Abstract
Nella definizione di un sistema di fondi pensione fondato sul modello della contribuzione definita e della capitalizzazione individuale costituiscono aspetti cruciali le questioni delle fonti di finanziamento e della gestione delle risorse devoluta a soggetti professionali abilitati, tranne poche e residuali ipotesi nelle quali è consentita la gestione diretta. Il presente saggio esamina entrambi gli aspetti, offrendo spunti sul dibattito sempre attuale sulla natura della contribuzione datoriale, sulla “modalità tacita” di conferimento del trattamento di fine rapporto nonché sulla finalizzazione previdenziale della gestione del fondo.
Si è affermato in dottrina che il fine previdenziale di un fondo pensione è raggiunto in due fasi distinte: l’accumulazione (o il finanziamento), da un lato, e l’erogazione delle prestazioni, dall’altro. Nella misura e nella parte in cui il fondo pensione è impegnato nella raccolta delle contribuzioni e nel loro investimento, l’accumulazione è cruciale nell’analisi del modello della contribuzione definita e del sistema tecnico-finanziario di capitalizzazione (sul regime della capitalizzazione individuale, si v. Squeglia, M., Il regime finanziario della capitalizzazione nella previdenza complementare: un sistema “perfetto” per le generazioni future?, in Dir. rel. ind., 2019, 81 ss.). Si constata, dunque, l’imprescindibilità di un “piano di versamenti” che, presentandosi adeguato sotto il profilo temporale e quantitativo, supporti e quindi sostenga il complesso sistema di previdenza complementare. Non è però lecito convenire che sussista una piena assimilazione fra contribuzione disposta dalle norme imperative che disciplinano il sistema della previdenza pubblica e i contributi destinati ai fondi pensione (cfr. anche Tursi, A., La natura giuridica e la disciplina legale dell’obbligazione contributiva nelle forme pensionistiche complementari, in Riv. prev. pubbl. e priv., 2002, 89): durante la fase dell’accumulo, le posizioni individuali restano intangibili e non sono assoggettate ad alcun vincolo di cedibilità, sequestrabilità e pignorabilità.
Certamente, l’impiego del termine “contributi” rivela il disagio dell’interprete non fosse altro per la ragione che, alla stregua delle norme civilistiche, non rinviene alcun riscontro sul piano della produzione degli effetti giuridici; né a diversa conclusione potrebbe giungersi ove si ipotizzasse una improbabile contrapposizione fra retribuzione e contribuzione nell’ambito della autonomia negoziale.
La prima questione che nasce dallo studio delle somme versate alla previdenza complementare è se la contribuzione datoriale rientri nell’ambito della quantificazione (e, per certi versi, della qualificazione) dei trattamenti retributivi, la cui regolazione – come è noto – è affidata in primis alla contrattazione collettiva, nel rispetto dei rinvii operati dalla legge e dell’attuazione dell’art. 36 Cost. che fonda il diritto, per ciascun lavoratore subordinato, alla “giusta retribuzione” o, rectius, alla «retribuzione sufficiente e proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato».
Ebbene, constatata «la dissociazione tra l’immediata precettività del diritto alla giusta retribuzione e la questione dell’efficacia soggettiva limitata del contratto collettivo» (Bellomo, S., Retribuzione sufficiente e autonomia collettiva, Torino, 2002, 52; cfr. anche Cataudella, A., Sul contenuto del contratto, Milano, 1966, 308), la soluzione più idonea, qualora il trattamento economico stabilito nel contratto collettivo non corrisponde ai parametri dell’art. 36 Cost., è apparsa quella di ricorrere al potere determinativo del giudice sulla base dell’art. 2099 c.c.
Si è così formato un indirizzo interpretativo (cfr. Cass., 8.8.2000, n. 10465, in Riv. it. dir. lav., 2001, II, 658 con nota di V. Poso; Cass., 18.3.2004, n. 5519, in Giur. it. Mass., 2004; Cass., 3.2.2005, n. 2144, in Guida dir., 2005, 9, 88) nel quale è pressoché unanime il convincimento che solo gli elementi retributivi di generale applicazione (quali ad esempio, le ferie, la gratifica natalizia, il riposo settimanale) rientrano nel concetto di retribuzione minima, ex art. 36 Cost., e non anche gli ulteriori istituti previsti a favore del lavoratore dai contratti collettivi. L’elaborazione di questi orientamenti giurisprudenziali manifesterebbe allora la propensione ad escludere la configurabilità di siffatte “contribuzioni” al fondo pensione entro il concetto di “giusta retribuzione” (cfr. Cass., 9.8.1996, n. 7383, in Giur. it., 1997, I,1, 1390; Cass., 26.3.1998, n. 3218, in Riv. it. dir. lav., 1998, II, 683): il che non sconfesserebbe il nesso corrispettivo di questi emolumenti bensì che siano necessariamente parte della retribuzione. Un risultato interpretativo che è, a nostro avviso, da condividere almeno per due ordini di ragioni. La prima muove dall’idea che la retribuzione, come scrive autorevole dottrina, «venga ricostruita con riguardo alla normativa sindacale, alle funzioni che questa assurge ad ognuno dei suoi elementi e alle connessioni che essa instaura tra ciascuno di quegli elementi» (Persiani, M., Legge, giudice e contratto collettivo, in Dir. lav., 1977, 15) e, dunque, che l’attuazione concreta dei principi di proporzionalità e sufficienza della retribuzione sia primariamente affidata all’autonomia sindacale. La seconda tiene conto della circostanza che tale “contribuzione” datoriale è inscindibilmente legata alla scelta, libera e volontaria, del lavoratore del sistema di previdenza complementare: difatti, come si è visto, è con l’adesione che si rende effettiva la determinazione adottata dalle parti collettive.
