenziata erosione della centralità delle fonti istitutive di origine contrattuale e di matrice sindacale trova una duplice conferma nella previsione primieramente nel medesimo articolo delle lett. d), g), h) e i), che individuano fonti che a rigore non lo sarebbero: il riferimento è in primo luogo, agli enti di diritto privato, di cui ai d.lgs. 30.6.1994, n. 509, e 10.2.1996, n. 103, con l’obbligo della gestione separata, i soggetti abilitati alla istituzione all’istituzione di forme pensionistiche individuali (precisamente quelli individuati dall’art. 1, co. 1, lettere e) e o), t.u.f. e dall’art. 1, co. 2, lettere a) e c), t.u.b., aventi sede legale o succursale in Italia) o di fondi pensione aperti (trattasi degli stessi individuati per le forme pensionistiche individuali al quali si aggiungono anche quelli previsti dall’art. 1, co. 1, lett. u), c. assicurazioni, operanti mediante ricorso alle gestioni di cui al ramo VI dei rami vita) e, infine, le Regioni del ruolo di «promotori di iniziative pensionistiche a genesi negoziale e non anche come soggetti che istituiscono direttamente il fondo pensione» (Bollani, A., Fonti istitutive e autonomia collettiva nella riforma della previdenza complementare, in La nuova disciplina della previdenza complementare, a cura di A. Tursi, in Nuove leggi civ., 2007, 608).
In ordine alle Regioni, cui la nuova formulazione dell’art. 117 Cost. attribuisce una discutibile competenza legislativa concorrente tra Stato e Regioni per la previdenza integrativa e complementare (si richiama sul punto Carinci, F., Aspetti problematici e prospettive de iure condendo, in Tursi, A., La previdenza complementare nel sistema italiano di sicurezza sociale, cit., XXV ss.), si obietta in dottrina che esse non promuovono direttamente l’istituzione dei fondi pensione («constatandosi … l’assenza di deleghe legislative in tema di riforma dell’assetto delle fonti istitutive della previdenza complementare»: Tursi, A., Note introduttive: la terza riforma della previdenza complementare, in La nuova disciplina della previdenza complementare, a cura di A. Tursi, in Nuove leggi civ., 2007, 545), bensì potrebbero porre le premesse per agevolarne il funzionamento (precisamente ad essere sarebbero state devolute “competenze regolative” e “non istitutive”) attraverso, ad esempio, la costituzione di una società di servizi e di consulenza per lo svolgimento dell’attività di gestione contabile e amministrativa o dell’attività di informazione e di consulenza a beneficio dei lavoratori interessati.
Secondariamente occorre prendere atto che il d.lgs. n. 252/2005 elimina il vincolo posto dal previgente art. 9, co. 2, d.lgs. n. 124/1993, cosicché tutte le forme pensionistiche complementari diventano ora liberamente accessibili: è astrattamente tracciata una linea di confine alla valorizzazione della promozione della fonte contrattuale che rimane ora circoscritta all’interno della sola famiglia dei fondi pensione negoziali (Squeglia, M., La «previdenza contrattuale», cit., 10 ss.).
A differenza delle fonti istitutive, quelle “costitutive” hanno il compito di organizzare la forma pensionistica, rappresentando lo strumento di attuazione del disegno previdenziale delle fonti istitutive. Un momento che, presentandosi solo formalmente distinto e coincidendo con l’atto che traduce la volontà delle parti nella concreta creazione di un fondo pensione, colloca la fonte costitutiva in una «posizione di precisa dipendenza funzionale» (Bessone, M., Previdenza complementare, cit., 50). Difatti, la forma giuridica del fondo pensione è indirettamente determinata, ed in certi casi imposta, dalla scelta negoziale operata dalla fonte istitutiva che prelude alla costituzione del fondo stesso (v. Balandi, G., Previdenza complementare e contratto collettivo, in Riv. giur. lav., 1993, I, 475), secondo un rapporto di sostanziale soggezione gerarchica delle fonti costitutive rispetto a quelle istitutive.
Vero che è convincimento comune in dottrina che «la linea divisoria tra queste due fasi (istituiva e costituiva) non risulta sempre nitidamente tracciata» (Ferraro, G., La problematica giuridica dei fondi pensione, in La previdenza complementare nella riforma del welfare, a cura di G. Ferraro, I-II, Milano, 2000, 10; sulla stessa posizione v. Tursi, A., La previdenza complementare, cit., 197), trattandosi di atti, anch’essi negoziali, che organizzano la forma pensionistica attraverso la disciplina di uno statuto (e di un parallelo regolamento) configurandola come soggetto di diritto.
