Abstract
La disciplina dei fondi pensione coinvolge numerosi soggetti che operano nel mercato finanziario inteso in senso lato: banche, imprese di assicurazione, società di intermediazione mobiliare, società di gestione del risparmio sono le controparti delle convenzioni che i fondi pensione concludono ai fini della gestione del loro patrimonio. Tuttavia, un posto a parte occupano le imprese di assicurazione, le sole a poter garantire le erogazioni delle prestazioni sotto forma di rendita e a essere legittimate alla stipula delle polizze assicurative che attuano piani individuali pensionistici, l’altra faccia del complesso universo della previdenza complementare. A completare un quadro sempre più variegato è la possibilità per i fondi pensione di assumere direttamente rischi tipicamente assicurativi. La definizione dei ruoli assegnati ai diversi attori che si muovono sulla scena della previdenza complementare e delle regole a cui gli stessi sono assoggettati diventa così momento centrale ai fini della comprensione del fenomeno a tutto tondo.
Ai fini di un preliminare inquadramento del tema, va in primo luogo ricordata la finalità perseguita dal legislatore mediante la disciplina dei fondi pensione. Come noto, l’obiettivo perseguito è il raggiungimento di livelli di copertura previdenziale più elevati rispetto a quelli derivanti dal sistema pensionistico obbligatorio, secondo quanto dichiarato dalla norma di apertura del corpus normativo interamente destinato a regolare le forme pensionistiche complementari, l’art. 1, co. 1, d.lgs. 5.12.2005, n. 252, che ha abrogato e sostituito il provvedimento storico dedicato alla materia, il d.lgs. 21.4.1993, n. 124.
L’idea da cui scaturisce l’originaria disciplina, confermata dall’attuale set di regole, è il tentativo di superare le difficoltà in cui ha iniziato a dibattersi il sistema di welfare, come concepito fino a qualche tempo addietro. In particolare, le prime crepe del sistema previdenziale pubblico sono state messe in luce dalla convergenza di due fattori: a) un tasso di natalità ormai di gran lunga inferiore a quello del passato, con la conseguente contrazione del numero dei lavoratori attivi ai quali poter chiedere di alimentare le posizioni previdenziali dei lavoratori in stato di quiescenza; b) una speranza di vita, calcolata dalla scienza statistica mediante la predisposizione di tavole di mortalità, che da tempo supera ormai di gran lunga ogni più rosea aspettativa di qualche decennio addietro. Sicché, non può sorprendere che la solidarietà tra generazioni, su cui ha storicamente riposato il sistema pensionistico obbligatorio, si sia ormai inevitabilmente avviata sul viale del tramonto.
Nelle intenzioni del legislatore vi è dunque il tentativo di edificare un ulteriore pilastro previdenziale, che nasce su base volontaristica, ma che va tendenzialmente evolvendosi, com’è provato da talune opzioni di policy legislativa mirate ad introdurre il criterio del silenzio-assenso nella devoluzione del trattamento di fine rapporto alla previdenza complementare.
È questa a grandissime linee la cornice entro la quale si inscrive un puntuale quadro normativo che presenta significativi tratti pertinenti – oltreché al diritto del lavoro, per i quali sia rinvia alla sedes materiae – anche al diritto delle assicurazioni e a quello dei mercati finanziari e che, pertanto, soprattutto in tempi più recenti, è stato modificato alla luce dei cambiamenti intervenuti nelle relative discipline dell’Unione europea.
Per coglierne pienamente la portata, merita segnalare che la finalità perseguita dalla disciplina delle forme pensionistiche complementari passa in primo luogo attraverso la costituzione di associazioni, fondazioni ed altri soggetti del titolo I del codice civile (art. 4, co. 1, d.lgs. n. 252/2005), ai quali aderiscono lavoratori, sia dipendenti sia autonomi, appartenenti alla medesima categoria. A sua volta, la categoria è individuata mediante contratti e accordi collettivi, anche aziendali, accordi tra lavoratori autonomi o tra liberi professionisti, regolamenti di enti o aziende, accordi tra soci lavoratori di cooperativa. I fondi pensione possono essere costituiti anche dalle regioni, le quali disciplinano il funzionamento di tali forme con legge regionale nel rispetto della normativa nazionale in materia (art. 3, co. 1, d.lgs. n. 252/2005). Ciascuna delle forme pensionistiche appena menzionate può essere definita «fondo negoziale» in ragione della sua genesi, ma altresì «fondo chiuso» in forza della cerchia (categoria) di soggetti che possono esserne destinatari: sicché, soltanto chi appartenga a quella medesima cerchia potrà aderire alla corrispondente forma pensionistica. Un discorso a parte meritano invece i «fondi aperti», di cui si dirà infra, § 5.
