Abstract
La finalità del fondo pensione è l’erogazione di trattamenti pensionistici complementari rispetto alla copertura di base obbligatoria al raggiungimento dei requisiti di età e di contribuzione previsti dal regime obbligatorio di appartenenza. Trattandosi di un orizzonte temporale di lungo periodo, i fondi pensione devono adattarsi all’evoluzione delle vicende demografiche e professionali dei lavoratori iscritti nonché devono fronteggiare situazioni di potenziale e prevedibile squilibrio in grado di compromettere le posizioni dei singoli aderenti. Il presente saggio illustra la disciplina delle prestazioni complementari (in rendita o in capitale), ivi compreso il regime delle anticipazioni, pone in evidenza le regole che presiedono il riscatto e la portabilità (o la mobilità) della posizione individuale maturata e, infine, dà conto delle vicende incidenti sull’equilibro del fondo pensione che ne rendono impossibile il proseguimento delle attività.
È constatazione pressoché concorde che le norme che disciplinano le prestazioni pensionistiche complementari si rivelano fondamentali in ordine alla collocazione della previdenza complementare in rapporto alla previdenza obbligatoria (v. Tozzoli, S., Le prestazioni di previdenza complementare, in La nuova disciplina della previdenza complementare, a cura di A. Tursi, Padova, 2007, 748; Tursi, A., La natura giuridica e la disciplina legale dell’obbligazione contributiva nelle forme pensionistiche complementari, in Riv. prev. pubbl. e priv., 2002, 89 ss.). Del resto, ad esse si è imputato di conseguire una integrazione del reddito in corrispondenza della contrazione dei trattamenti pensionistici erogati dai regimi pubblici obbligatori.
Nella previgente previsione il regime delle prestazioni dei fondi pensione su base collettiva (negoziali ed aperti) e delle forme pensionistiche individuali (fondi pensione aperti e contratti di assicurazione sulla vita) erano sottoposti ad una diversa regolamentazione. Se le prime erano infatti regolate dall’art. 7 d.lgs. n. 124/1993, le prestazioni delle forme pensionistiche individuali erano invece assoggettate ad una autonoma disciplina, solo in parte coincidente con quella dell’art. 7, che convergeva nell’impossibilità per gli aderenti di richiedere anticipazioni dei contributi accumulati.
Nel d.lgs. n. 252/05, invece, la scelta di sistema di equiparare le diverse forme pensionistiche si è tradotta nella tendenziale unificazione, salve alcune limitate eccezioni, del regime delle prestazioni.
Uniche eccezioni sono costituite, da un lato, dalle forme pensionistiche complementari istituite alla data di entrata in vigore della l. n. 421/1992 (fondi pensione cd. preesistenti) i quali se gestiti in via prevalente secondo il sistema della ripartizione e se in condizione di non accertato squilibrio finanziario, possono continuare, sotto la propria responsabilità, a derogare agli artt. 8 ed 11 d.lgs. n. 252/2005 (art. 20, co. 7); dall’altro, dai fondi pensione «con meno di cento aderenti» (art. 15 quinquies, d.lgs. n. 252/2005) per i quali le disposizioni del d.lgs. n. 252/2005 e della normativa secondaria possono non trovare applicazione allorquando le deroghe e le esclusioni siano oggetto di un apposito regolamento, emanato dalla Commissione di Vigilanza (ad esempio, sul processo di attuazione della politica di investimento, si v. la deliberazione COVIP 16.3.2012).
Rispetto poi al d.lgs. n. 124/1993, la disciplina tributaria si presenta significativamente innovata nel senso di una sensibile diminuzione delle aliquote applicabili alle prestazioni, mentre restano invariate le modalità di calcolo della base imponibile (Marchetti, F., Il trattamento fiscale delle prestazioni di previdenza complementare, in La nuova disciplina della previdenza complementare, a cura di A. Tursi, Padova, 2007, 927 ss.).
Il d.lgs. n. 252/2005 non si è però distaccato dalla previgente impostazione per quel che concerne le tipologie di prestazioni erogabili dal fondo pensione in regime di contribuzione definita. In ciò il legislatore delegato non ha ritenuto di ispirarsi alla direttiva comunitaria sugli enti pensionistici aziendali o professionali che differentemente elenca diverse tipologie di prestazioni erogabili che, pure correlati al «raggiungimento del pensionamento», si estendono anche alla protezione di altri bisogni previdenziali (cfr. Loi, P., La direttiva sulle attività e sulla supervisione degli enti pensionistici aziendali o professionali, in Prev. ass. pubbl. priv., 2004, 71 ss.).
