Abstract
Viene analizzato l’impatto delle fonti del diritto dell’Unione europea sull’ordinamento italiano, nel quadro dell’apertura del nostro sistema costituzionale al processo di integrazione europea. Particolare attenzione viene dedicata alla giurisprudenza della Corte di giustizia dell’UE e agli orientamenti della Corte costituzionale italiana sul regime di applicazione delle fonti del diritto UE all’interno del nostro ordinamento.
L’attitudine a produrre norme giuridiche direttamente efficaci negli ordinamenti degli Stati membri differenzia il processo di integrazione europea da altre esperienze di cooperazione internazionale e allontana l’UE dal modello delle classiche organizzazioni internazionali. La specificità del processo di integrazione europea è data dalla sua rilevanza istituzionale, dall’aver dato luogo, cioè, ad un ordinamento giuridico che, seppur derivato dagli Stati membri nel suo momento genetico, si è evoluto in via autonoma. La previsione, da parte dei trattati istitutivi, di un sistema di fonti direttamente efficaci all’interno degli Stati membri rappresenta – assieme al ruolo della Corte di giustizia (Calvano, R., La Corte di giustizia e la Costituzione europea, Padova, 2004) – la più importante manifestazione dell’autonoma rilevanza istituzionale dell’ordinamento europeo, come sede di articolazione del processo di integrazione tra gli Stati membri.
Nella trattazione degli effetti delle fonti europee all’interno degli Stati membri, non si può prescindere dal fatto che esse rappresentano uno dei principali strumenti del processo di integrazione e che lo studio del loro regime di applicazione è condizionato dalle dinamiche di esso (Luciani, M., Gli atti comunitari e i loro effetti sull’integrazione europea, in AA. VV., L’integrazione dei sistemi costituzionali europeo e nazionale, Padova, 2007; Balaguer Callejón, F., Fuentes del derecho, espacios constitucionales y ordenamientos jurídicos, in Rev. Esp. Der. Const., 2003, 181 ss.). La presenza, a livello europeo, di un autonomo sistema delle fonti incide sulle dinamiche di relazione tra l’ordinamento dell’Unione e quello degli Stati membri e sulla tenuta dei classici modelli ricostruttivi delle relazioni tra ordinamenti giuridici (monista e dualista). Essi, infatti, non possono essere applicati alla disciplina di relazioni interordinamentali che presuppongono, come nel caso del rapporto tra fonti europee e fonti nazionali, un processo di integrazione tra ordinamenti. Né il postulato dell’unità, intesa come fusione in un’unità indistinta, tipico del monismo, né la premessa della separazione rigida tra ordinamenti, propria del dualismo, sembrano infatti idonei a descrivere il complesso sistema di interazioni che caratterizza la relazione tra fonti europee e fonti nazionali (per una trattazione più approfondita del problema, v. Ridola, P., Diritti fondamentali e integrazione costituzionale in Europa, in Diritto comparato e diritto costituzionale europeo, Torino, 2010, 199 ss.; Palermo, F., La forma di Stato dell’Unione europea, Padova, 2005; Itzcovich, G., Teorie e ideologie del diritto comunitario, Torino, 2006; Schillaci, A., Diritti fondamentali e parametro di giudizio. Per una storia concettuale delle relazioni tra ordinamenti, Napoli, 2012).
Ai sensi dell’art. 288 del Trattato sul funzionamento dell’UE, gli atti giuridici dell’Unione sono i regolamenti, le direttive e le decisioni (atti vincolanti), le raccomandazioni e i pareri (atti non vincolanti).
Agli atti giuridici di cui all’art. 288 (cd. diritto derivato dell’UE) devono essere aggiunti gli stessi Trattati istitutivi, che formano il diritto cd. primario dell’Unione, e la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che ai sensi dell’art. 6 TUE ha lo stesso valore giuridico dei Trattati. Oltre ad essi devono essere menzionati, sempre nell’ambito del diritto primario, i principi generali del diritto dell’Unione, che operano come «veri e propri parametri di legittimità» degli atti di diritto derivato (Tesauro, G., Diritto comunitario, Padova, 2005, 103-104).
