FONETICA (dal gr. ϕωνητικὴ [τέχνη] "[scienza] dei suoni" fr. phonétique; sp. fonética; ted. Phonetik, Lautlehre; ingl. phonetics)
Il pensiero costruisce sé stesso, costruendo la lingua. La costruisce esprimendosi: espressione orale, pittorica, musicale, ecc. L'espressione orale (che è quella di cui qui unicamente si discorre) si effettua per mezzo di movimenti fonatorî e articolatorî, i quali possono e debbono essere studiati indipendentemente dalla lingua. Da questi movimenti (del polmone, della glottide, ecc.: v. voce) procedono gli elementi fonetici. L'indagine volta a questi elementi del linguaggio dà luogo a una disciplina speciale, che è una sezione della "fonetica generale" e che si può dire "fonologia" o anche "fonetica descrittiva". I risultati delle ricerche fonologiche, le quali fecero un progresso indubitabile quando all'esame soggettivo dei fenomeni percepiti dall'udito si accoppiò lo studio di essi per mezzo di apparecchi artificiali (v. qui sotto: Fonetica sperimentale), sono di grande e imprescindibile utilità alle investigazioni sulla lingua, in quanto ci fanno conoscere le vie o i mezzi materiali, per cui si attua il linguaggio e si compie l'evoluzione dei suoni, ma stanno sempre ai margini del problema storico linguistico, perché escludono dalla loro orbita le osservazioni e le ricerche sulle ragioni dei mutamenti, attenendosi ai soli fattori meccanici di questi mutamenti.
Chiamando "fonologia" questa sezione della fonetica generale, ci avviciniamo all'opinione di F. De Saussure, che nel suo Cours de linguistique générale, Losanna-Parigi 1916, p. 56 diceva: "La physiologie des sons est souvent appelée "phonétique". Ce terme nous semble impropre; nous le remplaçons par celui de "phonologie". Car "phonétique" a d'abord désigné et doit continuer à designer l'étude des évolutions des sons; l'on ne saurait confondre sous un même nom deux études absolument distinctes". Ma anche la fonologia, come la intendeva il De Saussure, non si può dire si disinteressi delle modificazioni fonetiche, in quanto prodotte, almeno, dall'accostamento di determinati elementi (p. es. k + i, m + b, ecc.).
Secondo altri studiosi invece, la "fonetica" dovrebbe riassumere in schemi adeguati fatti particolari, mentre la "fonologia" si eleverebbe a formulazioni di leggi generali, tali da abbracciare questi schemi (M. Grammont). Qui va ricordata la terminologia del Circolo linguistico di Praga (N. Trubetzkoy, Zur allg. Theorie der phonologischen Vokalsysteme, in Travaux du Cercle Linguistique de Prague, I, 1929). Per questo gruppo alla fonetica è riserbato il compito di descrivere i suoni dal punto di vista fisiologico, mentre la fonologia ha per oggetto i "fonemi o immagini di suoni", cioè la loro immagine acustico-muscolare quale si presenta nella media dei parlanti. Siccome il valore dei singoli fonemi è determinato dalla conformazione di tutto il sistema fonologico di una data lingua, questa scuola mira in primo luogo a determinare e caratterizzare tali sistemi.
La ricerca, che diciamo dunque "fonologica", non può essere naturalmente tutta la "fonetica", sia perché la materia sonora (fonemi vocalici e consonantici, durata, altezza musicale, intensità della voce) non sfugge all'attività del pensiero, sia perché da questa ricerca restano esclusi numerosi e capitali problemi, come quello del valore e dell'efficienza delle singole modificazioni e della loro propagazione, o quello delle reazioni etniche, o quello delle tendenze generali, o del rapporto fra i cosiddetti mutamenti individuali e i cosiddetti mutamenti dei gruppi sociali (livellamenti), o dell'influsso della moda, o dell'analogia, ecc. ecc. Resta, in particolare, esclusa l'indagine sulla validità degli schemi ricavati dall'esame stesso fonologico e sulla presunzione che questi schemi possano essere assunti a leggi (leggi fonetiche) o a regole e norme dello svolgimento delle lingue. Tutti questi quesiti, che ci portano dentro il vivo problema del linguaggio, costituiscono quella che possiamo dire "fonetica storica", la quale può e deve essere considerata come parte integrante della storia delle lingue.
Tutti i tentativi escogitati sinora, per ridurre a una causa unica e generale le modificazioni fonetiche, possono dirsi insoddisfacenti o falliti. Una volta si ricorreva continuamente alla cosiddetta "legge del minimo sforzo". Oggi questa legge non si cita che con estrema diffidenza. Molteplici, innumerevoli appaiono i motivi delle alterazioni delle lingue (tutta una rete di ragioni svariatissime); ma non è detto che al di sotto di tanta varietà - oltre, cioè, gli effetti di contatti, d'influssi reciproci, di mistioni di lingue, di preminenze culturali, ecc. - non si possa risalire in primo luogo, per l'origine primordiale dei fenomeni, a moti affettivi o a emozioni individuali. Che l'innovazione si propaghi da un individuo, non è una teoria nuova (J. Vendryes, Le Langage, Parigi 1921, p. 48). Anzi, è una teoria da parecchi, almeno parzialmente, accettata. Vi sono, inoltre, motivi di alterazione, che hanno un vasto e potente raggio d'azione e che hanno operato e operano, in maggiore o minore misura, in tutte le lingue. Così, non proprio "la causa principale dei mutamenti fonetici" (come voleva H. Sweet nel 1882), ma certo una causa importante delle modificazioni sta nel fatto che una generazione non può imparare una lingua da un'altra generazione che per via d'imitazione imperfetta. Se le lingue (affermava lo stesso Sweet nel 1895) fossero imparate perfettamente dalle nuove generazioni, non cambierebbero mai. Basta enunciare questo principio (che ricordiamo come un esempio dei più noti fra i molti che si potrebbero addurre di cause generali delle alterazioni linguistiche) per vederne subito i limiti, ma per riconoscerne anche l'importanza, soprattutto se osserviamo, con L. Gauchat, che ogni generazione si foggia in realtà, per ogni singolo paese, una sua propria unità fonetica con tratti peculiari che possono valere a differenziare la lingua dei giovani, in uno stesso villaggio, da quella dei vecchi. Ma queste alterazioni non dipendono soltanto da imitazione imperfetta, bensì da svariatissimi motivi: da influssi culturali, dall'efficacia della moda, dall'azione della lingua letteraria (J. Gilliéron), da matrimonî fra persone di paesi finitimi o lontani (A. Terracher), ecc.
Un altro esempio insigne di cause generali è quello che va sotto il nome di "reazioni etniche" e consiste nell'attribuire ai motivi etnologici o ai sostrati linguistici una forza viva e alteratrice degli idiomi importati da una sede all'altra. Si sa quale importanza desse G. I. Ascoli ai fattori etnici, e come ricorresse al celtico per spiegarsi un gruppo di caratteristiche fonetiche osservabili, con maggiore o minore evidenza, nell'ampio territorio che in Francia e in Italia era stato abitato dai Galli (la riduzione palatale delle velari seguite da gutturale, il volgere di á libera in e, di u in ü, di é??? e î??? libere rispettivamente in ei e ou) e come ascrivesse a "mutamenti della compagine della nazione" o, insomma, a motivi etnici le differenze e innovazioni della flessione paleo-italica di fronte alla greca meglio rispondente all'archetipo, ecc. Anzi, l'Ascoli, parlando della costanza che s'avverte nelle "evoluzioni fisiche" della parola, diceva che "le cause delle principali riduzioni sono veramente etniche, cioè dipendono da predisposizioni orali, le quali inducono a divariazioni costanti di quell'entità fonetica che uno strato assume dall'altro". Non può essere nostro proposito discutere qui questa geniale teoria; solo diremo che essa ha subito varie limitazioni (G. Paris, H. Pedersen, G. Rohlfs) e che il concetto di "reazione etnica" rientra in quello di "determinazione storica", in cui trovano il loro posto anche le predisposizioni orali dell'Ascoli, che vanno interpretate nella loro intima connessione con le "varietà etniche del pensiero" come egli diceva con frase tutt'altro che felice "in quanto si manifestino nella varia struttura dei differenti tipi idiomatici" (Studi critici, p. II, 45).
L'interpretazione delle reazioni etniche ascoliane è controversa. Noi crediamo che l'Ascoli considerasse la "reazione come un fattore storico e come attività" (G. Bertoni, Breviario di neolinguistica, I, p. 48). Altri ritiene che il principio ascoliano non vada oltre i limiti delle materiali disposizioni orali (C. Merlo, in Italia dialettale, VII, pp. 22-24).