Escluso allora che queste contribuzioni siano direttamente imputabili a remunerazione della prestazione lavorativa di cui all’art. 36 Cost., è sulla natura di esse che non si riscontra unanimità di giudizio. Da un lato, se la pronuncia della Consulta (C. cost., 8.9.1995, n. 421), di cui si è dato in precedenza conto (si v. Squeglia, M., Fondi pensione 1. Profili generali, in Diritto on line Treccani – Approfondimenti enciclopedici, 2019, DOI 10.7394/DOL-784), conferma, sul versante della “struttura” della contribuzione più che sulla sua natura, l’esclusione dalla nozione di retribuzione imponibile ai fini previdenziali delle somme versate ai fondi pensione sullo sfondo di un processo di funzionalizzazione della previdenza complementare alle esigenze di quella pubblica («le contribuzioni degli imprenditori non possono più definirsi “emolumenti retributivi con funzione previdenziale”, bensì “strutturalmente” contributi di natura previdenziale, come tali estranei dalla nozione di retribuzione imponibile»); dall’altro, la giurisprudenza di legittimità (Cass., S.U., 1.2.1997, n. 974 in Giust. civ., 1997, I, 915, con nota di D. Giacalone), il cui percorso argomentativo sulla natura retributiva delle somme conduce ad un concetto di retribuzione «in senso ampio» segnatamente da riferire ad una nozione che supera l’ambito di corrispettività in senso stretto per accoglierne una più estesa finalizzata a soddisfare le esigenze di vita del lavoratore (Sigillò Massara, G., Sul fondamento costituzionale della previdenza complementare, in Le fonti normative negoziali della previdenza complementare in Europa, a cura di A. Tursi, I, Torino, 2013, 16 ss.). Ed è proprio su questa base che, nel tentativo di operare un distinguo con la previsione contenuta nell’art. 4, co. 5, l. 28.5.1982, n. 297 («Restano salve le indennità corrisposte alla cessazione del rapporto aventi natura e funzione diverse da quelle delle indennità di cui al comma precedente»), si è giunti a ritenere che tali versamenti datoriali avrebbero natura retributiva in ragione di una sorte di “corrispettività lavoristica” – benché non rientranti nell’art. 36 Cost. – e funzione previdenziale, stante il collegamento con l’art. 38, co. 2, Cost., in quanto idonea ad assorbire l’elemento strutturale della retribuzione. Senonché una tale conclusione non si è concretizzata in un preciso indirizzo interpretativo, dal momento che la giurisprudenza di legittimità più recente è costantemente orientata a sostenere la natura di “retribuzione differita con funzione previdenziale” delle quote destinate ai trattamenti pensionistici integrativi aziendali, peraltro sganciate da una stretta relazione di corrispettività con la prestazione lavorativa (cfr. Cass., 19.5.1995, n. 5505, in Giur. it. Mass., 1995; Cass., 2.11.2001, n. 13558 in Riv. it. dir. lav., 2002, II, 312 con nota di V. Poso; Cass., 7.1.2002, n. 81 in Giust. civ. Mass., 2002, 19; Cass., 17.1.2006, n. 783 con nota di A. Tursi; cfr. anche interpello Min. lav. n. 11/2008).
Intanto però una diversa soluzione può essere rinvenuta da quanto si ricava da un’altra fonte eteronoma nei casi, non infrequenti invero, di recupero del ritardato (o omesso) versamento dei “contributi” datoriali al fondo pensione.
Difatti è dato rilevare che a seguito del recepimento della direttiva CEE 80/987 del 20 ottobre 1980 – che ha previsto forme di garanzia e sostegno a favore dei lavoratori in caso di datori di lavoro insolventi, estendendo la tutela anche ai fondi complementari ed alle prestazioni da loro erogate – l’art. 5, co. 1, d.lgs. n. 80/1992 ha costituito presso l’INPS un apposito Fondo di Garanzia volto a tutelare i lavoratori contro il rischio derivante dall’omesso o insufficiente versamento da parte dei datori di lavoro dei contributi dovuti alla previdenza complementare. Trattasi di interventi, richiesti dal lavoratore dipendente o da un suo avente diritto, che originano sulla base dell’art. 1, co. 1 e 2, del medesimo decreto nei casi di mancato versamento a causa di fallimento, concordato preventivo, liquidazione coatta amministrativa e amministrazione straordinaria ovvero qualora le garanzie patrimoniali siano risultate “in tutto o in parte” insufficienti, a seguito dell’esperimento dell’esecuzione forzata per la realizzazione di tali crediti, nel caso in cui il datore di lavoro non sia assoggettabile a procedure concorsuali (sulla mancata attuazione nel d.lgs. n. 252/2005 della delega di cui all’art. 1, co. 2, lett. e), n. 8, l. n. 243/2004, si v. Faioli, M., Sull’inadempimento dell’obbligazione contributiva nella previdenza complementare. Tutele degli aderenti e applicazione della disciplina comunitaria, in Riv. dir. sic. soc., 2007, 611 ss.).
Ebbene, nel momento in cui l’art. 5 legittima la richiesta di intervento al Fondo di Garanzia solo nel caso in cui il credito del lavoratore al versamento dei contributi sia rimasto «in tutto o in parte insoddisfatto», indirettamente riconosce la insussistenza di una posizione creditoria in capo al fondo pensione, così legittimando la natura «lavoristicamente corrispettiva» e non retributiva della contribuzione in questione, stante l’esclusione di essa dalla base imponibile previdenziale a fini contributivi e dalla base di calcolo del TFR (Tursi, A., La nuova disciplina della previdenza complementare: la terza riforma della previdenza complementare in itinere. Spunti di riflessione, in Riv. prev. pubbl. priv., 2005, 513; cfr. anche Ferrante, V., La previdenza complementare al tempo della crisi finanziaria: vicende dei fondi e tutela delle posizioni individuali, in Riv. it. dir. lav., 2009, 531).