Producono norme direttamente efficaci nell’ordinamento dell’Unione – e degli Stati membri (cfr. C. cost., 26.10.2012, n. 236) – anche gli accordi internazionali stipulati dall’Unione ai sensi dell’art. 216 TFUE. Secondo la Corte di Giustizia, il vincolo dell’UE rispetto agli obblighi internazionali si traduce nella prevalenza, in caso di antinomia, delle disposizioni di diritto internazionale pattizio rispetto agli atti di diritto derivato, ma ciò avviene solo a condizione che le disposizioni del trattato siano «incondizionate e sufficientemente precise» (C. giust. UE, 3.6.2008, C-308/06, Intertanko, par. 45). D’altro canto, tale prevalenza è condizionata, secondo un ulteriore orientamento della Corte, dal rispetto dei “principi costituzionali” desumibili dai Trattati (C. giust. UE, 3.9.2008, C-402/05, Kadi, par. 281 a 285).
Particolarmente problematico l’inserimento nel novero delle fonti del diritto dell’Unione degli atti adottati dal Consiglio nell’esercizio delle competenze in materia di politica estera e di sicurezza comune, vale a dire le decisioni che, ai sensi dell’art. 25 TUE, definiscono le azioni che l’UE deve intraprendere, le posizioni che l’UE deve assumere, e le loro modalità di attuazione. Assai dubbia è la natura normativa di tali atti: l’art. 24, par. 1, TUE, esclude espressamente l’adozione di atti “legislativi” nell’ambito della PESC ed esclude la competenza della Corte di giustizia su tali atti, salvo il caso in cui essi contengano misure restrittive nei confronti dei singoli (art. 275 TFUE). In taluni casi, infatti, (ad esempio, in tema di azione di contrasto al terrorismo) essi fungono da premessa e cornice di successivi regolamenti ed in questo caso, pertanto, possono assumere la funzione di criterio di interpretazione di questi ultimi (C. giust. UE, sent. Kadi, cit.). Nella giurisprudenza della Corte di giustizia, peraltro, si è posto con sempre maggiore insistenza il problema del coinvolgimento del Parlamento europeo nelle procedure di adozione di tali atti, con esiti, sinora, non del tutto soddisfacenti (C. giust. UE, 19.7.2012, C-130/12, Parlamento c. Consiglio).
A partire dalla sentenza Van Gend en Loos (C. giust. UE, 5.2.1963, C-26/62), la Corte di giustizia ha sostenuto che dalla peculiare natura dell’ordinamento comunitario e dagli scopi che esso si prefigge – che trascendono la posizione di obblighi reciproci in capo agli Stati membri, e mirano piuttosto all’integrazione tra gli ordinamenti giuridici dei medesimi – discende l’idoneità delle norme europee ad incidere direttamente sulla disciplina dei rapporti giuridici, senza la mediazione degli Stati membri. L’idoneità formale dell’atto a produrre norme dotate di efficacia diretta, unitamente alle caratteristiche del contenuto di quelle stesse norme (idoneità a porre diritti ed obblighi in capo ai singoli), consegue alla portata materiale del processo di integrazione.
L’efficacia diretta non è tuttavia propria di tutte le fonti del diritto europeo: se infatti le disposizioni dei regolamenti e delle decisioni possiedono sempre efficacia diretta e sono pertanto direttamente applicabili all’interno degli Stati membri (cfr. art. 288 TFUE), ciò non avviene per i Trattati e per la direttiva, che sono direttamente applicabili (per la direttiva, una volta scaduto infruttuosamente il termine per la sua attuazione) solo qualora le loro disposizioni siano formulate in modo dettagliato e pongano immediatamente in capo ai singoli diritti invocabili dinanzi alle autorità giurisdizionali e amministrative dello Stato membro (anche, nel caso delle disposizioni dei Trattati, come contropartita di obblighi posti in capo agli Stati membri, cfr. sent. Van Gend en Loos, cit.); per le direttive, ciò vale nei confronti del pubblico potere (cd. effetto diretto verticale) ma non nei confronti di altri soggetti privati (cd. effetto diretto orizzontale) (C. giust. UE, 26.2.1986, C-152/84, Marshall; C. giust. UE, 14.7.1994, C-91/92, Faccini Dori).