Il diritto alle due diverse tipologie di prestazioni pensionistiche complementari si acquisisce al momento della «maturazione» dei requisiti di accesso alle prestazioni stabiliti nel regime obbligatorio di appartenenza, con almeno cinque anni di partecipazione alle forme pensionistiche complementari (art. 11, co. 2, d.lgs. n. 252/2005). L’impiego del termine «maturazione» evidenzia la scelta di non imporre per il diritto alla prestazione l’effettiva liquidazione del trattamento pensionistico obbligatorio di base (v. anche Pandolfo, A., Prime osservazioni sulla nuova legge sulla previdenza complementare, in Prev. ass. pubbl. priv., 2006, 2, 194 ss.): il che conferma, alla base dell’erogazione, la logica di carattere demografico. Particolare importanza assume, a seguito del recepimento della direttiva 2016/2341 del Parlamento europeo e del Consiglio del 14 dicembre 2016 (cd. Iorp 2) , avvenuto con il d.lgs. n. 147/2018, l’obbligo in capo alla forma pensionistica: a) di consegnare, con cadenza annuale, un documento conciso contenente le informazioni relative alla posizione individuale dell’aderente alla fine dell’anno precedente espressamente da denominare «Prospetto delle prestazioni pensionistiche» (art. 13 quater d.lgs. n. 252/2005); b) di fornire, durante la fase di prepensionamento, almeno tre anni prima della possibile età di pensionamento, o su successiva richiesta dell'iscritto, informazioni circa le opzioni di erogazione delle prestazioni pensionistiche (art. 13 quinques d.lgs. n. 252/2005); c) di assicurare periodicamente, durante la fase di erogazione delle rendita, ai beneficiari, anche attraverso l’impresa assicurativa incaricata dell’erogazione delle rendite, informazioni sulle prestazioni dovute e sulle eventuali opzioni esercitabili per la loro erogazione (art. 13 sexies d.lgs. n. 252/2005). Tutte le informazioni da fornire all’iscritto: a) devono risultare accurate ed aggiornate; b) sono formulate in modo chiaro, comprensibile e succinto, evitando l’uso di espressioni gergali e di termini tecnici laddove si possono comunque usare termini di uso comune; c) non sono fuorvianti e ne è garantita la coerenza nel vocabolario e nei contenuti; d) sono presentate in modo da agevolarne la lettura; e) sono redatte in lingua italiana; f) sono messe a disposizione dei potenziali aderenti, degli aderenti e dei beneficiari a titolo gratuito mediante mezzi elettronici, anche su supporto durevole o tramite un sito web, oppure su carta (art. 13 septies d.lgs. n. 252/2005).
Accanto alla rendita, ovverossia l’erogazione di una rata periodica di pensione determinata tenendo conto del montante accumulato (intendendosi per esso la somma dei contributi versati, il rendimento e la possibile rivalutazione), l’aderente può richiedere la liquidazione parziale del capitale unico, ovverossia l’erogazione di quanto in precedenza maturato entro un limite massimo.
Con riferimento invece al diritto alla prestazione in capitale, l’art. 11, co. 3, d.lgs. n. 252/2005 ha confermato il contenimento del quantum entro il limite massimo pari al cinquanta per cento del montante finale fino a quel momento accumulato: spetta dunque alle fonti fissarne la misura nello statuto del fondo pensione (cfr. l’identica versione contenuta nell’art. 7, co. 6, d.lgs. n. 124/1993).
La novità è però un’altra. Rispetto alla precedente impostazione, nell’ottica di procedere ad «un ulteriore passo verso flessibilizzazione dei limiti alla corresponsione della prestazione in forma di capitale» (Tozzoli, S., Le prestazioni di previdenza complementare, cit., 760; cfr. anche Ciocca, G.-Olivelli, P., Le prestazioni, in Previdenza complementare, Art. 2123 c.c., a cura di M. Cinelli, in Il codice civile commentato, fondato da P. Schlesinger, Milano, 2010, 345 ss.), la norma non solo ripropone quel limite generale di cui si è riferito, ma amplia significativamente i confini dell’ipotesi in cui tale vincolo può essere superato. Precisamente, nel caso in cui la rendita derivante dalla conversione di almeno il settanta per cento del montante finale si presenti inferiore al cinquanta per cento dell’assegno sociale di cui all’art. 3, co. 6-7, l. 8.8.1995, n. 335, la stessa può essere erogata interamente in capitale. Il medesimo art. 11, co. 3, prescrive che nel computo dell’importo complessivo erogabile in capitale sono detratte le somme eventualmente erogate a titolo di anticipazione e che non state reintegrate.
Vi è, infine, un’altra possibilità di erogare interamente la prestazione interamente in capitale unico: si tratta dell’aderente che risulti assunto antecedentemente al 29 aprile 1993 ed entro tale data si sia iscritto ad una forma pensionistica complementare cd. preesistente, vale a dire istituita alla data di entrata in vigore della l. n. 421/1992 (cfr. delib. COVIP 31.10.2006).
Il collegamento con la previdenza obbligatoria è stato ulteriormente enfatizzato dalla legge delega nella parte in cui aveva indicato tra i principi e criteri direttivi quello di «prevedere vincoli in tema di cedibilità, sequestrabilità e pignorabilità analoghi a quelli previsti per la previdenza di base» (art. 2, co. 2, lett. e), n. 11, l. n. 243/2004). Così, colmando una lacuna del previgente regime (v. anche Tursi, A., Il regime giuridico delle prestazioni di previdenza complementare, in Prev. ass. pubb. priv., 2004, 405 ss.) l’art. 11, co. 10, d.lgs. n. 252/2005, stabilisce – non senza una certa complessità – che le prestazioni pensionistiche in capitale e rendita siano sottoposti agli stessi limiti di cedibilità, sequestrabilità e pignorabilità in vigore per le pensioni a carico degli istituti di previdenza obbligatoria previsti dall’art. 128 R.d.l. 4.10.1935, n. 1827, conv., con mod., dalla l. 6.4.1935, n. 1155, e dall’art. 2 d.P.R. 5.1.1950, n. 180. Viene così delineato un regime unico, ispirato alle pensioni dei dipendenti pubblici, che si presenta però di non