Abstract
Viene tratteggiato il sistema delle fonti di produzione del diritto tributario, partendo da una breve analisi delle norme costituzionali sulle fonti, proseguendo con l’esame delle disposizioni dello Statuto del contribuente sulla produzione delle norme tributarie per descrivere poi brevemente le fonti interne, comunitarie e internazionali di diritto tributario nelle loro specificità.
Tradizionalmente i rapporti tra le diverse fonti di produzione del diritto interno sono regolati dal criterio gerarchico (sull’evoluzione storica di tale criterio cfr.: Modugno, F., Fonti del diritto (gerarchia delle), in Enc. dir., Aggiornamento, I, 1997, 561 ss.); criterio in virtù del quale la fonte di grado superiore stabilisce le condizioni o fissa i limiti di validità alla fonte collocata al grado inferiore, tracciando un sistema articolato in più gradi, a ciascuno dei quali corrisponde un diverso tipo di controllo giurisdizionale e una diversa “forza” dell’atto normativo.
Sia l’art. 1 delle disposizioni preliminari al codice civile del 1942 sia la nostra Costituzione repubblicana, entrata in vigore qualche anno dopo il codice, presuppongono e recepiscono il modello kelseniano della gerarchia delle fonti: le prime ordinando le relazioni tra la legge e il regolamento, e tra quest’ultimo e la consuetudine, e la seconda collocandosi automaticamente al vertice delle fonti.
Nonostante la formale accettazione del principio gerarchico, esso tuttavia «solo in maniera “approssimativissima” è corrispondente alla situazione esistente nell’ordinamento giuridico italiano» (così Esposito, C., La consuetudine costituzionale, in Enc. dir., Milano, 1961, 230), tanto è vero che anche chi continua a seguire il criterio gerarchico finisce per disegnare un sistema estremamente articolato, il cui centro è identificato «non nella Costituzione italiana ma nei trattati dell’Unione europea, sia pure attraverso una specifica disposizione della Costituzione italiana, e cioè l’art. 11» (così Rescigno, G.U., Note per la costruzione di un nuovo sistema delle fonti, in Dir. pubbl., 2002, 768).
Sul sistema delle fonti e sul tradizionale principio di gerarchia reagiscono ormai prepotentemente tanto la pressione del diritto comunitario quanto la conquistata autonomia normativa delle Regioni, alle quali la Costituzione riconosce oggi un potere normativo operante allo stesso livello gerarchico della legge formale - distinto ma equiordinato rispetto a quello dello Stato - oltre a una potestà impositiva primaria in materia di tributi regionali e locali (anche gli altri enti locali dotati sono dotati dall’art. 119 Cost. di un’autonomia normativa in materia tributaria, ma si tratta di un’autonomia tributaria di qualità diversa, perchè esercitabile, ai sensi dell’art. 23 Cost., solo con lo strumento di normazione secondaria del regolamento).
Oltre alla pressione del diritto comunitario e del diritto degli enti infrastatuali, emergono poi norme prodotte fuori dal sistema delle fonti, come la nuova lex mercatoria (così Galgano, F., Lex mercatoria: storia del diritto commerciale, Bologna, 1993, 212 ss.): un complesso di regole originate dalla prassi contrattuale, che la diffusa e reiterata osservanza da parte degli operatori economici ha tramutato in norme consuetudinarie, recepite come forme di soft law dai giudici statali, e che costituiscono, ormai, un diritto trasversale e orizzontale capace di oltrepassare i confini e di alimentare una sorta di concorrenza tra ordinamenti giuridici.
A causa di queste dinamiche evolutive, il sistema delle fonti è oggi molto più complesso e articolato di come non appaia dalle preleggi e dalla Costituzione e il criterio gerarchico deve essere affiancato, se non addirittura sostituito, dal criterio di competenza, per spiegare il rapporto tra atti normativi di pari grado, cui la Costituzione attribuisce funzioni o ambiti di disciplina diversi.
Al vertice del sistema si collocano oggi i principi fondamentali e i diritti inalienabili derivanti dalla Costituzione e frutto di scelte di valore non disponibili fatte dai costituenti (le Grundnormen); subito dopo, i trattati e il diritto comunitario derivato, che fluiscono nel nostro ordinamento attraverso i varchi aperti dagli artt. 11 e 117 Cost.; poi le altre norme della Costituzione italiana, le leggi costituzionali, le leggi ordinarie (dello Stato e delle Regioni) e gli altri atti ad esse equiparati (decreti-legislativi e decreti-legge) e, su un gradino ancora inferiore, le fonti secondarie (i regolamenti).
Alcune norme sulla produzione del diritto tributario sono contenute nella nostra Costituzione: tra queste ( accanto al divieto di referendum abrogativo di cui all’art. 75, co. 2 ( si collocano l’art. 23 (sul quale v. la voce Riserva di legge e consenso all’imposta) e gli artt. 117-120 Cost.