Accanto all’efficacia diretta, l’altra fondamentale caratteristica delle fonti europee è la prevalenza, in caso di contrasto, sulle norme di diritto interno. Il cd. primato del diritto europeo rappresenta in questo senso, oltre che un criterio di risoluzione delle antinomie, un assai incisivo strumento di integrazione. La Corte di giustizia ha riconosciuto tale nesso sin dalla sentenza Costa (C. giust. UE, 15.7.1964, C-6/64), affermando che se si fosse ammessa la derogabilità del diritto comunitario da parte di norme interne successive, si sarebbe determinata la sostanziale vanificazione degli obiettivi del processo di integrazione. La prevalenza applicativa, peraltro, è ricostruita dalla Corte come corollario dell’efficacia diretta: come precisato dalla Corte di giustizia nella successiva sentenza Simmenthal (C. giust. UE, 9.3.1978, C-106/77) infatti, «l’applicabilità diretta va intesa nel senso che le norme di diritto comunitario devono esplicare la pienezza dei loro effetti, in maniera uniforme in tutti gli Stati membri» (par. 14), dal momento che esse non si rivolgono solo allo Stato membro, ma pongono direttamente diritti ed obblighi in capo ai singoli (par. 17).
Il primato del diritto europeo non incide sulla validità delle norme interne, ma riguarda la loro applicazione: esso opera dunque anche come specifico strumento di tutela dei diritti riconosciuti ai singoli dal diritto europeo. La giustapposizione di una dimensione materiale alla rilevanza interordinamentale del principio del primato mette in luce, peraltro, la centralità delle dinamiche di applicazione del diritto nella gestione delle relazioni tra ordinamenti giuridici. In altre parole, l’invocazione del primato del diritto europeo come argomento di difesa in sede processuale contribuisce ad alimentare la relazione tra ordinamenti a partire dalla concreta situazione sottoposta alla cognizione del giudice, con l’effetto di produrre l’integrazione tra gli ordinamenti sul piano materiale (Aguilar Calahorro, A., Dimensión constitucional del principio de primacía. Formas de invocación del principio de primacía frente a los Estados, Granada, 2012).
Nella stessa luce può essere affrontato il complesso problema dei limiti al principio del primato. Secondo la Corte di giustizia, il primato delle norme europee non incontra limiti, neanche nelle norme costituzionali degli Stati membri. Tale orientamento, risalente alla sentenza Kreil (C. giust. UE, 11.2.2000, C-285/98), è stato recentemente ribadito dalla sentenza Melloni (C. giust. UE, 26.2.2013, C-199/11), nella quale la Corte afferma che «il fatto che uno Stato membro invochi disposizioni di diritto nazionale, quand’anche di rango costituzionale, non può sminuire l’efficacia del diritto dell’Unione nel territorio di tale Stato» (par. 59). Tale posizione si scontra con quella di numerose Corti costituzionali nazionali, tra cui la nostra, che hanno invece opposto al primato del diritto europeo il limite dei principi costituzionali supremi (v. infra, par. 2). Vale rilevare, peraltro, che ridurre tale questione a quella di una secca “alternativa di primato” rischia di vanificare ogni tentativo di comprensione delle complesse dinamiche che caratterizzano il processo di integrazione europea. L’affermazione di limiti costituzionali al primato, infatti, si inserisce in una dinamica di interazione tra Corti e ordinamenti. In tal senso, i cd. “controlimiti” finiscono per tradursi in fattori di integrazione tra ordinamento interno e ordinamento europeo, come riconosciuto, ormai, dallo stesso diritto primario dell’Unione. L’art. 4, par. 2 del TUE, riconoscendo le identità costituzionali degli Stati membri, realizza quella che è stata definita «europeizzazione dei controlimiti» (Ruggeri, A., Trattato costituzionale, europeizzazione dei “controlimiti”, e tecniche di risoluzione delle antinomie tra diritto comunitario e diritto interno (Profili problematici), in Staiano, S., a cura di, Giurisprudenza costituzionale e principi fondamentali, Torino, 2006, 827 ss): incorporando la garanzia dei principi costituzionali supremi degli Stati membri, il Trattato potrebbe favorire un approfondimento in senso cooperativo delle dinamiche di relazione.