agevole lettura specie se si pone mente alla pronuncia della Corte costituzionale (C. cost., 22.11.2002, n. 468; C. cost., 4.12.2002, n. 506) che, pur rimettendo in concreto l’individuazione ad una «razionale ed equilibrata» scelta del legislatore, ha ammesso che la soglia dovrebbe essere intesa in senso «concettualmente non dissimile da una soglia minima vitale». Attraverso il rinvio alle norme del R.d.l. del 1935 e della l. del 1950, il legislatore intende affermare l’incedibilità, l’insequestrabilità e l’impignorabilità delle prestazioni complementari – il che offre conferma dell’idea che il rapporto avente oggetto le prestazioni è strettamente previdenziale e non corrispettivo a differenza di quello contributivo – con le eccezioni previste per i crediti cd. qualificati (trattasi dei crediti per causa di alimenti e dei crediti per tributi), per la sola parte del trattamento ad assicurare i mezzi adeguati alle esigenze di vita di cui all’art. 38, co. 2, Cost. (e, dunque, consentendo la pignorabilità della parte residua corrispondente al minimo garantito nei limiti rispettivamente di un terzo o di un quinto e senza salvezza dell’importo corrispondente al trattamento minimo: cfr. anche Circ. INPS, 26.2.2003, n. 43), mentre la parte residua potrà essere oggetto di cessione, pignoramento e sequestro nel limite di un quinto. Insomma, fermo restando l’impignorabilità e l’insequestrabilità della posizione previdenziale complementare, posta la stretta connessione della prestazione con lo scopo per il quale è maturata, vale a dire quello previdenziale dal quale essa non può essere evidentemente distolta (cfr. Cass., S.U., 1.2.1997, n. 974, in NGL, 1997, 901), una volta che i montanti sono smobilizzati dalla fase di accumulo per passare nella disponibilità del soggetto titolare, viene meno ogni funzione previdenziale con conseguente possibilità, da parte dei suoi creditori, di poter esercitare sui montanti medesimi le azioni esecutive (Squeglia, M., La «previdenza contrattuale», Un modello di nuova generazione per la tutela dei bisogni previdenziali socialmente rilevanti, Torino, 2014, 42; v. anche Ciocca, G.-Olivelli, P., Le prestazioni, in Previdenza complementare, Art. 2123 c.c., a cura di M. Cinelli, in Il codice civile commentato, fondato da P. Schlesinger, Milano, 2010, 390 ss.).
In ogni caso, differentemente dai crediti relativi alle somme oggetto di riscatto totale e parziale nonché quelle oggetto di anticipazione, di cui al co. 7, lett. b) e c), del medesimo art. 11 d.lgs. n. 252/2005, per le quali non opera alcun vincolo di cedibilità, sequestrabilità e pignorabilità. Parimenti intangibili sono le posizioni individuali, costituite presso le forme pensionistiche complementari, durante la fase di accumulo.
Durante il periodo di partecipazione è prevista la possibilità per i lavoratori di richiedere un’anticipazione della posizione individuale maturata presso il fondo cui sono iscritti. Una possibilità che attribuisce prevalenza alla libertà individuale nel senso di influire sul quantum della prestazione previdenziale, sebbene si presenti non perfettamente in linea con l’obiettivo di vincolarne la percezione al raggiungimento dei requisiti previsti per il regime pensionistico obbligatorio. Presumibilmente in favore di questa previsione gioca l’idea che il legislatore del 2005, e quello precedente del 1993, si sia ispirato ad un semplice disegno sistematico. Difatti, un analogo diritto, è stabilito in favore dei lavoratori che richiedono al datore di lavoro ovvero al Fondo di Tesoreria (per le imprese con un organico di almeno cinquanta addetti) un’anticipazione del TFR maturato (art. 2120 c.c.), ma con qualche significativa differenza riguardo alla natura delle motivazioni (spese mediche per terapie ed interventi straordinari riconosciuti dalle competenti strutture sanitarie; acquisto della prima casa di abitazione per sé o per i figli; spese sostenute per congedi parentali ovvero in occasione di assenze per malattia del bambino; congedo per formazione o partecipazione ad iniziative di formazione continua, anche aziendali) e alla presenza di requisiti più rigorosi (otto anni di servizio; una sola richiesta nel corso di svolgimento del rapporto; limite del dieci per cento degli aventi titolo e comunque non superiore al quattro per cento del numero totale dei lavoratori in forza; importo anticipato non superiore al settanta per cento dell’accantonamento) (più approfonditamente si v. Santoro Passarelli, G., Il trattamento di fine rapporto, in Arg. dir. lav., 2000, 93 ss.).
L’art. 11, co. 7, d.lgs. n. 252/2005, stabilisce che tale facoltà può essere esercitata: a) in qualsiasi momento, per un importo non superiore al settantacinque per cento, per spese sanitarie a seguito di gravissime situazioni relative a sé, al coniuge e ai figli per terapie e interventi straordinari riconosciuti dalle competenti strutture pubbliche; b) decorsi otto anni di iscrizione, per un importo non superiore al settantacinque per cento, per l’acquisto della prima casa di abitazione per sé o per i figli, documentato con atto notarile, o per la realizzazione degli interventi di cui alle lett. a), b), c), e d) dell’art. 3, co. 1, del Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia, di cui al d.P.R. 6.6.2001, n. 380, relativamente alla prima casa di abitazione, documentati come previsto dalla normativa stabilita ai sensi dell’art. 1, co. 3, l. 27.12.1997, n. 449 (si pensi agli interventi di restauro, ristrutturazione, etc.); c) decorsi otto anni di iscrizione, per un importo non superiore al trenta per cento, per ulteriori esigenze degli aderenti. In questo ambito possono ricondursi le richieste pervenute al fondo pensione per far fronte alle spese per la formazione e per la formazione continua (art. 7, co. 2, l. n. 53/2000) ovvero quelle connesse alla fruizione dei congedi parentali (art. 5, co. 1, d.lgs. n. 151/2001).