È innegabile però che la disciplina posta in essere dall’art. 4 d.lgs. n. 252/2005 introduca un «vincolo conformativo inderogabile» (Tursi, A., La previdenza complementare, cit., 44) all’organizzazione e dalla strutturazione soggettiva dei fondi pensione, imponendo l’adozione di determinate forme giuridiche.
Tale constatazione consente di cogliere appieno la strumentalizzazione al fine previdenziale di tutte le forme contemplate e regolate dall’ordinamento, per mezzo di speciali tutele e di speciali garanzie, aventi anche rilievo pubblicistico; e ciò al fine di evitare la dispersione del patrimonio a tale scopo impiegato, intervenendo anzitutto sulla stessa configurazione giuridica dei fondi pensione, prima ancora che sul loro funzionamento, sulla loro governance e sul sistema dei controlli. Ed è proprio per tale ragione che la norma dispone che i fondi pensione siano costituiti nelle forme ricomprese negli artt. 12 e 36 c.c. ovvero come soggetti giuridici di natura associativa, distinti dai soggetti promotori dell’iniziativa (associazioni non riconosciute) o come soggetti dotati di personalità giuridica (associazioni o fondazioni riconosciute).
L’esperienza maturata nel vigore del d.lgs. n. 124/1993 indica peraltro come i fondi chiusi siano stati sempre costituiti, come meglio si dirà, in forma di associazione riconosciuta; il che si è verificato anche nel caso dei fondi a carattere meramente aziendale, che pure non ne avevano l’obbligo (Bollani, A., Fonti istitutive e autonomia collettiva, cit., 617).
Nelle forme «soggetto dotato di personalità giuridica», in deroga alle disposizioni del d.P.R. 10.2.2000, n. 361, il riconoscimento della personalità giuridica consegue al provvedimento di autorizzazione all’esercizio dell’attività adottato dalla Commissione di Vigilanza dei Fondi pensione (COVIP), posto che per essi è la COVIP a curare la tenuta del registro delle persone giuridiche e a provvedere ai relativi adempimenti. In capo alla COVIP sono dunque accorpate le competenze – all’esito di un procedimento unitario – relative al riconoscimento della personalità giuridica ed al rilascio dell’autorizzazione all’esercizio dell’attività (Tursi, A., La configurazione soggettiva delle forme pensionistiche, in La previdenza complementare, a cura di M. Bessone e F. Carinci, Torino, 2004, 266). Scompare l’intervento del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali per ciò che attiene il riconoscimento della personalità giuridica; ed anche per ciò che concerne i fondi già operanti la COVIP provvederà ad acquisire i registri prefettizi delle persone giuridiche.
Occorre considerare che il legislatore ha ristretto il campo di applicazione della forma dell’associazione non riconosciuta, stabilendo il ricorso tassativo al riconoscimento giuridico per i fondi pensione costituiti nell’ambito delle categorie, comparti e raggruppamenti sia per i lavoratori subordinati sia per i lavoratori autonomi (art. 4, co. 5, d.lgs. n. 252/2005). Peraltro, in questo caso, come si è già evidenziato supra, «i relativi statuti devono prevedere modalità di raccolta delle adesioni compatibili con le disposizioni per la sollecitazione al pubblico risparmio».
Il legislatore ha dunque individuato le forme giuridiche come contenitore per inquadrare l’istituto del fondo pensione, ma quest’ultimo si configura «come una forma tecnica originale e autonoma», trattandosi di fenomeni di particolare complessità (cfr. Bessone, M., Fondi pensione «chiusi». Le regole di organizzazione e le attività degli amministratori, in Argomenti dir. lav., 2001, 747). Una conferma che si deduce dall’analisi delle disposizioni del codice civile, le quali non trovano integrale e automatica applicazione nell’ambito dei fondi pensione, ma solo se coerente con la disciplina speciale in materia di previdenza complementare. Si pensi all’obbligo dell’atto costituivo di contenere obbligatoriamente la dizione “fondo pensione” e la denominazione dell’associazione; all’obbligo di prevedere la pariteticità della rappresentanza tra lavoratori e datori di lavoro e di stabilire il metodo elettivo per la rappresentanza dei lavoratori; all’obbligo della costituzione del collegio sindacale e della previsione del criterio di composizione paritetico.