L’evoluzione della giurisprudenza costituzionale sul regime di applicazione delle fonti comunitarie nel nostro ordinamento è stata segnata, nella prima fase (1964-1984) da un confronto serrato con la Corte di giustizia (sul punto, v. Sorrentino, F., Le fonti del diritto amministrativo, Padova, 2004, 106 ss.). Ad un iniziale orientamento restrittivo (C. cost., 7.3.1964, n. 14) che, equiparando le fonti di diritto derivato alla legge di esecuzione del trattato, ne sosteneva la derogabilità ad opera di leggi interne successive, seguì una prima apertura, rappresentata da C. cost., 27.12.1973 n. 183 e 30.10.1975, n. 232. In tali pronunce la Corte, ribadendo il proprio orientamento dualista (già affermato in C. cost., 27.12.1965, n. 98), individuò nel giudizio di legittimità costituzionale la sede appropriata per la risoluzione del contrasto tra fonti interne e fonti comunitarie, tanto sotto il profilo del sindacato della legge di esecuzione del Trattato (nel caso di dubbio sulla legittimità costituzionale di norme poste dalle fonti di cui al Trattato medesimo, sent. n. 183/1973), quanto sotto il profilo del sindacato sulla legge interna confliggente con il diritto comunitario, per violazione dell’art. 11 della Costituzione. Tale disposizione, nell’autorizzare limitazioni di sovranità funzionali alla creazione di ordinamenti funzionali alla garanzia della pace e della giustizia tra le Nazioni, si sarebbe infatti opposta alla produzione di norme legislative contrarie agli esiti del processo di integrazione europea.
Allo stesso tempo, l’autorizzazione costituzionale delle limitazioni di sovranità veniva condizionata, sulla scorta dell’analogo orientamento seguito con riguardo all’ordinamento canonico (C. cost., 24.2.1971, nn. 30 e 31), al rispetto dei principi costituzionali supremi e dall’istanza di protezione dei diritti fondamentali. La soluzione, per quanto coerente dal punto di vista teorico, non poteva soddisfare le esigenze del processo di integrazione, ed in particolare lo stretto legame, affermato dalla Corte di giustizia, tra diretta e uniforme applicazione del diritto comunitario all’interno degli Stati membri e garanzia dell’integrazione.
Pochi anni dopo, la Corte di giustizia intervenne con la richiamata sentenza Simmenthal, ribadendo la propria posizione su efficacia diretta e primato e affermando la necessità di rinvenire, in ambito nazionale, strumenti di risoluzione dell’antinomia tra diritto interno e diritto comunitario che garantissero l’effettiva e immediata applicazione della norma comunitaria e la tutela dei diritti da essa riconosciuti in capo al singolo. L’irrobustirsi del processo di integrazione, nel corso degli anni Settanta, era stato peraltro caratterizzato – anche per effetto delle manifestazioni di allarme della nostra Corte costituzionale (sent. n. 183/1973) e del Tribunale costituzionale federale tedesco (cd. sentenza Solange I, BVerfG, 29.5.1974, 2BvL 52/71) – dalla sempre maggiore attenzione della Corte di giustizia per l’istanza di tutela dei diritti fondamentali, specie in sede di bilanciamento con le esigenze del mercato comune e delle libertà economiche, con il progressivo allontanamento della prospettiva di un conflitto tra ordinamenti relativo ai principi costituzionali supremi.
In conseguenza di simile evoluzione, la Corte costituzionale giunse, con la sentenza 8.6.1984, n. 170, ad una nuova sistemazione del problema del regime di applicazione delle fonti comunitarie nell’ordinamento interno, conciliando premesse dualistiche ed esigenze del processo di integrazione e spostando la risoluzione dell’antinomia sul piano dell’applicazione del diritto: negli ambiti di competenza del diritto comunitario, infatti, la norma interna non può “venire in rilievo” ai fini della soluzione del giudizio, giacché, consentendo alle limitazioni di sovranità negli ambiti definiti dai Trattati, l’ordinamento italiano ha ammesso gli esiti integrativi che si producono tra i due ordinamenti. La conseguenza è l’applicazione prevalente del diritto comunitario da parte del giudice comune, senza necessità di sollevare questione di legittimità costituzionale della norma interna. La via del sindacato di costituzionalità resta aperta in due casi: a) qualora il contrasto sussista tra una norma interna e una norma comunitaria non direttamente applicabile; b) qualora il contrasto investa i principi costituzionali supremi, tra cui rientra la tutela dei diritti fondamentali (C. cost., 21.4.1989, n. 232).
