fonetica storica
Per secoli l’italiano, fuori di Toscana, è stato imparato sui libri: per questo si è sottratto ai processi di trasformazione caratteristici delle lingue che si sono sviluppate dall’alto medioevo a oggi sulle labbra di una più o meno ampia comunità di parlanti, come il francese o, almeno fino a ieri, i dialetti in Italia. Ne consegue che, mentre per l’inglese, il francese e lo spagnolo le trasformazioni fonetiche intervenute tra medioevo ed età moderna sono rilevantissime, per l’italiano sono invece, tutto sommato, di entità modesta; sicché il periodo decisivo per l’assetto fonetico della nostra lingua è compreso tra la tarda latinità e il Trecento. Grazie anche alla continuità delle attestazioni, è possibile seguire l’evoluzione di un suono qualsiasi dal latino alle lingue romanze, per es. della [e] del latino volgare (< ē, ĭ del latino classico):
lat. ital. fr. spagn. port.
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tēlam tela ant. teile → toile → [ˈtwal] tela teia
(hab)-ēre -ere ant. -eir → -oir → [-ˈwaʁ] -er -er
pĭlum pelo ant. peil → poil → [ˈpwal] pelo pelo
vĭdet vede ant. veit → voit → [ˈvwa] ve ve
Da una tale sinossi risulta evidente un principio fondamentale della linguistica storica: la regolarità del mutamento fonetico. Accertata la costanza dei rapporti, si può parlare di legge fonetica così come si parla di legge fisica, con l’avvertenza che le leggi fonetiche si limitano a registrare i fatti avvenuti nella storia di una lingua, evidenziando a posteriori la regolarità del cambiamento. I mutamenti fonetici possono essere spiegati secondo due prospettive principali: la prospettiva interna, immanente alla struttura linguistica, che confronta le corrispondenze / differenze tra il punto di partenza e il punto d’arrivo, e la prospettiva esterna, di tipo geo- e sociolinguistico, che mette l’accento «sull’osservazione empirica del mutamento nel suo svolgersi entro la società» (Loporcaro 2003: 69).
Le leggi fonetiche descrivono trasformazioni concluse nel tempo: un determinato mutamento fonetico, infatti, non dura indefinitamente, ma si compie in un periodo di tempo limitato. Un esempio di tale limitazione nel tempo dell’operatività di una legge fonetica è il dittongamento toscano di [ɔ] in sillaba libera (per la terminologia cfr. § 1.4): il ➔ dittongo si è prodotto in tutte le parole di tradizione ininterrotta che continuano una ŏ lat. (fuoco, ruota, ecc.), mentre non si è verificato nelle parole con [ɔ] da au (cosa, lode, oro, ecc.), evidentemente perché au è passato a [ɔ] quando il fenomeno del dittongamento si era ormai concluso.
Il monottongamento di au vale quindi come terminus ante quem per il dittongamento di [ɔ]; un’argomentazione di questo tipo, che, dati due mutamenti, ne precisa l’ordine di successione nel tempo, si dice di cronologia relativa. Nella fattispecie è possibile situare nel tempo i due fenomeni anche nei termini della cosiddetta cronologia assoluta:
Il monottongamento di au in ò, attestato dal 726 [gora «canale d’acqua», da un pre-latino *gaura], si sarà prodotto, al più tardi, verso l’inizio del sec. VIII o la fine del sec. VII. Ciò significa che il dittongamento di ò in uo, insieme, verosimilmente, a quello di è in ie, doveva esser terminato avanti l’ultimo quarto del sec. VII (Castellani 1980: I, 94).
Poiché la fonetica non è l’unica dimensione della lingua, accade che mutamenti di natura originariamente fonetica interagiscano con altri livelli della struttura linguistica, per es. con la morfologia: in questo caso il fenomeno può continuare a manifestarsi anche quando sia venuta meno l’iniziale motivazione fonetica.
È questo il caso della ➔ metafonia in generale e del dittongamento metafonetico in particolare, caratteristico del napoletano e di molte altre varietà dialettali centro-meridionali, in cui ĕ e ŏ, davanti a -ŭ e -ī, hanno dato luogo a [je] e [wo] in sillaba sia aperta che chiusa. In napoletano, il dittongo è stato applicato ai nuovi casi lessicali di [ɛ], [ɔ], integrati entro i paradigmi flessivi nominali e verbali, dal medioevo a oggi, cioè dopo il passaggio delle desinenze etimologiche metafonizzanti a [-o] (poi [-ə]) e a [-ə], vocali intrinsecamente incapaci di produrre metafonia (lo stadio -o ← -u, -ə ← -i è documentato a Napoli già nel XIV secolo, ed era stato probabilmente raggiunto molto tempo prima): il dittongo compare dunque in voci dotte, prestiti e neologismi, dal Trecento – exiercito «esercito», iuorno «giorno» ← fr. e occitanico ant. jor(n) – a oggi: [təˈljefonə] «(tu) telefoni».