Ebbene da quanto esposto, l’identità tra le due tipologie di anticipazioni non è dunque ipotizzabile: anzi, a ben vedere, le differenze si riscontrano anche altrove. Così, se da un lato, ai fini della determinazione dell’anzianità necessaria per la richiesta delle anticipazioni e delle prestazioni pensionistiche del fondo pensione sono considerati utili tutti i periodi di partecipazione alle forme pensionistiche complementari maturati dall’aderente per i quali lo stesso non abbia esercitato il riscatto totale della posizione individuale; dall’altro lato, le somme percepite a titolo di anticipazione in ogni caso non possono mai eccedere, complessivamente, il settantacinque per cento del totale dei versamenti, comprese le quote del TFR, maggiorati delle plusvalenze tempo per tempo realizzate, effettuati alle forme pensionistiche complementari a decorrere dal primo momento di iscrizione alle predette forme. Senza trascurare che le anticipazioni possono essere reintegrate, a scelta dell’aderente, in qualsiasi momento anche mediante contribuzioni annuali eccedenti il limite di 5.164,57 euro. Certo è che la previsione di un’anticipazione “a-causale” nella misura massima del trenta per cento sembrerebbe spingere verso la libertà di una previdenza privata, allontanandosi dalle indicazioni della Corte costituzionale in materia di “funzionalizzazione” del sistema previdenziale pubblico.
Restando sul versante delle anticipazioni, è opportuno rammentare che, per effetto della previsione normativa contenuta nella l. n. 232/2016 che ha novellato l’art. 11, co. 4, d.lgs. n. 252/2005, è stata introdotta la “rendita integrativa per la pensione anticipata” (cd. RITA), avente la finalità di consentire ai lavoratori, iscritti da almeno cinque anni ad una forma pensionistica complementare, che cessino l’attività lavorativa e conseguano l’età anagrafica per la pensione di vecchiaia nel regime obbligatorio di appartenenza entro i cinque anni successivi (e non più tre dopo la novella operata dalla l. n. 205/2017), e abbiano maturato alla data di presentazione della domanda di accesso alla rendita integrativa un requisito contributivo complessivo di almeno venti anni nei regimi obbligatori di appartenenza, di utilizzare in tutto o in parte, sotto forma di rendita mensile, il montante accumulato presso il fondo pensione (sia di fonte collettiva sia di fonte individuale) dal momento dell’accettazione della richiesta fino al conseguimento dell'età anagrafica prevista per la pensione di vecchiaia. Consentendo la riscossione in anticipo del capitale accumulato dal lavoratore nelle forme pensionistiche complementari, la RITA si distingue sia dall’Anticipo Pensionistico volontario (cd. APE volontario) che consiste in un prestito bancario da restituire con un prelievo ventennale sul trattamento pensionistico obbligatorio, sia dall’Anticipo Pensionistico sociale (cd. APE sociale), che constata di un sussidio, avente carattere assistenziale, erogato dallo Stato a favore di alcune categorie di lavoratori in condizione di difficoltà (disoccupati, caregivers, disabili, ecc.).
A tale anticipazione, per effetto delle modifiche operate dalla l. n. 205/2017, potranno accedere, fermo restando la cessazione dell’attività lavorativa e l’iscrizione da almeno cinque anni ad una forma pensionistica complementare, anche i lavoratori che risultino inoccupati per un periodo di tempo superiore a ventiquattro mesi e che maturino l’età anagrafica per la pensione di vecchiaia nel regime obbligatorio di appartenenza entro i dieci anni successivi. Peraltro, tali disposizioni si applicano anche ai dipendenti pubblici che aderiscono alle forme pensionistiche complementari loro destinate ovvero a piani pensionistici individuali.
In sostanza, nell’anno 2019, anno in cui il collocamento in pensione è stabilito a sessantasette anni, l’iscritto utilizzando la rendita anticipata erogata dal proprio fondo pensione, potrà accedere al trattamento complementare in anticipo di cinque anni, vale a dire a sessantadue anni di età (sempreché sia in possesso di almeno venti anni di contributi alla data di presentazione della domanda di accesso alla RITA). Ebbene, constatato che la rendita integrativa per la pensione anticipata costituisce una operazione che presenta indubbi benefici sul piano fiscale, presentandosi analoga alla tassazione delle rendite erogate dai fondi pensione, si tratta di accertare come essa possa convincentemente rispondere alla finalità di favorire «più elevati livelli di copertura previdenziale» e quindi di funzionalizzarsi alla previdenza pubblica per concorrere alla tutela offerta dal sistema obbligatorio. In effetti, di una tale finalità non vi è traccia nelle nuove norme introdotte: la scelta di smobilizzare, in tutto o in parte, la posizione individuale, e dunque il risparmio previdenziale dell’aderente, non riceve alcuna contropartita in termini di erogazione di trattamenti pensionistici complementari del sistema obbligatorio pubblico, essendo unicamente orientata al perfezionamento del requisito di accesso alle prestazioni, sancito dall’art. 11, co. 2, d.lgs. n. 252/2005, per effetto del progressivo innalzamento dell’età pensionabile.
Un chiaro indizio della vocazione del d.lgs. n. 252/2005 ad adattarsi all’evoluzione delle vicende professionali e demografiche degli aderenti è nella disamina delle norme che definiscono le condizioni di cessazione al fondo pensione e le modalità di trasferimento della posizione individuale.
Difatti, l’art. 14, co. 1, si limita a fornire alcune regole inderogabili, lasciando poi alla fonte statutaria e regolamentare il compito di stabilirne in dettaglio «le modalità di esercizio relative alla partecipazione alle forme medesime, alla portabilità delle posizioni individuali e della contribuzione, nonché al riscatto parziale o totale delle posizioni individuali».
Siffatte regole si presentano differenti a seconda che si tratti di cause collegate al verificarsi di situazioni (oggettive o soggettive) che influenzano la partecipazione al fondo pensione ovvero dipendenti dallo svolgersi dell’attività professionale.
