FONTANA
Famiglia di ceramisti originaria di Casteldurante (odierna Urbania) ed attiva ad Urbino nel XVI secolo.
Il cognome risale almeno al 1553 e si deve a Guido (Guido Durantino), che nacque a Casteldurante avanti il 1490 da Vittoria Costanzi da Fossombrone e da Niccolò Schippe. Il padre, solitamente noto col nome di Niccolò Pellipario, nacque avanti il 1466 da Battista Schippe (Leonardi, 1977) e morì prima del 1511 (Negroni, 1985, p. 13). Insieme col fratello Simone, Niccolò era conciatore e commerciante di pelli in Casteldurante e tale attività, a differenza di quanto solitamente riportato negli studi sulla ceramica, era la sua unica ed esclusiva occupazione, come ha definitivamente dimostrato Negroni (ibid., al quale si rimanda per le fonti d'archivio, riguardanti anche il figlio Guido e la sua famiglia, e per la bibliografia).
Guido visse a Casteldurante nella casa paterna posta nel quartiere di Ponte Vecchio, casa rifornita di bottega e di tre fornaci a fuoco diretto e a riverbero (Raffaelli, 1879, p. 140). La presenza in città di Benedetto Bemardi da Siena fin dal 1462 aveva favorito la creazione di una scuola locale, dove primeggiava la figura di Giovan Maria da Casteldurante. Dal bagaglio di Giovan Maria e dalla scuola durantina allo scadere dei XV secolo prenderanno il via i tipi durantini che Guido, capobottega, e i suoi lavoranti, fra cui i figli Orazio, Nicola e Camillo, svilupperanno da maestri e trasferiranno in clima diverso.
Da un atto notarile del 9 maggio 1516 riguardante Antonia, moglie di suo zio Simone, e rogato in casa di questo, confinante con i beni di Guido, che fungeva da teste, risulta che Guido dimorava in Urbino (Urbino, Bibl. universitaria, busta 46, fasc. 2, cc. 80 s.). Qui, intorno al 1520, sposò Giovanna, figlia di Bernardino Vici, dotata di 100 fiorini: rimane l'atto degli sponsali, avvenuti alla presenza di illustri testimoni l'11 giugno 1519 nella cappella del duca in S. Francesco. Il 24 apr. 1522 acquistò una casa con la fornace e il magazzino nel borgo dì San Paolo.
Nel marzo del 1523 Guido ricevette la commissione, da parte del duca Francesco Maria Della Rovere, di fornire, per la villa imperiale di Pesaro, migliaia di mattoni smaltati, parte in bianco e parte in bleu, destinati a pavimenti a scacchiera che furono eseguiti nello stesso anno (Mallet, 1987, p. 287). Dal 21 maggio 1523, e sino al 1560, Guido appare iscritto alla Confraternita di S. Giovanni Battista Decollato, o della Morte (Arch. di Stato di Urbino, Ludovico Geri, n. 469, c. 55v), per la quale, nel 1528, sottoscrisse l'opera S. Giovanni Battista che predica davanti a Erode; dal 1540 al 1546 ricoprì anche la carica di priore di questo sodalizio (Mallet, 1987, p. 286).
Il 5 dic. 1527, "mastro Guido del fu Nicolò da Durante vasaio e cittadino di Urbino" (Negroni, 1985, p. 18) vendette una casa a quel Nicola di Gabriele Sbraghe, che, con Nicola Malle, è uno dei due ceramisti di Urbino ai quali oggi si tende ad assegnare quanto in precedenza attribuito a Niccolò, padre di Guido. Il 7 ag. 1530 Guido promosse una vertenza, assieme ai capibottega Federico di Giannantonio, Guido Merlini, Nicola di Gabriele e Giovan Maria di Mariano, contro dipendenti maiolicari, fra cui Francesco Xanto Avelli da Rovigo, che avevano patteggiato stipendi maggiorati. Il 4 febbr. 1544 prese parte come testimone all'atto di nascita di una società vasaria creatasi in Urbino tra mastro Vincenzo Andreoli e Gianpietro di Antonio, meglio noto come Pietro Mazzolini di Ravenna.
Creatosi ormai una fama, prese il cognome di Fontana, che appare per la prima volta in un documento del 1553 (Scatassa, 1904), ma anche nel verso di due piatti che debbono datarsi antecedentemente (Mallet, 1987, p. 294). L'8 nov. 1565, essendogli già morto il figlio Nicola, per i disaccordi coll'altro figlio, Orazio, decise di dividersi da lui.