La sopravvivenza del dittongo, e della correlata alternanza vocalica, all’opacizzazione del contesto fonologico armonizzante, è certo in rapporto con le funzioni morfologiche associate alle vocali finali originarie:
(a) indicazione del plurale, in coppie del tipo pĕdem / *pĕdi;
(b) indicazione del maschile, in coppie del tipo nŏvum / nŏvam;
(c) indicazione della persona verbale, in coppie del tipo dŏrmīs / dŏrmĭt.
La trasvalutazione strutturale della metafonia l’ha così svincolata dall’iniziale condizionamento fonetico. La metafonesi, da regola foneticamente motivata, è dunque diventata assai per tempo una regola determinata morfologicamente. Viceversa, il dittongamento toscano (fenomeno che non si prestava alla ➔ rianalisi morfologica perché indipendente dalla qualità delle vocali finali, dotate di funzione morfemica), non era più attivo, come abbiamo visto, già alla fine del VII secolo: sicché il dittongo, in parole italiane come pietra e ruota, si può considerare un vero e proprio fossile fonetico.
Per quanto pertiene al vocalismo, il punto di partenza, in sede tonica, è il sistema qualitativo a sette vocali detto panromanzo, perché comune a gran parte della Romània:
(1) ī > /i/, ĭ ed ē > /e/, ĕ > /ε/, a > /a/, ŏ > /ɔ/, ō e ŭ > /o/, ū > /u/
In posizione atona il precedente schema si riduce a cinque elementi, perché fuori d’accento è stata neutralizzata l’opposizione tra medie chiuse e aperte:
(2) ī > /i/, ĭ, ē ed ĕ > /e/, a > /a/, ŭ, ō e ŏ > /o/, ū > /u/
Inoltre, la quantità fonologica del latino classico (lĕvis «leggero» ~ lēvis «liscio» e lĕvāre «sollevare» ~ lēvāre «levigare») è stata sostituita da una nuova quantità allofonica (➔ allofoni; ➔ quantità fonologica), priva quindi di valore distintivo, determinata automaticamente dalla presenza dell’accento e dalla struttura sillabica ([ˈVː] in sillaba libera ~ [ˈV] in sillaba impedita: [ˈruːpe] «rupe» ~ [ˈrupːe] «ruppe»).
Una vocale tonica si può dividere in due segmenti per un processo di dittongazione: il dittongo risultante può essere ascendente, con l’accento sul secondo elemento (piède < pĕdem), oppure discendente, coll’accento sul primo elemento (piemontese candéila < candēlam). Il fenomeno inverso, cioè la fusione dei due segmenti di un dittongo in un unico suono vocalico, si chiama monottongazione (aurum > oro; ➔ monottongo).
Quanto all’elevazione della lingua, una vocale può subire un innalzamento (tonica e atona del siciliano vuci «voce» < vōcem) o un abbassamento (bolognese dek «(io) dico» < dīco); quanto invece al punto di articolazione tra velo (posteriore) e palato (anteriore), una vocale può palatalizzarsi (fūsum > milan. [ˈfyːz] «fuso»), velarizzarsi (come la protonica di *fŏcilem > fucile; si è invece velarizzata e labializzata insieme la prima vocale di demandare > domandare) o centralizzarsi (atona finale del napol. [ˈkandə] «(io) canto» < canto). Una vocale, infine, può subire nasalizzazione, se passa da una risonanza orale a una nasale, come nel fr. [ˈbõ] «buono» < bŏnum.
Nel settore del consonantismo può cambiare il modo di articolazione, secondo il quale si distinguono consonanti occlusive, fricative, affricate, laterali, vibranti, nasali (➔ fonetica); avremo dunque fenomeni di:
(a) ➔ spirantizzazione quando un’occlusiva passa a fricativa: habēre > avere o, nella pronuncia toscana della parola amico, [aˈmiːko] > [aˈmiːho];
(b) affricazione: ven. ant. [ˈtsento] < centum; in casi come questo, in cui il risultato è un’affricata alveolare, si parla anche di assibilazione;
(c) deaffricazione, ovvero la perdita dell’elemento occlusivo di un’affricata: ven. mod. [ˈsento] ← [ˈtsento];
(d) rotacizzazione: napol. [ˈpεːrə] «piede» < pĕdem;
(e) nasalizzazione: roman. antro «altro» < alt(e)rum;
(f) vocalizzazione, ossia passaggio alla semivocale anteriore o posteriore: factum > *[ˈfaçtu] (per spirantizzazione) > piem. fait [ˈfai̯t] «fatto»; alt(e)rum > napol. autro «altro».
Quanto al luogo di articolazione, una consonante può subire:
(a) palatalizzazione: cēram [ˈkeːrã] > cera [ˈʧeːra], in cui, riguardo al modo, si noterà l’affricazione;
(b) velarizzazione: velarizzato è l’allofono preconsonantico di /l/ in molti dialetti italiani;
(c) labializzazione: aquam > sardo abba «acqua».