La soluzione tracciata dalla sentenza n. 170/1984, ed in quel caso relativa ai regolamenti comunitari, è stata poi estesa a tutte le norme comunitarie dotate di efficacia diretta, ivi compresi i principi di diritto enunciati nelle sentenze rese dalla Corte di giustizia a seguito di rinvio pregiudiziale (C. cost., 23.4.1985, n. 113) o di condanna a seguito di procedura di infrazione (C. cost., 11.7.1989, n. 389), nonché le direttive dotate del requisito della diretta applicabilità (C. cost., 18.4.1991, n. 168).
Un recupero del ruolo della Corte costituzionale si è avuto, a partire dal 1994 (C. cost., 10.11.1994, n. 384 e 30.3.1995, n. 94), con riferimento ai giudizi di legittimità costituzionale in via principale: in tali giudizi, è la Corte stessa ad avere l’obbligo di espungere dall’ordinamento la norma contrastante con il diritto comunitario, per evitare conflitti tra ordinamenti in sede di successiva applicazione. La differenziazione degli strumenti di risoluzione dell’antinomia a seconda della sede in cui questa venga in rilievo ha creato notevoli incertezze in dottrina, specie con riferimento alla qualificazione del “vizio” della norma interna contrastante con il diritto comunitario.
La prevalenza applicativa del diritto europeo si presenta dunque come esito del processo di integrazione tra ordinamenti, alleggerendo la conflittualità che sarebbe derivata da una risoluzione del problema in termini di validità/invalidità. In questo quadro, l’art. 11 funge tra clausola di apertura, che vincola l’integrazione al rispetto dei principi costituzionali fondamentali. Pertanto, la stessa individuazione dei “controlimiti” è funzionale alla gestione della relazione, più che ripetere la propria giustificazione dal carattere “supremo” dei principi costituzionali (così Cartabia, M., Principi inviolabili e integrazione europea, Milano 1995), o dalla loro inerenza all’identità costituzionale dello Stato membro. Proprio per questo, tale compito resta affidato alla Corte costituzionale, nei casi eccezionali in cui l’antinomia tra diritto interno e diritto europeo investa principi costituzionali fondamentali e dovrà essere svolto con attitudine amichevole e “responsabilità di integrazione” (secondo la definizione del Tribunale costituzionale federale tedesco; per un caso di risoluzione rigida del conflitto, con applicazione diretta del controlimite, v. invece Cons. St., n. 4207/2005).
L’inserimento, nell’art. 117, comma 1, della Costituzione, di un riferimento espresso al rispetto dei “vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario” da parte del legislatore statale e regionale non ha determinato mutamenti del modello tracciato dalla Corte quanto al regime di applicazione del diritto europeo. Accanto all’art. 11, che resta il fondamento costituzionale dell’integrazione comunitaria, l’art. 117, comma 1, si limita a recepire, sul piano dell’esercizio della funzione legislativa, gli esiti del processo di integrazione (Sorrentino, F., Nuovi profili costituzionali dei rapporti tra diritto interno, internazionale e comunitario, in Dir. pubbl. comp. eur., 2002, 1355 ss.). La giurisprudenza della Corte costituzionale che, a partire dal 2005, ha definito la portata dell’art. 117, comma 1, ha infatti riproposto il modello sinora seguito. Così, a partire dalla sentenza 24.10.2005, n. 406, la Corte ha ribadito la necessità della declaratoria di illegittimità costituzionale della norma interna contrastante con il diritto europeo in sede di giudizio principale, qualificando il diritto dell’UE quale norma “interposta” ai fini dell’integrazione del parametro di costituzionalità. Tale affermazione sembrerebbe configurare l’incompatibilità con il diritto europeo quale violazione, sia pur mediata, della Costituzione, con conseguente necessità di sollevare questione di legittimità costituzionale dinanzi alla Corte. Con la sentenza 4.7.2007, n. 284, la Corte ha tuttavia ribadito che, pure a seguito della revisione costituzionale del 2001, il giudice comune non deve sollevare questione di legittimità costituzionale della norma interna contrastante con