Benché sia stato fin qui brevemente tratteggiato nella sua soggettività giuridica, il fondo pensione è, tuttavia, anche il patrimonio formato dai contributi versati da quanti vi abbiano aderito, ed in taluni casi altresì dai contributi versati dagli stessi datori di lavoro. Si tratta di un patrimonio che solo in forma circoscritta può essere autonomamente gestito dal fondo, mediante la sottoscrizione o acquisizione di azioni o di quote di società immobiliari ovvero di quote di fondi comuni di investimento mobiliari chiusi (art. 6, co. 1, lett. d) ed e), d.lgs. n. 252/2005). Per converso, nella gran parte dei casi esso deve essere affidato in gestione agli operatori del mercato finanziario indicati dal legislatore. Più precisamente, i fondi pensione gestiscono le proprie risorse mediante convenzioni con i soggetti autorizzati all’esercizio del servizio di gestione di portafogli, con le imprese di assicurazione, mediante ricorso alle gestioni di cui al ramo VI delle assicurazioni sulla vita, con le società di gestione del risparmio, ovvero con i soggetti e con le imprese svolgenti le medesime attività ed aventi sede statutaria in uno dei Paesi aderenti all’Unione europea, quando abbiano ottenuto il mutuo riconoscimento nel caso della gestione di portafogli, o quando operino in Italia in regime di stabilimento o di prestazione di servizi negli altri casi, e, infine, con i soggetti autorizzati alla gestione degli OICR alternativi (art. 6, co. 1, lettere a), b), c) e c-bis), d.lgs. n. 252/2005).
Prima di proseguire, vanno precisate le ragioni per le quali i fondi pensione possono stipulare convenzioni finalizzate alla gestione delle proprie risorse soltanto con le imprese di assicurazione autorizzate all’esercizio del ramo vita VI. Si tratta del ramo relativo alle operazioni di gestione di fondi collettivi costituiti per l’erogazione di prestazioni in caso di morte, in caso di vita o in caso di cessazione o riduzione dell’attività lavorativa, secondo la definizione ora contenuta nell’art. 2, co. 1, c. assicurazioni, ma storicamente presente nei testi normativi dedicati all’esercizio dell’attività assicurativa e tradizionalmente ritenuta una mera gestione di patrimoni di terzi, priva di ogni connotato assicurativo. Dalla natura finanziaria del ramo vita VI può, dunque, farsi discendere la scelta legislativa di offrire alle imprese di assicurazione autorizzate al suo esercizio la medesima opportunità offerta agli altri gestori finanziari, anche nella prospettiva dei possibili benefici derivanti dalla competitività del sistema.
Nella gestione dei fondi pensione ciascuno dei possibili gestori, dopo aver stipulato un’apposita convenzione con il fondo pensione, è chiamato all’osservanza delle regole fissate dallo stesso legislatore.
In particolare, il gestore deve attenersi alle linee di indirizzo concordate con il fondo pensione, osservare i termini e le modalità attraverso cui il fondo esercita la facoltà di recesso, assicurando al fondo la possibilità di rientrare in possesso del proprio patrimonio attraverso la restituzione delle attività finanziarie nelle quali risultano investite le disponibilità del fondo medesimo. Le convenzioni tra fondo e gestore devono inoltre prevedere l’attribuzione in ogni caso al fondo pensione della titolarità dei diritti di voto inerenti ai valori mobiliari presenti nel fondo medesimo (art. 6, co. 8, d.lgs. n. 252/2005).