L'atto di emancipazione e di divisione (Corona, 1879) inventaria i crediti della bottega e quanto contenuto nella fabbrica. A Guido rimasero la casa e la vaseria, i lavori bianchi, ossia i "compendiari", e alla veneziana, i lavori dozzinali cotti e da cuocere, la rena, la feccia e l'argilla, più due quadri grandi e due piccoli, tra cui una, non meglio nota, Maddalena di Raffaello. L'onere di tenere con sé per tre anni i nipoti Domitilla e Flaminio, figli del defunto Nicola, gravò invece su Orazio, che comperò una casa prossima alla paterna.
Il 29 dic. 1570 Guido fece testamento e il 16 ott. 1576, anno della morte, tornò a dettare le sue ultime volontà, nominando eredi il figlio Camillo, i nipoti Virginia e Flaminio, figli rispettivamente dei defiunti Orazio e Nicola, e un quarto suo figlio, anch'egli di nome Nicola, che aveva avuto da Elisabetta da Cagli, sua seconda moglie (Passeri, 1857).
Sulla sua produzione di artista e di capovasaio ha dato una approfondita chiarificazione il Mallet (1987). Il Ballardini (1938) assegna a Guido gli otto pezzi del servizio del connestabile Anne de Montrnorency e il piatto del cardinale Duprat al Musée de la céramique di Sèvres, tutti controfirmati "In Botega de M° Guido durantino, in Urbino 1535". Sono a lui attribuibili anche le due saliere raffiguranti Diana e Atteone e Diana iraconda da legarsi alla saliera del Victoria and Albert Museum di Londra e al piatto di Monaco con La dea Latona, recanti tutti nel verso l'insegna del memento moti, che Guido dovette aver preso dal 1540, quando divenne priore della Confraternita della Morte di Urbino (Leonardi, 1982, tavv. 64 s.; 1988).
Il Mallet (1987) divide in gruppi i pezzi datati dal 1528 al 1542 riconoscendo le mani dei pittori maiolicari che lavorarono nella vaseria di Guido, o alle sue dipendenze. Oltre alla mano di Guido, individua quelle di almeno sei pittori: fra quelli del primo gruppo Nicola di Gabriele, autore del piatto di S. Cecilia (Firenze, Bargello); varie mani per il secondo gruppo, di cui fanno parte i servizi Montmorency e Duprat, influenzati da Nicola di Gabriele; nel terzo gruppo la mano del "Milan Marsyas Painter" della cerchia di Nicolò da Urbino, e quella dello stesso Guido, che firmò da solo il piatto del Museo Vivenel in Compiègne con Il Monte Parnaso, preso dall'incisione di M. Raimondi; la mano, e in qualche caso la sigla, di suo figlio Orazio nel quarto gruppo (1541-1544); nel quinto gruppo, che comprende come campione il piatto con Le Muse e le Reridi del Fitzwilliam. Museum di Cambridge, la mano di Camillo Gatti, figlio della sorella di Guido, Ludovica, allievo di B. Franco e amico di P. Aretino (T. Clifford - J.V.G. Mallet, B. Franco as a designer for Italian Maiolica, in The Burlington Magazine, CXVIII [1976], pp. 399 s.); al sesto gruppo appartengono due pezzi istoriati, entrambi fatti "in Urbino in Botega de M' Guido fontana Vasaro", uno al Museo civico di Modena, Le Muse e le Meridi, dato da Liverani (1971) ad Orazio, e l'altro al Metropolitan Museurn di New York (Lehman Collection), L'assedio di Roma del 1527, negato a Orazio dal Mallet (1987).