La cornice legislativa delle fonti di finanziamento è contenuta nell’art. 8 d.lgs. n. 252/2005, dalla quale si evince non un obbligo alla contribuzione da parte dei soggetti chiamati a concorrervi (precisamente, lavoratore, datore di lavoro e committente: in questo caso il riferimento è ai lavoratori individuati nell’art. 409, n. 3, c.p.c. nella novella operata dalla l. 22.5.2017, n. 81), bensì un quadro di regole i cui contenuti (nella specie la misura) sono rimessi alla fonte contrattuale, con l’unica eccezione costituita dal conferimento del TFR maturando che, come si è già evidenziato, è ora obbligatorio per tutti i lavoratori assunti a decorrere dal 1° gennaio 2007.
Se nel caso di lavoratori autonomi e di liberi professionisti il finanziamento è attuato mediante contribuzioni a carico dei soggetti stessi; per i soggetti diversi dai titolari di reddito di lavoro o d’impresa e di soggetti fiscalmente a carico di altri, esso è attuato dagli stessi soggetti o da coloro nei confronti dei quali sono a carico.
Si è detto che la fonte negoziale è libera di stabilire la misura della contribuzione e, dopo le modifiche operate dall’art. 1, co. 38, lett. a), n. 2), l. 4.8.2017, n. 124, anche la percentuale minima del TFR maturando al fondo pensione: l’art. 8, co. 2, d.lgs. n. 252/2005 stabilisce che «ferma restando la facoltà per tutti i lavoratori di determinare liberamente l’entità della contribuzione a proprio carico, relativamente ai lavoratori dipendenti, che aderiscono ai fondi di cui all’articolo 3, comma 1, lett. da a) a g) e di cui all’art. 12, con adesione su base collettiva, le modalità e la misura minima della contribuzione a carico del datore di lavoro e del lavoratore stesso possono essere fissati dai contratti e dagli accordi collettivi, anche aziendali; gli accordi fra soli lavoratori determinano il livello minimo della contribuzione a carico degli stessi. Gli accordi possono anche stabilire la percentuale minima di TFR maturando da destinare a previdenza complementare. In assenza di tale indicazione il conferimento è totale».
L’onere del finanziamento è stabilito in cifra fissa ovvero in percentuale della retribuzione assunta per il calcolo del TFR o con riferimento ad alcuni elementi particolari della retribuzione stessa per i lavoratori dipendenti. Esso grava in misura percentuale del reddito d’impresa o di lavoro autonomo dichiarato ai fini IRPEF, relativo al periodo d’imposta precedente, se si tratta di lavoratori autonomi e di liberi professionisti.
Nel caso di forme pensionistiche complementari di cui siano destinatari i dipendenti della pubblica amministrazione, i contributi alle forme pensionistiche debbono essere definiti in sede di determinazione del trattamento economico, secondo «le procedure coerenti alla natura del rapporto» e segnatamente secondo quanto stabilito dall’accordo quadro sottoscritto dall’ARAN e dalle OO.SS. il 29 luglio 1999 e dal D.P.C.M. 20 dicembre 1999 e successive modificazioni. Al di là del continuum di disciplina con la previsione di cui d.lgs. n. 124/1993, siffatte procedure attengono alla contrattazione collettiva, considerato che è quest’ultima a definire, ai sensi dell’art. 45, co. 1, d.lgs. n. 165/2001, il trattamento economico fondamentale ed accessorio dei pubblici dipendenti (si rinvia a Squeglia, M., L’esclusione del lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni dalla riforma della previdenza complementare, in La nuova disciplina della previdenza complementare, a cura di A. Tursi, Padova, 2007, 886 ss.; sulla retribuzione nel pubblico impiego si v. Persiani, M., Retribuzione, previdenza privata e previdenza pubblica, in AA.VV., Questioni attuali di diritto del lavoro, Roma, 1989, 258 ss.).
Se lo scopo allora di un sistema di finanziamento a capitalizzazione è di incrementare in misura significativa la posizione individuale dell’aderente del fondo pensione e di immettere sui mercati finanziari nuova liquidità (Ferrante, V., Finanziamento della previdenza complementare e devoluzione tacita del tfr, in La nuova disciplina della previdenza complementare, a cura di A. Tursi, Padova, 2007, 697), indubbiamente si presenta irrinunciabile la scelta di devolvere il maturando TFR al fondo pensione anche ricorrendo a soluzioni a volte complesse, ma pur sempre legittimate dal fine di contrastare la contrazione delle prestazioni del sistema previdenziale di base.