L’art. 23 Cost. dispone, in particolare, che «nessuna prestazione, personale o patrimoniale, può essere imposta se non in base alla legge»: si tratta di una riserva relativa, che fissa il principio della necessaria partecipazione dei consociati alle scelte fiscali, riservando appunto le scelte di politica tributaria alla legge e sottraendole al potere esecutivo (sull’art. 23 Cost. come norma sulla produzione v. Barile, P., Il soggetto privato nella Costituzione italiana, Padova, 1959, 150; Cassese, S., Legge di riserva e articolo 23 della Costituzione, in Giur. cost., 1960, 1534).
L’art. 117 Cost. limita invece la potestà legislativa dello Stato alle materie indicate al secondo comma e alla determinazione dei principi fondamentali nelle materie di cui al successivo terzo comma; inoltre, al quarto comma conferisce alle Regioni una potestà legislativa “primaria”, residuale ma generale («in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato»), che, in tutte le materie del precedente terzo comma, si configura come competenza “ripartita” a contenuto generale, limitata solo dai principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato.
Leggi statali e leggi regionali appaiono fonti equiparate, non solo sotto il profilo dei controlli, ma anche sotto il profilo dell’attuazione della normativa comunitaria (affidata alle Regioni, se riguarda «materie di loro competenza», fermo restando il controllo sostitutivo dello Stato) e sotto il profilo delle riserve di legge stabilite dalla Costituzione: riserve - compresa, per quanto riguarda la materia tributaria, quella posta dall’art. 23 Cost. - che devono oggi intendersi riferite sia alle leggi statali che alle leggi regionali, secondo la rispettiva competenza.
Nel riconoscere esplicitamente alle Regioni e agli enti locali «autonomia finanziaria di entrata e di spesa», l’art. 119 Cost. riconosce a tali enti anche autonomia tributaria e impositiva, cioè il potere di «stabilire e applicare tributi ed entrate propri» sulla base di «principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario» fissati con legge dello Stato. Questi principi di coordinamento (richiamati anche dall’art. 117, co. 3, Cost.), pur non rappresentando dei veri e propri controlimiti, consentono allo Stato, quale garante della libertà repubblicana e dell’unità dell’ordinamento, di intervenire nella materia tributaria attribuita alla competenza esclusiva delle Regioni, evitando l’indebita espansione della potestà legislativa tributaria delle Regioni stesse.
I criteri e i principi direttivi ai quali devono ispirarsi i decreti legislativi di attuazione del cd. federalismo fiscale sono stati fissati dalla l. delega 5.5.2009, n. 42. Le disposizioni di questa legge, autoqualificate come «disposizioni volte a stabilire in via esclusiva i principi fondamentali del coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario», hanno peraltro attuato i principi costituzionali più sul lato della spesa, che sul lato delle entrate. Lo Stato è rimasto dominus dell’istituzione dei tributi degli enti locali e delle Regioni (private così, di fatto, di un’effettiva autonomia tributaria): l’istituzione di nuovi tributi è sì affidata alla competenza legislativa dello Stato e delle Regioni, ma queste ultime hanno spazi di intervento piuttosto limitati, considerato che è esplicitamente esclusa «ogni doppia imposizione sul medesimo presupposto, salvo le addizionali previste dalla legge statale o regionale» (art. 2, co. 2, lett. o)) e che sono vietati interventi sulle basi imponibili e sulle aliquote dei tributi che non siano del proprio livello di governo. Dunque, oltre al potere di istituire tributi propri su presupposti che non costituiscano già oggetto dell’imposizione statale, le Regioni possono intervenire sui tributi propri derivati (istituiti con legge dello Stato), modificandone le aliquote e prevedendo esenzioni, detrazioni e deduzioni nei limiti fissati dalla legislazione statale e possono istituire nuovi tributi degli enti locali nel proprio territorio, sempre negli ambiti non coperti da altri livelli di governo.
L’autonomia tributaria delle Regioni a statuto ordinario incontra, quindi, limiti importanti: lo Stato mantiene il potere di decidere l’istituzione dei principali tributi, come il livello di tassazione; la pressione fiscale sugli enti sub-statali resta eterodeterminata.
In tema di entrate, la l. n. 42/2009 sembra aver quindi raccolto le sollecitazioni della Corte costituzionale sul riparto delle competenze tributarie tra Stato ed enti locali, nella misura in cui la Consulta aveva respinto le interpretazioni maggiormente regionalistiche del Titolo V (v. C. cost., 22.9.2003, nn. 296 e 297; C. cost., 3.10.2003, n. 311) ed enucleato il divieto di doppia imposizione sul medesimo presupposto (C. cost., 13.2.2008, n. 102).
Importanti disposizioni sulla potestà normativa tributaria, rivolte al legislatore, sono inserite nello Statuto dei diritti del contribuente, approvato con l. 27.7.2000, n. 212, nell’intento di reagire alla bulimia normativa che, soprattutto negli ultimi decenni, ha caratterizzato e sconvolto l’ordinamento tributario, generando una legislazione sempre più effimera e tecnicamente approssimativa.