I primi lavori di sicura attribuzione di Orazio, del quale non si conosce l'anno di nascita, sono i sette pezzi, pubblicati da Liverani nel 1957, che, tra 1541 e 1544., uscirono dalla bottega del padre Guido con il monogramma del figlio; ad essi si aggiunge il piatto del 1545 con l'Incontro fra Alessandro e Diogene (Asta Sotheby's, Firenze, 17 ott. 1969) siglato "O. F.". Altri pezzi, eseguiti tra il 1561 e il 1571 (Londra, British Museum) recano invece la precisa indicazione che furono realizzati nella bottega di Orazio. Nella sua fabbrica le opere raggiunsero "il massimo livello di virtuosismo e perfezione tematica" (Bernardi, 1980), un giudizio raffreddato da Mallet (1987, pp. 291 s.), che dentro la bottega di Orazio scorge mani superiori alla sua. Comunque dalla sua fabbrica allievi e collaboratori uscirono per portare ovunque il segno inconfondibile dell'arte urbinate, e vi entrò a visitarla e proteggerla il duca Guidobaldo II Della Rovere, colpito dalla personalità artistica di Orazio. Dalla protezione ducale scaturirono molteplici commissioni che offrirono il destro al giovane Orazio di rivelare tutta la sua perizia, in patria e fuori: lavorò alla corte di Torino, a Firenze e a Venezia (Papagni, 1981, p. 89).
Nel 1562 dipinse tutti i vasi, su cartoni di T. Zuccari e di altri pittori romani, che componevano la credenza di maiolica inviata da Guidobaldo II, a mezzo di R. Ciarla, in dono a Filippo II re di Spagna (Pungileoni, 1879, p. 110).
Secondo una tradizione riferita dal Corona (1879), Orazio avrebbe dipinto altre due credenze per Vittoria Farnese, consorte di Guidobaldo II. Un servizio da tavola di Orazio, su bozzetti di B. Franco, composto di centinaia di pezzi tra piatti, vasi, brocche, rinfrescatoi, coppe, anfore, fu inviato da Guidobaldo II a Carlo V. Un ulteriore servizio a "istoriato" e a "raffaellesche", commissionato dal duca per la corte urbinate negli anni 1560-1570, è oggi conservato in parte al Museo nazionale di Firenze, essendo passato ai Medici che lo avevano ereditato con altri tesori dai duchi urbinati, in parte è emigrato a Londra, al Victoria and Albert Museum, mentre un grande piatto si trova al Museo diocesano di Urbania. Si aggiunga la spezieria che il duca d'Urbino, Guidobaldo III o Francesco Maria II Della Rovere (ma la tradizione non ha riscontri archivistici: Grimaldi, 1979), donò alla S. Casa di Loreto, che la conserva.
La collaborazione di Orazio nella bottega del padre si interruppe nel 1563, quando il duca Emanuele Filiberto lo chiamò a Torino ad impiantare l'industria della ceramica in Piemonte. Nel gennaio 1564, a Nizza, insieme con il maestro A. Nani, suo conterraneo, Orazio presentò al duca piemontese una quantità di vasi pagati 600 lire; il 20 ag. 1564 "mastro Oratio de Urbino capo mastro de vasari de S. Alt." fu pagato 800 scudi dall'arcivescovo di Torino Gerolamo della Rovere, "per conto delle due credenze di terra" (Campori, 1879, p. 67): da ciò si deduce che il maiolicaro urbinate godeva della protezione del celebre arcivescovo, imparentato ai duchi di Urbino e spesso loro ospite, e che fu da lui presentato ad Emanuele Filiberto.
Nel 1565 Orazio rientrò ad Urbino ed uscì dalla bottega paterna. La prima conseguenza dell'atto di separazione (8 novembre) fu l'acquisto di una sua casa e di una sua vaseria situata nel Borgo di San Paolo, presso quella paterna, che Rackham (1922) ipotizza essere stata riprodotta da Orazio nel piatto con La corsa dei cavalieri del 1541 (Londra, Victoria and Albert Museum) raffigurante il palio di S. Giovanni che si correva in Urbino.
Ormai indipendente, ma sempre in buoni rapporti col padre che lo ricorda benevolmente nel suo testamento del 1570, Orazio iniziò un nuovo genere di dipintura con boschi "a grottesche", in cui rafforzando il bianco del fondo riuscì a dare maggior contrasto alle fantasie del disegno. Si servì molto della collaborazione del nipote Flaminio, ma la sua intensa attività finì prematuramente.
Morì a Urbino nel 1571: nel testamento del 3 agosto assegnò alla moglie, la veneziana Agnesina Franchetti, 1400 scudi da lei ricevuti in dote, lasciando al di lei arbitrio "il restare o no in società della fabbrica de' vasi col nipote Flaminio, a condizione che soddisfatti gli operai del negozio, tutto si dovesse conservare indenne a vantaggio dell'unica sua figlia Virginia" (Pungileoni, 1879, p. 109).