Il primo gruppo di eventi non comportano una circolazione della posizione giuridica complessa dell’iscritto bensì «un diritto di credito» vantato nei confronti del fondo pensione che viene soddisfatto in favore dell’iscritto/creditore prima che sia maturato il diritto alla prestazione pensionistica (Rasi, F., Aspetti civili e fiscali del trasferimento di posizione previdenziale, in Prev. ass. pubbl. priv., 2006, 22). Eventi che causano il riscatto, totale o parziale, della posizione maturata e che, conseguentemente, annullano la prospettiva dell’erogazione della prestazione complementare.
A seguito della novella operata prima dall’ art. 1, co. 38, lett. c), n. 1), l. n. 124/2017 e, successivamente, dall’art. 1, co. 168, lett. b), l. n. 205/2017, a decorrere dal 1° gennaio 2018, si parla di «riscatto parziale» nella misura del cinquanta per cento della posizione individuale maturata allorquando il lavoratore cessi la propria attività lavorativa e resti privo di occupazione per un periodo di tempo non inferiore a dodici mesi e non superiore a quarantotto mesi ovvero in caso di ricorso da parte del datore di lavoro a procedure di mobilità, cassa integrazione guadagni ordinaria o straordinaria; di «riscatto totale» nel caso di invalidità permanente che comporti la riduzione dell’attività lavorativa a meno di un terzo ovvero qualora cessi la propria attività lavorativa e resti privi di occupazione per un periodo superiore a quarantotto mesi.
Se, da un lato, è comprensibile la volontà del legislatore di assicurare all’aderente un sostegno economico nel periodo di non lavoro, anche in considerazione dell’indisponibilità del TFR conferito alla forma pensionistica, dall’altro può risultare poco ragionevole la scelta di posticipare l’erogazione del trattamento ad un momento significativamente successivo alla perdita dell’occupazione, quando l’esigenza di protezione del reddito si è già verificata e forse anche esaurita (Tozzoli, S., Le prestazioni di previdenza complementare, cit., 760; Zampini, G., Trasferimento e riscatto delle posizioni individuali, in Previdenza complementare, Art. 2123 c.c., a cura di M. Cinelli, in Il codice civile commentato, fondato da P. Schlesinger, Milano, 2010, 541 ss.).
Ad ogni modo, deve essere sempre consentito il mantenimento della posizione individuale accantonata presso il fondo pensione anche in assenza di contribuzione. Tale opzione trova automatica applicazione in difetto di diversa scelta da parte dell’iscritto e fatta salva l’ipotesi di valore della posizione individuale maturata, non superiore all’importo di una mensilità dell’assegno sociale di cui all’art. 3, co. 6, l. 8.8.1995, n. 335 (attualmente pari per l’anno 2019 a euro 458,00). A seguito del recepimento della direttiva 2014/50/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 aprile 2014 (art. 1, co. 1, lett. b, d.lgs. n. 88/2018), le forme pensionistiche complementari hanno l’obbligo di informare l’iscritto, conformemente alle istruzioni impartite dalla Covip, della facoltà di esercitare il trasferimento ad altra forma pensionistica complementare ovvero di richiedere il riscatto con le modalità di cui all’art. 11, co. 5, d.lgs. n. 252/2005.
Ebbene fuori della cornice legislativa, occorre interrogarsi sulla previsione di cui si è riferito in precedenza, contenuta segnatamente nell’art. 14, co. 1, d.lgs. n. 252/2005, vale a dire con riferimento alle prerogative riconosciute alle fonti istitutive. Possono le fonti introdurre meccanismi di penalizzazione all’esercizio del riscatto (o, come si vedrà infra, del trasferimento)? Una risposta affermativa non può condividersi non fosse altro perché il lavoratore è il solo titolare della posizione accumulata: conseguentemente, il potere dispositivo ad esse riconosciuto attiene unicamente alla specificazione delle modalità operative attraverso cui attivare queste opzioni.
Possono le fonti istitutive individuare cause di riscatto diverse da quelle di cui ai co. 2 e 3 dell’art. 14 d.lgs. n. 252/2005? Si imporrebbe una risposta negativa almeno stante al tenore delle due norme che non lascerebbe adito a nessuna perplessità se non fosse che lo stesso co. 5 del medesimo articolo (sostituito dall’art. 1, co. 38, lett. c), n. 2), l. n. 124/2017) lascia trasparire una diversa possibilità: purché si applichi una ritenuta a titolo di imposta del ventitré per cento (anziché del quindici per cento ridotta di una quota pari a zero virgola trenta punti percentuali per ogni anno eccedente il quindicesimo di partecipazione al fondo pensione con un limite massimo di sei punti percentuali sull’intero importo riscattato) è ammissibile il riscatto della posizione, sia nelle forme collettive sia in quelle individuali, «per cause diverse». Ne consegue che, fermo restando il venir meno dei requisiti di partecipazione al fondo, sono le fonti istitutive ad individuare le ulteriori ipotesi di riscatto (totale, ma anche solo “parziale”: cfr. la deliberazione COVIP del 29.3.2012) della posizione individuale: si pensi al caso della risoluzione consensuale, delle dimissioni, del licenziamento.
Restano da esaminare le cause che determinano il riscatto della posizione individuale a seguito del verificarsi di eventi collegati alla vita umana (le cause “soggettive”).