Soffermiamoci per qualche istante sull’obbligo della denominazione che contenga l’indicazione di “fondo pensione”; indicazione il cui uso, peraltro, è inibito a qualunque altro soggetto. La disposizione sancisce il fondamentale principio della separazione patrimoniale alla cui pratica realizzazione è poi finalizzata, a ben vedere, l’intera trama dell’art. 4. L’art. 1, co. 4, rappresenta cioè la premessa logica cui il medesimo articolo dà poi svolgimento, concorrendo così tali norme del d.lgs. n. 252/2005 a radicare uno dei pilastri fondamentali su cui riposa la complessiva architettura dell’intervento legislativo (in questi termini, sia pure riferiti all’art. 4, d.lgs. n. 124/1993 pressoché riprodotto dall’art. 4 d.lgs. n. 252/2005, v. Candian, A.D., I fondi pensione, Milano, 1998, 92; Tosi, P., Contrattazione collettiva e previdenza complementare, in Argomenti dir. lav., 1999, 358). Piuttosto è l’ambito, o meglio i contenuti, di questa finalizzazione “previdenziale” a presentarsi nei fatti ambigua ed equivoca. Infatti, dichiarata la natura e lo scopo previdenziale della forma pensionistica complementare, tale sarebbe ogni prestazione da essa erogata, a prescindere dalla sua qualificazione? La questione però non pare possa assumere rilevanza nell’ordinamento interno dal momento che è condizionata dalla tassatività dell’elenco delle prestazioni individuato dal legislatore nazionale. Allora come leggere la recente disposizione, introdotta dall’art. 1, co. 1, lett. a, d.lgs. n. 147/2018, secondo cui «[l]e forme pensionistiche complementari di cui al presente decreto limitano le proprie attività alla previdenza complementare e a quelle ad essa collegate» (art. 1, co. 1 bis, d.lgs. n. 252/2005)? A nostro avviso, quello che parrebbe essere un mero esercizio descrittivo, si presenta all’invero di particolare interesse teorico, a patto di calare la norma nella dimensione transfrontaliera cui le forme pensionistiche complementari potrebbero essere autorizzate ad operare. In quel contesto «attività ad esse collegate» devono intendersi attività che assicurino nell’ordinamento domestico “elevati i livelli di copertura previdenziale”, e dunque, siano in grado di evocare nella sostanza, indipendentemente dal nomen utilizzato, il “collegamento funzionale” tra previdenza obbligatoria e privata.
Resta infine residuale la possibilità della costituzione di un fondo pensione nell’ambito della singola società o del singolo ente (definito “interno” in quanto privo di autonomia giuridica) attraverso la formazione, con apposita deliberazione, di un patrimonio di destinazione, separato ed autonomo, nell’ambito della medesima società od ente, con gli effetti di cui all’art. 2117 c.c.: tale opportunità è riservata ai soli fondi pensione istituiti ai sensi dell’art. 3, co. 1, lett. g), h) e i), d.lgs. n. 252/2005 (si tratta, come si è visto, degli enti di diritto privato di cui al d.lgs. n. 509/1994 e d.lgs. n. 103/1996, con l’obbligo della gestione separata; dei soggetti abilitati alla gestione dei fondi pensione aperti; dei soggetti abilitati alla gestione delle forme pensionistiche complementari individuali). In questi casi, come si è già rilevato in precedenza, si produrranno gli effetti di cui all’art. 2117 c.c., consistenti nella indistraibilità del patrimonio dal fine previdenziale e nella non assoggettabilità del medesimo ad esecuzione da parte dei creditori dell’imprenditore o del prestatore di lavoro (Candian, A.D., I fondi pensione, cit., 92; Del Prato, E., Inquadramento privatistico dei fondi, in Previdenza complementare, Art. 2123 c.c., a cura di M. Cinelli, in Comm. c.c. Schlesinger, Milano, 2010, 58 ss.).