La prima disposizione diretta a incidere sulla produzione delle norme tributarie è l’art. 1, co. 2, dello Statuto, il quale stabilisce che le leggi interpretative in materia tributaria possono essere adottate «soltanto in casi eccezionali e con legge ordinaria, qualificando come tali le disposizioni di interpretazione autentica», con ciò riferendosi - secondo la dottrina - non già alle rare leggi realmente interpretative (e quindi utili per la soluzione dei dubbi di interpretazione), bensì alla prassi di leggi sostanzialmente innovative, ma formalmente qualificate come interpretative per garantire loro una retroattività a tutela dell’interesse erariale.
Altra disposizione dello Statuto volta a disciplinare l’attività del legislatore tributario, ancorandola più saldamente al rispetto dei principi costituzionali, è l’art. 4, che, in linea con il vincolo posto nell’art. 77 Cost., vieta di utilizzare il decreto-legge per «l’istituzione di nuovi tributi o estendere quelli esistenti ad altre categorie di soggetti»: in entrambi i casi, a tutela della garanzia parlamentare. L’art. 2 regola la formulazione delle “leggi” e degli “altri atti aventi forza di legge”: sia quelli «che contengono disposizioni tributarie», che «devono menzionarne l’oggetto nel titolo» ed essere muniti di «rubrica delle partizioni interne e dei singoli articoli» recante menzione dell’«oggetto delle disposizioni ivi contenute»; sia quelli che «non hanno un oggetto tributario» e perciò «non possono contenere disposizioni di carattere tributario, fatte salve quelle strettamente inerenti» al loro oggetto (co. 2). Ai commi terzo e quarto infine, l’art. 2 prevede rispettivamente che i richiami ad altre disposizioni «si fanno indicando anche il contenuto sintetico della disposizione alla quale si intende fare rinvio» e che «le disposizioni modificative di leggi tributarie devono riportare il testo conseguentemente modificato».
I principi dello Statuto del contribuente si autoqualificano (art. 1, co. 1, l. n. 212/2000), come «principi generali dell’ordinamento tributario», come tali suscettibili di essere derogati o modificati solo espressamente e mai da leggi speciali. La giurisprudenza di legittimità in più occasioni (cfr.: Cass., 6.5.2005, n. 9407) ha cercato di accreditare le norme dello Statuto come norme “a copertura costituzionale” (postulando, evidentemente, l’esistenza di un parametro costituzionale “allargato”, accanto a quello classico; sul tema Spadaro, A., Dalla Costituzione come “atto” (puntuale nel tempo) alla Costituzione come processo storico, in AA.VV., Il parametro nel giudizio di costituzionalità. Atti del Seminario di Palermo, 28-29.5.1998, Torino, 2000) ma la l. n. 212/2000 resta una legge ordinaria e la stessa Corte costituzionale (cfr. C. cost, ord. 25.2.2008, n. 41), ha escluso che essa abbia «valore superiore a quello di una legge ordinaria». Lo Statuto può dunque essere oggetto di abrogazione, anche implicita, ad opera di leggi successive di pari grado e, proprio per tale ragione, molte volte i principi di “civiltà giuridica” codificati nello Statuto hanno dovuto chinare il capo di fronte a successive disposizioni di pari grado volte a derogarli clamorosamente in nome della “ragion fiscale”. Nonostante ciò, nel diritto vivente lo Statuto ha comunque saputo assurgere al testo fondamentale che aspirava ad essere perché è stato osservato nella prassi e ha efficacemente orientato l’interpretazione e l’applicazione di molta parte delle norme tributarie, soprattutto in tema di procedimento.
In materia tributaria, l’attività legislativa è stata ed è tuttora molto spesso delegata al Governo: ciò soprattutto per il contenuto estremamente tecnico della materia, che mal si presta ad essere disciplinata tramite atti normativi costruiti ed emanati direttamente dal Parlamento.
La decretazione delegata ha però spesso dato luogo ad abusi segnati dal superamento dei limiti posti nella Costituzione: è il caso di deleghe così ampie da doverne desumere i principi e i criteri direttivi dalla legislazione precedente o addirittura dal sistema nel suo complesso; delle deleghe cd. “in bianco”, perché prive dell’indicazione di veri e propri principi e criteri direttivi; della fissazione di termini troppo ampi per l’esercizio del potere legislativo delegato; dell’esercizio reiterato del potere legislativo delegato, attraverso l’emanazione di decreti integrativi e correttivi (il cd. fenomeno della delegazione permanente).
La prassi ha evidenziato un ricorso del tutto “anomalo” anche al decreto-legge, spesso utilizzato dal Governo in assenza dei presupposti di necessità e urgenza previsti dall’art. 77 Cost.; la Corte costituzionale ha però difeso la decretazione d’urgenza sostenendo che «le censure di legittimità costituzionale concernenti l’asserita mancanza dei presupposti della decretazione d’urgenza sono da ritenersi superate per effetto dell’avvenuta conversione in legge» (cfr.: C. cost., 7.5.1987, n. 173 e C. cost., 27.10.1988, n. 1033).