Non c'è ceramologo moderno che non aggiunga alle già conosciute e pubblicate opere di Orazio, nuovi pezzi conservati e scoperti nel più svariati musei del mondo. Nella rinascimentale "Raccolta Domenico Mazza" (Pesaro, Museo civico) si possono riscontrare vasi esemplari che hanno fra di loro indubbia affinità nel colore, nella condotta delle masse e nei contorni.
Elegante e slanciato, anche se a volte calligrafico, ma quasi sempre inventivo, Orazio eccelle anche nei paesaggi dei suoi istoriati, in cui la realtà è trasformata fantasticamente con insistenza di vaporose armonie azzurrine, pervase di un contenuto quasi arcaico, contrastate da zone dal tratto aranciato. Le carnagioni sono modulate e sensibili. dai toni ambrati e ben fusi; le rocce condotte con varieta pittorica e sobriamente stilizzate, le fronde degli alberi alquanto generiche, ma di un verde che armonizza stupendamente con le carnagioni, gli aranci ocracei delle rocce e dei terreni. Nella produzione di Orazio gli elementi decorativi derivano dai motivi antiquariali elaborati da Raffello e dai suoi seguaci, mentre per i temi iconografici egli attinse alla Bibbia di Francoforte, illustrata da H.S. Beham, a Luca di Leida, alle incisioni di M. Raimondi e di M. Dente, come attestano le opere conservate nella farmacia di Loreto (Bemini, 1979).
Il fratello di Orazio, Camillo, che è stato confuso con Camillo Gatti da Casteldurante, nacque in Urbino intorno al 1525 e nel novembre del 1549 sposò Margherita di Antonio Spelli (Pungileoni, 1879, p. 110). Visse e operò nella casa paterna nel Borgo di San Paolo, divenendo poi continuatore dell'impresa familiare dalla metà dell'ottavo decennio, in seguito alla morte di Orazio e di Guido e al trasferimento a Firenze del nipote Flaminio. L'ultimo documento relativo a Camillo risale al gennaio 1589 (ibid., p. 106 n. 40). Dopo questa data non si hanno più sue notizie. Né informazioni ulteriori possono giungere dalla sua produzione dal momento che nessuna opera è certamente ascrivibile alla sua mano. La sua fama è comunque testimoniata da C. Piccolpasso (1565), che attribuisce il merito a "Camillo et Oratio" di essere all'avanguardia della "fioritura dell'arte del vasaio".
Il Rackhani (1940) attribuisce a Camillo il piatto con Le Muse e le Meridi del Fitzwilliam Museuin di Cambridge, al quale collega un frammento nella collezione Wallace di Londra, e, sempre a Londra, un vaso esagonale nel Victoria and Albert Museum, oltre a un piccolo vaso nel British Museum recentemente riconosciuto come porcellana. Ma il Mallet (1987, p. 292) contesta tali attribuzioni, preferendo pensare a Camillo Gatti. Forse a Camillo, operante nella bottega di Guido, possono essere assegnati molti pezzi del servizio di paesaggi che porta lo stemma di Salviati o Avogadro, al County Museum di Los Angeles, perché l'autore si distacca dallo stile di Orazio e da quello del Gatti, ed è particolarmente mirabile come artista di paesaggi, dal tocco leggero e dall'ottimo senso del colore. Dubitativamente Bernardi (1980) attribuisce a Camillo la placca murale con una Stazione della Via Crucis, del 1565 circa (Roma, Museo di Palazzo Venezia).La tradizione ceramica della famiglia F. fu portata avanti da Flaminio, figlio di quel Nicola, anch'egli ceramista (del cui lavoro non rimane alcuna testimonianza), che Guido ebbe dalla prima moglie Giovanna Vichi. Egli si formò all'interno della bottega dello zio Orazio, al quale fu assegnato, essendo rimasto orfano, in seguito alla divisione dei beni avvenuta nel 1565 tra Guido e il figlio. Alla morte di Orazio (1571) Flaminio proseguì il lavoro nella bottega dello zio, ma rimase solo per poco tempo in società con la zia Agnese nella fabbrica di Urbino (Corona, 1879; Pungileoni, 1879., p. 109). Il 4 sett. 1572 viveva ancora a Casteldurante dove sì dichiarava debitore di Simone Papi di 25 scudi e 25 bolognini per avere da lui acquistato piombo e stagno (Urbania, Arch. notarile, Girolamo Salvi, n. 158, c. 72r); ma a fine d'anno Francesco de' Medici lo convinse ad entrare a servizio della sua corte, ove fu carissimo all'architetto B. Aummannati, sposo della poetessa urbinate L. Battiferri.