Come può agevolmente osservarsi, il rapporto che lega il fondo pensione al soggetto con cui è stata stipulata la convenzione, avente una natura gestoria, è improntato alla finalità di garantire al fondo la presenza di un investitore sottoposto a forme di vigilanza regolamentare, avente le capacità professionali idonee ad investimenti patrimoniali con evidenti scopi previdenziali. Entrando più nel dettaglio, si tratta di una gestione che può essere definita “dinamica”, secondo quanto è dato ricavare dal segnalato diritto del fondo ad ottenere la restituzione non già delle risorse che componevano il patrimonio al momento dell’affidamento in gestione, bensì di quelle che compongono il patrimonio nel (successivo) momento della richiesta di restituzione e che sono il risultato degli investimenti effettuati medio tempore dal gestore.
Sotto altro profilo, la legittimazione del fondo a chiedere ed ottenere la restituzione del patrimonio si inserisce nel più ampio contesto della competitività tra possibili gestori, alla quale si è già fatto un cenno: ciascun fondo pensione è lasciato libero di modificare il gestore in ogni tempo, potendo la scelta cadere su un diverso gestore ritenuto in seconda battuta più idoneo agli investimenti con finalità previdenziali e al quale affidare in gestione le risorse restituite dal precedente gestore. Va peraltro detto che la scelta del gestore ritenuto dal fondo più adatto alle esigenze dei propri aderenti caratterizza anche la fase iniziale dell’attività del fondo. Al riguardo, merita precisare che, in occasione della stipula delle convenzioni, i competenti organismi di amministrazione dei fondi – da comporre avuto riguardo al criterio della partecipazione paritetica di rappresentanti dei lavoratori e dei datori di lavoro – richiedono offerte contrattuali, attraverso la forma della pubblicità notizia su almeno due quotidiani tra quelli a maggiore diffusione nazionale o internazionale, a soggetti abilitati che non appartengono ad identici gruppi societari e comunque non siano collegati, né direttamente né indirettamente, da rapporti di controllo. Il processo di selezione dei gestori deve essere condotto secondo le istruzioni adottate dall’autorità di vigilanza competente (la Commissione di vigilanza sui fondi pensione) e comunque in modo da garantire la trasparenza del procedimento e la coerenza tra obiettivi e modalità gestionali, quali decisi preventivamente dagli amministratori, e i criteri di scelta dei gestori (art. 6, co. 6 e 8, d.lgs. n. 252/2005).
Allo scopo di meglio salvaguardare la destinazione degli investimenti alle finalità perseguite dal sistema della previdenza complementare, il legislatore ha peraltro avvertito l’esigenza di introdurre il principio della separazione patrimoniale, secondo regole analoghe a quelle a cui già da tempo risalente soggiacciono sia i soggetti abilitati all’esercizio dei servizi e delle attività di investimento, sia le società di gestione del risparmio, ma anche le imprese di assicurazione. I fondi pensione sono infatti in ogni tempo titolari dei valori e delle disponibilità affidati in gestione. Di più, i valori e le disponibilità gestiti costituiscono in ogni caso patrimonio separato ed autonomo rispetto al patrimonio del gestore, devono essere contabilizzati a valori correnti e non possono essere distratti dal fine al quale sono stati destinati, né formare oggetto di esecuzione sia da parte dei creditori del gestore, sia da parte dei rappresentanti dei creditori stessi, né possono essere coinvolti nelle procedure concorsuali che riguardano il gestore (art. 6, co. 9, d.lgs. n. 252/2005). Appare chiaro l’intento del legislatore di sottrarre il patrimonio affidato in gestione alle eventuali pretese dei creditori del soggetto gestore, secondo una regola che – come poc’anzi ricordato – attraversa ormai l’universo degli intermediari finanziari in senso lato intesi.