Riguardo poi al grado di articolazione, una consonante sorda può sonorizzarsi (lŏcum > luogo) e una sonora desonorizzarsi (tĕpidum > calabr. tiépitu «tiepido»). Il cambiamento può riguardare anche la durata di una consonante: dunque una doppia può scempiarsi, come nella tipica degeminazione settentrionale (bŭccam > venez. [ˈboːka] «bocca»), e una scempia raddoppiarsi, subendo geminazione (amōrem > napol. [aˈmːorə] «amore»).
Un capitolo importante della fonetica storica è rappresentato dai cosiddetti fenomeni generali, etichetta con cui si designa un insieme di modificazioni impredicibili perché non sistematiche. Si tratta prima di tutto di una serie di fenomeni che riducono o incrementano la massa fonica di una parola:
(a) l’➔aferesi, ovvero la caduta della vocale o della sillaba iniziale: ital. pop. ’na per una;
(b) la ➔ sincope, cioè la cancellazione di una vocale o di una sillaba interna: vedrò ← vederò, cittate < civitatem;
(c) l’apocope (o ➔ troncamento), ossia la caduta della vocale o della sillaba finale: buon per buono, cantà per cantare;
(d) la prostesi, cioè l’aggiunta di una vocale o di una consonante all’inizio di parola: sperare > isperare, ŏcto > milan. vòtt «otto»;
(e) l’➔epentesi, che consiste nell’inserzione di un suono all’interno di parola: encaustum > inchiostro, fabrum > padovano fàvaro «fabbro»;
(f) l’➔epitesi, con cui si indica l’aggiunta di una vocale o di una sillaba in fine di parola: aman(t) > amano, sī(c) > dialetti centro-meridionali sine «sì».
Rientrano nei fenomeni generali anche la metatesi, con cui si intende il cambio di posto subito da un segmento, per lo più consonantico (capram > dialetti meridionali crapa «capra»), e i vari effetti dell’➔assimilazione e della ➔ dissimilazione, per le quali un suono modifica la propria qualità uguagliandosi a o differenziandosi da un altro suono contenuto nella parola, sia a contatto che a distanza. Più in dettaglio, dato l’ordine s1, s2 (dove s sta per un segmento qualsiasi), si parla di assimilazione e dissimilazione progressiva se s2 subisce l’influenza di s1, di assimilazione e dissimilazione regressiva se è invece s1 a modificarsi per influenza di s2: abbiamo dunque assimilazione progressiva a contatto in quando > sicil. quannu «quando», plŭmbum > sicil. kjummu «piombo», assimilazione regressiva a contatto in factum > fatto, rŭptum > rotto (si noterà anche che molte geminate italoromanze si sono originate appunto dall’assimilazione di nessi consonantici latini); sono casi di dissimilazione a distanza armarium > armadio (progressiva), venenum > veleno (regressiva), e così via.
Forme come quannu e fatto sono poi esempi della cosiddetta assimilazione totale, in cui cioè il segmento assimilato si è senz’altro uguagliato a quello assimilante; ma l’assimilazione può anche essere parziale, quando il segmento assimilato assume soltanto uno dei tratti del segmento assimilante, per es. la sonorità, come in canto > napol. [ˈkandə] «(io) canto» (progressiva), secretum > segreto (regressiva).
Un caso particolare di assimilazione regressiva a distanza è la metafonesi, per cui la vocale tonica di una parola si innalza in presenza di una vocale finale alta, per es.: sĭccum > *[ˈsekːu] > reatino [ˈsikːu] «secco» (assimilazione parziale, limitata al tratto [+ alto]), sĭcci > *[ˈsekːi] > reatino [ˈsikːi] (assimilazione totale).
Il vocalismo tonico del fiorentino antico – la varietà che costituisce il fondamento dell’italiano – si è sviluppato a partire dal suddetto sistema romanzo comune, di cui riproduce fedelmente lo schema qualitativo a sette vocali:
(3) ī > /i/: vītam > v[iː]ta
(4) ĭ ed ē > /e/: pĭlum > p[eː]lo, tēlam > t[eː]la
(5) ĕ > /ε/: tĕrram > t[ε]rra
(6) a > /a/: canem > cane
(7) ŏ > /ɔ/: ŏcto > [ɔ]tto
(8) ō e ŭ > /o/: flōrem > fi[oː]re, crŭcem > cr[oː]ce
(9) ū > /u/: lūnam > l[uː]na
Occorre precisare che /ε/ e /ɔ/ in sillaba libera si sono dittongate (pĕdem > piede, bŏnum > buono) e che /e/ si è innalzata a /i/ innanzi a [ɲː] da -nj- e [ʎː] da -lj- (gramigna < gramégna < gramĭneam; famiglia < faméglia < famĭliam) e innanzi a n + velare etimologica (lingua < léngua < lĭnguam; vince < vénce < vĭncit); anche /o/ è passata a /u/ davanti a -ng- (fungo < fŭngum, giungo < iŭngo, unghia < ŭng(u)lam, ecc.), mentre innanzi a -nc- di regola si è conservata (giunco < iŭncum; però spelonca < spelŭncam, tronco < trŭncum, oncia < ŭnciam, ecc.): in tali condizioni l’innalzamento di /e/ e /o/ toniche del latino volgare prende il nome di anafonesi (Castellani 1980: I, 73 seg.).