il diritto europeo, essendo tenuto ad applicare in via prevalente quest’ultimo. Si ripropone pertanto, aggravato dal riferimento alla categoria dogmatica delle “norme interposte”, il problema della qualificazione del vizio della norma interna contrastante con il diritto europeo, derivante dalla duplicità di strumenti di risoluzione dell’antinomia. Focalizzare l’attenzione sulla relazione tra norme rischia, tuttavia, di far perdere di vista il profilo della relazione tra ordinamenti, con il pericolo di irrigidirla entro schemi dogmatici che non ne valorizzano la dinamicità. Quest’ultima impone piuttosto di concentrare l’attenzione sulla dimensione del giudizio: in quest’ottica, anche il problematico riferimento all’interposizione normativa assume una funzione diversa, incentrata sul rapporto tra giudizio e gestione della relazione tra ordinamenti. Se, come è stato sostenuto, l’interposizione normativa è essenzialmente strumento di costruzione del parametro di giudizio, funzionale a dare concreta operatività a talune norme costituzionali (Siclari, M., Le norme interposte nel giudizio di costituzionalità, Padova, 1992; Cicconetti, S., Creazione indiretta del diritto e norme interposte, in Giur. cost., 2008, 565 ss.; per ulteriori approfondimenti cfr. Schillaci, A., Diritti fondamentali e parametro di giudizio. Per una storia concettuale delle relazioni tra ordinamenti, cit.; C. cost., 22.10.2007, n. 348; 2.4.2012, n. 86), l’art. 117, comma 1, si configura quale norma sull’applicazione del diritto, senza determinare uno slittamento verso un assetto di tipo monista (come confermato, peraltro, da C. cost., 13.2.2008, n. 102, che significativamente continua a parlare di ordinamenti autonomi, seppur integrati e coordinati).
Tale interpretazione pare confermata dalla progressiva apertura della giurisprudenza costituzionale alla considerazione degli orientamenti della Corte di giustizia, al momento di configurare il parametro ex art. 117, comma 1 (v., ad es., C. cost., 10.3.2008, n. 62 e 15.12.2008, n. 439); più in generale, deve essere ricordata la storica “svolta” che ha condotto la Corte costituzionale a sollevare per la prima volta rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia (sent. n. 102/2008). Tale possibilità – ora estesa anche ai giudizi instaurati in via incidentale (C. cost., 18.7.2013, n. 207) – rappresenta un significativo recupero del ruolo della Corte costituzionale nella gestione delle dinamiche di relazione tra ordinamenti, nell’ottica, però, di un loro approfondimento in senso cooperativo.
La stessa tendenza si riscontra, a ben vedere, in alcune importanti pronunce relative alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione. Ancora prima dell’entrata in vigore della Carta, a seguito della ratifica del Trattato di Lisbona, la Corte ha fatto riferimento ad essa, in numerose occasioni, per integrare in via interpretativa il parametro di giudizio: secondo la Corte, ancorché non efficaci, le disposizioni della Carta potevano svolgere una funzione di «ausilio interpretativo» (C. cost., 25.6.2008, n. 251) in quanto espressione «di principi comuni agli ordinamenti europei» (C. cost., 11-24.4.2002, n. 135; 23.10.2006, n. 393). Tale orientamento è stato confermato dalla Corte anche dopo l’entrata in vigore della Carta (C. cost., 8.3.2010, n. 93; 14.4.2010, n. 138; 15.2.2012, n. 31). In un caso, assai significativo (C. cost., 18.4.12, n. 111), la Corte dichiara inammissibile una censura di illegittimità costituzionale per violazione dell’art. 117, comma 1, come integrato dall’art. 47 della CDFUE, dal momento che il giudice a quo non aveva motivato adeguatamente sulla “non diretta applicabilità” della richiamata disposizione della Carta: se ne può evincere, a contrario, che il regime di applicazione della CDFUE sia equiparato, nel nostro ordinamento, a quello del diritto primario dell’Unione e che, di conseguenza, il giudice comune è autorizzato, in caso di contrasto, ad applicare la CDFUE e non la confliggente disposizione di diritto interno, ove la disposizione della prima sia dotata di efficacia diretta.
