Fonti di energia rinnovabili
La sfida tecnico-scientifica probabilmente più importante del 21° sec. risiede nel proposito di fornire energia all’umanità in modo sicuro, sostenibile e pulito: obiettivi quali la sicurezza della fornitura energetica, la salvaguardia ambientale e, in ultima analisi, la tutela della prosperità economica possono essere conseguiti esclusivamente affrontando il problema energetico globale in termini di sviluppo sostenibile. In questa prospettiva, per assicurare la domanda globale di energia in modo sostenibile, nei prossimi 15-20 anni dovrà avere luogo non soltanto un incremento dell’efficienza energetica unito allo sviluppo di nuovi metodi d’impiego delle fonti primarie di origine fossile oggi disponibili, ma soprattutto il ricorso a nuove fonti primarie neutre relativamente al bilancio del carbonio.
Affrontando un problema di natura energetica è bene quantificarne le dimensioni. Nel 2007 il fabbisogno energetico mondiale, relativo a una popolazione di circa 6,1 miliardi di persone, ammontava a circa 15,03 TW (1 TW=769 Mtep/anno), essendo au;mentato nel precedente quinquennio con una progressione di circa 0,25 TW/anno (IEA 2009). In senso assoluto, i consumi energetici sono proporzionali alla prosperità di un Paese, espressa dal suo PIL (Prodotto Interno Lordo; fig. 1). Se consideriamo legittima l’aspirazione alla prosperità, ne deriva che lo sviluppo richiede sempre maggiori quantità di energia. I consumi energetici pro capite annui riferiti al 2007 evidenziano notevoli disparità: un cittadino statunitense consuma energia per 10-11 kW, quello europeo per circa 7, mentre quello medio mondiale per circa 2,4. Per fornire un termine di paragone, una dieta alimentare ordinaria (ossia 2000 kcal/giorno) di un uomo corrisponde a 97 W, e da un punto di vista energetico è equivalente a circa una lampadina elettrica; pertanto i più o meno 15 TW del fabbisogno energetico mondiale equivalgono approssimativamente a 150 miliardi di lampadine.
Stime ragionevoli indicano che l’industrializzazione dei Paesi emergenti e l’incremento demografico spingeranno tale fabbisogno attorno ai 28 TW nel 2050; suddividendolo per una popolazione stimata per allora a 9,4 miliardi di persone (nell’ipotesi di un incremento annuo dello 0,9%), ne deriva un fabbisogno medio di 3 kW per persona, pari a circa il 28% dell’odierno fabbisogno pro capite di un cittadino statunitense (Lewis 2007; Smalley 2005). Naturalmente questo incremento non è equamente suddiviso tra i diversi Paesi. La domanda di nuova energia è sostenuta essenzialmente dalle grandi economie emergenti, quali la Cina e l’India, i cui PIL sono cresciuti, tra il 2000 e il 2009, a una media annua rispettivamente del 10,2% e del 6,4%. Le due linee verticali riportate nella figura 1 danno un’idea di quanto piccola sia la variazione stimata in termini di consumi energetici pro capite. Per tutti, la sfida è quella di crescere sia in efficienza energetica sia in produttività. In quest’ottica, quello delle forme di energia primaria di tipo rinnovabile sarà certamente un contributo determinante.
L’attuale fabbisogno energetico mondiale è in gran parte fornito dai combustibili fossili (carbone, petrolio e gas naturale), che nel 2007 soddisfacevano da soli l’86% della domanda energetica (fig. 2). Stime ragionevoli sulle loro riserve indicano che le fonti fossili non avrebbero difficoltà a provvedere alla domanda energetica anche in un arco temporale più esteso di quello preso in esame in questo contesto. Le riserve stimate, ai ritmi di consumo attuali, ammontano a circa 50 anni per il petrolio, 200 per il gas naturale e 1000 per il carbone. Tuttavia, per contrastare i probabili effetti climatici indotti dall’immissione nell’atmosfera del corrispondente quantitativo di gas serra, è auspicabile che gran parte del fabbisogno energetico aggiuntivo rispetto ai 15 TW venga soddisfatta ricorrendo alle cosiddette fonti energetiche rinnovabili, o che, in alternativa, siano possibili tecniche di sequestrazione stabile dell’anidride carbonica prodotta. Questa sfida è stata definita da Richard E. Smalley (premio Nobel 1996 per la chimica) terawatt challenge (Smalley 2005), espressione che identifica in modo incisivo la dimensione del problema da affrontare.