La costituzione del fondo pensione non è sufficiente per l’esercizio dell’attività in quanto il legislatore impone la concessione di un’autorizzazione da parte della Commissione di Vigilanza il cui esito finale del procedimento amministrativo è trasmesso al Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali e al Ministro dell’Economia e delle Finanze. I termini per il rilascio del provvedimento che concede o nega l’autorizzazione sono fissati in sessanta giorni dalla data di ricevimento da parte della COVIP dell’istanza e della prescritta documentazione ovvero in trenta giorni dalla data di ricevimento dell’ulteriore documentazione eventualmente richiesta entro trenta giorni dalla data di ricevimento dell’istanza. La Commissione di Vigilanza può determinare con proprio regolamento le modalità di presentazione dell’istanza, i documenti da allegare alla stessa ed eventuali diversi termini per il rilascio dell’autorizzazione comunque non superiori ad ulteriori trenta giorni (cfr. deliberazione COVIP 16 marzo 2012 recante il regolamento sulle procedure relative all’autorizzazione).
Successiva alla fase costituiva è il momento nel quale il fondo pensione avvia la raccolta delle preadesioni dei lavoratori al fine di raggiungere il numero minimo che assicuri la massa critica indispensabile per la fattibilità del progetto previdenziale. In effetti, l’analisi della raccolta delle preadesioni rivela il grado di accoglimento della proposta nella platea dei destinatari, consentendo di formare la prima base concreta di aderenti al fondo pensione.
Saranno questi iscritti a partecipare alle prime elezioni degli organi statutari, concretizzando il passaggio dalla fase iniziale guidato dall’organo provvisorio nominato dalle fonti istitutive a quello in cui il fondo pensione dà vita ai propri organi autonomi la cui configurazione trova, peraltro, ulteriore specificazione sia nelle disposizioni attuative demandate al Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali (con particolare riferimento all’onorabilità e professionalità dei componenti degli organi collegiali e, comunque, del responsabile della forma pensionistica complementare, facendo riferimento ai criteri definiti ai sensi dell’art. 13 d.lgs. 24.2.1998, n. 58, da graduare sia in funzione delle modalità di gestione del fondo stesso sia in funzione delle eventuali delimitazioni operative contenute negli statuti) sia nella disciplina emanata dalla COVIP.
Agli organi eletti è devoluto il compito di presentare l’istanza di autorizzazione del fondo pensione alla Commissione di Vigilanza.
Per effetto della previsione contenuta nell’ultimo comma dell’art. 4 d.lgs. n. 252/2005, la Commissione di Vigilanza disciplina anche le ipotesi di decadenza dall’autorizzazione allorquando il fondo pensione non abbia iniziato la propria attività ovvero non abbia conseguito la base associativa minima prevista dal fondo stesso, previa convocazione delle fonti istitutive.
La finalizzazione previdenziale e il perseguimento di un interesse pubblico impongono la definizione di un sistema di tutela che passa anche attraverso la individuazione di peculiari architetture istituzionali.
Gli organi statutari rendono il fondo pensione una «figura giuridica terza» (Bruni, R., La governance delle forme pensionistiche complementari, in La nuova disciplina della previdenza complementare, a cura di A. Tursi, in Nuove leggi civ., 2007, 623; o se si preferisce «originale»: Squeglia, M., La «previdenza contrattuale», cit., 26), distinta delle associazioni o da qualunque altra forma rispetto al quadro normativo civilistico, presentandosi distinti e indipendenti rispetto alle fonti istitutive che hanno partecipato alla istituzione e costituzione della forma pensionistica complementare.
Ciò significa che non è sufficiente riferirsi alle sole regole contenute nel codice civile: occorre richiamarsi anche a quelle contenute negli art. 4 bis e ss. d.lgs. n. 252/2005, come modificati e introdotti dal d.lgs. n. 147/2018 che ha recepito la dir. 2016/2341/UE (“IORP II”), alle disposizioni dettate con decreto del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, con specifico riguardo ai poteri degli organi collegiali e alle previsioni regolamentari dettate dalla Commissione di Vigilanza.