In questa prospettiva deve essere letta la soluzione di devolvere al fondo pensione il TFR anziché in forma liquida, attraverso strumenti finanziari, dando luogo ad una delicata operazione di cartolarizzazione, sulla falsariga di quanto era già avvenuto in diversi paesi europei. Il d.lgs. 17.8.1999, n. 299, consentiva, previo accordo sindacale tra le fonti istitutive, di trasformare in titoli azionari il TFR senza intaccare la liquidità e, anzi, incrementandone il capitale sociale dell’azienda. Attraverso un aumento di capitale riservato ai soli lavoratori, venivano trasferite le azioni al fondo pensione che a sua volta veniva compensato dall’acquisizione da parte dell’azienda del TFR non versato. L’operazione soggiaceva al limite dell’accettazione dei titoli da parte del soggetto gestore del fondo pensione al quale competeva anche di determinare la congruità del conferimento rispetto al valore dell’impegno al versamento del TFR (cfr. Casalino, L., Trasformazione in titoli del t.f.r. e devoluzione ai fondi pensione, in La previdenza complementare nella riforma del welfare, a cura di G. Ferraro, I, Milano, 2000, 123 ss.). Un’esperienza ben presto messa in discussione per due ordini di ragioni: da un lato, la complessità di un meccanismo di non agevole adozione e, dall’altro, la natura della struttura produttiva del nostro paese prevalentemente costituita da piccole e medie imprese, poco avvezze all’impiego di strumenti finanziari (cfr. anche Ferrante, V., Finanziamento della previdenza, cit., 711).
Le constatazioni fin qui svolte in ordine al TFR consentono di cogliere appieno la funzione ad esso devoluta dalla fonte eteronoma nell’ambito del sistema di finanziamento dei fondi pensione. Nel momento in cui confluisce alla forma pensionistica complementare, il processo di trasformazione è inarrestabile e finisce per coinvolgere anche la sua natura: da «fondo aziendale a prestazione definita di tipo anglosassone», alla stregua di una comune forma di investimento a basso rischio e con un rendimento anch’esso basso, a quota del complessivo onere di finanziamento del fondo pensione, che si cumula con i contributi versati dal prestatore d’opera e dal datore di lavoro e, dunque, presentandosi come una componente della posizione individuale costituita presso la forma pensionistica complementare. Conseguentemente, la sua erogazione non origina dalla cessazione del rapporto di lavoro, bensì si presenta vincolata alla maturazione del requisito pensionistico per l’accesso alla prestazione complementare del fondo pensione che, come si vedrà più avanti, coincide con le regole del regime previdenziale pubblico di appartenenza del lavoratore. Ed è chiaro che, avendo mutato la sua natura, le sue quote non saranno più oggetto della garanzia assicurata dal fondo costituito presso l’INPS. La differenza tra le due fattispecie (TFR rimasto in azienda ai sensi dell’art. 2120 c.c. e TFR conferito alla previdenza complementare) è di tutta evidenza dal momento che il TFR di cui all’art. 2120 c.c. si presenta come retribuzione differita, mentre nel caso di conferimento ai fondi pensione assume carattere previdenziale e, soprattutto, come si è detto, anziché essere retribuzione, diventa contribuzione.
Concretamente solo i lavoratori che aderiscono al fondo pensione a decorrere da una certa data (come si è visto, dal 1° gennaio 2007) devolvono ad esso il TFR maturando. Tuttavia, occorre rammentare che già prima della legge delega n. 243/2004 e del successivo d.lgs. n. 252/2005, il d.lgs. n. 124/1993 imponeva alle fonti istitutive di stabilire per i soli lavoratori (denominati «di prima occupazione» perché assunti a partire dal 28 aprile 1993, data di entrata in vigore del decreto) di prevedere la integrale destinazione ai fondi pensione degli accantonamenti annuali al TFR (art. 8, co. 3, d.lgs. n. 124/1993) mentre per gli altri lavoratori iscritti ad un fondo pensione a tale data (denominati «vecchi iscritti»), ovvero occupati prima di tale data e successivamente iscrittisi ad un fondo pensione (denominati «lavoratori non di prima occupazione»), era semplice facoltà delle parti collettive destinare anche una semplice quota del TFR al fondo pensione, determinando «la misura della riduzione della quota degli accantonamenti annuali futuri al trattamento di fine rapporto».
All’opposto, i lavoratori che non aderiscono ad un fondo pensione mantengono interamente il TFR sebbene sussista una differenziazione, introdotta dalla l. n. 296/2006 (art. 1, co. 755-756), a seconda che si tratti di imprese che occupano almeno cinquanta dipendenti per le quali le quote sono da accantonare presso un fondo appositamente costituito ai fini dell’erogazione del TFR, gestito dall’INPS, le cui modalità di versamento sono stabilite con decreto ovvero di imprese con un organico di non meno di quarantanove addetti per le quali è salva la possibilità di accantonare le predette quote presso il datore di lavoro. Conclusivamente l’operazione messa in campo dal legislatore si traduce in una vera e propria «segmentazione del trattamento di fine rapporto» tra aziende, fondi pensione e fondo di tesoreria presso l’INPS (parlano di «smembramento» Cinelli, M.-Giubboni, S., La disciplina del finanziamento, in Cinelli, M., L’inquadramento sistematico delle forme di previdenza volontaria, in Previdenza complementare, Art. 2123 c.c., a cura di M. Cinelli, in Il codice civile commentato, fondato da P. Schlesinger, Milano, 2010, 264 ss.).