Leggi fonetiche. - Appartengono anche alla fonetica storica le indagini su quelle che si dicono "tendenze generali" nello sviluppo delle lingue. A. Meillet, ad esempio, ha osservato e studiato alcune di queste tendenze comuni, come sarebbero l'indebolirsi delle consonanti intervocaliche, l'affievolirsi della finale delle parole, la semplificazione morfologica, tratti che si avvertono tutti in più lingue e che non hanno tuttavia un valore assoluto, perché la storia non sopporta profezie né previsioni. Ma, certo, è necessaria la formulazione delle cosiddette "leggi fonetiche", intorno al cui valore e ai cui limiti tanto si è discusso e si discuterà ancora. Queste "leggi sono schemi d'incontestabile utilità, in quanto sistematizzano, in brevi formule, i risultati dell'esperienza. Sono uno strumento utile, diciamo, e potremo aggiungere indispensabile, di lavoro e hanno, come tutto ciò che è davvero utile, un elemento di verità. La loro verità non risiede nello schema o nel paradigma preso nella sua generalità, ma si rifrange in ciascuno degli esempî che costituiscono lo schema: vogliamo dire che c'è una verità poco o tanto dissimile in ciascuno di questi esempî, ma con caratteri comuni che permettono, praticamente parlando, il loro raggruppamento, pur avendo ogni esempio una sua storia determinata, diversa per ogni singolo caso. Al pari di tutte le leggi desunte dalla constatazione dei fatti, la legge fonetica ci dà l'illusione di proiettarsi nell'avvenire come una norma che regoli il corso della lingua e debba operare in maniera uniforme, ineccepibilmente, quando siano date condizioni identiche: quelle "condizioni identiche", che i neogrammatici - i maggiori sostenitori dell'assolutezza, della fissità e della cecità delle leggi fonetiche - vanno invocando, senza avvertire che non possono mai verificarsi, perché la storia non si ripete tal quale e ciascun vocabolo ha le sue proprie, particolari, determinate condizioni. Perché la legge fonetica sia veramente "storica", conviene che sia limitata ai singoli casi, cioè sia intesa concretamente (non astrattamente), il che significa che ogni fatto ha la sua vera intima legge. Processi analoghi giustificano, in sede pratica, la formulazione di una norma generale; ma non bisogna dimenticare che analogia non è identità.
La costanza e l'ineccepibilità delle "leggi fonetiche" furono affermate nel 1876 da A. Leskien e riaffermate con decisione, due anni dopo, da K. Brugmann nelle Morphologische Untersuchungen (1878). Diamone il testo originale: "I mutamenti fonetici, in quanto prodotti meccanicamente, si compiono secondo leggi senza eccezioni, cioè la direzione del mutamento fonetico è sempre la stessa in tutti i membri di una stessa comunità linguistica, escluso il caso di separazione dialettale; e tutte le parti, dove figura il suono soggetto al mutamento, sono colpite senza eccezione". In seguito, H. Osthoff ebbe a scrivere (1890) che le leggi fonetiche "agiscono ciecamente con una cieca necessità" (die Lautgesetze wirken blind, mit blinder Notwendigkeit). L'esempio classico di legge fonetica può dirsi quello di Rask e Grimm per il germanico (le occlusive sorde non aspirate p, t, k diventano spiranti in germanico ph (f), th, kh (h); le sonore b, d, g diventano p, t, k; le sonore aspirate bh, dh, gh diventano b, d, g, p. es. lat. pes, got. fütus; lat. decem, gr. δέκα, got. taíhun; lat. pre-hendo, gr. χανδάνω, got. bi-gitan). Per i sostenitori di queste leggi, l'anomalia o l'eccezione altro non sono (per usare le parole dell'Ascoli) che "fantasmi del raziocinio; problemi storici, che la scienza vien rapidamente risolvendo". Ma la verità è che, a mano a mano che gli studî progrediscono, le eccezioni alle leggi, anziché diminuire, aumentano e che non pochi esemplari, che parevano senz'altro spettare a una legge generale determinata, sono stati sottratti a questa legge generale e classificati sotto un'altra legge più specifica, come apparirebbe già evidentemente dal confronto, chi volesse farlo, di una vecchia grammatica (p. es. quella romanza del Diez) con una grammatica meno vecchia (p. es. quella del Meyer-Lübke). La verità è che le "leggi fonetiche" non regolano lo svolgimento del linguaggio, come fossero entità trascendenti, ma sono prodotte dal linguaggio nel suo sviluppo continuo. Ricavate a posteriori, sono indispensabili alla ricerca naturalistica, la quale, priva di questo sussidio prezioso, brancolerebbe nel buio. Molte obiezioni, alcune giuste e altre erronee, sono state sollevate contro la concezione neogrammatica, principalmente da H. Schuchardt e da J. Gilliéron; molte discussioni si sono svolte sino ad oggi (E. Wechssler, A. Thomas, L. Gauchat, E. G. Parodi, ecc.); e per quel tanto che esse hanno di utilità e di verità, è naturale che abbiano trovato e trovino sostenitori, anche se la loro difesa non sia stata o non sia sempre avvalorata da un'adeguata meditazione filosofica. Perché non si può parlare di leggi fonetiche, se prima non ci si è reso conto del vero e reale concetto di "legge". Così è che B. Croce ha potuto recentemente discorrerne con chiarezza superiore a quella di molti glottologi, pur accostandosi troppo alla concezione praticistica dei pragmatisti, i quali, negando loro ogni elemento di verità, le consideravano nulla più che etichette ed espedienti mnemonici.
L'esigenza di riassumere in norme e regole, sotto svariati schemi o paradigmi, le modificazioni delle lingue (dittongamenti, assimilazioni, dissimilazioni, indebolimenti, rinforzamenti, metatesi, ecc.) è inderogabile. L'indagine linguistica non può dissolvere le "leggi fonetiche" che a patto di ricostruirle in forma migliore e più esatta.
Bibl.: E. Sievers, Grundzüge der Phonetik, 5ª ed., Lipsia 1901; P. Passy, Étude sur les changements phonétiques et leurs caractères genéraux, Parigi 1890; H. Sweet, Primer of Phonetics, 2ª ed., Oxford 1902; O. Jespersen, Lehrbuch der Phonetik, Lipsia 1913; E. Richter, Lautbildungskunde, Lipsia 1922; P. Fouché, Études de phonétique générale, Parigi 1927. Sulle leggi fonetiche: G. I. Ascoli, Due lettere glottologiche, in Arch. glott. it., X, p. 1 segg.; trad. ted., Sprachw. Briefe, Lipsia 1887; H. Schuchardt, Über die Lautgesetze gegen die Junggrammatiker, Berlino 1885; H. Schuchardt-Brevier, a cura di L. Spitzer, Halle 1928, 2ª ed., p. 51 segg.; E. Wechssler, Gibt es Lautgesetze?, Halle 1900; L. Gauchat, in Festschrift Morf, 1906; E. G. Parodi, in Nuovi studi medievali, II; Travaux du Cercle linguistique de Prague, I (1929) segg. V. anche le trattazioni generali: H. Sweet, The History of Language, Londra 1900; F. De Saussure, Cours de linguistique générale, Losanna 1916; J. Vendryes, Le language, Parigi 1921; E. Sapir, Language, New York 1921; O. Jespersen, Language, Londra 1923; H. Güntert, Grundfragen der Sprachwissenschaft, Lipsia 1925; H. Delacroix, Le langage et la pensée, Parigi 1930 (copiosa bibl.).
Fonetica descrittiva o fonologia.
Si dice fonetica descrittiva o fonologia lo studio delle immagini acustiche o "fonemi", i quali sono dati dall'atto fonatorio e articolatorio e dall'impressione auditiva. Produzione dei suoni e audizione sono, in realtà, due aspetti di una stessa funzione, perché è condizione dell'espressione orale (o del linguaggio) che il soggetto che intende abbia la facoltà di tradurre in atto, a sua volta, ciò che percepisce.
Non si può dare una descrizione generale dei fonemi, senza muovere da alcuni dati (v. voce), che qui si riassumono. L'aria è espulsa dai polmoni attraverso la trachea, la quale ha all'estremità la laringe con un duplice rigonfiamento: le corde vocali o, in una sola parola, la glottide. La corrente d'aria, facendo vibrare le corde vocali, provoca la voce, che, a seconda della provvista d'aria dei polmoni e dell'ampiezza e della forza delle vibrazioni, presenta tre caratteri: la durata, l'altezza, l'intensità. A seconda, poi, della disposizione delle cavità dell'apparecchio orale (faringe, bocca, pareti della bocca, fosse nasali) e del giuoco vario di organi sensibilissimi, che ne sono il complemento indispensabile (cioè il velo del palato, la lingua e le labbra), la voce si modifica dando luogo alle vocali, ciascuna col suo timbro. Le consonanti, invece, sono rumori prodotti da un ostacolo, costituito dalla lingua (la punta o il dorso della lingua) ovvero dalle labbra o, in una certa misura, i denti. Quando le consonanti sono accompagnate dalla vibrazione delle corde vocali, si dicono sonore, quando non vibrano le corde vocali, si dicono sorde. Il velo del palato può, abbassandosi, permettere alla corrente d'aria di passare per le fosse nasali nell'atto in cui l'apparecchio orale si trova nelle disposizioni volute per la pronuncia d'una vocale o d'una consonante. In questo caso, abbiamo le vocali nasali, e, rispettivamente, le consonanti nasali. Anche le consonanti possono essere brevi o lunghe; ma la loro brevità o lunghezza è determinata dall'istante di sosta, più o meno rapido, fra i due momenti essenziali della pronuncia delle consonanti: l'implosione (o chiusura dell'apparecchio orale) e l'esplosione (o apertura). Le consonanti lunghe sono dette generalmente doppie o geminate.