A rendere ancor più incisiva la previsione relativa alla separazione patrimoniale è poi la legittimazione del fondo pensione a proporre la domanda di rivendicazione disciplinata dalla legge fallimentare prima e dal codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza poi e che, come noto, è preordinata a sottrarre alla massa le cose mobili possedute dal fallito (dal debitore assoggettato a liquidazione giudiziale, dall’entrata in vigore del codice medesimo). Possono essere rivendicati tutti i valori conferiti in gestione, anche se non individualmente determinati o individuati ed anche se depositati presso terzi, diversi dal gestore. Per facilitare l’accertamento dei valori oggetto della domanda è ammessa ogni prova documentale, compresi i rendiconti redatti dal gestore o dal terzo depositario (art. 6, co. 9, d.lgs. n. 252/2005).
Il riferimento normativo al terzo depositario deve essere correttamente inteso. Nel corpus legislativo dedicato alle forme pensionistiche complementari è infatti contenuta una disposizione finalizzata a rafforzare la separazione tra il fondo pensione e il patrimonio di cui è titolare il soggetto gestore. Ai sensi dell’art. 7 d.lgs. n. 252/2005, le risorse dei fondi, che siano state affidate in gestione, sono depositate presso un unico soggetto che sia distinto dal gestore e che possegga gli stessi requisiti già richiesti dall’ordinamento interno al soggetto depositario nella diversa materia della gestione collettiva del risparmio. In particolare, il depositario delle risorse dei fondi pensione esegue le istruzioni impartite dal gestore del patrimonio del fondo, se non contrarie alla legge e alle norme statutarie e regolamentari del fondo medesimo. Come accennato, può scorgersi nella previsione un meccanismo pressoché identico a quello predisposto in materia di gestione collettiva del risparmio, dove sono prescritte sia la separazione del fondo d’investimento dal patrimonio della società di gestione del risparmio sia l’affidamento ad un depositario dei beni che compongono quel medesimo fondo comune (cfr. artt. 36, co. 4, e 47 t.u.f.).
Va peraltro chiarito che tra le istruzioni impartite dal soggetto gestore ed eseguite, se conformi alla legge, dal depositario, si inseriscono le regole inerenti agli investimenti (art. 7, co. 2, lett. d), d.lgs. n. 252/2005). La disciplina delle forme pensionistiche complementari contiene sul punto una delega al Ministro dell’economia e delle finanze che, di concerto con il Ministro del lavoro e sentita la Commissione di vigilanza sui fondi pensione, è chiamato ad individuare con decreto le attività nelle quali i fondi pensione possono investire le proprie disponibilità, avendo presente il perseguimento degli interessi degli iscritti, ed eventualmente fissando limiti di investimento qualora siano giustificati da un punto di vista prudenziale (al riguardo, cfr. d.m. Economia e Finanze 2.9.2014, n. 166). Di competenza ministeriale sono, inoltre, la determinazione dei criteri di investimento nelle varie categorie di valori mobiliari (ma può ritenersi più in generale di strumenti finanziari, categoria più ampia dei valori mobiliari: cfr. sezione C dell’allegato I t.u.f.) e la fissazione delle regole da osservare in materia di conflitto di interessi (art. 6, co. 5 bis, d.lgs. n. 252/2005).
È possibile infine sottolineare che l’incarico di soggetto depositario dei valori che compongono il patrimonio del fondo pensione può essere assunto da banche italiane, succursali italiane di banche UE e di paesi terzi, società di intermediazione mobiliare e succursali italiane di imprese di investimento UE e di paesi terzi (cfr. artt. 7, co. 1, d.lgs. n. 252/2005 e 47, co. 2, t.u.f.).
Tutti i lavoratori (dipendenti, autonomi, liberi professionisti), secondo il segnalato principio dell’appartenenza alla categoria, possono accedere alle forme pensionistiche complementari in regime di contribuzione definita (art. 2, co. 2, lett. a), d.lgs. n. 252/2005): in queste, l’entità del contributo da versare è determinata ex ante, mentre la prestazione previdenziale finale è una variabile dipendente dal risultato della gestione, pur essendo consentiti dal legislatore sia un risultato minimo sia la restituzione del capitale versato (cd. gestione garantita). Quella che si è appena rapidamente descritta è la gestione delle risorse del fondo pensione affidata ad un gestore finanziario.