Le eccezioni al dittongamento in alcune parole sdrucciole come pecora, opera, rimprovera si spiegano con il fatto che in sillaba libera una vocale tonica è più breve in un proparossitono che in un parossitono e perciò [ε] e [ɔ], in uno sdrucciolo, sono meno soggette a dittongarsi (il che non ha del resto impedito che il dittongo si producesse in lievito, suocero, ecc.). Per le eccezioni presenti tra i parossitoni (pochissime, se si prescinde dai latinismi come rosa) sono state proposte spiegazioni ad hoc: per nove < nŏvem si è pensato a un influsso del latino; bene < bĕne potrebbe aver risentito dell’uso prevalentemente proclitico dell’avverbio (ben detto); lei < illaei potrebbe spiegarsi col passaggio a iod della -i di lei e conseguente chiusura della sillaba. Sono invece casi di antica monottongazione: uo > o dopo un suono palatale (figliuolo → figliolo: XIII sec.); iera, ierano → era, erano (inizio del XIV sec.); in forme verbali rizotoniche del tipo leva ← lieva, copre ← cuopre la riduzione è dovuta a un conguaglio radicale (sulle forme rizoatone del tipo levare, coprire); per ie → e, uo → o dopo consonante + r si cfr. § 2.2. Infine, au latino si è monottongato in [ɔ] quando si era già chiusa la dittongazione delle mediobasse (§ 1.2).
Le vocali toniche, a contatto con un’altra vocale che non sia -i, tendono a chiudersi: io, mio, mia, tuo, tua, ecc., ma miei, tuoi, suoi, con regolare dittongazione di ĕ e ŏ (nomi come Matteo, Andrea sono latinismi).
Fenomeno caratteristico del vocalismo atono è l’elevazione di e (non finale) a i, anche in fonosintassi (dicembre, di maggio, femmina). Se si prescinde anche qui dai latinismi (felice, negozio, sereno, ecc.), tra le eccezioni vanno segnalati i casi di parificazione paradigmatica (questa volta sulle forme rizotoniche: vedere su vede, fedele su fede). Tipicamente fiorentina è l’evoluzione di -ar- a -er- sia prima sia dopo l’accento (amerò, amerei, Margherita, Lazzero; suffissi -erìa, -erello, ecc.); -er- resta saldo nei proparossitoni (lettera, leggere, dissero).
Passando al consonantismo, le occlusive sorde intervocaliche e tra vocale e r di regola si conservano, com’è indicato dalla toponomastica (➔ toponimi), che costituisce lo strato fonetico locale più genuino (/k/: Dicomano < decumanum; /p/: Ripoli < rīpam; /t/: Roveta < rŭbēta; /tr/: Bàlatro < barat(h)rum, ecc.). Si noti che la cosiddetta ➔ gorgia toscana, ossia la spirantizzazione delle occlusive sorde intervocaliche ([ˈfɔːho] «fuoco», [ˈraːɸa] «rapa», [ˈpraːθo] «prato»), non è testimoniata con sicurezza prima del XVI secolo. D’altro canto, i vari casi di sonorizzazione del fiorentino antico ereditati dalla lingua nazionale (lago, luogo, riva, padre, madre, strada, ecc.) sono stati spiegati plausibilmente come il risultato di un’influenza, d’età molto antica (V-VI sec.), del tipo linguistico settentrionale.
La stessa origine andrà riconosciuta alla sonorizzazione della s intervocalica ([ˈmuːzo], [paˈeːze], [ˈviːzo], ecc., di contro a [ˈkaːsa], [ˈnaːso], suffisso -oso [ˈoːso], ecc.), con la differenza che, in questo caso, la «variante sonora è penetrata più profondamente nel tessuto linguistico toscano, e compare in buona parte dei nomi di luogo» (Castellani 2000: 136), forse perché (Formentin 2002: 299) nel caso della sibilante, supposta la sorda come originariamente esclusiva (come nel Sud), non vi era l’argine di una correlazione di sonorità da tutelare, come invece per le occlusive (/k/ ~ /g/, ecc.).