Vocali. - Il sistema vocalico può essere brevemente descritto così. Quando l'apparecchio orale è quasi in posizione di riposo, salvo il velo del palato alzato e salvo le corde vocali, le cui vibrazioni sono indispensabili per l'emissione della voce, abbiamo la vocale a. Le altre vocali orali (cioè non nasalizzate o pronunciate col velo del palato alzato, in modo da ostruire la comunicazione con le fosse nasali) dipendono dai movimenti della lingua e delle labbra. Se quella si spinge in avanti e queste si traggono indietro, il suono che ne esce è i. I movimenti contrarî (lingua indietro e labbra in avanti) producono la vocale u. Questa triade rappresenta le posizioni estreme, fra cui stanno le posizioni intermedie di e (fra a e i) e di o (fra a e u), chiuse (è, î) e aperte (é, ï); ma il grado di chiusura e di apertura di queste due vocali, determinato dalla minore o maggiore ampiezza data alla cavità della bocca (risonatore), è vario. Vi sono, poi, vocali, che si possono dire ibride, in quanto risultano dalla coesistenza della posizione della lingua nel senso di i e delle labbra nel senso di u. Se si combina la posizione della lingua per l'emissione dei suoni anteriori o palatali (è, é, i) con quella delle labbra per l'emissione dei suoni posteriori o gutturali o oscuri (î, ï, u) si ottengono le vocali ö (franc. queue, beurre) e ü (fr. mur, lutte), più o meno tinte di e e di o, di i e di u a seconda delle lingue, dei dialetti, degl'individui (per es., l'ü lombardo non è identico all'u francese).
Uno schema fondamentale vocalico potrebbe essere espresso, secondo l'Ascoli, così:
tenendo presente che fra l'una e l'altra delle vocali qui indicate si ha una gradazione infinita di alterazioni organiche (chiusura o apertura dell'apparecchio boccale di 1°, 2°, 3° grado, ecc.). Varia è anche la quantità (lunghezza e brevità) per la quale bisogna tener conto (come ora si viene sempre più mettendo in luce) delle consonanti o della sillaba.
Il sistema vocalico della lingua e dei dialetti italiani può essere raffigurato in questo modo (C. Merlo, Italia dialettale, I, p. 5):
Vi sono, poi, vocali evanescenti e mutole (e, ecc.), per le quali può dirsi che le corde vocali quasi non vibrano; vi sono consonanti vocaliche o sonanti (in cui il rumore è accompagnato da un suono su cui si appoggia la voce, in modo da poterle cantare), per es., ú, ṛ, ṇ, ṃ (per es. il fr. arbre, pron. arbṛ). Se nel pronunciare le vocali il velo del palato s'abbassa e l'aria passa per le fosse nasali, restando immutata la posizione dell'apparecchio orale, abbiamo le vocali nasali (ã, æ, õ, ecc.). A rappresentare le vocali evanescenti possono servire gli stessi segni delle vocali orali in caratteri più piccoli; a rappresentare le sonanti i segni delle consonanti con uno zerino sottoposto; a rappresentare le nasali i segni delle vocali orali con la tilde sovrapposta.
Consonanti. - Le consonanti (salvo quelle che abbiamo chiamate sonanti) non sono suoni come abbiamo detto, ma rumori prodotti da un ostacolo (generalmente la lingua e le labbra) che intercetta momentaneamente la corrente d'aria.
Le consonanti si dividono in sorde (senza l'intervento delle corde vocali) e sonore (con vibrazione delle corde vocali). Le sorde e le sonore sono poi forti o leni a seconda dell'energia dell'emissione o dell'espirazione e a seconda anche della corrispondente articolazione. Per es., un p, un t, un k e un b, un d e un g possono essere più o meno intense, cioè forti o leni.
L'ostruzione può essere completa; e allora abbiamo le occlusive o esplosive. Se l'ostacolo è formato dalle labbra, la consonante è labiale (sorda: p; sonora: b). Mentre non c'è che una sola occlusiva labiale, perché il contatto labiale è sempre e dovunque il medesimo, le altre occlusive hanno contatti poco o molto diversi, data la mobilità della lingua. La maggiore varietà si ha per le gutturali prodotte dalla chiusura per opera del dorso della lingua. Se l'occlusione avviene sul palato molle, le gutturali sono velari (k [ital. c di corpo], ø [ital. g di gomito, grosso, ecc.]); se l'occlusione ha luogo sul palato duro o osseo, le gutturali sono palatali. Queste, poi, si distinguono in prepalatali (ital. c di cera) e mediopalatali (per es., ital. chi, fr. qui, ecc.). I gradi delle prepalatali sono diversi (per es., il c di cera è prepalatale schiacciato, diverso dal c di pace, che è quasi costrittivo). Se la chiusura si effettua con la punta della lingua contro i denti superiori, abbiamo le dentali (sorda: t; sonora: d). Queste, se pronunciate con la punta della lingua contro gli alveoli, come avviene generalmente dinnanzi a i e a e, sono dette alveolari (per es., ital. tiro, di fronte all'ital. torre).
Le consonanti dentali e gutturali sono dette cerebrali o cacuminali quando la parte anteriore della lingua è ripiegata in alto e indietro e appoggiata contro il palato (per es., sanscr. ṭ, ÿ, ṇ, ṛ, ṣ; i varî ÿÿ che continuano in varî dialetti calabresi, siciliani, sardi e còrsi il lat. ll).
L'ostruzione può essere incompleta, in modo da lasciare un passo, per quanto stretto, alla colonna d'aria. Allora le consonanti sono costrittive (dette anche spiranti) e sono suscettibili di tutti i punti di articolazione (labiali, dentali, gutturali) osservati per le occlusive. Le costrittive si dividono in fricative (labiali: f, v; labiodentali: p??? b??? interdentali th, dh); in dentali sibilanti (s, ś, e z, û, e anche è, ž); in gutturali spiranti (h, h???, h'); in vibranti rotate (r) e vibranti laterali (l).
Per alcune consonanti, l'ostruzione iniziale si risolve in una costrizione, in modo che, a seconda che si consideri l'inizio o la risoluzione dell'articolazione, la classificazione può farsi fra le occlusive o le costrittive. Queste consonanti, che alcuni ritengono composte e altri ritengono semplici, sono chiamate affricate. Tali sarebbero il ć (cera), il ǵ (gelo), il tosc. z (zio), ecc., che noi abbiamo enumerate qui sopra, sia fra le occlusive, sia fra le costrittive, considerandole semplici.
Sono nasali le consonanti pronunciate col velo del palato abbassato, in modo che, restando ferma l'occlusione dell'apparecchio orale, la risoluzione avviene per la via delle fosse nasali. Queste consonanti sono generalmente sonore (soltanto in alcune lingue sono evanescenti) e si possono suddividere anch'esse in labiali (m), in dentali (n), in gutturali (prepalatali, mediopalatali e velari: ń, ñ, ñ).
Non in tutte le lingue, non in tutti gl'individui le vocali e le consonanti sono pronunciate con movimenti articolatori di eguale energia. Vi sono lingue in cui lo sforzo muscolare è estremamente ridotto, altre in cui è brusco e violento. Di qui la necessità di tener distinte le consonanti forti dalle leni. Inoltre, l'apertura della glottide è varia; per es., il tedesco ha generalmente una pronuncia a glottide aperta, l'italiano, e, in particolare, il francese a glottide più serrata. Ne viene che in tedesco l'implosione è sorda e la sonorizzazione vera e propria incomincia con l'esplosione.
Bibl.: F. Techmer, Zur vergleichenden Physiologie der Stimme u. Sprache, 1880; E. Sievers, Grundzüge der Phonetik, 5ª ed., Lipsia 1901; P. Passy, Étude sur les changements phonétiques et leurs caractères généraux, Parigi 1890; id., Éléments de phonétique générale, Parigi 1910; O. Jespersen, Lehrbuch der Phonetik, 2ª ed., Lipsia 1913; L. Roudet, Éléments de phonétique générale, Parigi 1911; J. Vendryes, Le langage, Parigi 1922; E. Richter, Lautbildungskunde, Lipsia 1922; P. Fouché, Études de phonétique générale, Parigi 1927.
Fonetica sperimentale.
Fonetica sperimentale pura. - Per formare normalmente la voce (v.), l'apparecchio respiratorio deve fornire la materia prima, cioè l'aria indispensabile a mettere in movimento le corde vocali; queste interrompono più o meno frequentemente la corrente aerea e la fanno così vibrare; ne risulta un suono complesso che viene parzialmente rinforzato nelle cavità superiori. La voce normale risulta dunque dalla collaborazione sincronica delle tre parti dell'organo fonatorio: respiro, laringe e cavità superiori. Per produrre i fonemi del linguaggio si fa giungere o la voce o la corrente respiratoria afona nelle cavità superiori dove la si trasforma eseguendo svariati movimenti con le differenti parti di esse cavità; "etenim vox articulis informata, vox est articulata, quae locutio dicitur..." come accenna G. Fabrici d'Acquapendente (De locutione, cap. II) riferendosi ad Aristotele. Secondo però i dati moderni si possono produrre dei fonemi indipendentemente dalla corrente aerea respiratoria, e perciò anche dalle corde vocali, facendo eseguire dei movimenti muscolari esclusivamente nelle cavità superiori (fonemi avulsivi: ted. Schnalzlaute, ingl. clicks). Fra voce e fonemi esiste dunque in massima una differenza peculiare perché quella esige la collaborazione sincronica delle tre parti dell'organo fonatorio, mentre questi possono venir formati o con tutte e tre le parti, o soltanto con l'ausilio del respiro e delle cavità superiori, o perfino limitandosi a movimenti in queste cavità. Malgrado tale differenza, voce e fonemi - per quanto a primo aspetto sembri paradossale - stanno in stretta relazione fra di loro perché ambedue vengono formati con gli stessi organi e s'influenzano reciprocamente. È dunque errato il concetto che si aveva decennî fa della scienza fonetica e che culminava nella definizione "la fonetica è la scienza dei fonemi" con la restrizione da parte di alcuni "dei fonemi della favella umana". Ben più ampio si ritiene oggi il dominio di questa disciplina, la cui definizione moderna è la seguente: "La fonetica sperimentale pura è la scienza della voce e dei fonemi prodotti non solo dall'uomo ma anche dagli animali".