La strada di Firenze gli era stata preparata dal cardinale Ferdinando de' Medici che lo aveva introdotto alla corte fiorentina con una lettera da Roma del 15 maggio 1571, se si identifica con Flaminio - interpretazione rigettata dallo Spallanzani (1979, p. 116) - "il giovane di Urbino" citato nella missiva. Ricevuti nel 1573 pagamenti, prestiti e privilegi da parte dei Medici (Guasti, 1902), si intrattenne a Firenze fino al 1578; realizzò notevoli lavori per il granduca e fondò una scuola di pittura di maiolica. Nel periodo 1587-91 Flaminio risulta essere nuovamente a Urbino, dove, secondo quanto afferma il Pungileoni (1879, p. 111), "fu creato del numero de' priori". Ignoto è l'anno della sua morte.
A Flaminio vengono attribuite diverse opere, tra cui un piatto al Bargello di Firenze e i tre pregevoli piatti istoriati del Castello Sforzesco di Milano: il Mosè che fa scaturire le acque, il Marco Curzio che si getta nella voragine, tema consueto nella bottega dei F., e il terzo piatto, di 46 centimetri di diametro, che raffigura Scipione dopo la resa di Cartagine. Tra le opere più belle attribuite a Flaminio è il rinfrescatoio trilobo dei Museo nazionale di Firenze con L'accampamento di soldati, che per l'opulenza e la sinuosità preannuncia il "barocco" urbinate e pesarese su oggetti di uso, resi raffinatissimi dalla modellazione di mascheroni e animali fantastici di carattere raffaellesco. Un altro pezzo fiaminiano è il piatto con Il giudizio di Paride (Venezia, Museo Correr), siglato sul rovescio del piedino con le iniziali "F. Fo". Un altro piatto, del Museo civico di Padova, con le Storie di Antonio ed Ottaviano, viene attribuito a Flaminio, e datato 1570, da Bernardi (1980, p. 12).
Fonti e Bibl.: C. Piccolpasso, Le piante et i ritratti delle città e terre dell'Umbria sottoposte al governo di Perugia (1565), a cura di G. Cecchini, Roma 1963, p. 242 (per Camillo); C. Pungileoni, Notizie delle pitture in majolica fatte in Urbino, in G. Passeri, Istoria delle pitture in majolica fatte in Pesaro... con aggiunte importantissime, Pesaro 1857, pp. 106-118; G. Campori, Notizie storiche e artistiche della maiolica e della porcellana di Ferrara..., Pesaro 1879, ad Ind.; L. Pungileoni, Notizie delle pitture in majolica fatte in Urbino, in Istoria delle fabbriche di majoliche metauronsi, a cura di G. Vanzolini, Pesaro 1879, 1, pp. 105-113; G. Raffaelli, Mem. istor. delle maioliche lavorate in Castel Durante, ibid., pp. 127 s., 140-43, 201; G. Corona, La ceramica, Milano 1879, p. 156; G. Guasti, Di Cafaggiolo e di altre fabbriche di ceramica in Toscana, Firenze 1902, pp. 410 ss. (per Flaminio); E. Scatassa, Nomi e notizie di vasai che lavorarono in Urbino..., in Rassegna bibliogr. dell'arte ital., VII (1904), pp. 25 s.; B. Rackham, Un piatto topografico di Orazio F., in Faenza, X (1922), pp. 3 s.; G. Ballardini, Corpus della maiolica ital., Roma 1938, nn. 204-212 (per Guido); B. Rackham, The maiolica-painter Guido Durantino, in Tie Burlington Magazine, LXXVII (1940), pp. 182-188; G. Grandona, Due vasi di Orazio F. nella Galleria di Pal. reale di Genova, in Faenza, I (1949), pp. 46; G. Liverani, Un piatto a Montpellier marcato da Orazio F. e altri ancora, ibid., XLIII (1957), pp. 131-134, tavv. LX-IXV; G. Polidori, Orazio F. e