Tanto più che l’art. 1, co. 26-34, l. n. 190/2014 (e al D.P.C.M. 20.2.2015, n. 29) ha previsto in via sperimentale – dal 1° marzo 2015 al 30 giugno 2018 – che i lavoratori subordinati del settore privato con un’anzianità di servizio di sei mesi, anche se versano il TFR a un fondo di previdenza complementare, possono scegliere di ricevere mensilmente, ad integrazione della retribuzione, una quota del TFR maturato da assoggettare a tassazione ordinaria, ma non anche a contribuzione previdenziale. Peraltro, per i datori di lavoro con meno di cinquanta dipendenti che non intendano corrispondere immediatamente con risorse proprie la quota maturanda del TFR, è stato previsto l’accesso a forme di finanziamento (erogate da una banca o da un intermediario finanziario tra quelli aderenti all’Accordo quadro Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali Sociali, Ministero dell’Economia e delle Finanze e l’ABI del 20 marzo 2015) assistite, in caso di mancata restituzione delle somme finanziate, da un fondo di garanzia appositamente istituito presso l’INPS. Un’impostazione, che sebbene consenta al lavoratore di ottenere una disponibilità immediata di reddito prodotto, fa nascere qualche dubbio sulla possibile ripercussione che la liquidazione anticipata del TFR potrebbe avere sulla previdenza complementare. Dubbi che anche il Consiglio di Stato ha manifestato in sede consultiva (v. parere 12-18.2.2015, n. 479), specie ove la scelta determini, nei casi di adesione copiosa al meccanismo, la possibile riduzione di flussi di risorse destinati all’accumulo delle posizioni contributive sia nel sistema previdenziale obbligatorio sia in quello complementare (sul punto si v. Ferrari, V., Le novità in materia di disciplina del trattamento di fine rapporto introdotta dall’art. 1, commi 26-35, L. 190/2014, in Foro it., 2015, V, 273 ss.). Invero, lo strumento, pensato come misura espansiva in un momento di bassi consumi, non pare abbia ricevuto un significativo consenso: a suo sfavore gioca il profilo fiscale che impone il ricorso sull’anticipo alla tassazione piena, anziché quella separata, del trattamento di fine rapporto.
Fermo restando che l’adesione alle forme pensionistiche complementari è «libera e volontaria», l’art. 8, co. 7, d.lgs. n. 252/2005, stabilisce che il conferimento del trattamento di fine rapporto maturando al fondo pensione prescelto dal lavoratore comporta l’adesione alle forme stesse e avviene, con cadenza almeno annuale, secondo modalità esplicite o tacite.
Il lavoratore è libero di scegliere di aderire (profilo “positivo” della libertà individuale) o, in alternativa, di non aderire alla forma pensionistica (profilo “negativo” della libertà individuale). Circa il profilo “positivo” della libertà individuale, il lavoratore, laddove scelga di aderire, è libero di optare tra le diverse forme pensionistiche, facendo confluire verso quella prescelta il trattamento di fine rapporto anche in difformità dalle indicazioni provenienti dagli accordi collettivi applicati presso la sede dell’impresa da cui dipende.
In relazione al profilo “negativo” della libertà individuale, il lavoratore, laddove decida di non aderire, sceglie di non destinare il rapporto trattamento di fine rapporto (cd. TFR) ad alcuna forma pensionistica. In questo caso la sua scelta è quella di mantenere il trattamento di fine rapporto maturando presso il proprio datore di lavoro: una decisione che può essere successivamente revocata, mediante una manifestazione di volontà espressa indirizzata ad un conferimento, per così dire “tardivo” del trattamento di fine rapporto.
La novità introdotta dal d.lgs. n. 252/2005 attiene, come si è già visto, all’introduzione della modalità di conferimento tacito e si giustifica nella logica dell’adeguatezza della prestazione previdenziale di cui all’art. 38, co. 2, Cost.: è in ragione di questo atto negoziale che è determinata la partecipazione del lavoratore alla forma pensionistica, previo assolvimento di un preciso obbligo di informazione a carico della parte datoriale. È dunque il mancato interesse del lavoratore a rifiutare espressamente l’adesione (sulla falsariga di quanto è stabilito in sede civilistica dall’art. 1333 c.c.) che legittima il conferimento del TFR al fondo pensione.
Precisamente, nel caso in cui il lavoratore, nel periodo di sei mesi dalla data di assunzione, non manifesti alcuna volontà, a decorrere dal mese successivo alla scadenza dei sei mesi, il datore di lavoro è tenuto a trasferire il TFR maturando seguendo l’ordine indicato dalla lett. b) dell’art. 8, co. 7, d.lgs. n. 252/2005: in primo luogo, alla forma pensionistica collettiva prevista dagli accordi o contratti collettivi, anche territoriali; in secondo luogo, al fondo pensione previsto da uno specifico accordo aziendale che, in deroga al criterio precedente, preveda la destinazione del TFR a una forma collettiva tra quelle previste all’art. 1, co. 2, lett. e), n. 2), l. 23.8.2004, n. 243; di tale accordo deve essere informato il lavoratore dal datore di lavoro, in modo «diretto e personale»; in terzo luogo, alla forma pensionistica alla quale abbia aderito il maggior numero di lavoratori dell’azienda in caso di presenza di più forme pensionistiche di cui ai precedenti criteri, salvo diverso accordo aziendale; infine, alla forma pensionistica complementare istituita presso l’INPS qualora non siano applicabili le disposizioni precedenti. La recente l. 27.12.2017, n. 205 (art. 1, co. 173 ss.), ha soppresso quest’ultima forma pensionistica complementare residuale a contribuzione definita, con decorrenza dalla data indicata da un successivo decreto ministeriale. Il medesimo comma demanda allo stesso decreto, sentite le organizzazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale dei diversi comparti del settore privato, anche l’individuazione della forma pensionistica alla quale far affluire le quote di TFR maturando, nell’ipotesi di cui all’art. 8, co. 7, lett. b), n. 3), d.lgs. n. 252/2005 nonché le posizioni individuali costituite e in essere alla data di soppressione. Concretamente tale forma pensionistica è individuata tra quelle negoziali di maggiori dimensioni sul piano patrimoniale sempreché sia dotata di un assetto organizzativo conforme alle disposizioni dell’art. 8, co. 9, d.lgs. n. 252/2005.