Nel tentativo di ripristinare una lettura ortodossa dell’istituto costituzionale del decreto-legge, l’art. 15, co. 3, l. 23.8.1988, n. 400 ha prescritto che il contenuto del decreto-legge debba essere “specifico, omogeneo e corrispondente al titolo”; nonostante ciò, la prassi continua a mostrare comunque un progressivo distacco del decreto-legge dall’alveo delineato dall’art. 77 Cost.
La citata l. n. 400/1988 è intervenuta anche in tema di fonti secondarie (regolamenti intesi come atti normativi del potere esecutivo non aventi forza di legge), per disegnare più precisamente il confine tra regolamenti (atti dotati dei caratteri di generalità, astrattezza e novità) e atti amministrativi generali (destinati a provvedere per un caso concreto e rivolti a destinatari determinati o determinabili): in particolare, la citata legge ha svalutato i criteri sostanziali già utilizzati a tal fine per affidarsi, invece, a criteri formali (nomen iuris, emanazione secondo una determinata procedura, forme ben precise di pubblicità) ritenuti, in quest’ottica, più certi. Questo mutamento di prospettiva ha trovato consacrazione nell’art. 17 della l. n. 400/1988, il quale ha anzitutto innovato il procedimento di formazione dei regolamenti, stabilendo poi che tutti i regolamenti degli organi governativi «devono recare la denominazione di “regolamento”, per meglio distinguersi dai provvedimenti amministrativi aventi anch’essi la forma del decreto presidenziale o ministeriale».
La l. n. 400/1988 ha inoltre statuito che i regolamenti governativi sono competenti, oltre che a considerare “l’esecuzione” e “l’attuazione” delle leggi, anche a riordinare «le materie in cui manchi la disciplina da parte delle leggi o di atti aventi forza di legge, sempre che non si tratti di materie comunque riservate alla legge». Di particolare rilevanza sono, sotto questo profilo, i regolamenti delegati, di cui al secondo comma dell’art. 17 della legge n. 400: si tratta dei regolamenti che traggono origine da una norma di legge la quale, nell’autorizzare l’esercizio della potestà regolamentare da parte del Governo, da un lato fissa “le norme generali regolatrici della materia” e dall’altro dispone l’abrogazione delle norme vigenti (anche se di matrice legislativa) con effetto dall’entrata in vigore delle norme regolamentari.
Ben presto, però, anche i vincoli formali seguiti dalla legge n. 400 si sono mostrati, nella prassi, inidonei a fungere da efficace discrimine tra atti normativi e atti amministrativi generali. Sempre più frequentemente l’esecutivo ha preso a “vestire” contenuti normativi di una forma non normativa (sul tema v. Nucera, V., I provvedimenti del direttore dell’Agenzia delle entrate ed i confini della normatività, in Riv. dir. trib., 2011, I, 961 ss.) solo al fine di sottrarsi ai vincoli, formali e procedimentali, imposti dall’art. 17 della l. n. 400/1988: è il caso dei decreti di natura non regolamentare, atti amministrativi generali recentemente utilizzati per veicolare contenuti sostanzialmente normativi.
Oggi l’ordinamento assiste al progressivo svuotamento della funzione del regolamento quale ordinario strumento di esecuzione e completamento delle disposizioni primarie, a favore di atti privi di formale qualificazione normativa, ma di evidente contenuto normativo. Il ricorso ai decreti di natura non regolamentare è divenuto frequente, non solo nell’ordinamento tributario (cfr.: Batistoni Ferrara, F., Le deleghe per l’emanazione di disposizioni di attuazione con decreto ministeriale di natura non regolamentare, in Perrone, L.-Berliri C., a cura di, Diritto tributario e Corte Costituzionale, Napoli, 2006, 553-554), e – pur suscitando le critiche della dottrina, che è arrivata a parlare di una vera e propria “truffa delle etichette” (cfr.: Cintioli, F., A proposito dei decreti ministeriali “non aventi natura regolamentare”, in Quad. cost., 2003, 820 ss.; Modugno, F.-Celotto, V., Un “non regolamento” statale nelle competenze concorrenti, in Quad. cost., 2003, 355 ss.) ( non è stato ancora stigmatizzato dalla giurisprudenza costituzionale con la sanzione dell’illegittimità delle relative disposizioni.
Per ridelineare in modo efficace l’area della normatività si sta dunque tornando, anche in giurisprudenza, a fare ricorso a criteri sostanziali, evitando di rimanere vincolati ad elementi formali – come il nomen iuris o il procedimento seguito – per definire la natura propria di un provvedimento.
Resta, in ogni caso, da segnalare la progressiva moltiplicazione delle fonti secondarie e la perdita dei tratti tipici che caratterizzavano ciascuna di esse: la realtà è che il sistema “chiuso” delle fonti del diritto delineato dalla Costituzione sembra progressivamente sfaldarsi sotto i colpi, da un lato, del cd. policentrismo normativo (cioè della distribuzione del potere normativo tra una pluralità di soggetti che interagiscono tra loro) e, dall’altro, della sempre maggiore complessità e specializzazione della legislazione.