Accanto al caso del pensionamento del lavoratore del regime obbligatorio di appartenenza che determina la cessazione della partecipazione al fondo pensione, tranne il caso in cui l’aderente intenda avanzare richiesta di prosecuzione volontaria, occorre in primo luogo rammentare la premorienza del lavoratore, iscritto ad un fondo pensione, che si verifichi prima della maturazione del diritto alla prestazione pensionistica. In questo caso, l’intera posizione individuale è riscattata dagli eredi ovvero dai diversi beneficiari dallo stesso designati, siano essi persone fisiche o giuridiche (art. 11, co. 3, d.lgs. n. 252/2005 modificato dall’art. 1, co. 16, d.lgs. n. 147/2018). Si applicano, dunque, le previsioni ordinarie codicistiche in materia di successioni legittime o testamentarie, salvo che l’iscritto non abbia espresso una volontà diversa specificamente designando un beneficiario “non erede” (Pallini, M., La «mobilità» tra le forme pensionistiche complementari, in La nuova disciplina della previdenza complementare, a cura di A. Tursi, Padova, 2007, 805). In caso di più beneficiari o più eredi, salvo diversa indicazione del lavoratore deceduto, la divisione avviene per parti uguali (cfr. Cass. 10.11.1994, n. 9388; orientamento Covip 15.7.2008; contra, da ultimo, Cass. 29.9.2015, n. 19210, in un caso di assicurazione vita).
In mancanza di tali soggetti, se si tratta di forme pensionistiche complementari individuali di cui all’art.13 d.lgs. n. 252/2005 la liquidazione del maturato viene devoluta a finalità sociali secondo le modalità stabilite con decreto del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, mentre negli altri casi di forme pensionistiche complementari, compresi i fondi pensione aperti ad adesione collettiva, la suddetta posizione resta acquisita al fondo pensione a tutela e garanzia delle esigenze solidaristiche (Gentili, M.P., Perdita dei requisiti di partecipazione al fondo pensione, in La previdenza complementare in Italia, I, a cura di R. Pessi, in Le fonti normative e negoziali della previdenza complementare in Europa, a cura di A. Tursi, Torino, 2011, 138).
Differente si presenta il decesso del lavoratore che abbia maturato il diritto alla pensione complementare e ne sia in godimento: si tratta del caso, all’invero non infrequente, della morte dell’aderente che sia già “titolare” della prestazione pensionistica.
In questo caso, a migliore tutela dell’aderente, gli schemi per l’erogazione delle rendite possono prevedere, in caso di morte del titolare della prestazione pensionistica, la restituzione ai “beneficiari” dallo stesso indicati del montante residuo (si v. l’art. 11, co. 5, d.lgs. n. 252/2005 che parla di “riscatto” della posizione sia nelle forme collettive sia nelle forme individuali) o, in alternativa (ove previsto dalla fonte contrattuale), l’erogazione ai medesimi di una rendita calcolata in base al montante residuale. Difatti, non è precluso al fondo pensione di stipulare contratti assicurativi collaterali contro i rischi di morte o di sopravvivenza oltre la vita media. Il mancato riferimento “agli eredi” non può essere letto come esclusione della trasmissibilità iure successionis del relativo diritto: in mancanza delle persone designate dall’iscritto, spetterà agli eredi individuati in base alla disciplina del codice civile la restituzione del capitale residuo (o, in alternativa, l’erogazione della rendita calcolata in base al montante residuale).
Occorre considerare un secondo gruppo di eventi nel quale si distinguono le vicende che originano dall’accesso ad una nuova attività professionale da quelle che dipendono dalla volontà dell’aderente di trasferire “liberamente” la propria posizione ad un altro fondo pensione. In entrambi i casi, la portabilità (o il trasferimento) non interrompe l’unicità della posizione previdenziale: ciò significa che saranno salvi gli effetti in ordine, ad esempio, all’anzianità di iscrizione al fondo pensione al fine di conseguire una anticipazione o il mantenimento della qualifica di lavoratore non di prima occupazione.
Così, accanto al trasferimento ad altra forma pensionistica complementare alla quale il lavoratore accede in relazione alla nuova attività (cd. professionale), il legislatore disciplina espressamente quello “volontario” o “libero”, sia pure riservando – al pari dell’istituto del riscatto – alle fonti secondarie contrattuali il compito di stabilirne la regolamentazione di dettaglio (si v. il co. 1 dell’art. 14 d.lgs. n. 252/2005).
Decorsi due anni dalla data di partecipazione ad una forma pensionistica complementare (la previgente disciplina del 1993 prevedeva il termine dei tre anni di permanenza, esteso a cinque nel periodo iniziale di vita del fondo), l’aderente ha facoltà di trasferire l’intera posizione individuale maturata alla forma pensionistica.
Si tratta della “portabilità libera della posizione individuale” in costanza di rapporto di lavoro, da intendersi come «possibilità consentita agli iscritti di scegliere liberamente la forma pensionistica di destinazione, a prescindere dalla natura dell’adesione, collettiva o individuale, o della tipologia di forma, ma non al di fuori dello stesso di sistema previdenziale complementare di cui al d.lgs. n. 252/2005». La recente direttiva 2014/50/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 16 aprile 2014, al fine di accrescere la mobilità dei lavoratori tra Stati membri migliorando l’acquisizione e la salvaguardia di diritti pensionistici complementari, stabilisce i criteri minimi che ogni Stato membro è tenuto ad assicurare in modo da ridurre gli ostacoli alla libera circolazione dei lavoratori (sui profili critici della direttiva in ordine al suo recepimento in Italia si v. Squeglia, M., Prime osservazioni sulla direttiva europea in materia di salvaguardia e acquisizione dei diritti pensionistici complementari, in Dir. rel. ind., 2014, 865 ss.).
L’art. 14, co. 6 ss., d.lgs. n. 252/2005 subordina l’operatività del cd. trasferimento libero alla previsione esplicita degli statuti e dei regolamenti delle forme pensionistiche e all’assenza di clausole che risultino, anche di fatto, limitative del suddetto diritto. Il trasferimento realizza una successione contrattuale ope legis tra la precedente forma pensionistica e la nuova prescelta dall’iscritto, ma con carattere espromissorio (Rasi, F., Aspetti civili e fiscali, cit., 39). In ogni caso, sono comunque inefficaci clausole che, all’atto dell’adesione o del trasferimento, consentano l’applicazione di voci di costo, comunque denominate, significativamente più elevate di quelle applicate nel corso del rapporto e che possono quindi costituire ostacolo alla portabilità. In caso di esercizio della predetta facoltà, il lavoratore ha diritto al versamento alla forma pensionistica da lui prescelta «del trattamento di fine rapporto maturando e dell’eventuale contributo a carico del datore di lavoro nei limiti e secondo le modalità stabilite dai contratti o accordi collettivi, anche aziendali».