è dunque individuato un criterio di priorità fra le forme pensionistiche complementari concorrenti: il concorso-conflitto fra fonti contrattuali collettive viene risolto privilegiando i fondi pensione di fonte contrattuale attraverso l’impiego di criteri diversi: dalla priorità nel tempo della posizione del regolamento collettivo al criterio di specialità. Peraltro, a garanzia dell’aderente, le somme corrispondenti alle quote del TFR devolute in sede di conferimento tacito sono investite dalla forma pensionistica che ne è destinataria nella linea di investimento a contenuto più prudenziale, nei limiti previsti dalla normativa statale e comunitaria al fine di «garantire la restituzione del capitale e rendimenti comparabili al tasso di rivalutazione del trattamento di fine rapporto».
Gli effetti che scaturiscono dall’introduzione del meccanismo del “silenzio assenso” rendono edotti del valore che può assumere una informazione puntuale ed efficace nei confronti dell’aderente al fondo pensione. Il lavoratore si trova a dover apprezzare una particolare tipologia di risparmio che si presenta non meramente speculativo o finanziario: una valutazione che deve essere condotta alla stregua dei principi di trasparenza, di immediatezza e, infine, di accessibilità conformemente ai quali esprimerà un giudizio di meritevolezza circa la scelta che ispirerà il suo comportamento espresso o tacito. Proprio per tale ragione, è sancito dapprima l’obbligo del datore di lavoro, «prima dell’avvio del periodo di sei mesi previsto dal comma 7, dell’art. 8», di fornire al lavoratore «adeguate informazioni sulle diverse scelte disponibili» (cfr. Delib. COVIP 28.6.2006 secondo cui all’iscritto devono essere riconosciuti «tutti i diritti e le prerogative, anche di ordine informativo, connessi alla partecipazione alla forma medesima»).
In secondo luogo, trenta giorni prima della scadenza dei sei mesi utili ai fini del conferimento del TFR maturando, il lavoratore che non abbia ancora manifestato alcuna volontà deve ricevere dal datore di lavoro «le necessarie informazioni relative alla forma pensionistica complementare verso la quale il TFR maturando è destinato alla scadenza del semestre». Tanto l’uno, quanto l’altro, vengono a far parte della fase, per così dire, “precontrattuale” del rapporto: al datore spetta il compito di fornire una informazione corretta, chiara ed esauriente che agevoli la comprensione delle caratteristiche, dei rischi, degli eventuali costi e ne consenta la facile “confrontabilità” tra i fondi pensione (cfr. anche Ferrante, V., Finanziamento della previdenza, cit., 720, secondo cui il secondo obbligo avrebbe ad «un dato diverso, e mutevole da una impresa all’altra, quale l’individuazione del fondo che beneficerà dei versamenti conseguenti al perfezionarsi del meccanismo del conferimento tacito»).
Conclusivamente, alla base dell’adesione mediante conferimento “tacito” del TFR è dato rinvenire un complesso negozio nel quale assumono autonomo rilievo il comportamento di mera astensione dal potere di rifiuto, la proposta informativa datoriale e il termine decadenziale di efficacia.
Una volta perfezionata l’adesione, in forma esplicita o tacita, il pagamento effettuato dal datore di lavoro delegato si presenta quale adempimento dell’obbligazione previdenziale del lavoratore nei confronti del fondo pensione. Ciò si traduce nell’enucleazione dello schema giuridico della delegazione di pagamento (ex art. 1269 c.c.), dal momento che con un unico versamento si estinguono due distinte obbligazioni: da un lato, quella del datore di lavoro verso il lavoratore e, dall’altro, quella del lavoratore verso il fondo pensione.
Alla tesi mostra di aderire la giurisprudenza di merito (cfr. Trib. Taranto, 1.10.2015, n. 3678, in IlGiuslavorista.it, 14.3.2016), che è ferma nella convinzione in forza della quale nella delegazione di pagamento il rapporto obbligatorio tra datore e lavoratore è inesorabilmente interrotto nel caso di pronuncia giudiziale con la quale viene dichiarata il fallimento del datore di lavoro-mandatario, atteso l’art. 78, co. 2, l. fall.
Occorre ora dare conto della disciplina della concorrenza delle diverse fonti di finanziamento (contribuzione-conferimento). Gli scenari ipotizzabili sono diversi e ciascuno presenta differenti gradi di implicazioni sul piano della sostenibilità ed efficacia del programma previdenziale e pensionistico.
Le opzioni ammesse dall’art. 8, co. 10, d.lgs. n. 252/2005 si concentrano in tre soluzioni: la prima esclude l’obbligo della contribuzione a carico del lavoratore e del datore di lavoro nel caso in cui l’adesione a una forma pensionistica sia stata realizzata tramite il solo conferimento esplicito o tacito del TFR. Tuttavia il lavoratore può decidere di destinare «una parte della retribuzione alla forma pensionistica prescelta in modo autonomo ed anche in assenza di accordi collettivi»; la seconda consente al datore di lavoro, pur in assenza di accordi collettivi, anche aziendali, di contribuire alla forma pensionistica alla quale il lavoratore abbia già aderito ovvero a quella prescelta in base al predetto accordo; infine, la terza legittima la volontà del lavoratore di far affluire alla forma pensionistica prescelta la contribuzione del datore di lavoro della quale abbia diritto in base ad accordi collettivi, anche aziendali, sempreché contribuisca anch’egli alla forma pensionistica complementare.