In fondo alla gerarchia delle fonti interne, appena un cenno merita la consuetudine, ricollegata alla tradizionale categoria delle fonti fatto: fonti che rappresentano fenomeni normativi “non volontari” e coprono l’ambito del diritto non scritto. La Costituzione non ne tratta esplicitamente; le stesse disposizioni preliminari al codice civile parlano solo degli usi e la dottrina ritiene che la consuetudine sia ormai solo una fonte interstiziale.
Nel sistema delle fonti del diritto tributario, grande rilevanza va riconosciuta al diritto comunitario.
Nel diritto comunitario tributariosi comprendono tanto le norme e i principi contenuti nel Trattato istitutivo della Comunità europea (e nelle sue successive integrazioni e modificazioni) che regolano l’attività tributaria dell’Unione, quanto le norme e i principi comunitari di carattere tributario destinati a incidere, direttamente o indirettamente, sugli ordinamenti degli Stati membri, anche attraverso un’attività di armonizzazione delle rispettive legislazioni. Nel sistema delle fonti del diritto comunitario devono poi ricondursi anche i principi qualificati dalla Corte di Giustizia come “diritti fondamentali”, ora espressamente menzionati nel TUE (art. 6, par. 3): alcuni di essi (ad esempio, il divieto di discriminazione fondato sulla nazionalità) trovano espressa indicazione nel Trattato (cfr. art. 18, TFUE), altri sono stati via via elaborati dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia: così è stato, oltre che per i diritti della persona, per il principio di proporzionalità (il quale richiede che l’autorità comunitaria verifichi attentamente l’opportunità di agire mediante atti vincolanti o non vincolanti, privilegiando, in linea di principio, questi ultimi quando la materia da disciplinare non imponga l’adozione di un regime giuridico uniforme ovvero non presenti un livello di complessità tale da giustificare una disciplina tecnica obbligatoria) per i principi della certezza del diritto, dell’effetto utile, del legittimo affidamento, da ultimo dell’abuso di diritto.
Riguardo alle valutazioni dell’impatto del diritto comunitario sul diritto interno è opportuno operare una distinzione preliminare tra norme dei Trattati, cioè diritto comunitario primario, e diritto comunitario derivato, rappresentato essenzialmente dalle direttive e dai regolamenti comunitari.
Le norme dei Trattati istitutivi dell’Unione europea, e tutte le modifiche e integrazioni stratificatesi su tali Trattati, si rapportano al nostro ordinamento come ogni altra norma internazionale pattizia: è quindi espressamente richiesto, per la loro entrata in vigore, l’esaurimento delle procedure costituzionali prescritte da ciascuno Stato membro e, per l’Italia, la legge di autorizzazione alla ratifica e l’ordine di esecuzione, entrambi ordinariamente oggetto di un unico testo normativo.
Il diritto comunitario derivato non richiede la procedura di adattamento prevista per quello primario, ma solo che vengano – eventualmente – posti in essere i provvedimenti nazionali, a livello normativo o amministrativo, richiesti dagli stessi atti comunitari ai fini della loro attuazione.
Il regolamento comunitario è, per espressa definizione del TFUE, direttamente applicabile in ogni Stato membro, senza necessità di un intervento formale delle autorità nazionali; e tale diretta applicabilità arriva al punto che un eventuale atto interno, anche totalmente confermativo del regolamento comunitario, sarebbe contrario al Trattato, perché ne ostacolerebbe l’applicazione uniforme e simultanea in tutta l’Unione.
Per le direttive la questione è diversa: in base all’art. 288 del Trattato, sono esse stesse a imporre allo Stato membro l’adozione degli atti necessari alla loro attuazione.
Nel nostro Paese l’attuazione legislativa e/o amministrativa degli obblighi comunitari, dopo numerose sentenze cd. di condanna della Corte di Giustizia, è affidata alla legge comunitaria annuale, una legge “contenitore” volta a ricomprendere tutte le misure occorrenti a dare attuazione agli obblighi comunitari e alle pronunce della Corte di Giustizia.
Facendo leva sui principi espressi nell’art. 11 Cost., la Corte costituzionale ha affermato il sistema dell’integrazione giuridica europea, del quale fanno parte i due fondamentali principi dell’effetto diretto e del primato del diritto comunitario, inteso come applicabilità del diritto comunitario a preferenza del diritto nazionale.
L’effetto diretto risiede nella idoneità della norma comunitaria ( e in particolare di tutte le norme comunitarie sufficientemente chiare e precise e la cui applicazione non sia condizionata all’emanazione di ulteriori atti comunitari o nazionali ( a creare diritti e obblighi direttamente in capo ai singoli, con la conseguente possibilità, per questi ultimi, di far valere davanti ai giudici nazionali la posizione giuridica soggettiva vantata in forza della norma comunitaria. Ovviamente, la norma comunitaria munita di effetto diretto obbliga alla sua applicazione non solo i giudici nazionali, ma anche tutti gli organi dell’amministrazione nazionale: sarebbe una contraddizione in termini ammettere che i singoli possano invocare la norma comunitaria munita di effetto diretto davanti al giudice allo scopo di veder censurare il comportamento dell’amministrazione e al contempo negare che la stessa amministrazione sia tenuta ad applicare la norma comunitaria, anche disapplicando ( ove ciò occorra ( le norme nazionali con la stessa confliggenti.