Quanto agli esiti dei nessi di consonante + j, le consonanti diverse da r e s si sono raddoppiate innanzi a iod nel II secolo d.C. (Castellani 1980: I, 95-103). Questo stadio arcaico è riflesso dalle labiali: sēpiam > seppia, (h)abeat > abbia, caveam > gabbia, vindemiam > vendemmia; in altri casi al raddoppiamento si accompagnano l’assorbimento di iod e una modificazione articolatoria della consonante, che ha subito affricazione (faciat > faccia, corrĭgiam > correggia), assibilazione (pŭteum > pozzo) o palatalizzazione (vīneam > vigna [ˈviɲːa], fŏlium > foglio [ˈfɔʎːo]). Al nesso -dj- corrisponde una duplice serie di esiti:
(a) [dːʒ], come in raggio < radium, poggio < podium;
(b) [dːz], come in mezzo < medium, rozzo < *rudius.
La prima serie muove da una pronuncia popolare, che si diffuse nel latino del I secolo d.C., di -dj- come semplice -j- (e infatti [dːʒ] è il riflesso anche di -j- primario: maiorem > maggiore); la seconda comprende invece i lemmi in cui il nesso si è formato più tardi o è stato preservato da una pronuncia più sorvegliata fino al momento, appunto nel II secolo d.C., in cui si è verificata la geminazione consonantica davanti a j, sicché il nesso *-ddj- si è assibilato, proprio come nel caso di *-ttj- (Castellani 1980: I, 113-118).
Caratteristica della Toscana è la riduzione di -rj- al solo iod: aream > aia, cŏrium > cuoio, -arium > -aio (fornaio, ecc.). Doppio è l’esito di -sj- (Castellani 1980: I, 222-244): da un lato la sibilante palatale sorda [ʃ] (basium > bascio), dall’altro la sibilante palatale sonora [ʒ] (occasionem > cascione o casgione). A questo proposito è opportuno ricordare che in queste parole in cui si continua -sj- la pronuncia fiorentina è ed è sempre stata [ʃ] o [ʒ], divergente dunque dalla pronuncia ufficiale dell’italiano, che impiega un’affricata palatale, rispettivamente sorda e sonora (cfr. § 2.2).
Da ricordare, infine, gli esiti dei gruppi consonante + l, in cui questa consonante è passata a iod (clavem > chiave, florem > fiore, glandem > ghianda, plangere > piangere, ecc.).
Quanto alla fonologia di giuntura (➔ fonetica sintattica), la prostesi di i davanti a s + consonante ricorre regolarmente dopo consonante e dopo pausa (per ispesa), cioè nelle condizioni fonosintattiche originarie (Lausberg 19762: I, §§ 104 e 353), ma si presenta (facoltativamente) anche dopo vocale (Bartolo ispeziale). Caratteristica del fiorentino antico è l’epitesi di e ai monosillabi tonici e ai polisillabi ossitoni (del tipo piùe, èe, cantòe; ➔ epitesi; ➔ vocale di appoggio). L’apocope vocalica avviene dopo liquida e nasale e mai davanti a pausa (l’apocope in fine di verso è un artificio poetico moderno; Serianni 2001: 111):
Io non so ben ridir com’i’ v’entrai,
tant’era pien di sonno a quel punto
(Dante, Inf. I, 10-11)
Il raddoppiamento fonosintattico fin dai testi più antichi è sia di tipo assimilativo, dopo parole che in latino terminavano in consonante (a [kː]asa < ad casam; carne e [pː]esce < carnem et piscem, ecc.), sia di tipo condizionato dall’accento (dopo monosillabi tonici e polisillabi ossitoni: tu [sː]ai, farò [tː]ardi).
Se si prende come punto di riferimento della norma odierna il cosiddetto ➔ italiano standard, non sono molti i cambiamenti da registrare rispetto al quadro del fiorentino medievale appena tracciato. Così per la monottongazione di ie e uo dopo occlusiva + r (priego → prego, truovo → trovo): il tipo prego ha soppiantato il tipo priego, nell’uso fiorentino, «nella seconda metà o verso la fine del Quattrocento», mentre trovo e simili si sono imposti sui concorrenti dittongati «tra il secondo e il terzo quarto del Cinquecento» (Castellani 1980: I, 22); tale innovazione fu recepita favorevolmente dagli scrittori italiani fin dal XVI secolo e divenne normale nella lingua letteraria.
A giudicare dalle forme moderne ragliare < *rag(u)lare, teglia < teg(u)lam, vegliare < vig(i)lare, ecc. parrebbe che l’esito fiorentino di -gl- intervocalico diverga dal risultato che il medesimo nesso ha avuto in posizione iniziale (ghiaia < glaream) e dopo consonante (cinghia < cing(u)lam): che la [ʎː] della prima serie non sia però lo schietto esito fiorentino di -gl-, bensì il risultato di un’innovazione cinquecentesca con cui Firenze città reagì all’uso ‘rustico’ del contado di pronunciare [ɟː] o [gːj] in luogo di [ʎː] da -lj- etimologico (cioè agghio per aglio, famigghia per famiglia, ecc.), è stato dimostrato da Castellani (1980: I, 213-221).