Altra circostanza da sottolineare è che il risultato della gestione costituisce la base per il calcolo della pensione complementare. Si tratta di una rendita vitalizia (nel senso che la sua durata dipende dalla durata in vita del pensionato) la quale può essere corrisposta unicamente da un’impresa di assicurazione. Vige infatti nel nostro sistema il principio secondo il quale soltanto le imprese di assicurazione possono assumere rischi di natura demografica, qual è appunto il rischio implicato dall’obbligo di corrispondere una rendita vitalizia. È così possibile distinguere nei fondi pensione in regime di contribuzione definita due fasi: quella della gestione delle risorse da parte di uno dei gestori finanziari che si sono precedentemente individuati; la successiva fase dell’erogazione delle prestazioni sotto forma di vendita, necessariamente affidata ad un assicuratore, al quale spetta il compito di “convertire” il risultato della gestione in una rendita vitalizia (art. 6, co. 3, d.lgs. n. 252/2005).
Tuttavia, va anche segnalato che, sulla scorta di opzioni legislative esercitate dall’Unione europea, gli stessi fondi pensione possono ora essere autorizzati dalla Commissione di vigilanza sui fondi pensione alla copertura di rischi biometrici (e, quindi, altresì all’erogazione delle prestazioni sotto forma di rendita), oltre che alla garanzia di un rendimento degli investimenti o di un determinato livello di prestazioni (e, pertanto, altresì alla prestazione definita, di cui si dirà meglio infra § 4.2). Simile possibilità è nondimeno condizionata alla sussistenza di mezzi patrimoniali adeguati, determinati con regolamento del Ministero dell’economia e delle finanze (cfr. art. 7 bis d.lgs. n. 252/2005; d.m. Economia e Finanze 7.12.2012, n. 259) e, più in generale, di strumenti di tutela degli aventi diritto all’erogazione delle prestazioni sotto forma di rendita analoghi a quelli imposti alle imprese di assicurazione dalla relativa disciplina di settore, tra cui può ora farsi rientrare la persona titolare della funzione attuariale prevista dall’art. 5 quinquies d.lgs. n. 252/2005.
Il deposito delle risorse affidate in gestione presso un depositario – tratto tipico della gestione dei fondi pensione in regime di contribuzione definita – non è richiesto in talune ipotesi espressamente previste dal legislatore della previdenza complementare: forme pensionistiche in regime di prestazione definita ed eventuali prestazioni per invalidità e premorienza. Lo stesso legislatore si cura di precisare che, ove ricorra una delle tre tipologie di prestazioni, devono essere in ogni caso stipulate apposite convenzioni con imprese assicurative (art. 6, co. 5, d.lgs. n. 252/2005). Le peculiari previsioni poco prima riportate richiedono un approfondimento volto a chiarire le ragioni alla base dell’esclusione degli altri soggetti nella veste di possibili gestori delle risorse del fondo pensione, ma altresì del terzo depositario.
Prendendo le mosse dal regime di prestazione definita, è d’uopo ricordare che le forme pensionistiche complementari possono sottostare a due distinti regimi, che variano in ragione delle modalità di calcolo sia dei contributi da versare, sia dell’entità della prestazione spettante agli aventi diritto (i.e. gli aderenti al fondo pensione): oltre al regime di contribuzione definita (di cui si è già detto supra § 4.1), anche il regime di prestazione definita.
Ai lavoratori autonomi e ai liberi professionisti, e solo a questi, è offerta la possibilità di aderire altresì a forme pensionistiche complementari in regime di prestazioni definite, volte ad assicurare una prestazione determinata con riferimento al livello del reddito ovvero a quello del trattamento pensionistico obbligatorio (art. 2, co. 2, lett. b), d.lgs. n. 252/2005).