Al principio dell’effetto diretto si ricollega quello del primato del diritto comunitario sul diritto interno con esso contrastante, sia precedente che successivo, e qualunque ne sia il rango, anche costituzionale. La norma interna incompatibile con la norma comunitaria deve essere non applicata dal giudice comune, sia che si tratti di una norma precedente sia che si tratti di una norma successiva a quella comunitaria; il giudice nazionale ha l’obbligo di applicare integralmente il diritto comunitario e dare al singolo la tutela che quel diritto gli attribuisce.
Per la Corte costituzionale, l’unico limite all’efficacia del diritto comunitario e la ragione ultima del perdurante dualismo tra ordinamento interno e ordinamento comunitario resta l’intangibilità dei principi supremi e identitari dell’ordinamento costituzionale italiano ( tra cui il principio democratico che costituisce il fondamento ultimo della riserva di legge ex art. 23 Cost. ( e dei diritti inalienabili garantiti dalla Costituzione (i cd. controlimiti), che integrano quel diritto costituzionale materiale che individua oggi, in sostituzione del tradizionale paradigma della sovranità nazionale, il potenziale ambito di conflittualità con il diritto comunitario.
Il diritto comunitario può, dunque, incidere anche su norme interne di rango costituzionale, ma a condizione che vengano comunque fatti salvi i «principi supremi dell’ordinamento costituzionale e i diritti fondamentali della persona umana» (cfr.: C. cost., 18.12.1973, n. 183). Le Grundnormen sulle quali si basa il sistema delle fonti, e che si ergono a controlimiti invalicabili anche nei confronti del diritto comunitario sono solo quelle disposizioni costituzionali che potremmo definire “di indirizzo”, che identificano, cioè, l’ordinamento nazionale sulla base delle scelte di valore fatte dai costituenti.
Con i Trattati di Vestfalia del 1648, che ridussero il Sacro Romano Impero germanico a mera espressione verbale, l’unità del diritto si spezzò nei diversi diritti statali e si affermò il principio della pari ed esclusiva sovranità internazionale degli Stati, definiti come superiorem non recognoscentes: fu allora che il diritto dell’insieme degli Stati divenne il diritto interstatale o internazionale (il “diritto pubblico esterno” di ciascuno Stato, nella formula hegeliana).
Questo diritto “acefalo”, basato sul principio della parità degli Stati, opera su un piano interstiziale rispetto a quello degli ordinamenti positivi statali e nasce da due tipologie di fonti: le consuetudini internazionali e i trattati. Le consuetudini pongono norme dotate di efficacia erga omnes e volte a disciplinare i rapporti tra gli Stati sovrani (tra le consuetudini internazionali avvertite come giuridicamente doverose per gli Stati possiamo ricordare, in materia tributaria, quelle che regolano il trattamento tributario dei Capi di Stato o dei rappresentanti diplomatici e consolari esteri); i Trattati creano un diritto internazionale particolare, derivante da “accordi tra pari” conclusi tra gli Stati e dotati di efficacia inter partes.
Le norme del diritto internazionale generalmente riconosciute (cioè le norme consuetudinarie e i principi operanti nei confronti di tutti i Paesi, come il principio di parità dei soggetti internazionali e la regola “pacta sunt servanda”) costituiscono anche norme del nostro ordinamento per effetto dell’adattamento automatico operato dall’art. 10, co. 1, Cost.; le norme di diritto internazionale particolare derivanti dai Trattati entrano invece nel nostro ordinamento per effetto di atti di recezione operati da fonti interne.
La parte maggiormente sistematica del diritto internazionale tributario è oggi rappresentata dagli accordi aventi ad oggetto la fiscalità (come le convenzioni contro le doppie imposizioni e l’assistenza reciproca in materia di accertamento e riscossione); disposizioni di ordine tributario possono, tuttavia, ritrovarsi anche nell’ambito di Trattati aventi oggetto diverso e riguardanti, ad esempio, le aree territoriali di libero scambio, o lo status di rappresentanti diplomatici o di organizzazioni internazionali.
La sostanziale assenza di limiti di diritto internazionale al potere degli Stati di delineare i presupposti di imposta, pur se temperata dall’adozione di criteri di collegamento ispirati al principio di ragionevolezza, fa sì che gli Stati possano adottare criteri di collegamento confliggenti e rende possibili fenomeni di doppia imposizione internazionale, soprattutto nel settore delle imposte sui redditi: ad esempio quando gli Stati adottano il criterio della worldwide taxation per tassare i redditi dei soggetti residenti, senza rinunciare al prelievo sui redditi prodotti nel territorio dello Stato da soggetti non residenti. Fenomeni di doppia imposizione possono derivare anche dall’adozione, da parte dei singoli Stati, di una diversa nozione di residenza o di una diversa nozione di reddito prodotto nel territorio dello Stato, e possono verificarsi anche con riferimento alle imposte di successione: si pensi al caso dell’imposta di successione che in entrambi gli Stati colpisca l’asse ereditario mondiale, ma per uno Stato in base alla residenza del de cuius e per l’altro in base alla residenza dell’erede.