Le ricerche fonetiche si occuparono dei quattro fattori che concorrono a formare i fenomeni fonetici: timbro, durata, acuità e intensità. Voce e fonemi risultano da movimenti coordinati degli organi fonatorî; la fonetica sperimentale studierà perciò dapprima tali movimenti e poi il risultato di essi. La scuola amburghese ha denominato lo studio di quelli "genetico" (ἡ γένεσις) e lo studio di questi "gennemico" (τὸ γέννημα).
La fonetica sperimentale pura appartiene alle scienze biologiche, e si basa specialmente sulla matematica, sulla fisica, sull'anatomia e sulla fisiologia. Le sue applicazioni sono numerose, non limitandosi la fonetica sperimentale a procurare preziosi materiali ad altre scienze limitrofe, come p. es. la psicologia, la linguistica, la patologia, la musicologia ecc., ma anche a discipline d'indole pratica, ad esempio l'educazione della voce parlata e cantata, l'insegnamento delle lingue moderne, l'istruzione dei sordomuti e dei sordastri, la correzione dei difetti di pronunzia, l'industria tecnica, l'acustica dei teatri e delle sale, ecc., fornendo loro base solida e salvandole così da un empirismo funesto. Basti questo breve accenno sulla fonetica sperimentale pura, intendendo il presente articolo trattare specialmente delle applicazioni di tale scienza alla linguistica.
Fonetica sperimentale e linguistica. - Voce e fonemi si appercepiscono precipuamente con l'udito. Non è perciò da meravigliarsi se gli studiosi di fenomeni fonetici, fino a quasi mezzo secolo fa, si limitarono all'uso di questo senso, e se i risultati così ottenuti siano di valore ben dubbio perché non privi di elemento subiettivo e personale. L'udito, come dimostra la fisio-psicologia, può informarci su svariati fenomeni, varia però secondo le persone per differenti cause, come p. es. attitudine innata a distinguere coscientemente fra percezione e appercezione, educazione uditiva più o meno accurata, abitudini acustiche causate dall'idioma materno o da lingue straniere, professione esercitata, ecc. Ciò spiega perché lo stesso fenomeno osservato da differenti scienziati a mezzo dell'udito non sia stato sempre interpretato egualmente, e i risultati, bene spesso diametralmente opposti, abbiano dato origine a polemiche violente e sterili. Un tale procedimento non poteva non condurre al trionfo dell'autorità, tendenza pericolosa e nefasta in ricerche scientifiche. Per la disciplina, che si occupa della voce e dei fonemi, fu dunque epoca memorabile e decisiva quella nella quale lo studio subiettivo dei fenomeni fonetici con l'udito venne, se non sostituito, per lo meno in gran parte coadiuvato da mezzi artificiali, quali sono gli apparecchi, gli strumenti e altri meccanismi. Una tale evoluzione ha valore non solo per la fonetica sperimentale pura, ma anche per quella applicata alla linguistica.
All'abate P. Rousselot (v.) spetta il merito incontestato di aver esposto compendiosamente i mezzi artificiali per ricerche fonetiche d'indole linguistica, e di aver mostrato come i risultati ottenuti con tali metodi possano venire utilizzati nello studio storico del linguaggio. Egli ebbe sì predecessori in Francia (E. J. Marey 1876, C. L. Rosapelly 1876, D. Demeny 1891) e in altre nazioni come p. es. in America (T. A. Edison 1878, H. Allen 1884, Ch. H. Grandgent 1890), in Finlandia (H. Pipping 1890), in Germania (O. P. Grützner 1879, F. Techmer 1880, V. Hensen 1887, R. Lenz 1887, L. Hermann 1889, Ph. Wagner 1890), in Inghilterra (N. W. Kingsley 1887), in Olanda (J. D. Boeke 1891), in Svezia (H. Hagelin 1889) ed in Svizzera (Schneebeli 1878, A. Gentilli 1882), ma si trattava di tentativi isolati e senza connessioni reciproche, di ricerche su temi limitati e d'indole speciale. Provvisto di profonde cognizioni linguistiche, fisico-matematiche e biologiche, il Rousselot espose magistralmente il soggetto in tutta la sua estensione per quei tempi nella sua tesi Les modifications phonétiques du langage étudiées dans le patois d'une famille de Cellefrouin (Parigi 1891). L'opera del Rousselot fu pietra miliare perché con essa s'inizia una nuova era nelle investigazioni linguistiche; E. Koschwitz nel suo articolo La phonétique expérimentale et la philologie franco-provenåale, in Zeitschr. f. franz. Sprache u. Litter., XIV (1892), 11, p. 122, ne delineò efficacemente l'importanza e la portata. Più tardi nei suoi Principes de phonétique expérimentale (Parigi 1897-1908) il Rousselot trattò ben più ampiamente della fonetica sperimentale pura e delle sue applicazioni specialmente alla linguistica, e contribuì anche oralmente alla diffusione dei nuovi metodi in Francia e all'estero, tanto più che nel 1897 venne fondato per lui un gabinetto al Collège de France. Se però i metodi della fonetica sperimentale non fruttarono, almeno al principio, quei risultati che la linguistica poteva aspettare da loro, ciò non è da attribuirsi tanto alla fonetica quanto alle persone che li usarono e che, senza averne comprese le profonde massime metodologiche, o si limitarono a interrogare gli strumenti facendo delle semplici osservazioni senza sperimentare nel vero senso della parola, o si valsero della fonetica sperimentale sperando una conferma di preconcetti e la ripudiarono perché l'esame obiettivo fu loro tutt'altro che favorevole. Col tempo però gli studiosi si ravvidero, e, d'altra parte, metodi e procedimenti sperimentali si raffinarono e fornirono risultati sempre più preziosi e degni di fede; anche la linguistica ne usufruì largamente.
La fonetica sperimentale in Italia. - Nel 15° congresso della Società italiana di laringo-, oto- e rinologia tenuto a Venezia dal 17 al 21 settembre 1912 fu trattato ampiamente di fonetica sperimentale: C. Biaggi e G. Gradenigo diedero un resoconto sulle "Applicazioni della fonetica sperimentale alla clinica", al quale fecero seguito numerose comunicazioni e dimostrazioni di scienziati italiani sullo stesso soggetto. Verso la metà del 1913 Biaggi, Gradenigo e A. Stefanini diramarono una circolare fra i cultori di fonetica sperimentale proponendo di fondare in ogni nazione delle società di studî fonetici per raggrupparle in seguito in un'associazione internazionale. Il successo di tale invito fu grandissimo. Grazie all'energia del suddetto triumvirato l'Italia fondò prima di ogni altra nazione una società di fonetica sperimentale e precisamente il 14 novembre 1913 nell'aula dell'Istituto di fisiologia dell'università di Roma in una seduta straordinaria del 16° congresso della Società di laringo-, oto- e rinologia. Al 1° congresso internazionale di fonetica sperimentale (Amburgo, 19-22 aprile 1914) intervennero dieci scienziati italiani, che fecero pregevoli comunicazioni in lingua italiana; e il Gradenigo venne con H. Gutzmann eletto a pieni voti vicepresidente del congresso. Il bel fascicolo Studi italiani di fonetica sperimentale pubblicato il 30 settembre 1914 da Biaggi, Gradenigo e Stefanini contiene il resoconto del contributo italiano al suddetto congresso e consta di 23 articoli; l'introduzione scritta da S. Baglioni è documento classico sul compito della fonetica sperimentale. Alla chiusura del congresso di Amburgo fu scelta per acclamazione unanime Milano quale sede del 2° congresso internazionale nel 1916, che però fu rimandato a causa della grande guerra. Verso il 1919 si ripresero in Italia con ardore i lavori nel campo della fonetica sperimentale. La schiera degli studiosi aumentò, cosicché l'Italia anche in questo ramo della scienza ha cultori e rappresentanti d'alto valore: S. Baglioni, G. Bilancioni, G. Gianfranceschi, M. L. Patrizi, A. Stefanini, che con gli estinti C. Biaggi, G. Ferreri, G. Gradenigo, R. Hahn, formano un nucleo illustre. In Italia le applicazioni della fonetica sperimentale, iniziate decennî fa da F. L. Pullè, hanno presentemente efficaci rappresentanti nei linguisti C. Merlo di Pisa, e P. Meriggi di Amburgo.