Le modificazioni fin qui esaminate non hanno avuto conseguenze sull’inventario fonologico. Nel tardo medioevo, però, il sistema fonologico del fiorentino fu interessato da un vero e proprio riassestamento nel settore delle ostruenti palato-alveolari, che ha avuto effetti importanti sull’assetto fonologico dell’italiano moderno. Infatti, per effetto della spirantizzazione delle affricate palatali intervocaliche, realizzatasi prima per /ʤ/ (probabilmente già entro l’XI sec.) e poi per /ʧ/ (durante il XIV sec.; Castellani 1952: I, 29-33), si neutralizzarono le opposizioni fonologiche /ʤ/ ~ /ʒ/ e /ʧ/ ~ /ʃ/: le due sibilanti palatali provenienti da -sj-, data la collisione fonetica con gli allofoni intervocalici spirantizzati di /ʧ/ e /ʤ/, vennero rianalizzate come varianti combinatorie delle due affricate palatali, con la conseguenza che non ci fu più bisogno di distinguere graficamente (secondo l’uso, per es., degli autografi boccacceschi) i tipi bascio, cascione (da -sj-) dai tipi pace, agevole (da -c-, -g- + e, i), e si pervenne dunque a generalizzare le grafie fonematiche con c, g (bacio, cagione) (➔ grafia), a cui nel resto d’Italia – che ha appreso il fiorentino mediante la scrittura – si applicò la stessa pronuncia riservata a Firenze a /ʧ/ e /ʤ/ iniziali di parola isolata (o di frase) e in posizione postconsonantica. Questa vicenda linguistica e culturale spiega dunque perché quelle che in fiorentino sono sempre state, prima fonologicamente e poi solo foneticamente, fricative (cami[ʃ]a, pi[ʒ]one), in italiano sono divenute affricate (D’Ovidio 18953: 192-193; Loporcaro 2006).
Conferme dell’importanza decisiva del tramite grafico per la costituzione e la preservazione della fonologia dell’italiano vengono dal rilievo che gli attuali punti deboli del sistema, le coppie oppositive – per così dire – in cattivo stato di manutenzione, coincidono con quelle distinzioni fonologiche che la grafia del fiorentino non ha mai rappresentato. La principale ragione per cui, nell’italiano dei settentrionali e dei meridionali, le opposizioni /e/ ~ /ε/, /o/ ~ /ɔ/, /s/ ~ /z/, /ʦ/ ~ /ʣ/ sono vacillanti sta proprio nella loro opacità grafica, che ha reso più evidente una debolezza congenita.
Da rilevare anzitutto la presenza di sistemi vocalici diversi da quello romanzo comune descritto all’inizio del § 2.1, accomunati dal fatto di presentare tutti un sistema fonologico a cinque vocali e a tre gradi di apertura.
Il vocalismo tonico sardo ➔ sardi, dialetti ha dimezzato il patrimonio delle dieci vocali latine (esempi logudoresi): ī e ĭ > i: [ˈfiːlu] «filo», [ˈpiːra] «pera»; ē e ĕ > e: [ˈkεːna] «cena», [ˈbεːnε] «bene»; a > a; ŏ e ō > o: [ˈbɔːna] «buona», [ˈsɔːlε] «sole»; ŭ e ū > u: [ˈruːɣε] «croce», [ˈluːɣε] «luce». Lo stesso sistema si ritrova, come ha indicato Lausberg (1939), in una zona montagnosa a cavallo del Pollino, tra la Lucania meridionale e la Calabria settentrionale. Ancora in Lucania, in un’area disposta intorno a Castelmezzano (a est di Potenza, lungo il corso del Basento), è invece documentato un vocalismo simile a quello romeno, in cui, mentre le vocali velari hanno avuto un’evoluzione di tipo sardo (ŏ e ō > o: [ˈkoːrə] «cuore», [nəˈpoːtə] «nipote»; ŭ e ū > u: [ˈsurda] «sorda», [ˈmuːrə] «muro»), le vocali palatali mostrano una fusione timbrica affine a quella romanza comune (ī > i: [ˈfiːlə] «filo»; ĭ, ē e ĕ > [e]: [ˈseːte] «sete», [ˈseːra] «sera», [ˈmeːle] «miele»).
Secondo un’interpretazione diffusa, anche il sistema vocalico siciliano – proprio dei dialetti siciliani, salentini e calabresi meridionali (➔ siciliani, calabresi e salentini, dialetti), e così importante per la storia della lingua poetica italiana – sarebbe uno sviluppo autonomo del vocalismo latino: ī, ĭ ed ē > i (filu «filo», siti «sete», tila «tela»), ĕ > e (p[ε]di «piede»), a > a, ŏ > o (n[ɔ]va «nuova»), ō, ŭ e ū > u (vuci «voce», cruci «croce», luci «luce»). Fanciullo (1996: 11-29) ha però persuasivamente argomentato a favore della (relativa) recenziorità del vocalismo siciliano: esso si sarebbe evoluto nell’alto medioevo a partire dal sistema comune a sette vocali e a quattro gradi di apertura in seguito alla chiusura delle vocali medioalte dovuta a un adeguamento al modello prestigioso del greco bizantino.