Sulla base delle conoscenze attuali sono considerate fonti energetiche rinnovabili il solare fotovoltaico, il solare termodinamico, la combustione di biomasse e lo sfruttamento delle risorse idroelettriche, eoliche e geotermiche. Nel prosieguo verranno esaminate e discusse le certezze e le prospettive di impiego di tali fonti, seguendo una successione che riflette l’evoluzione storica delle loro applicazioni. Innanzitutto però, è necessario precisare che sostanzialmente i consumi energetici sono, in prima approssimazione, pressoché equamente suddivisi tra i trasporti, la produzione di energia elettrica e la produzione del calore impiegato, per rispondere sia alle necessità industriali sia a quelle domestiche civili. In questo quadro, le fonti energetiche rinnovabili potranno avere in primo luogo un impatto diretto sulla produzione di energia elettrica, dato che al momento esistono modeste prospettive per una massiccia sostituzione dei derivati petroliferi nel campo dei trasporti, a meno che si verifichino significativi progressi nelle tecnologie concernenti le prestazioni delle batterie elettriche oppure dei sistemi di produzione e di immagazzinamento dell’idrogeno o della produzione di biocombustibili. In aggiunta, anche il fabbisogno di calore nei processi industriali, propriamente ad alta temperatura, non potrà essere agevolmente ed economicamente fornito per effetto Joule e quindi mediante elettricità (con la grande eccezione dei processi elettrometallurgici). Il fabbisogno di riscaldamento civile potrà, invece, essere soddisfatto in parte da energia elettrica e poi ricorrendo a sistemi geotermici di bassa entalpia o alla combustione di biomasse, con la riduzione quindi del ricorso ai combustibili fossili.
Infine, è bene evidenziare la generale discontinuità della fornitura di energia rinnovabile dovuta ai cicli naturali. Per questo motivo si usa differenziare il concetto di potenza installata o di picco (Wp) da quello di energia prodotta in un anno (W). La relazione esistente tra le due è stabilita dalle ore annue di funzionamento dell’impianto H, per cui W=Wp∙H, essendo H dipendente dal tipo di fonte considerata e dalla sua localizzazione geografica. Per es., in Italia, un impianto fotovoltaico funziona per circa 1600 h/anno.
L’analisi dei dati economici evidenzia che la quota di impiego di una fonte energetica è inversamente proporzionale al suo costo unitario (fig. 2). Molto importante, per capire la grande diffusione delle fonti fossili, è indicare la loro intensità energetica, un dato che fornisce il contenuto energetico per unità di massa: 33 MJ/kg per il carbone, 42 per la benzina; si tratta dunque di grandi quantità di energia in piccoli volumi, il che ne consente una distribuzione agevole. L’egemonia che nel panorama energetico mondiale hanno esercitato sino a ora i combustibili fossili è quindi giustificata. Occorre, inoltre, precisare che il costo delle materie prime (in questo caso della fonte di energia primaria) è indicativo soltanto per la generazione di calore. Qualora si analizzino energie di tipo secondario, devono essere calcolati anche i costi di trasformazione: per es., l’elettricità costa circa 5-7 volte la fonte primaria impiegata per la sua produzione. Infatti, il costo di un GJ di energia termica è pari rispettivamente a circa 2, 3 e 4 dollari, a seconda che sia prodotto da carbone, petrolio o biomasse. La corrispondente quantità di energia elettrica vale mediamente 14 dollari (corrispondenti a circa 0,06 dollari/kWh).