le sue maioliche nei Musei civici di Pesaro, in Boll. d'arte, XLIV (1959), pp. 141-150; F. Liverani, Le ceramiche & il Museo civico di Modena, in Faenza, LVII (1971), p. 47, tavv. XXI, XXIII; J. Giacomotti, Catalogue des maioliques des musées nationaux, Paris 1974, n. 1026 (per Camillo); F. Liverani - G.L. Reggi, Le maioliche del Museo nazionale di Ravenna, Modena 1976, pp. 85-102, passim (per Orazio); A. Kube, Italian majolica XV-XVIII centuries, State Hermitage Collection, Moscov 1976, p. 71; C. Leonardi, I rapporti di cultura artistica tra ceramisti umbri e urbinati, in Rapportiartistici tra le Marche e l'Umbria, Perugia 1977, p. 81 (per Nicolò Schippe); D. Bernini, Natura, storia e metamorfosi..., in Le ceramiche da farmacia della Santa Casa di Loreto, Pomezia 1979, pp. 28, 34-36, 39 s.; F. Grimaldi, Introduzione, ibid., pp. 10-12; J. Ussaman, Majoliken aus der Werkstatt der F., in Faenza, I-XV (1979), pp. 333-342 (traduz. pp. 343-348); M. Spallanzani, Maioliche di Urbino nella collezioni di Cosimo I, del cardinale Ferdinando e di Francesco I De' Medici, ibid., pp. 115 s. (per Orazio), 116-126 (per Flaminio); C. Bernardi, in Immagini architettoniche nella maiolica ital. del Cinquecento (catal., Bassano), Milano 1980, pp. 12, 20 s., 45; G. Papagni, La maiolica del Rinascimento in Casteldurante, Urbino e Pesaro. Da Pellipario ed i F. ai Patanazzi, Fano 1981, pp. 8493, tavv. 69-72; La ceramica rinascimentale metaurense (catal.), a cura di C. Leonardi, Urbania 1982, pp. 77, 80-83, 87-89 (per Orazio); C. Leonardi, La ceramica, in Ancona e le Marche nel Cinquecento (catal.), Recanati 1982, pp. 403-445, passim (per Orazio); C. Ravanelli Guidotti, La svolta fondamentale dell'"istoriato" nella ceramica delle Marche (1520-1550 c.), in Urbino e le Marche prima e dopo Raffaello (catal.), a cura di P. Dal Poggetto - M.G. Ciardi Duprè, Firenze 1983, pp. 448-473 (per Orazio); Id., Caratteri del raffaellismo sulla maiolica ital. del Cinquecento, in Raffaello e l'Europa, Atti del IV corso internazionale di alta cultura, Roma 1990, pp. 479-490 (per Orazio); La donazione Galeazzo Cora. Ceramiche dal Medioevo al XIX secolo, a cura di G. C. Bojani - C. Ravanelli Guidotti - A. Fanfani, Milano 1985, pp. 140 s.; Richesses de la céramique dans les musées de Picardie, a cura di C. Dupont-Logiè, Paris 1985, n. 21, figg. 5-6a (per Guido); F. Negroni, Nicolò Pellipario: ceramista fantasma, in Notizie da palazzo Albani, XIV (1985), I, pp. 13-20; C. Barral, Faïences italiennes. Catal. raisonné du Musée des beaux-arts de Dijon, Dijon-Quetigny 1987, ad Ind. (per Orazio); J.V.G. Mallet, In Botega di Maestro Guido Durantino in Urbino, in The Burlington Magaz., CXXIX (1987), pp. 284-298; C. Ravanelli Guidotti, Donaz. Paolo Mereghi. Ceramiche europee ed orientali, Casalecchio di Reno 1987, ad Ind.; C. Leonardi, Francesco Xanto Avelli nell'ambiente urbinate, in Atti del Convegno intemaz. di studi, Francesco Xanto Avelli da Rovigo, Stanghella 1988, pp. 38 s. (per Guido); La donaz. Angiolo Fanfani. Ceramiche dal Medioevo al XX sec., a cura di C. Ravanelli Guidotti, Faenza 1990, pp. 74-76 (per Flaminio); C. Leonardi, Le fecce di vino nell'arte del vasaio secondo Cipriano Piccolpasso, in Proposte e ricerche, XXVIII (1992), pp. 76-85, passim (per Guido).