In assenza di una norma di diritto internazionale che vieti la doppia imposizione, la soluzione di questo problema è lasciata alla disciplina pattizia degli Stati, ossia alle convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni, redatte sul modello predisposto dall’OCSE e destinate ad assumere rilevanza nell’ordinamento giuridico italiano con l’emanazione della legge di ratifica da parte del Parlamento.
Attraverso la convenzione, gli Stati concordano criteri per definire quale sia lo Stato che ha la potestà impositiva. Le norme convenzionali sono, dunque, norme di distribuzione o delimitazione (cd. distributive rules): non conducono all’applicazione del diritto straniero nell’ordinamento interno, ma delimitano il contenuto del potere normativo dei singoli Stati al fine di eliminare la doppia imposizione.
Le convenzioni possono essere bilaterali o multilaterali; ma, considerate le difficoltà legate al processo di armonizzazione dei sistemi fiscali dei diversi ordinamenti, non è difficile comprendere perché nel settore delle imposte dirette la maggior parte delle convenzioni sia bilaterale. È appunto alle convenzioni bilaterali che vengono, per semplicità, riferite le considerazioni che seguono.
La stipula di una convenzione internazionale contro le doppie imposizioni è preceduta da una fase di trattativa, condotta dalle competenti autorità competenti dei due Stati, nella quale si negozia il contenuto della futura convenzione; al concludersi di tale fase negoziale i responsabili delle delegazioni dei due Stati coinvolti nella stipula della convenzione procedono alla cd. parafatura, cioè siglano due esemplari del testo, che diviene in tal modo autentico.
Dopo la parafatura, il testo della convenzione viene tradotto nella lingua nazionale dello Stato, se questa non coincide con quella del testo parafato, e la traduzione viene accettata dalle parti; evidentemente, se la lingua del testo parafato è diversa da quella nazionale di entrambi gli Stati contraenti, dovranno effettuarsi due traduzioni, che dovranno entrambe essere accettate. Generalmente, entrambe le versioni linguistiche hanno pari dignità e sono ugualmente vincolanti; tuttavia, può essere convenuto che il testo vincolante sia quello in una sola delle lingue nazionali o addirittura in una lingua terza.
In diritto internazionale, il trattato diventa efficace, in base all’art. 9 della Convenzione di Vienna, con la dichiarazione di consenso di entrambi gli Stati contraenti; competente a rendere questa dichiarazione di consenso è, generalmente, il Capo dello Stato(cfr.: art. 87 Cost.). A questo livello gli Stati sono reciprocamente impegnati, sul piano del diritto internazionale, ma per l’efficacia interna della convenzione occorrono ancora ulteriori adempimenti.
Le convenzioni contro le doppie imposizioni non incidono direttamente sulla potestà normativa tributaria dello Stato; l’adeguamento del diritto interno alle norme di una convenzione deve avvenire attraverso un atto formale di origine interna indipendente dal trattato. Pertanto, per consentire l’immissione nell’ordinamento italiano delle disposizioni convenzionali è necessario che queste siano recepite da una fonte di diritto nazionale. A distinti atti di volontà corrispondono norme distinte valide in ordinamenti distinti, secondo una ricostruzione dualista del rapporto tra diritti internazionali non consuetudinari e diritti statali.
L’efficacia delle convenzioni nell’ordinamento nazionale si fonda su un provvedimento legislativo di ratifica, che consiste nell’approvazione in sede parlamentare del testo convenzionale; generalmente, l’introduzione delle disposizioni convenzionali avviene con una legge ordinaria chiamata a dare «piena ed intera esecuzione al trattato». L’avvenuta ratifica viene reciprocamente notificata all’altro Stato contraente; è con quest’ultima fase che gli Stati si obbligano reciprocamente e approvano un testo comune nella sua versione definitiva.
La posizione da attribuire alle disposizioni convenzionali nella gerarchia delle norme dipende dal rango dell’atto interno che le recepisce: se tale atto è una legge ordinaria, le relative disposizioni non potranno che avere forza di legge.
Nel nostro ordinamento il rapporto tra norme di pari grado è generalmente disciplinato dal principio della successione delle leggi nel tempo; principio in base al quale la norma successiva abroga o modifica la norma anteriore di pari grado. Considerato che le convenzioni internazionali non hanno, nel sistema interno delle fonti, un valore formale particolare, in linea di principio esse potrebbero essere derogate da una legge nazionale successiva, anche se ciò comporterebbe una violazione del trattato e, quindi, una lesione del diritto internazionale.