La possibilità di penetrazione delle fonti energetiche rinnovabili, senza incentivazioni di natura politica, dipende dalla loro disponibilità e dal loro costo, peraltro in continua evoluzione a causa del progresso tecnologico e dell’aumento dei volumi d’installazione. È necessario precisare che il costo di generazione abbinato alle energie rinnovabili è quasi del tutto dovuto all’ammortamento dei costi di investimento, poiché l’energia prima è gratuita e i costi di manutenzione sono solitamente limitati. Quindi, più che alla fotografia della situazione attuale, l’analisi delle diverse forme di energia rinnovabile deve essere condotta relativamente alle loro prospettive nel medio e nel lungo periodo, cioè nell’arco di 10-50 anni.
In tale contesto, l’Italia riveste un ruolo marginale. Il suo fabbisogno energetico globale ammontava nel 2007 a 0,25 TW (2% dei consumi mondiali), dei quali il 22% destinato alla mobilità, il 35% alla produzione di elettricità e il 43% al riscaldamento civile e industriale (ENEA 2009). Supponendo che abbia luogo una crescita media del PIL dell’1,2%, si può prevedere che nel 2050 il fabbisogno energetico italiano ammonterà a 0,42 TW (1,5% dei fabbisogni mondiali previsti). Sempre nel 2007, le energie rinnovabili contribuivano per 0,018 TW (7,1% del fabbisogno totale o 17,9% della quota elettrica). Se ipoteticamente l’eccesso di domanda energetica sopra stimato (ovvero 0,42−0,25TW=0,17 TW) venisse totalmente coperto con energie rinnovabili, la loro quota salirebbe al 45%. Più ragionevolmente, limitando la stima di penetrazione alla sola quota parte elettrica, esse potrebbero coprire il 18,6% del fabbisogno totale o il 52,6% della quota elettrica.
Energia idroelettrica
Storicamente, l’energia potenziale di gravità immagazzinata dall’acqua negli invasi è stata una delle prime fonti energetiche sfruttate per la produzione di energia elettrica, tanto che in origine l’industria elettrica nacque in pratica come industria idroelettrica. È stato stimato che introducendo sbarramenti su ogni fiume presente sulla Terra sarebbe possibile ottenere circa 4,6 TW, solo 1,5 dei quali, però, tecnicamente sfruttabili. La capacità produttiva installata è, nel 2007, di poco inferiore a 1 TW (Lewis 2007). Dal punto di vista tecnologico, non sono prevedibili significativi sviluppi: la conversione dell’energia del flusso di acqua in energia meccanica, e successivamente in elettricità, è una tecnologia oltremodo matura poiché sono note da più di un secolo le principali tipologie delle turbine, dalla classica Pelton usata per sistemi ad alta prevalenza, alle Kaplan assiali impiegate negli invasi ad alta portata, passando per le turbine Francis impiegate nei casi intermedi. Pertanto, non vi sono margini per sensibili miglioramenti: quelli meccanici sono volti all’impiego di pale a geometria variabile che si possano adattare a un regime di portata e prevalenza variabili. Il rendimento di una macchina idraulica varia generalmente tra il 65 e il 95%, in funzione delle condizioni operative.
In Italia, la fonte idroelettrica rappresentava nel 2007 la quota predominante delle energie rinnovabili (79%), contribuendo per 4,7 GW al fabbisogno energetico nazionale (ENEA 2009); ma, nonostante presenti costi unitari dell’energia prodotta tra i più bassi, non se ne può prevedere un sostanziale incremento, dato che il suo impiego è severamente limitato dalla carenza di risorse idriche e dal quadro normativo che impone il concetto del deflusso minimo vitale. Questa produzione di energia, pertanto, si mantiene sostanzialmente inalterata da circa 50 anni, anche se gli impianti sarebbero in grado di fornirne una quantità quasi doppia. Volendo spingere lo sfruttamento, tenendo conto dei limiti del territorio italiano (la cui potenzialità idroelettrica massima si aggira sui 7,4 GW) nonché degli aspetti legislativi, potrebbero essere recuperati al massimo circa altri 1÷2 GW su impianti dedicati alla microgenerazione. Più ragionevolmente, il recupero plausibile si aggirerà sul 20% di tale valore, ossia su 0,2÷0,5 GW. I costi di investimento unitari per il conseguimento degli obiettivi di potenza sopra riportati vengono, tuttavia, stimati crescenti, visti la progressiva marginalità delle iniziative e il carattere maturo della tecnologia.