Lo scopo sommo della fonetica è di conoscere le leggi concernenti la voce e i fonemi. Bisognerà dunque, come in altre scienze simili: 1°. conoscere il più esattamente possibile i fenomeni fonetici, e 2°. passare dalla conoscenza di essi a quella delle leggi. Il primo problema si risolve con l'esperienza che procede in due modi: o con l'osservazione (si studiano i fenomeni come avvengono nelle loro condizioni naturali), o con l'esperimento (provocando cioè i fenomeni per osservarli poi in condizioni prestabilite). Il secondo problema è compito del ragionamento; si tratta di trovare dapprima l'esistenza o la mancanza di rapporti di causalità, e di erigere in seguito questi rapporti in leggi generali a mezzo dell'induzione. L'investigazione fonetica usa dunque anzitutto la semplice osservazione; trattandosi di fenomeni esterni i sensi ne sono gli strumenti e cioè l'udito, la vista e il tatto. La fisiopsicologia e la fonetica sperimentale hanno dimostrato all'evidenza che i nostri sensi, soprattutto quando si tratti di fenomeni complicati come la voce e i fonemi, son ben lungi dal possedere l'integrità e l'acutezza necessarie a ogni ricerca scientifica. I sensi non sono però che gli strumenti dell'osservazione, il vero osservatore è lo spirito che potrà dunque aiutarsi adoperando, invece degli organi naturali, mezzi artificiali quali sono gli apparecchi e gli strumenti.
Questi si dividono nella fonetica sperimentale in due grandi classi:
I. Meccanismi che aumentano la portata dei sensi rendendo possibili osservazioni che, senza di essi, sarebbero ineseguibili.
Aiutano p. es. l'udito: i risonatori, i diapason, i tubi d'interferenza ecc., e la vista: lo schermo per i raggi X, il laringoscopio, l'endoscopio, lo stroboscopio ecc.
II. Meccanismi che non solo si comportano come quelli della classe precedente, ma presentano oltre a ciò il vantaggio di registrare i fenomeni a loro affidati esponendoli in figure lineari rette o curve svariatissime. Essi forniscono documenti duraturi e controllabili che fanno risaltare i rapporti e le varietà dei fenomeni. Inoltre essi permettono di misurare voce e fonemi, e di esporne i risultati in formule, diagrammi ecc., riducendo considerevolmente l'uso del linguaggio comune e facendo così guadagnare maggiore esattezza e chiarezza nella forma. Tali meccanismi registranti si suddividono nella fonetica sperimentale in due categorie: grafici e glifici: quelli registrano voce e fonemi sulla superficie di un cilindro, di una lastra, di una pellicola ecc., questi li incidono nella cera o in altre materie.
Misura, calcolo ed esposizione dei fenomeni registrati si eseguiscono con l'aiuto di meccanismi speciali formanti classe a parte. Non potendo qui dare una descrizione minuziosa di ogni meccanismo usato in fonetica se ne darà un breve cenno ogni volta che appresso si dovrà esporre la tecnica da applicarsi nella soluzione di un dato problema.
Fenomeni odierni. - Compito primo e relativamente semplice per la fonetica sperimentale applicata alla linguistica è di verificare come si formano i fonemi nelle lingue viventi. Procedere del tutto logico, non solo perché è ben più facile studiare fenomeni presenti e direttamente accessibili che occuparsi di fatti svoltisi in tempi remoti e che si sottraggono a un esame immediato, ma anche perché, come in differenti altri rami della scienza, il presente fornisce mezzi per studiare e interpretare il passato. Geneticamente parlando si tratterà dapprima del respiro e si passerà alla laringe per terminare con le cavità superiori.
Respiro e fonemi. - Nel respiro la fonetica sperimentale offre al linguista materiali riguardo alla direzione, ai movimenti, al volume e alla pressione. Una semplice iscrizione al chimografo con un imbuto per la bocca (fig. 1) rivela la grafica caratteristica per fonemi espiratorî e inspiratorî; quelli causano uno scarto della leva iscrittrice in alto (scarto positivo), questi invece uno in basso (scarto negativo) (fig. 2). Nella lingua Ful (Africa del nord) esistono dei fonemi chiamati dai linguisti "fonemi con occlusione laringea". Secondo gli ultimi dati della fonetica sperimentale sembra probabilissimo che tale occlusione manchi e che si tratti invece di fonemi inspiratorî. I movimenti necessarî alla respirazione si studiano con i pneumografi; quelli del Gutzmann (fig. 3) sono tubi di gomma chiusi alle due estremità con un corto tubo di metallo al centro e montati su di una cintura di stoffa; di regola se ne applica uno sul torace, all'altezza della linea mammillare, e l'altro all'altezza dell'epigastrio. L'inspirazione si mostra al chimografo con una linea ascendente, l'espirazione con una discendente. Si faccia articolare ripetutamente un fonema espiratorio comune, p. es. t, in un imbuto e se ne iscrivano i movimenti al chimografo contemporaneamente a quelli della respirazione. Il soggetto inspirerà e articolerà espirando un certo numero di volte, ma appena non avrà più aria a sua disposizione, s'interromperà per inspirare di nuovo e così di seguito. S'iscriva adesso nel modo suddetto lo stesso suono ma articolato inspirando. Le grafiche ora ottenute differiranno dalle prime solo per il cavo orale, perché i fonemi inspiratorî al contrario di quelli espiratorî provocano uno scarto negativo. Riguardo però alle grafiche del respiro le due classi di fonemi presentano una spiccata caratteristica comune: ogni qual volta il volume d'aria necessario all'articolazione manca, il processo d'articolazione viene interrotto per immagazzinare nuova quantità d'aria. I fonemi espiratorî e inspiratorî sono dunque strettamente connessi con la respirazione e da essa dipendenti. Sempre servendosi degli stessi apparecchi si faccia articolare ripetutamente un suono avulsivo (Schnalzlaut, click). La grafica del cavo orale viene rappresentata da uno scarto negativo. Sarebbe avventatezza il voler conchiudere che i suoni avulsivi avvengano nell'inspirazione. I tracciati dei pneumografi confrontati con la grafica del cavo orale rivelano questo fatto sintomatico: il soggetto ha respirato come d'abitudine ma senza interrompere menomamente il processo d'articolazione, al contrario di quello che si è descritto qui sopra per i fonemi espiratorî e inspiratorî. I fonemi avulsivi appartengono dunque a una classe del tutto particolare: essi vengono formati per mezzo di movimenti eseguiti da muscoli delle cavità superiori (movimenti suggenti) separatamente e indipendentemente da quelli necessarî alla respirazione.
Questo risultato ha grande importanza per il linguista perché è prova incontestabile che se i fonemi espiratori e inspiratorî potranno essere fonici o afoni, quelli avulsivi, al contrario di ciò che da alcuni fin ad oggi si crede, dovranno essere - a causa della loro indipendenza dalla respirazione e perciò anche dalle corde vocali - necessariamente soltanto afoni.
La quantità d'aria espirata durante la fonazione si misura con lo spirometro o con il volumografo (fig. 4). L. Roudet (La parole, 1900, p. 201) non si limitò allo studio del volume assoluto ma, dividendolo per la sua durata, lo ridusse al minuto secondo ottenendo un volume relativo e rendendo così i risultati delle differenti ricerche senz'altro comparabili tra di loro. Le conclusioni principali (fig. 5) del Roudet sono: 1. il volume relativo aumenta con l'intensità; 2. il volume relativo diminuisce se l'acuità aumenta, 3. il volume relativo diminuisce con l'aumento della durata; 4. il volume relativo aumenta progressivamente in ognuno dei seguenti gruppi: a) vocali aperte, vocali chiuse, consonanti affricate, consonanti esplosive; b) vocali con attacco duro, molle e aspirato; c) consonanti affricate foniche, id. afone; d) consonanti esplosive foniche, id. afone; e) consonanti esplosive aspirate. In uno dei capoversi qui appresso si esporrà l'eminente valore dei risultati del Roudet per la fonetica storica. L'aria necessaria alla fonazione viene espirata con una certa pressione denominata "subglottica" prima che raggiunga le corde vocali e "superglottica" dopo che abbia messo in movimento vibratorio esse corde. La pressione subglottica può venir studiata soltanto su tracheotomizzati per mezzo di un manometro, leggendone le oscillazioni, o più esattamente al chimografo come fece E. A. Meyer (Die neueren Sprachen, XXI, 1913, p. 65) al quale riuscì di dimostrare l'insostenibilità della teoria che il cosiddetto "accento a chiusura forte" (stark geschnittener Akzent) differisca da quello "a chiusura debole" (schwach geschnittener Akzent) a causa della pressione subglottica. Secondo il Meyer i due "accenti" si distinguono per i differenti gradi d'apertura della glottide.