Diversamente da quanto è stato segnalato per il regime di contribuzione definita, nelle forme in regime di prestazioni definite non vi è soluzione di continuità fra lo stadio della gestione delle risorse e quello dell’erogazione delle prestazioni sotto forma di rendita. Fin dal momento della stipulazione della convenzione viene infatti assunto l’obbligo di corrispondere la pensione complementare (una volta che l’aderente al fondo abbia maturato il diritto alla prestazione), pensione che, come si è già visto, sarà rapportata al livello del reddito ovvero a quello del trattamento pensionistico obbligatorio. Al tempo stesso della stipulazione della convenzione sorge dunque un rischio di natura demografica, che solo le imprese di assicurazione possono coprire, con esclusione di ogni altro gestore finanziario, fatta comunque salva la possibilità dell’assunzione di tale rischio da parte dello stesso fondo pensione, ai sensi del già menzionato art. 7 bis d.lgs. n. 252/2005 e, come visto, nei termini meglio definiti dal d.m. Economia e Finanze 259/2012.
Chiarite le ragioni dell’esclusiva in favore delle imprese di assicurazione nel caso del regime di prestazione definita, rimane da comprendere il motivo che ha indotto il legislatore della previdenza complementare ad optare per la superfluità del deposito delle risorse presso un depositario. Come si è già rilevato, mediante la figura del depositario si è inteso rendere ancor più incisiva la prescritta separazione patrimoniale che – è bene rammentare – opera nella fase della gestione finanziaria delle risorse ed è preordinata ad impedire la confusione tra il patrimonio del gestore ed il risultato della gestione del fondo, determinato ex post all’esito degli investimenti. Di contro, ove le aspettative degli aventi diritto siano predeterminate, come nelle prestazioni definite, il legislatore ha ritenuto che la tutela degli aderenti al fondo ricorra in limine: più precisamente, nell’assoggettamento delle imprese di assicurazione alla disciplina speciale assicurativa, storicamente concepita con l’obiettivo di porre gli assicuratori nella condizione di effettuare prestazioni determinate ex ante anche nel quantum al verificarsi dell’evento dedotto in contratto. È in quest’ordine di idee che va collocata la ratio sottesa alla superfluità sia della separazione patrimoniale sia del deposito presso un soggetto terzo.
Ancorché siano di estremo interesse da un punto di vista sistematico e, dunque, in linea di principio non se ne possa trascurare la rilevanza, i fondi pensione in regime di prestazione definita non hanno avuto nella prassi un particolare riscontro e, anzi, hanno ceduto il passo ai fondi pensione in regime di contribuzione definita anche nei Paesi dove pure avevano attecchito qualche decennio addietro.
Venendo alle altre prestazioni sottratte dal legislatore all’obbligo della separazione patrimoniale e del deposito delle risorse presso un terzo – l’invalidità e la premorienza – conviene rimarcarne la natura assicurativa: le fattispecie implicano infatti l’obbligo di effettuare la prestazione al verificarsi o di un danno prodotto da un sinistro ovvero di un evento relativo alla vita umana, secondo il paradigma del contratto di assicurazione consegnatoci dall’art. 1882 c.c. Ancora una volta si è dunque in presenza di un rischio che soltanto le imprese di assicurazione possono coprire e che, analogamente a quanto già visto con riguardo al regime di prestazione definita, rende superflui taluni dei presidii approntati dal legislatore in chiave di tutela degli aventi diritto alle prestazioni nell’ipotesi del regime di contribuzione definita.
Sono state fin qui descritte le caratteristiche dei fondi pensione “chiusi”, costituiti in una delle forme previste dal libro I del codice civile (associazioni riconosciute e non, fondazioni, ecc.). Invero, i fondi pensione possono costituirsi altresì mediante la formazione di un patrimonio di destinazione (cd. fondo aperto), separato ed autonomo con gli effetti di cui all’art. 2117 c.c., in altri termini indistraibilità dal fine al quale sono stati destinati e divieto che formino oggetto di esecuzione da parte dei creditori del soggetto che ha costituito quei fondi medesimi (art. 4, co. 2, d.lgs. n. 252/2005). Mentre l’adesione ai fondi pensione negoziali avviene necessariamente su base collettiva, l’adesione ai fondi pensione aperti può avvenire anche su base individuale (artt. 12, co. 2, e 13, co. 1, lett. a), d.lgs. n. 252/2005). Tale peculiarità fa dei fondi aperti uno strumento più duttile di adesione alle forme pensionistiche complementari, rivolto anche a quanti non appartengano ad alcuna delle categorie su cui poggia la creazione di un fondo chiuso, ma altresì a coloro che abbiano inizialmente aderito ad un fondo pensione chiuso e trovino successivamente più adatto alle mutate esigenze previdenziali il passaggio ad un fondo pensione aperto. Merita in proposito osservare che il passaggio da una forma pensionistica ad altra non comporta alcun costo: la “portabilità” della posizione individuale è infatti uno degli snodi principali dell’attuale impianto disciplinare (art. 14, co. 6, d.lgs. n. 252/2005), volto ad offrire una varietà di strumenti di attuazione della pensione complementare, modificabili nelle more della “costruzione” di tale pilastro previdenziale.