Allo stesso tempo, non sono mancate sentenze che hanno mostrato una notevole sensibilità per l’incidenza della CDFUE sulla portata del controlimite: in C. cost. 25.1.2010, n. 28, relativa alla dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma interna per contrasto con una norma di diritto europeo non direttamente applicabile, la Corte, nel constatare che, in virtù della dichiarazione di incostituzionalità, avrebbe trovato applicazione una norma penale sfavorevole al reo, richiama – per la prima volta con effetto decisivo (e non cioè a titolo di mero ausilio interpretativo) – l’art. 49 della Carta dei diritti fondamentali e al riconoscimento della vigenza nell’ordinamento europeo del principio di irretroattività della legge penale sfavorevole (cfr. par. 7 del diritto). Riconosciuta così l’“europeizzazione del controlimite” – in termini più precisi, aperta la costruzione del parametro di giudizio al patrimonio normativo dell’Unione europea e affermata la convergenza materiale tra quest’ultimo e l’ordinamento interno – è allontanata l’eventualità del conflitto e garantito il bilanciamento tra prevalenza del diritto comunitario, identità costituzionale nazionale e, soprattutto, istanza di giustizia materiale sottesa al caso di specie.
Artt. 11, 117, comma 1, Cost. it.; artt. 4, 6 TUE; art. 288 TFUE; artt. 51 ss. CDFUE.
Oltre alle opere citate nel testo, cfr.: AA. VV., Diritto comunitario e diritto interno, Milano, 2008; Balaguer Callejón, F., Le Corti costituzionali e il processo di integrazione europea, in AA. VV., Annuario 2006 - La circolazione dei modelli e delle tecniche del giudizio di costituzionalità in Europa, Napoli, 2006, 257 ss.; Benacchio, G.A., Fonti del diritto (dir. com.), in Enc. dir., Annali, vol. I, 616 ss.; Cartabia, M.-Chieffi, L., Art. 11, in Bifulco, R.- Celotto, A.- Olivetti, M., a cura di, Commentario alla Costituzione, vol. I, Torino, 2006, 263 ss.; Celotto, A., L’efficacia delle fonti comunitarie nell’ordinamento italiano: normativa, giurisprudenza e prassi, con la collaborazione di F. Angelini, Torino, 2003; Contaldi, G., Effetto diretto e primato del diritto comunitario, in Diz. dir. pubbl., a cura di S. Cassese, vol. III, Milano, 2006, 2124 ss.; Craig, P.-De Búrca, G., The evolution of EU law, Oxford, 2011; Di Salvatore, E., La prevalenza del diritto europeo nel Trattato costituzionale alla luce dell’esperienza comunitaria, in Mangiameli, S., a cura di, L’ordinamento europeo, vol. II, Milano, 2006, 477 ss.; Gaja, G., Fonti comunitarie, in Dig. pubbl., vol. VI, 433 ss.; Lipari, N., Le fonti del diritto, Milano, 2008; Martinico, G., L’integrazione silente, Napoli, 2008; Ost, F.-De Kerchove, M., De la pyramide au reseau? Pour un théorie dialectique du droit, Bruxelles, 2002; Pagotto, C., La disapplicazione della legge, Milano, 2008; Pajno, S., L’integrazione comunitaria del parametro di costituzionalità, Torino, 2001; Panunzio, S.P., I diritti fondamentali e le Corti in Europa, in Id., a cura di, I diritti fondamentali e le Corti in Europa, Napoli, 2005; Parodi, G., Le fonti del diritto: linee evolutive, Milano, 2012; Pollicino, O., Allargamento dell’Europa ad Est e rapporto tra Corti costituzionali e Corti europee, Milano, 2010; Sciarabba, V., Tra fonti e Corti: diritti e principi fondamentali in Europa. Profili costituzionali e comparati degli sviluppi sovranazionali, Padova, 2007; Serges, G., Art. 117, comma 1, in Bifulco, R.-Celotto, A.-Olivetti, M., a cura di, Commentario alla Costituzione, cit., vol. III, 2213 ss.; Sorrentino, F., Profili costituzionali dell’integrazione comunitaria, Torino, 1996; Strozzi, G., Fonti (dir. com.), in Diz. dir. pubbl., cit., vol. III, 2526 ss.; Tesauro, G., Costituzione e norme esterne, in Dir. UE, 2009, 195 ss.; Vecchio, F., Primazia del diritto europeo e salvaguardia delle identità costituzionali, Torino, 2012.