Delle diverse opportunità, la prima fa nascere qualche perplessità in termini di compatibilità con il conferimento tacito non fosse altro perché ipotizza «la doverosità dell’affluenza del contributo alla forma prescelta anche non di riferimento del contratto o accordo collettivo» (Sandulli, P., Il conferimento tacito e non, del Tfr al sistema di previdenza complementare, cit., 184), ma non esclude una forma pensionistica al di fuori dal sistema della “previdenza contrattuale”. Difatti, le forme che prescindono dalla presenza di accordi collettivi altro non sono se non i fondi pensione aperti, realizzati direttamente dai soggetti gestori, secondo le previsioni di cui all’art. 12, o le forme individuali di cui all’art. 13, co. 1, lett. b), istituite da imprese assicurative.
Oltre alla contribuzione (datoriale e del lavoratore) e al conferimento del TFR, il legislatore individua altre tipologie di fonti di finanziamento: prosecuzione volontaria, contribuzione aggiuntiva (o volontaria) e contribuzione con il meccanismo accumula punti del consumo esauriscono il ventaglio delle opzioni a disposizione delle parti.
La prosecuzione volontaria al fondo pensione può essere richiesta dall’aderente, il quale avendo cessato l’attività lavorativa perché ha raggiunto l’età prevista dal regime pensionistico obbligatorio di appartenenza, decide volontariamente di proseguire la propria partecipazione al fondo pensione e, dunque, di contribuire al finanziamento della forma pensionistica. L’unico limite è il possesso, alla data del pensionamento, di almeno un anno di contribuzione (art. 8, co. 11, d.lgs. n. 252/2005).
Diversa si presenta la contribuzione aggiuntiva (o volontaria). La facoltà di versare contributi aggiuntivi (rispetto alla misura stabilita dalla fonte contrattuale) è subordinata all’esistenza di un’esplicita previsione in sede statutaria e/o regolamentare la quale deve prevedere anche gli eventuali limiti massimi e le relative modalità di versamento.
Infine, è prevista la possibilità di contribuire alla forma pensionistica mediante il versamento dell’importo corrispondente degli abbuoni accantonati a seguito di acquisti effettuati tramite carta elettronica o altro mezzo di pagamento. Una previsione che è però subordinata all’emanazione delle norme regolamentari che disciplinano le convenzioni tra gli intermediari che emettono gli strumenti di pagamento e i centri vendita.
Nella fase di accumulo delle contribuzioni, il fondo pensione è chiamato a gestire le risorse affidategli secondo principi di prudenzialità e di diversificazione degli investimenti nella prospettiva, da un lato, di non esporre l’aderente a rischi eccessivi di mercato e, dall’altro, di erogare una prestazione pensionistica complementare che assicuri «più elevati livelli di copertura previdenziale» (v. anche Enriques, L., La gestione delle risorse dei fondi pensione «negoziali» a contribuzione definita: finalità, effetti e limiti della disciplina, in Banca impr. soc., 1999, 193 ss.). Si spiegano in questi termini le cogenti diposizioni normative, dettate dal d.lgs. n. 252/2005 e dalla regolamentazione di dettaglio, orientate a sostenere e, per certi versi, a rafforzare il “ruolo previdenziale” del fondo pensione, attraverso l’individuazione di analitiche regole di comportamento e la previsione di specifici divieti (v. Landini, S., Soggetti gestori, modelli gestionali e strutture di controllo, in Cinelli, M., L’inquadramento sistematico delle forme di previdenza volontaria, in Previdenza complementare, Art. 2123 c.c., a cura di M. Cinelli, in Il codice civile commentato, fondato da P. Schlesinger, Milano, 2010, 180 ss.)
In primo luogo, è sancito l’obbligo del fondo pensione di affidare la gestione finanziaria del patrimonio degli iscritti in fase di accumulo, nonché la gestione delle riserve dei pensionati a soggetti qualificati, elencati dall’art. 1, co. 1, d.lgs. n. 252/2005: non è dunque ammissibile la gestione finanziaria diretta da parte del fondo pensione per le forme pensionistiche complementari di nuova generazione, molto diffusa in gran parte delle esperienze delle forme previdenziali previgenti al d.lgs. n. 124/1993 e, in parte, ancora ammissibile per i fondi pensione preesistenti (vale a dire, forme pensionistiche operanti precedentemente all’entrata in vigore della l. 23.10.1992, n. 421 – precisamente 15 novembre 1992 – in regime di contribuzione definita o di prestazione definita, gestiti in via prevalente secondo il sistema tecnico-finanziario della capitalizzazione, che registrano una ampia autonomia sotto il profilo delle regole e della disciplina, parzialmente derogatoria dei principi generali di cui agli artt. 4, co. 5, e 6, co. 1, 3 e 5, d.lgs. n. 252/2005; si v. più approfonditamente Canavesi, G., La disciplina dei fondi preesistenti, in Previdenza complementare, Art. 2123 c.c., a cura di M. Cinelli, in Il codice civile commentato, fondato da P. Schlesinger, Milano, 2010, 569 ss.).
La scelta è stata allora quella di definire un modello “originale” imperniato sulla distinzione dei ruoli e di competenze tra il fondo pensione e i soggetti cui viene affidata la gestione del patrimonio sullo sfondo di regole pur sempre prudenziali sebbene ispirate alla massimizzazione dei rendimenti (sul punto v. Squeglia, M., Gestione finanziaria nei fondi pensione negoziali tra vincolo previdenziale, massimizzazione dei rendimenti e modelli alternativi di gestione, in Mass. giur. lav., 2011, 345 ss.; Squeglia, M., Il regime finanziario, cit., 81 ss.). L’art. 6 d.lgs. n. 252/2005 definisce l’architettura della gestione dei fondi pensione, riconoscendo agli organi statutari una funzione di indirizzo degli investimenti e di controllo della rispondenza dell’attività dei gestori con le linee concordate nella convenzione; ai soggetti gestori, individuati tra gli intermediari appartenenti alle categorie abilitate (banche, società di intermediazione mobiliare, le società di gestione del risparmio, compagnie di assicurazione), la cui funzione è quella di tradurre gli indirizzi generali sugli investimenti in strategie operative; al depositario, ai sensi dell’art. 7 d.lgs. n. 252/2005, della custodia dei valori del patrimonio.