Laringe e fonemi. - Passando dall'apparecchio respiratorio alla laringe si osserverà in modo generale che i movimenti in essa si esaminano con la laringoscopia, con l'endoscopia o al chimografo. Una capsula applicata sulla tiroide (fig. 6) comunica a mezzo di un tubo di gomma con un tamburo iscrittore speciale; producendo un'articolazione fonica si ottiene al chimografo una linea con numerose vibrazioni, mentre un'articolazione afona mostra una linea retta priva di vibrazioni. Il Rousselot (Principes de phonétique expérimentale, p. 495) dimostrò che fra questi due estremi esistono svariatissime fasi intermedie, e cioè articolazioni la cui sonorità si mostra, in massima, soltanto al principio o alla fine o al centro. Oggi nella fonetica sperimentale il grado e il luogo della sonorità vengono espressi in cifre (fonoposometria, fonotopometria) (fig. 7). I risultati di tali procedimenti fanno risaltare chiaramente quanto sia errato e insufficiente il dividere i fonemi soltanto in fonici e afoni, come sia impossibile la soluzione di numerosi problemi di fonetica storica qualora non si tenga conto delle suddette fasi intermedie, e che finalmente in linguistica la sonorità debba venir concepita come d'indole del tutto relativa (fig. 8). L'attacco (l'inizio) e il distacco (la fine) di ogni fenomeno fonatorio può essere - secondo le vedute odierne - molle, duro, aspirato e compresso; l'esplorazione con un imbuto solo o accompagnato da una capsula per la tiroide ne è facile e dà al chimografo tracciati chiari e interessantissimi. I risultati della fonetica sperimentale sono stati sotto questo rapporto di possente aiuto a C. Meinhof (Zeitschr. f. Eingeborenenspr., XI, 1921, p. 84) per dimostrare che le cosiddette "enfatiche" delle lingue semitiche vengono caratterizzate da un "distacco" di voce compresso e non, come si è creduto ancora fino a oggi, dal luogo di articolazione. Che l'attacco, come pure il distacco, a seconda che sia molle, duro, aspirato o compresso eserciti un'influenza sull'acuità è fatto incontestabile, la cui scoperta si deve alla fonetica sperimentale. Secondo H. Streim (Vox, 1921, p. 123) l'attacco duro provoca un aumento d'acuità e quello aspirato una diminuzione. Come si vedrà più tardi tali risultati vennero in linguistica usati e confermati da O. Dempwoff; anche il Meinhof se ne servì per proporre e motivare una revisione del problema dell'acuità originaria e secondaria nelle lingue africane e asiatiche.
Cavità superiori e fonemi. - Per l'esame dei movimenti nelle cavità superiori servono il palato artificiale - strumento altrettanto utile che modesto - l'imbuto, le olive nasali, il labiografo, i raggi X, il cinematografo e altri meccanismi. Il lavoro classico del Rousselot (La parole, 1899, p. 481) sulle articolazioni parigine, mostra quale fonte preziosa sia la palatografia per la linguistica; così pure il contributo di altri scienziati sui fonemi di differenti lingue fa risaltare i vantaggi dei procedimenti della fonetica sperimentale sull'udito. Ma soprattutto nello studio dei fonemi in gruppi la fonetica sperimentale fa eccellente prova, rendendo evidente che le articolazioni, per formare un insieme, non si sovrappongono ma s'incastrano fra di loro influenzandosi e modificandosi a vicenda. Per esempio nel gruppo esplosiva + nasale (pm) l'esplosione non passa più per il cavo orale ma per il naso, nel gruppo esplosiva + vocale (ki, ku, ti, tu) quest'ultima può modificare la prima così da causare cambiamenti sensibilissimi (p. es. in ki il k può palatalizzarsi, e in ku il k può diventare velare), nel gruppo vocale + nasale + affricata la nasale, specialmente se davanti a s o è, può venire facilmente assorbita dalla vocale precedente, che così si nasalizza, ecc. Si tratterà più ampiamente di questi fenomeni nelle applicazioni della fonetica sperimentale alla soluzione di problemi storici.
Risultati dei movimenti fonatorî. Passando adesso allo studio gennemico dei fonemi si accennerà che le ricerche sui toni caratteristici dei fenomeni fonetici formano base conveniente e solida per la costruzione di un sistema razionale delle vocali. Molti fenomeni d'acuità possono venir studiati esattamente soltanto con gli apparecchi registratori, la tecnica ne è semplicissima: un chimografo, un tamburo iscrittore e un imbuto per la bocca; la misura è invero faticosa, ma oggi grazie all'apparecchio di E. A. Meyer - la cui precisione per ricerche linguistiche è più che sufficiente - si ottengono in breve tempo diagrammi utilissimi sul decorso e sulle variazioni dell'acuità. Sono soprattutto gli studiosi di lingue africane che hanno usufruito dei metodi e dei risultati della fonetica sperimentale perché in differenti lingue del continente africano, come l'ewe, lo jaunde, l'ottentotto, l'acuità delle radici ha valore lessicale, ed è perciò importantissimo lo stabilirla esattamente per ognuna di esse. Questo è problema relativamente facile e, qualora gli apparecchi manchino, da risolversi fino a un certo punto anche da chi abbia udito eccellente ed educato, ma difficilissimo e intricato appena tali radici vengano raggruppate. Per es. la radice ottentotta ≠ tú (mangiare) è media-alta; il suo causativo, che si forma raddoppiandola ≠ tú - ≠ tú (dar da mangiare), mostra un decorso medio-alto soltanto per la prima parte, mentre nella seconda parte esso è diventato medio-basso (fig. 9). Anche per ragioni sintattiche avvengono cambiamenti dell'acuità originaria delle radici (assimilazione e dissimilazione) e raggiungono - come dimostrò il Meinhof (Vox, 1916, p. 125) basandosi su ricerche sperimentali - il colmo della varietà in lingue nelle quali acuità e intensità hanno eguale importanza lessicale, per es. in duala. Lo studio dell'acuità si complica maggiormente se a tali fattori grammaticali si associno quelli psichici; nelle lingue suddette questi vengono, per es. nella domanda, nell'esclamazione ecc., espressi con suffissi o altri mezzi. In ottentotto però (fig. 10) una radice adoperata in frasi esprimenti meraviglia, gioia, desiderio ecc. mantiene sempre la sua posizione d'acuità; soltanto gl'intervalli sembrano aumentare. La fonetica sperimentale ha dimostrato che il "linguaggio a fischi" degli Ewe (W. Heinitz, Vox, 1916, p. 83) e il "linguaggio dei tamburi" degli Jaunde (G. Thilenius-C. Meinhof-W. Heinitz, Vox, 1916, p. 179; M. Heepe, Zeitschr. f. Eingeborenenspr., X, 1920, p. 43) sono con grande probabilità puramente convenzionali.
Le ricerche sull'acuità sono rimaste fino a oggi nei loro primordî, quantunque la fonetica sperimentale offra metodi relativamente semplici e sicuri. Innumerevoli problemi rimangono ancora da risolvere, come p. es. quello interessantissimo dell'acuità regionale. La stessa frase detta in senso interrogativo da un Piemontese, da un Veneziano, da un Napoletano ecc. rivelerà subito, per quanto rozzamente, il luogo di provenienza di chi parla; il semplice udito, anche se di un profano purché presti attenzione, se ne accorgerà. Le particolarità minute, le sfumature delicate, la caratteristica peculiare, le distinzioni esatte sfuggono però all'orecchio e vengono rivelate soltanto dall'apparecchio, qualora, ben inteso, chi le studii ne sappia interpretare i diagrammi.
Facile a studiarsi con gli apparecchi è anche la durata; la tecnica d'iscrizione al chimografo con un tamburo iscrittore si limita all'imbuto solo o coadiuvato da una capsula per la tiroide. La misura dei tracciati è semplicissima perché basta un compasso; i calcoli (riduzione della durata assoluta e dei singoli fonemi a quella della parola o della frase) richiedono poco tempo. La fonetica sperimentale ha dimostrato che la cosiddetta "consonante doppia" non è un fonema articolato due volte, ma un fonema semplice tenuto più a lungo che d'ordinario. È da deplorare che le ricerche sulla durata, specialmente riguardo all'italiano, siano in uno stadio completamente embrionale, perché esse, come dimostrarono fra gli altri A. Grégoire per il francese (La parole, 1899, p. 161) e R. Gauthiot per il lituano e il persiano (La parole, 1900, p. 143 e p. 438) si potrebbero utilizzare con successo in linguistica.
L'intensità è il punto debole della fonetica sperimentale; fino a oggi, malgrado tentativi varî, essa, foneticamente, non è misurabile. Ed è anche pereiò che certe ricerche sull'acuità e sulla durata non vennero intraprese, essendo oramai più che certo che quantunque timbro, acuità, durata e intensità in teoria siano fattori autonomi, essi nel linguaggio stanno in relazione intima e ogni modificazione dell'uno causa una modificazione dell'altro. Malgrado ciò è possibile ottenere chiarimenti sulla questione dell'influsso reciproco dei suddetti fattori - dunque sul cosiddetto "accento" - qualora si riduca il numero delle incognite a due, cioè all'acuità e alla durata, si parta quanto all'intensità da fatti ben stabiliti e chiari, e si rinunzi a occuparsi del timbro. Facendo dire in un imbuto parole come: pápa, papá; cápito, capíto, capitó ecc., registrandole al chimografo e misurandone poi l'acuità e la durata si giunge a risultati ben interessanti (fig. 11). Per es.: quanto più lunga è la parola e quanto più la vocale colpita dall'intensità si avvicina alla fine della parola, tanto più aumenta la durata di essa vocale; dunque ó in capitó è più lungo di á in cápito e di í in capíto. Riguardo all'acuità delle suddette parole c'è da osservare che la vocale intensa è sempre più alta di quella debole; dunque á in pápa, cápito, cápitati è più alto delle vocali che lo seguono. La vocale intensa è molto più alta della vocale debole seguente che di quella debole precedente; dunque í di capíto supera in acuità l'a, ma ancora di più l'o.