Ciò significa che, se un lavoratore scegliesse di trasferire la propria posizione da un fondo di origine contrattuale a un fondo aperto ad adesione individuale, o a un piano individuale pensionistico, il datore di lavoro non sarebbe più tenuto a versare la contribuzione a suo carico: una variabile da non trascurare che potrebbe presumibilmente spingere il medesimo lavoratore a restare nel fondo di provenienza di categoria, senza necessità di esercitare il diritto alla trasferibilità della propria posizione (sulla ricostruzione della controversa natura del contributo datoriale, si v. Rosano, M., Questioni di portabilità del contributo datoriale, in La previdenza complementare in Italia, I, a cura di R. Pessi, in Le fonti normative e negoziali della previdenza complementare in Europa, a cura di A. Tursi, Torino, 2011, 102 ss.).
Si presenta allora convincentemente problematica la questione della portabilità dei diritti futuri alla contribuzione datoriale in altre forme pensionistiche complementari nei confronti di un lavoratore di un fondo negoziale (ovvero di un fondo aperto ad adesione collettiva) interessato a trasferire la posizione individuale in un altro fondo pensione anche al di fuori dei confini nazionali.
La non esportabilità del contributo datoriale al di fuori del fondo pensione di
matrice sindacale avrebbe come duplice effetto quello, da un lato, di disincentivare i lavoratori al trasferimento o all’adesione ad altri fondi e, dall’altro, «di rinunciare ad una rilevante fonte di finanziamento delle posizioni pensionistiche complementari dei lavoratori» (Pallini, M., La «mobilità» tra le forme pensionistiche complementari, cit., 788). Senza trascurare che ciò contrasterebbe con «le finalità manifestate e professate dal sindacato che inequivocabilmente dovrebbero tendere alla tutela degli interessi dei lavoratori iscritti» (Ichino, P., La “portabilità” tra diritto civile e antitrust, in www.lavoceinfo, 7.11.2005).
A sostegno della compatibilità costituzionale delle previsioni negoziali di non esportabilità del contributo datoriale al di fuori del sistema contrattuale che lo aveva generato, si è sostenuto in dottrina che tale contributo risponderebbe a un vincolo di destinazione previdenziale che lo distinguerebbe dalla retribuzione minima di cui all’art. 36 Cost. finalizzata alle sue ordinarie esigenze di mantenimento (Mazziotti, F., Le posizioni soggettive della pensione complementare, in La previdenza complementare nella riforma del welfare, a cura di G. Ferraro, I, Milano, 2000, 73 ss.), od ancora che il contributo datoriale non avrebbe affatto natura retributiva, pur atteggiandosi quale corrispettivo nel sinallagma complesso del contratto individuale di lavoro (Tursi, A., La previdenza complementare nel sistema italiano di sicurezza sociale. Fattispecie e disciplina giuridica, Milano, 2001, 131 ss. e 285 ss.), bensì presenterebbe una funzione esclusivamente previdenziale. Una posizione che originerebbe dalle decisioni sui la Corte costituzionale ha basato il proprio percorso giurisprudenziale e di cui si ha già riferito in precedenza: i contributi datoriali, inseriti nel contesto dell’art. 38 Cost. non possono definirsi emolumenti retributivi con funzione previdenziale, ma sono strutturalmente contributi di natura previdenziale, come tali estranei alla nozione di retribuzione imponibile (C. cost., 8.9.1995, n. 421; in precedenza anche C. cost., 3.10.1990, n. 427; in senso conforme si vedano anche C. cost., 8.6.2000, n. 178; C. cost., 28.7.2000, n. 393; C. cost., 16.4.2002, n. 121).
Una tale soluzione neppure parrebbe neppure contrastare il principio di libertà di concorrenza nel mercato comune di cui all’art. 81 TCE. Secondo il costante orientamento della Corte di Giustizia europea (C. giust., 21.9.1999, C-67/1996, Albany; C. giust., 21.9.1999, C-115/1997, C-116/1997, C-117/1997, Brentjens; C. giust., 12.9.2000, C-222/1998, Pavlov): i contratti collettivi di lavoro non rientrano nell’ambito di applicazione dell’art. 81 qualora siano volti per la loro “natura” e “oggetto” a conseguire obiettivi di miglioramento delle condizioni di occupazione e lavoro. Ciò significa la non punibilità delle norme in materia di concorrenza posto che le scelte sindacali possono più di altre tutelare la solidarietà (e non il mercato) se questa è la finalità del fondo pensione (contra questa posizione si v. Pallini, M., La «mobilità» tra forme pensionistiche complementari, cit., 794).