Le tre fasi della gestione, la definizione delle linee di indirizzo, la traduzione in concrete politiche gestionali, la movimentazione e la custodia dei titoli sono affidati a tre diversi soggetti: il fondo pensione, il soggetto gestore e il depositario. Con questa triangolazione fondo/indirizzi, gestore/gestione operativa, depositario/custodia e controllo, il legislatore ipotizza una gestione professionale del patrimonio attraverso operatori specializzati dotati di strutture organizzative, di conoscenze e di mezzi tecnici adeguati alla gestione di rilevanti masse di capitali.
Parimenti può dirsi per il processo di selezione del gestore finanziario la cui disciplina risponde all’esigenza di individuare l’offerta in grado di soddisfare gli interessi del fondo pensione e dei suoi aderenti. Anche al soggetto depositario sono conferite rilevanti attribuzioni che non lo qualificano semplicemente come un soggetto passivo preposto a custodire i titoli e la liquidità del patrimonio del fondo, quanto più concretamente come operatore chiamato a svolgere un ruolo attivo di controllo.
Risponde alla stessa logica la previsione di una dettagliata disciplina dei conflitti di interesse, appositamente contenuta nella normazione secondaria (è il D.M. 2.9.2014, n. 166 che sostituisce il precedente D.M. 21.11.1993, n. 703), che risponde alla finalità «di prevenire che un soggetto cui compete una decisione possa essere condizionato da altri interessi che non siano unicamente quelli del soggetto per il quale in quel momento svolge la sua funzione» (Squeglia, M., La disciplina dei conflitti di interessi in Italia delle forme pensionistiche complementari tra vecchie e nuove norme, in Revista Brasileira de Previdência, 2017, 6; in una prospettiva comparata, Ludovico, G.-Bragança de Vasconcellos Weintraub, A.-Squeglia, M., I pilastri previdenziali “a capitalizzazione” nelle diverse esperienze del Canada, del Brasile e dell’Italia: il sistema dei controlli, i profili attuariali e le prospettive evolutive, in Dir. rel. ind., 2017, 1251 ss.).
Infine, la regolazione sistema è affidata ad una specifica Commissione di Vigilanza sui Fondi Pensione (COVIP), istituita al fine di perseguire la trasparenza, la correttezza dei comportamenti, la sana e prudente gestione delle forme pensionistiche complementari, le cui competenze – espressamente individuate dall’art. 19 d.lgs. n. 252/2005 – si intrecciano con quelle di altre autorità dei mercati, come la Banca d’Italia, l’ISVAP, e la CONSOB (per una lettura dei compiti della COVIP si v. Montaldi, F., La concezione unitaria del sistema di vigilanza, in La nuova disciplina della previdenza complementare, a cura di A. Tursi, Padova, 2007, 827 ss.).
Se le disposizioni normative definiscono, come si è detto, i confini tra il fondo pensione e il soggetto gestore, è attraverso la stipulazione di specifiche convenzioni a regolamentare i rapporti tra i due soggetti. In esse sono trasfusi gli indirizzi generali della gestione del patrimonio (diversificazione degli investimenti, efficiente gestione del portafoglio, diversificazione dei rischi, contenimento dei costi di transazione, gestione e funzionamento del fondo, massimizzazione dei rendimenti) stabiliti dal consiglio di amministrazione, le cui linee guida sono contenute a loro volta nella fonte statutaria del fondo pensione. Il fondo pensione potrà scegliere se operare attraverso un’unica linea di investimento (cd. fondi mono-comparto), applicabile a tutto il risparmio gestito, oppure se individuare più comparti da proporre agli iscritti (cd. fondi pluri-comparto). In questo ultimo caso, è l’aderente che dovrà indicare a quale comparto aderire e può successivamente anche modificare il comparto di iscrizione durante la sua permanenza nel fondo pensione (il passaggio da un comparto all’altro è definito “switch”: v. l’art. 8, co. 13, d.lgs. n. 252/2005). Alcuni programmi, denominati “lifestyle”, consentono il passaggio automatico dei comparti con un più elevato profilo di rischio a quelli più garantiti con l’avvicinarsi del momento del pensionamento.
Fonti normative
Artt. 12, 36, 38, 39, co. 1, 47 Cost.; artt. 2117 e 2123 c.c.; art. 3 l. 23.10.1992, n. 421; art. 2, co. 26, d.lgs. 30.12.1992, n. 503; d.lgs. 21.4. 1993, n. 124; D.M. 21.11.1996, n. 703, D.M. 14.1.1997, n. 211; art. 1, co. 1, lett. c), 2, lett. e), h), i), l) e v), 44, 45 e 46, l. 23.08.2004, n. 243; art. 15, l. 8.8.1995, n. 335; d.lgs. 5.12.2005, n. 252; Provvedimento 10.11.2006, n. 2472; D.M. 10.5.2007, n. 62; D.M. 15.5.2007, n. 79; D.M. 7.12.2012, n. 259; D.M. 2.8.2014, n. 166; art. 1, co. 26, l. n. 190/2014; art. 1, co. 156-157, co. 173 ss., l. 27.12.2017, n. 205.
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