Fonetica sperimentale e problemi storici. - Ricapitoliamo in che cosa consista il prezioso ausilio della fonetica sperimentale per la linguistica nello studio dei fenomeni fonetici odierni: si può esaminare obiettivamente come un fonema o un gruppo di fonemi venga formato e quale risultato derivi da questi movimenti. Il linguista non si arresta però a tali verificazioni; il suo compito è ben più ampio e si estende allo studio dell'origine, dello sviluppo e dell'evoluzione dei fonemi. Può la fonetica sperimentale essere d'aiuto al linguista anche in tali ricerche? Certo. Esistono due modi di procedere: l'uno consiste nell'utilizzare occasionalmente i risultati ottenuti da ricerche su fenomeni fonetici odierni, l'altro si basa invece sul vero esperimento intrapreso espressamente per la ricostruzione di fenomeni avvenuti in tempi remoti. Valgano alcuni esempî a dimostrare la verità di queste asserzioni.
Osservazione e problemi storici. - Si è già accennato alle ricerche del Roudet sul volume. Il Roudet non si limitò a formulare alcune regole su questo argomento, ma si servì dei suoi risultati per tentare di spiegare un problema linguistico importantissimo, e cioè il passaggio dell'accento d'acuità a quello d'intensità. Si ammette dai linguisti che originariamente nelle lingue indoeuropee l'acuità fosse decisiva per il significato di un gruppo di fonemi; col tempo essa venne soppiantata dall'intensità, che assunse così da sola importanza lessicale. Il Roudet procede ora col seguente ragionamento: egli dimostrò (fig. 5) che il volume relativo respiratorio di un fonema articolato ripetutamente nelle stesse condizioni a) aumenta d'intensità, se l'acuità resta invariata, e b) diminuisce d'acuità, se l'intensità non cambia. Da ciò risulta che per mantenere fonemi di differente acuità nello stesso grado d'intensità, l'apparecchio respiratorio deve fornire un volume minore per un suono alto che per un suono basso; per ottenere tale risultato esso deve effettuare un lavoro che esige movimenti differentissimi in tempi relativamente brevi. Le ricerche odierne sembrano però rivelare che l'organismo abbia disposizione a mantenere un volume relativo con la stessa costanza dei movimenti respiratorî. Perché originariamente le variazioni d'acuità potessero avvenire, erano necessarî - come già si disse - movimenti respiratorî differenti e svariati. Secondo il Roudet in un certo tempo, in certe persone e per cause ignote il lavoro muscolare, che regolava il consumo d'aria a seconda dell'acuità, si cambiò. La propensione naturale a una respirazione regolare prese il sopravvento e per conseguenza i fonemi più alti divennero anche i più intensi. Da allora in poi l'intensità si costituì a elemento caratteristico dell'accento nelle lingue indoeuropee, e il fonema così caratterizzato restò alto. Anche non essendo completamente d'accordo con il Roudet, si concederà che il ragionamento ora esposto contiene in massima cenni preziosi e suggestivi riguardo alla possibilità di passare da osservazioni sperimentali a conclusioni linguistiche riferentisi al passato. Un altro esempio: in italiano nelle parole: pórto, béllo, béne ecc. la vocale intensa (accentuata) è aperta (ï, é); appena si sposti l'intensità: portó, bellíno, benóne, le stesse vocali, divenute adesso deboli (protoniche), sono chiuse (è, î). Roudet (loc. cit.) applica i risultati delle sue ricerche sul volume relativo anche alla spiegazione di questi cambiamenti, che avvengono in varie lingue. In un fonema - ragiona il Roudet - il volume relativo aumenta con l'intensità, e d'altra parte aumenta con il grado dell'apertura dell'orifizio orale allorquando l'intensità non varii. Cioè, la vocale chiusa sarà sempre più debole di quella aperta se il volume relativo resta lo stesso. Negli esempî suddetti noi articoliamo una vocale non più aperta ma chiusa per ridurre la sua intensità e per mantenere nella misura del possibile la regolarità del volume relativo.
Passando ora alla laringe si ricorderà l'influsso dell'attacco o distacco della voce sull'acuità si accennò anche che il Dempwolff (Vox, 1922, pag. 57) aveva confermato tali fenomeni in kate, una lingua oceanica in certe parole della quale, pronunziate isolatamente, si ode un attacco duro; appena con esse si formi una frase l'attacco duro scompare e in compenso subentra un aumento d'acuità (fig. 12); caso tipico di un fenomeno secondario di acuità causata da un attacco duro. Secondo il Meinhof (Vox, 1916, p. 125) tale fatto rende evidente la necessità di una revisione delle teorie riguardo il problema di un'acuità originaria o secondaria nelle lingue d'Africa e d'altri continenti. Egli accenna che i sinologi già si occuparono della questione se in cinese le variazioni d'acuità non fossero un compenso per suoni scomparsi, e se non esistesse un nesso fra l'articolazione delle radici e la loro acuità. Secondo l'opinione generale l'acuità dovrebbe essere il fenomeno originario e l'articolazione quello secondario; i risultati della Streim e del Dempwolff dimostrano che il contrario è più probabile. Il Meinhof conchiude raccomandando di condurre a termine tali studî che fornirebbero informazioni preziose per chiarire non solo il problema dell'acuità, ma anche parecchi altri punti oscuri dell'evoluzione del linguaggio umano in generale.
L'osservazione obiettiva dei movimenti nelle cavità superiori, cioè dell'articolazione in senso ristretto, dà risultati adatti a spiegare problemi storici soprattutto quando essa si estenda a gruppi di fonemi. Già nel 1876 C. L. Rosapelly (Travaux du laboratoire de M. Marey, II, p. 109) aveva osservato al chimografo con un imbuto per la cavità orale e con un'oliva nasale che nel gruppo esplosiva + nasale (p. es. apnea, Cneo) non era il tracciato della cavità orale che presentava lo scarto caratteristico per l'esplosione di un'occlusiva, bensì il tracciato del naso; lo stesso fatto verificarono altri scienziati in differenti lingue spiegandolo in questo modo: nel gruppo esplosiva + nasale la cavità orale deve restar chiusa per ambedue le articolazioni; il velo pendolo, che deve abbassarsi per la nasale, favorisce il passaggio della corrente fonatoria dell'esplosione dell'occlusiva per il naso. La nasale assorbe dunque - per adoperare un termine del Rousselot - l'esplosione secondando un processo d'assimilazione e rendendo possibile i passaggi pm > m: (i due punti significano che la nasale è lunga), bm > m:, pn > n:, tm > m:, ecc. P. Meriggi (Indogerm. Forschungen, XLIV, 1926, pp. 1 e 242; Vox, 1926, p. 23) riprese poi lo studio di questo interessante problema illustrandolo da punti di vista nuovi e suggestivi. Al palato artificiale (fig. 13) si osserva spesso che p. es. nel gruppo ki (esplosiva + vocale) la lingua già nell'articolare k eseguisce un movimento in avanti e tocca una superficie più ampia del solito; essa prepara i. Quest'influsso della vocale sull'esplosiva è non di rado così potente che k si palatalizza. D'altra parte nel gruppo tu (fig. 13) avviene anche un cambiamento nell'articolazione del t; sotto l'influsso di u la lingua si ritira talmente che sovente t diventa cerebrale. Questi e altri risultati, facilissimi a ottenersi, perché la tecnica del palato artificiale è oltremodo semplice, sono base preziosa per spiegare numerosi fenomeni di assimilazione progressiva e regressiva di fonemi prepalatali e differenti casi di genesi di consonanti prepalatali causata da aumento di energia, come dimostrò R. Lenz già nel 1888 (Zeitschr. f. vergl. Sprachforschung, XXIX, p. 1). Essi permettono - oltre a numerose altre applicazioni - di studiare l'evoluzione di un fonema dai suoi primordî (non ancora accessibili all'udito) fino al punto estremo di sviluppo, secondo le ricerche classiche del Rousselot sulle articolazioni parigine (La parole, 1899, p. 481). Iscrizioni al chimografo con un imbuto per la bocca e con un'oliva nasale, dànno tracciati dei quali ci si può valere per spiegare la genesi delle vocali nasali propriamente dette. Graficamente il gruppo an si distingue dalla nasale ã per il fatto che an, per la bocca, presenta vibrazioni (a) e linea d'occlusione (n), mentre a mostra su tutto il percorso vibrazioni, perché il velo pendolo è abbassato e le onde sonore vengono contemporaneamente rinforzate nella cavità orale e in quella nasale. G. Panconcelli-Calzia (La parole, 1904, p. 5) osservò in alcuni dialetti dell'Italia settentrionale che nei gruppi nf, nv, ns, nè, il tracciato della cavità orale non rivelava la solita linea d'occlusione per la consonante nasale, le vibrazioni della vocale precedente si estendevano senza interruzione sino a f, s, è, mentre il tracciato della cavità nasale veniva caratterizzato da vibrazioni ampie ed era ondulato. Fatti che mostrano chiaramente che la consonante nasale era dunque stata assorbita dalla vocale precedente; la spiegazione ne è facile: per f, v la lingua è in posizione di riposo e per s, è la punta della lingua non trova appoggio contro il palato ma soltanto contro i denti inferiori; la loro articolazione differisce dunque considerevolmente da quelle di n; nei gruppi vocale + nasale + affricata la lingua, per agevolarsi il lavoro necessario ad articolare n, non si alza per chiudere con il suo orlo la cavità orale, ma passa senz'altro dalla vocale all'affricata; soltanto il velo pendolo si abbassa, come di dovere. Risultato: n scompare e la vocale diventa nasale pura. Si può ammettere - senza voler generalizzare né pretendere che in tutte le lingue il fenomeno sia stato causato e si sia sviluppato come nel caso suddetto - che il gruppo vocale + nasale + affricata favorisca l'assorbimento della nasale e sia così una delle cause più probabili dell'origine delle vocali nasali.