I fondi pensione aperti possono essere istituiti e gestiti direttamente dalle società di intermediazione mobiliare, dalle società di gestione del risparmio, dalle banche e dalle imprese di assicurazione; in tema di finanziamento, prestazioni e trattamento tributario seguono le regole che governano i fondi pensione chiusi (art. 12, co. 1 e 2, d.lgs. n. 252/2005). Inoltre, l’autorizzazione alla loro costituzione e al loro esercizio è rilasciata dalla Commissione di vigilanza sui fondi pensione, sentite le rispettive autorità di vigilanza sui soggetti promotori, i.e. Consob, Banca d’Italia e Ivass (art. 12, co. 3, d.lgs. n. 252/2005).
A completare l’offerta di forme pensionistiche complementari finora esaminate (fondi pensione chiusi, fondi pensione aperti su base sia collettiva sia individuale) sono i piani pensionistici individuali attuati mediante la conclusione di contratti di assicurazione sulla vita, stipulati con imprese di assicurazione (art. 13, co. 1, lett. b), d.lgs. n. 252/2005). La necessaria controparte assicurativa rende simili forme pensionistiche del tutto estranee alla competenza dei gestori finanziari, incluse le imprese di assicurazione autorizzate all’esercizio del ramo vita VI, e per converso consegna la disciplina applicabile al diritto delle assicurazioni. Tuttavia, allo scopo di garantire la natura e la finalità proprie della forma pensionistica, simili contratti di assicurazione devono essere corredati da un documento – che ne è parte integrante – redatto in base alle direttive impartite dalla Commissione di vigilanza e recante disposizioni circa le modalità di partecipazione, il trasferimento delle posizioni individuali verso diverse forme pensionistiche, la comparabilità dei costi e dei risultati di gestione e la trasparenza dei costi e delle condizioni contrattuali nonché le modalità di comunicazione, agli iscritti e alla Commissione medesima, delle attività della forma pensionistica e della posizione individuale (art. 13, co. 3, d.lgs. n. 252/2005).
Infine, è possibile aggiungere che, a fronte del generico riferimento ai contratti di assicurazione contenuto nella legge, sta una loro puntuale individuazione operata dalla Commissione di vigilanza sui fondi pensione, la quale ha previsto che per l’attuazione delle forme pensionistiche individuali possano essere stipulati i contratti rientranti nei rami vita I e III di cui all’art. 2, co. 1, c. assicurazioni, in altri termini le assicurazioni sulla durata della vita umana, anche quando le prestazioni principali siano direttamente collegate al valore di quote di organismi di investimento del risparmio o di fondi interni – cd. Unit linked – con esclusione delle assicurazioni sulla durata della vita umana le cui prestazioni siano direttamente collegate ad indici o ad altri valori di riferimento – cd. Index linked – (cfr. deliberazione della Commissione di vigilanza sui fondi pensione 31.10.2006, e successive modifiche). La scelta di escludere le polizze Index si spiega con la maggiore aleatorietà delle loro prestazioni principali – dovuta essenzialmente alle oscillazioni dei mercati finanziari – e, dunque, con l’inconciliabilità tra la traslazione del rischio di investimento sull’assicurato – tipica di simili polizze – e lo scopo al quale le forme pensionistiche individuali devono invece intendersi preordinate.
Fonti normative
d.lgs. 5.12.2005, n. 252.
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