Le operazioni di trasferimento delle posizioni pensionistiche (risorse o riserve matematiche) che devono essere compiute nel termine di sei mesi dall’esercizio dell’opzione (cfr. il co. 8 del medesimo articolo) sono esenti da ogni onere fiscale, a condizione che avvengano a favore di forme pensionistiche disciplinate dal decreto legislativo del 2005 (art. 14, co. 7, d.lgs. n. 252/2005). Si consideri che Abi, Ania, Assofondipensione, Assoprevidenza e Assogestioni – alla presenza del Ministro del Lavoro, del presidente di COVIP e del direttore generale di MEFOP – hanno sottoscritto, il 24 aprile 2008, le «Linee guida della gestione dei trasferimenti», che definiscono standard di comportamento omogenei. In particolare, riconoscono che il trasferimento può essere attivato prima che sia trascorso il periodo minimo di due anni di iscrizione a un fondo, anche in altre ipotesi: a) se il fondo al quale si è iscritti viene sciolto; b) quando un lavoratore, iscritto a un piano individuale previdenziale o ad un fondo aperto ad adesione individuale, vuole iscriversi a un fondo negoziale o a un fondo aperto ad adesione collettiva in base alle possibilità offerte da una nuova attività lavorativa; c) se, al momento del pensionamento, una persona vuole aderire a un fondo che eroga prestazioni in base a condizioni più favorevoli; d) se un soggetto è iscritto a un piano individuale previdenziale o a un fondo aperto che abbiano modificato «in modo sostanziale» le caratteristiche del fondo, generando un peggioramento “rilevante” nelle condizioni economiche.
Gli adempimenti a carico delle forme pensionistiche complementari, conseguenti all’esercizio delle facoltà riconosciute all’aderente (riscatto, premorienza e portabilità) devono essere compiuti , al pari dell’operazione di trasferimento, entro il termine massimo di sei mesi dalla data di esercizio dell’opzione o dell’avverarsi dell'evento (art. 14, co. 8, d.lgs. n. 252/2005).
Lo scenario temporale di lungo periodo porta il fondo pensione a doversi misurare con condizioni non sempre prevedibili che possono pregiudicare le ragioni alla base dell’esistenza della forma previdenziale. Ciò spiega la rete di protezione costruita per le diverse fattispecie che possono intervenire durante la vita del fondo pensione. Il caso più rilevante corrisponde all’ipotesi dello scioglimento della forma pensionistica complementare che può ricondursi tanto ad una volontà soggettiva delle parti quanto a vicende concernenti i soggetti tenuti alla contribuzione.
Per quanto riguarda la prima fattispecie, lo scioglimento è deliberato dall’organo assembleare in seduta straordinaria, sulla base delle scelte inerenti alle previsioni statutarie ovvero per fattori oggettivi che rendano impossibile la prosecuzione dell’attività del fondo. I casi possono essere piuttosto eterogenei: si pensi, ad esempio, ad una costante e progressiva diminuzione della base associativa o da una significativa contrazione della situazione patrimoniale del fondo pensione.
La seconda fattispecie si presenta di natura generica e attiene al caso di scioglimento per «vicende concernenti i soggetti tenuti alla contribuzione»: l’art. 15, d.lgs. n. 252/2005 distingue il caso dei soggetti già pensionati dai soggetti cd. attivi. Per i primi si provvede semplicemente «alla intestazione diretta della copertura assicurativa in essere per coloro che fruiscono di prestazioni in forma pensionistica». In sostanza, si consente di operare il passaggio della polizza assicurativa in capo al beneficiario anziché al fondo pensione.
Per gli altri destinatari, al fine di assicurare la continuità delle prestazioni, invece si applicano le disposizioni che consentono di optare tra il trasferimento e il riscatto della posizione individuale (ex art. 14 d.lgs. n. 252/2005).
Vale la pena segnalare che in tutti i casi di scioglimento, indipendentemente dalla causa che ha generato la decisione, è necessaria la nomina del/dei liquidatore/i che deve essere sottoposta al vaglio della Commissione di Vigilanza alla quale il fondo pensione deve inoltrare una comunicazione entro sessanta giorni dalla data della deliberazione.
Diverso è il caso in cui il fondo pensione si venga a trovare in una situazione tale da poter dar luogo ad effetti che possono incidere sull’equilibrio del fondo. In questi casi, gli organi del fondo e comunque i suoi responsabili, devono comunicare preventivamente alla Commissione di Vigilanza stessa i provvedimenti ritenuti necessari alla salvaguardia dell’equilibrio del fondo pensione al fine di evitare che una situazione di potenziale e prevedibile squilibrio si trasformi in una crisi definitiva che potrebbe irreversibilmente pregiudicare le posizioni dei singoli iscritti.
Ove la situazione di squilibrio renda impossibile il proseguimento delle sue attività (cessazione dell’attività o sottoposizione a procedura concorsuale del datore di lavoro che abbia costituito un fondo pensione) si procede al definitivo scioglimento, applicando la disciplina dell’amministrazione straordinaria e della liquidazione coatta amministrativa (con esclusione del fallimento, ai sensi degli artt. 70 ss. t.u.b.): in tal caso, il Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali nomina, su proposta della Commissione di Vigilanza, un commissario straordinario. La deliberazione di scioglimento è comunicata, entro sessanta giorni, alla Commissione di Vigilanza, che ne dà comunicazione al Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.
Artt. 12, 36, 38, 39, co. 1, 47 Cost.; artt. 2117 e 2123 c.c.; art. 3 l. 23.10.1992, n. 421; art. 2, co. 26, d.lgs. 30.12.1992, n. 503; d.lgs. 21.04.1993, n. 124; D.M. 21.11.1996, n. 703, D.M. 14.1.1997, n. 211; art. 1, co. 1, lett. c), 2, lett. e), h), i), l) e v), 44, 45 e 46, l. 23.8.2004, n. 243; art. 15, l. 8.8.1995, n. 335; d.lgs. 5.12.2005, n. 252; Provvedimento 10.11.2006, n. 2472; D.M. 10.5.2007, n. 62; D.M. 15.5.2007, n. 79; D.M. 7.12.2012, n. 259; D.M. 2.8.2014 n. 166; art. 1, co. 26, l. n. 190/2014; art. 1, co. 156 e 157, co. 173 ss., l. 27.12.2017, n. 205.
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