Esperimento e problemi storici. - I pochi esempî qui sopra descritti sembrano sufficienti per mostrare come la fonetica storica possa trar profitto da osservazioni eseguite con meccanismi. Esiste, come già si accennò, un grado superiore di ricerche per raggiungere lo stesso scopo; la via è forse più faticosa, ma più interessante e sicura. Si tratta non più di limitarsi all'osservazione semplice con l'aiuto di meccanismi, ma di servirsi, oltre a questi ultimi, precipuamente del ragionamento sperimentale per ricostruire e spiegare fenomeni fonetici avvenuti in tempi remoti. Il lavoro Synthèse phonétique del Rousselot (La parole, 1901, p. 641) costituisce l'esempio più bello e istruttivo, ed è, anche in ordine cronologico, il primo del genere. A. Meillet richiamò a suo tempo l'attenzione del Rousselot sul fatto che in antico persiano z e ž divennero col tempo afoni davanti a m e n. A prima vista appare ben singolare che di due consonanti foniche, la prima diventi nel mezzo della parola afona. Sono però completamente fonici quei fonemi che per tradizione vengano ritenuti tali? La fonetica sperimentale, come fu esposto nel capoverso trattante la laringe, dimostra che fra i due stadî estremi, fonico e afono, esistono svariati e numerosi gradi intermedî. Il Rousselot, nell'accingersi a trattare il problema presentatogli dal Meillet, fu subito d'avviso che negli esempî in proposito o in ambedue i fonemi o in uno di essi dovessero esistere tracce più o meno grandi di afonia che col tempo aumentarono e favorirono l'evoluzione descritta. Si propose di dimostrare la verità della sua supposizione col ricostruire il fenomeno e precisamente nel modo seguente: scelse dapprima persone parlanti lingue adatte alle sue ricerche: dei Francesi, dei Boemi e un Tedesco. Adoperando un imbuto per la bocca, una capsula per la tiroide e un'oliva nasale fece loro articolare gruppi artificiali appositi, come azna, ažna, approssimandosi così nei limiti del possibile agli esempî fornitigli dal Meillet. Le iscrizioni al chimografo rivelarono per le persone di lingua francese e boema sonorità completa; per il soggetto tedesco la sonorità, a causa di un eccesso d'energia nell'articolazione, era in generale meno abbondante. Da quest'ultima persona il Rousselot si ripromise, e con ragione, ricca messe, e passò al secondo punto del suo esperimento. Il soggetto tedesco venne sottomesso alla prova seguente: ripetere i gruppi artificiali suddetti continuamente e cessare soltanto a un segnale convenuto. Al principio delle iscrizioni la persona articolò con attenzione e diligentemente a fine di "pronunziar bene"; ne risultarono tracciati con sonorità relativamente ricca. A poco a poco questo lavoro fonetico cosciente diminuì. Col tempo poi la persona si comportò in modo del tutto naturale; la deficienza suaccennata di sonorità si mostrò nella sua vera forma. I tracciati ottenuti verso la fine dell'iscrizione rivelarono un s e un è afono causato dall'influsso reciproco di z, ž ed m che già propendevano all'afonia. Rousselot aveva ricostruito il fenomeno, l'esperimento era riuscito. Altri esempî di veri esperimenti nello stesso senso del Rousselot sono contenuti nei lavori di K. Hentrich per spiegare la legge del Verner (Beiträge zur Gesch. d. deutschen Spr. u. Liter., XLV, 1921, p. 300) e per dimostrare che l'aumento di durata in certe condizioni cambia il grado di sonorità delle consonanti (Vox, 1925, p. 21); i risultati di quest'ultimo lavoro vennero confermati per le esplosive in amarico da A. Klingenheben (Festschrift Meinhof, Amburgo 1927, p. 134). Come si vede, è ben scarso il numero dei lavori di fonetica linguistica nei quali si procedette sperimentalmente nel vero senso metodologico.
Udito, linguaggio ed evoluzione dei fonemi. - Si disse già al principio di quest'articolo che il linguista, secondo gl'intenti moderni, studia il linguaggio non solo dal punto di vista di chi parla, ma anche da quello della persona alla quale si rivolge la parola. Nel 1906 L. Rugani e V. Fragola (Resoc. X Congr. ital. di lar.-oto-rinol.) mostrarono quali cambiamenti d'appercezione causi la fatica dell'udito. La suggestibilità dell'udito per l'acuità e i suoi effetti sull'innervazione degli organi fonatorî vennero studiati da S. Baglioni (Vox, 1914, p. 65) e da G. Biaggi (Arch. ital. di otorino-laringol., 1914, p. 305). Il primo produceva e teneva alcuni minuti una voce dell'harmonium tonometrico di altezza diversa del suono vocale medio di una persona che leggeva ad alta voce; istintivamente il lettore tendeva a modificare l'altezza della propria voce. Il Biaggi conchiude da osservazioni fatte nelle scuole di Milano che i bambini si adattano più o meno alla voce degl'insegnanti. G. Gianfranceschi (Rend. Acc. Lincei, classe scienze fis.-mat., XXIII, 1914, p. 704) c'insegna che l'udito è in grado di riconoscere una vocale in 1/108 di secondo. Le ricerche con i metodi interferenziali acustici (usati per le vocali italiane da R. Papale, Arch. ital. oto-rino-laringol., 1922, suppl. III, p. 7) e con gli apparecchi moderni elettrici (esposti compendiosamente da C. Stumpf nella sua opera Die Sprachlaute, Berlino 1926) dimostrano che l'udito è in grado d'individuare un fonema anche se si distrugga gran numero dei suoi suoni parziali caratteristici. Al Gutzmann (Zeitschr. f. angew. Psychol., I, 1908, p. 483 e Psychologie der Sprache, Monaco 1922) riuscì di dimostrare che, qualora ci venga rivolta la parola, non ci limitiamo a udire (percepire), ma tendiamo soprattutto a comprendere (appercepire). Il Gutzmann adoperò come stimoli acustici fonemi isolati e gruppi di fonemi privi di senso. Dal protocollo di ogni esame risultava che le persone invece di udire spassionatamente - come erano state esortate a fare - avevano scritto per lo più parole nella lingua materna o in una lingua straniera. Il Gutzmann racconta il caso di un giovane, adoratore del bel sesso, che aveva interpretato la maggior parte degli stimoli acustici quali nomi proprî femminili, e anche quello di signorine che, occupandosi intensamente di francese, avevano cambiato gli stimoli in parole francesi. Il Panconcelli-Calzia riprese gli studî del Gutzmann su più ampia base (Passow-Schäfer'sche Beiträge, X, 1918, p. 240) ed ebbe occasione di osservare un celebre cultore di lingue africane che cambiò quasi sempre gli stimoli acustici in parole di differenti lingue d'Africa, e un giovane contadino sofferente di nostalgia che riconobbe negli stimoli per lo più nomi di villaggi, poderi ecc. del paese natio. Secondo il Gutzmann tali fenomeni possono venir spiegati come segue: gli stimoli acustici privi di senso eccitano la facoltà combinativa dell'individuo in modo tale, che la persona esaminata ode, contro la propria volontà, invece di essi stimoli quelle parole che più si avvicinano al suo modo di vedere o alla costellazione dei suoi pensieri in un dato momento. Dal confronto di misure esatte di variazioni dell'acuità in una frase con la trascrizione in note musicali comuni eseguita con l'udito risulta (cfr. Meinhof, Vox, 1916, p. 125, fig. 6) che una persona di orecchio fino ed educato può seguire sì queste variazioni, ma di ognuna di esse percepisce soltanto una fase e non tutto il percorso. È ovvio voler far risaltare che l'udito varia differentemente, rapidamente e personalmente: condizioni favorevolissime perché la stessa appercezione sia differente non solo fra individui diversi ma anche, per tutte le ragioni su esposte, presso lo stesso individuo. Oltre agli autori citati, anche diversi altri, come H. Pipping (Finsk tidskrift, LXIX, 1909; Arkiv f. nord. filologi, XXVII, 1911, p. 286), il Rousselot (Principes de phon. exp., pp. 34 e 1106; La parole, 1903, p. 1; Revue de phon., 1914, p. 1), A. Thumb (Indogerm. Forsch., XXII, 1907-08, p. 1; Festschrift Viëtor, 1910, p. 19; e, con K. Marbe, Exper. Untersuch. über d. psychol. Grundlagen d. sprachlichen Analogiebildung, Lipsia 1901), F. L. Wells (Linguistic Lapses, New York 1906) hanno dimostrato quale parte cospicua possa avere l'udito nei cambiamenti e nell'evoluzione dei suoni, che ancora oggi vengono ascritti dalla maggioranza dei linguisti unicamente alla persona che parla.
Bibl.: G. Panconcelli-Calzia, Experimentelle Phonetik, Berlino 1921; id., Das Hamburger experimentell phonetische Praktikum, Amburgo 1922; G. Bilancioni, La voce parlata e cantata normale e patologica, Roma 1923; G. Panconcelli-Calzia, Die experimentelle Phonetik in ihrer Anwendung auf die Sprachwissenschaft, Berlino 1924; S. Baglioni, Udito e voce, Roma 1925.