In particolare, se il codice civile prevede che ogni associazione sia dotata di un’assemblea e di un organo di amministrazione, la disciplina speciale impone la presenza anche di un organo di controllo nonché di uno specifico organismo di rappresentanza per i soli fondi pensione aperti ad adesione collettiva, avente la funzione di collegamento tra le collettività che aderiscono al fondo (almeno 500 lavoratori appartenenti ad una singola azienda o a un medesimo gruppo) e la società che gestisce il fondo pensione aperto e il responsabile. Per conseguenza l’istituzione di organi di indirizzo, amministrazione e di controllo, peraltro investiti di un importante ruolo di coordinamento tra i diversi operatori coinvolti nell’attività del fondo pensione, deve essere vista con funzione di tutela verso i partecipanti (Squeglia, M., La «previdenza contrattuale», cit., 27). Il legislatore non si è distaccato da questa impostazione “protezionistica”, nemmeno per quel concerne la nuova figura di “direttore generale” della forma pensionistica
complementare, introdotta dall’art. 1, co. 6, lett. b), d.lgs. n. 147/2018 (ovvero del “responsabile” nel caso di prodotto previdenziale), la cui nomina compete al consiglio di amministrazione del fondo (o della società istitutrice), riconoscendogli un ruolo rilevante nell'impianto del sistema di tutela del risparmio previdenziale.
Ed è proprio in questa prospettiva che l’art. 5 d.lgs. n. 252/2005 impone, ad esclusione dei fondi pensione aperti e dei piani pensionistici individuali, l’obbligo della pariteticità della rappresentanza e del metodo elettivo ai fini dell’individuazione dei rappresentanti dei lavoratori per la composizione degli organi di amministrazione e di controllo delle forme pensionistiche complementari. Certamente, il principio di pariteticità introduce un elemento di novità rispetto alla disciplina e alla prassi operante nei confronti degli organi collegiali i quali prevedono un numero di componenti dispari al fine di realizzare la certezza della capacità deliberativa dell’organo. Una regola che potrebbe però ritorcersi sulla stessa governance del fondo pensione nel caso in cui generi una paralisi operativa alla presenza di una impasse decisionale di cui sia responsabile l’organo di amministrazione. Indubbiamente il recepimento della dir. 2016/2341/UE, avvenuto con il recente d.lgs. n. 147/2018, se produce positive ricadute sul piano della trasparenza e della sana e prudente gestione attraverso l’introduzione di nuovi e più rilevanti presidi di governance, da proporzionare con riferimento alla dimensione, alla natura, alla portata e alla complessità del fondo pensione (quali, ad esempio, il documento su sistema di governo societario, le politiche scritte in relazione alla gestione del rischio, la previsione di funzioni fondamentali quali la gestione dei rischi, la revisione interna, e la gestione attuariale, una precisa politica di remunerazione, un apposito documento sulla valutazione interna del rischio), offre il fianco, non solo al tema dei costi da sostenere, ma al rischio di duplicazioni normative con la disciplina di settore.
Completa l’impianto fin qui delineato l’individuazione di specifici profili di responsabilità degli amministratori e dei sindaci (e del responsabile del Fondo) per effetto dell’estensione delle norme codicistiche, riferite alle società di capitali (artt. 2392-2396 c.c.), non senza problemi in ordine alla loro concreta applicazione. Una previsione che dovrebbe fungere più da deterrente, spingendo «a collaudare prassi condivise che eliminino il più possibile i rischi di instabilità sia per il fondo sia per il percorso pensionistico degli aderenti» (Francario, L., La ridefinizione della governance nei fondi pensione con pluralità di forme previdenziali, in La previdenza complementare in Italia, a cura di M. Messori, Bologna, 2006, 349 ss.).
Fonti normative
Artt. 12, 36, 38, 39, co. 1, 47 Cost.; artt. 2117 e 2123 c.c.; art. 3 l. 23.10.1992, n. 421; art. 2, co. 26, d.lgs. 30.12.1992, n. 503; d.lgs. 21.04. 1993, n. 124; d.m. 21.11.1996, n. 703; d.m. 14.1.1997, n. 211; art. 1, co. 1, lett. c), 2, lett. e), h), i), l) e v), 44, 45 e 46 l. 23.8.2004, n. 243; art. 15 l. 8.8.1995, n. 335; d.lgs. 5.12.2005, n. 252; Provvedimento 10.11.2006, n. 2472; d.m. 10.5.2007, n. 62; d.m. 15.5.2007, n. 79; d.m. 7.12.2012, n. 259; d.m. 2.8.2014, n. 166; art. 1, co. 26, l. 23.12.2014, n. 190; art. 1, co. 156, 157 e 173 ss. l. 27.12.2017, n. 205; d.lgs. 13.12.2018, n. 147.
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