Per attribuire ai trattati internazionali - o meglio alle norme interne volte a dar loro esecuzione - prevalenza sulle norme interne successive, dottrina e giurisprudenza hanno dovuto sostenere l’esistenza di una “forza di resistenza speciale” della norma pattizia in grado di farle prevalere sulle norme interne successive di pari rango (cfr. Quadri, R., Diritto internazionale pubblico, Napoli, 1968, 79) ovvero hanno dovuto ricorrere al principio di specialità, sostenendo che la norma ordinaria che recepisce il trattato prevale sulle altre di pari grado in quanto norma speciale che adempie un obbligo internazionale assunto dallo Stato (in tal senso Fabozzi, C., L’attuazione dei trattati internazionali mediante ordine di esecuzione, Milano, 1958, 158 ss. e La Pergola, A., Costituzione e adattamento del diritto interno al diritto internazionale, Milano, 1961, 225 ss.; contra Pau, G., Considerazioni sul valore dei trattati internazionali nell’ordinamento italiano, in Riv. dir. int., 1984, 741 ss.).
In base al principio di specialità, il rapporto tra norme interne di origine convenzionale e norme interne successive di pari grado si struttura in modo da assicurare alle prime una tendenziale prevalenza in via interpretativa: tale prevalenza viene meno, e la norma interna successiva acquisisce effettiva portata abrogativa o modificativa della disposizione convenzionale, solo ove tale norma interna esprima in modo inequivoco la volontà di contravvenire agli obblighi che scaturiscono dal Trattato internazionale, oppure faccia venir meno un presupposto di diritto interno all’applicabilità del Trattato. Della prevalenza del diritto convenzionale sul diritto interno in materia tributaria, in forza del principio di specialità, si rinviene traccia nell’art. 75 del d.P.R. 29.9.1973, n. 600, in base al quale «nell’applicazione delle disposizioni concernenti le imposte sui redditi sono fatti salvi gli accordi internazionali resi esecutivi in Italia» e nell’art. 41 del d.P.R. 29.9.1973, n. 601, in base al quale «continuano ad applicarsi le esenzioni ed agevolazioni previste negli accordi internazionali resi esecutivi in Italia e dalle leggi relative ad enti ed organismi internazionali». Nonostante le ricordate previsioni, l’art. 169, TUIR stabilisce però che le disposizioni contenute nel testo unico «si applicano, se più favorevoli al contribuente, anche in deroga agli accordi internazionali contro la doppia imposizione». Tale norma, di per sé inidonea a risolvere le antinomie normative, acquista significato solo riconoscendo l’esistenza di un principio consuetudinario cd. di “non aggravamento” (sul tema cfr.: Melis, G., Vincoli internazionali e norma tributaria interna, in Riv. dir. trib., 2004, I, 1083 ss.); in quest’ottica, l’art. 169 consentirebbe, infatti, di temperare gli effetti del principio di specialità, dando al contribuente la possibilità di applicare la norma interna ove questa si riveli più favorevole.
Queste considerazioni debbono oggi essere ulteriormente coordinate con l’epigrafe dell’art. 117 Cost. che espressamente subordina l’esercizio della potestà legislativa dello Stato e delle Regioni, oltre che al rispetto della Costituzione, anche ai vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali.
Altra fonte di diritto internazionale rilevante in materia tributaria è infine rappresentata dalla Convenzione europea dei diritti umani e delle libertà fondamentali (CEDU), alla quale la Corte costituzionale (cfr.: C. cost., 22.10.2007, n. 348 e n. 349 e C. cost., 7.3.2011, n. 80) ha riconosciuto, nella gerarchia delle fonti, un ruolo analogo a quello delle Convenzioni internazionali ratificate (cfr.: Bartole, S.-De Sena, P.-Zagrebelsky, G., Commentario breve alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, Padova, 2012).
Art. 23 e artt. 117-120, Cost.; L. 27.7.2000, n. 212.
Baroncelli, S., La partecipazione dell’Italia alla governance dell’Unione europea nella prospettiva del Trattato di Lisbona. Un’analisi delle fonti del diritto nell’ottica della fase ascendente e discendente, Torino, 2008; Celotto, A., L’efficacia delle fonti comunitarie nell’ordinamento italiano, Torino, 2003; Celotto, A.-Groppi, T., Diritto UE e diritto nazionale: primautè vs. controlimiti, in Riv. it. dir. pubbl. comm., 2004, I, 1309 ss.; Di Pietro, A., I regolamenti, le circolari e le altre norme amministrative per l’applicazione della legge tributaria, in Trattato di diritto tributario diretto da A. Amatucci, vol. I, tomo II, Padova. 1994, 619 ss.; Grippa Solvetti, M.A., Regolamenti delegati e riserva di legge, in Rass. trib., 1994, 1905 ss.; Id., Riserva di legge e delegificazione, Milano, 1998; Modugno, F., Fonti del diritto (gerarchia delle), in Enc. dir., Aggiornamento, I, 561 ss.; Paladin, L.-Giardina, A.-Zagrebelsky, G.-Cassese, S.-Bartole, S.-Pace, A., La formazione delle leggi, II, in Branca, G. (a cura di), Commentario alla Costituzione, Bologna-Roma, 1979; Uckmar, V., La potestà regolamentare in materia tributaria, in Studi in onore di Giannini, Milano, 1958, 929 ss.