Nel vocalismo tonico, sviluppatosi dal tipo romanzo comune, è ampiamente diffusa la metafonesi indotta da una -ī finale etimologica, per cui una vocale medioalta ha subito innalzamento (padovano rustico: [ˈtoːzo / ˈtuːzi] «ragazzo/-i», [ˈseːko / ˈsiːki] «secco/-chi») e una vocale mediobassa si è franta in un dittongo, che si è poi per lo più monottongato (bologn.: [marˈtεl / marˈti] «martello/-i», [ˈɔrp / ˈurp] «orbo/-i»); meno estesa, ma comunque ben rappresentata al Nord, è la palatalizzazione metafonetica di a (romagn. [ˈfat / ˈfεt] «fatto/-i»). In tutti i dialetti settentrionali la metafonia è da tempo in regresso, specialmente nelle aree urbane.
In tutta l’area manca naturalmente il condizionamento anafonetico (milan. tenca «tinca», gremegna «gramigna», fameja «famiglia»). Propria di tutto il settore nord-occidentale è la palatalizzazione di ū (genov. [ˈlyŋa] «luna», torin. [ˈbryːŋa] «bruna», milan. [ˈmyːr] «muro») e ŏ (genov. [ˈrøːda] «ruota», torin. [ˈfø] «fuoco», milan. [ˈnøːf] «nuovo»), dunque, in sincronia, la presenza di fonemi vocalici anteriori arrotondati. La palatalizzazione di a in sillaba libera si incontra in due sub-aree del gruppo gallo-italico, nel piemontese (con restrizione morfologica ai verbi della I coniugazione in -èr < -are) e nell’emiliano-romagnolo (bologn. [ˈnεːz] «naso»). Connessa ai fenomeni dell’allungamento vocalico in sillaba tonica libera (§ 1.4), della degeminazione delle consonanti doppie e della caduta delle vocali atone finali diverse da -a è la rifonologizzazione della quantità vocalica in sede tonica, che ricorre in tutta l’area settentrionale tranne il Veneto: genov. [ˈleːze] «leggere» ~ [ˈleze] «légge», piem. (alto-canavesano) [ˈpεs] «appassito» ~ [ˈpεːs] «perso», milan. [ˈkaːl] «calo» ~ [ˈkal] «callo», emil. [ˈmeːla] «miele» ~ [ˈmela] «mila (migliaia)», friul. [ˈpas] «passo» ~ [ˈpaːs] «pace». Se si eccettuano il ligure (che ne è esente) e il veneto centrale e lagunare (che la conosce con forti restrizioni, simili a quelle del toscano), è caratteristica dei dialetti settentrionali l’apocope delle vocali finali diverse da -a, spinta fino alla fonologizzazione, per cui la vocale finale caduta non è più recuperabile in sincronia (diversamente dalla -o di filo nell’it. fil di ferro). Passando al consonantismo, sono tratti pansettentrionali:
(a) la degeminazione delle geminate;
(b) la lenizione / sonorizzazione delle occlusive sorde intervocaliche (venez. digo «(io) dico» < dico, cavéi «capelli» < capilli), che nel caso della dentale si spinge spesso, come per -d- primaria, fino al dileguo (lig. munèa «moneta» come rìe «ridere», lomb. spüà «sputare» come raìs «radice»; ➔ indebolimento);
(c) l’assibilazione delle affricate palatali protoromanze derivate da (-)c- e (-)g- + e, i: venez. ant. [ˈtsento], [ˈdzente] → venez. mod. [ˈsento], [ˈzente]; [ˈdiːze] < dicit, [ˈlεːze] legit);
(d) la tendenza a desonorizzare le consonanti sonore finali per l’apocope delle vocali atone finali diverse da -a (af < ave < apem; grant < grandem).
La palatalizzazione del nesso -ct-, nelle due forme [i̯t] e [ʧ], è propria dei dialetti gallo-italici nord-occidentali: lig. [ˈlai̯te], piem. [ˈlai̯t], lomb. [ˈlaʧ] «latte». Quanto alla conservazione di -s, così caratteristica della flessione nominale e verbale del friulano (cjase / cjasis «casa/-e», tu ridis «(tu) ridi», vualtris ’o ridéis «(voi) ridete»), ne rimangono tracce, agli estremi occidentale e orientale della pianura padana, nella II persona sing. monosillabica dei verbi irregolari del piemontese – (i)t sas «sai» – e del veneziano (solo nella forma interrogativa: sas-tu? «sai?»).
L’area dialettalmente centro-meridionale condivide con il toscano alcuni importanti tratti conservativi, come la saldezza delle vocali atone finali e il mantenimento delle consonanti sorde e geminate intervocaliche, mentre nel vocalismo tonico ignora l’anafonesi e il dittongamento in condizioni toscane delle medio-basse, partecipando invece largamente alla metafonesi delle vocali medie, provocata da sola -ī in alcuni dialetti abruzzesi, laziali e marchigiani, da -ī e da -ŭ altrove.
Per quanto riguarda la metafonia delle medio-basse, essa avviene per innalzamento (la cosiddetta metafonesi sabina, maggiormente diffusa nella zona mediana) o per dittongazione, attiva sia in sillaba libera che in sillaba implicata (metafonesi napoletana, tipica appunto dell’alto-meridione, ma presente anche al Centro, in Calabria e – almeno modernamente – nella Sicilia centro-orientale); il dittongo d’origine metafonetica in vari dialetti si è monottongato, come al Nord. Da rilevare che anche al Sud la metafonesi appare oggi in regresso nelle aree urbane.
Nell’area mediana si distingue -u da -o su base etimologica, opponendo dunque dreto < de retro, metto < mĭtto, cantanno < cantando ad amicu < amicum, issu < ipsum, mittu < mĭttunt. Tipica della regione alto-meridionale è invece la neutralizzazione di tutte le vocali atone finali in [ə], anche se molti dialetti dell’area ancora distinguono (o possono, in determinate condizioni fonosintattiche, distinguere) la vocale derivata da -a come [a] o [ɐ]; nella zona meridionale estrema si ha un unico esito per -o e -u > [u] e per -e, -i [i]. Per la Sardegna, il tipo campidanese ha innalzato le vocali medie finali (-e, -o > -i, -u: [ˈkruːʒi] «croce», [ˈbɔːʒu] «voglio»).
Quanto al consonantismo, da ricordare il cosiddetto ➔ betacismo, cioè il regime di variazione dell’unico fonema in cui sono originariamente confluiti i due fonemi /v/ e /b/ del latino in posizione iniziale: a seconda del contesto fonosintattico, tale fonema si realizza come variante debole [v] in posizione iniziale assoluta, tra vocali e, all’interno di parola, dopo r (per es. la vocca «la bocca»; la voce; erva «erba») e come variante forte [b] e [bː] rispettivamente dopo consonante diversa da r e nel raddoppiamento fonosintattico ([m buˈkuːnə] «(in) bocconi», [ˈtre ˈbːokːə] «tre bocche»; cfr., all’interno di parola ma in presenza di un confine morfemico, il napol. [zbənˈdra] «sventrare», [abːəˈni] «avvenire» < advenire). Tale meccanismo di variazione è stato da tempo messo in crisi dall’interferenza del sistema fiorentino-italiano (che ha /v-/ e /b-/ iniziali distinti su base etimologica), influenza che in un grande centro urbano come Napoli è già rilevabile, per questo specifico tratto, nel Quattrocento. Diffusa nell’intero Centro-Sud è l’assimilazione dei nessi -nd- e -mb- in -nn- e -mm-, a cui si sottraggono soltanto la Calabria centro-meridionale, l’angolo nord-orientale della Sicilia e una fascia del Salento centro-settentrionale: un’attenta ricognizione degli antichi testi meridionali e delle condizioni dialettali odierne ha permesso a Vàrvaro (1979) di concludere a favore dell’ipotesi di un’irradiazione del fenomeno assimilativo dall’Italia mediana verso il Sud in età tardomedievale. Leggermente meno estesa dell’area assimilativa è quella in cui ogni consonante sorda si sonorizza dopo nasale ([ˈkambə] «campo», [ˈkandə] «canto», [ˈpaŋga] «panca», ecc.). Caratteristico dell’area centro-meridionale è l’esito conservativo di j (napol. [jəˈtːa] «gettare», [ˈjuvə] «giogo», [ˈmajə] «maggio»), con cui converge il trattamento di (-)g- + e, i (napol. [ˈjendə] «gente», [ˈfujərə] «fuggire»); sul versante adriatico in queste serie a /j/ corrisponde /ʃ/: barese [ʃəˈtːa] «gettare», [ˈʃeːkə] «gioco», ecc. Per i nessi di consonante + j si segnalano, tra gli esiti più diffusi, -rj- > r (-arium > -aro/-arə/-aru) e -pj- > [tːʃ] (apium > napol. [ˈatːʃə] «appio»). Di grande rilievo è la conservazione in sardo delle velari latine innanzi a vocale palatale: logudorese [ˈkεːna] «cena», campidanese [ˈkitːsi] «presto» < citi(us); e di -s nella flessione nominale e verbale, a cui si accompagna epitesi vocalica (logudorese [sɔs ˈkaːnεzε] «i cani», [ˈkantaza] «(tu) canti») e di -t nella terza persona dei verbi, pure con epitesi (logudorese [ˈpjaːɣεðε] «piace»). In tutto il Centro-Sud, come in sardo, il raddoppiamento fonosintattico è solo di tipo assimilativo ([a ˈmːe] «a me», [kə ˈdːiːtʃə] «che dici?»), mentre è inefficace l’accento ([tu ˈkandə] «tu canti»).
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