Energia eolica
Il flusso energetico ϕ estraibile da una corrente eolica dipende dal cubo della velocità del vento u, attraverso la relazione ϕ=ηtot0,5ρu3, dove ρ e ηtot indicano, rispettivamente, la massa volumica dell’aria e il rendimento del mulino nella conversione dell’energia cinetica del vento in energia elettrica. Quindi, supponendo un rendimento unitario, da un vento che spiri a una velocità di 10 m/s è possibile ricavare un flusso energetico di 610 W/m2. Tutta questa potenza specifica però potrebbe essere estratta soltanto se il vento e di conseguenza il mulino stesso venissero completamente fermati. Il massimo teorico prevede una riduzione della velocità del vento del 36%, corrispondente a un rendimento massimo del 59%. Nella pratica operativa i mulini a vento moderni sono in grado di funzionare tra il 50% e il 70% di questo valore. Quindi, in definitiva, il rendimento meccanico di un mulino si aggira sul 30-40%. Per una valutazione complessiva si deve aggiungere il rendimento delle macchine elettriche per convertire l’energia meccanica in energia elettrica, che ammonta a circa il 90%. Si arriva quindi a un rendimento globale ηtot compreso tra il 27% e il 37%. Per calcolare le potenzialità di un sistema di produzione eolico, è necessario, infine, considerare che mediamente i rotori hanno un diametro di 50 m. Pertanto, se assoggettato a un vento di 10 m/s, un mulino è in grado di erogare in un anno, a seconda del suo rendimento complessivo, energia elettrica per 2968÷4156 MWh. In termini specifici, ciò corrisponde a un flusso energetico pari a circa 0,2 kW/m2 di superficie di rotore. Si tratta di un valore di tutto rispetto nell’ambito delle energie rinnovabili; ma poiché la superficie interessata è quella dei rotori e non quella del territorio sul quale sono posati i mulini, e poiché, inoltre, per evitare mutue interferenze, essi debbono essere localizzati ad almeno 10 diametri di distanza nella direzione del vento e di almeno 5 diametri nella direzione trasversale, il fattore di conversione tra l’area delle pale e quella del territorio è di circa l’1,6%. Quindi, con riferimento alla superficie terrestre e a venti dell’ordine di 10 m/s, il flusso energetico realmente disponibile si aggira tra 2,7 e 3,8 W/m2 di territorio.
Questi dati mostrano che la potenza ricavabile da un singolo mulino varia con il quadrato del suo diametro, ma quella che è possibile ricavare da un campo eolico risulta, in prima approssimazione, indipendente da tale valore. Installare mulini di diametro più ampio, all’atto pratico, implica distanziarli maggiormente l’uno dall’altro, poiché, per lavorare in modo efficiente, essi debbono operare in un fluido sostanzialmente imperturbato. Ciò non determina un cambiamento sostanziale del costo finale del MWh prodotto, considerato che il costo di un mulino varia con un esponente intorno a 0,8÷0,9 rispetto all’area del rotore. Tuttavia, un aumento delle dimensioni del rotore implica il raggiungimento di quote più elevate caratterizzate da venti di maggiore intensità. In questa prospettiva si inquadrano sia la tendenza a installare mulini di diametro maggiore di 100 m, sia l’importanza degli studi sul corretto posizionamento dei mulini in funzione dell’orografia del territorio.
Il potenziale mondiale delle installazioni eoliche è stato stimato in 2÷4 TW per le installazioni terrestri e in un’analoga quantità quelle off-shore. Queste ultime presentano, tuttavia, il problema del trasporto sulla terraferma di ingenti quantità di energia, per cui sono attualmente limitate a localizzazioni relativamente vicine alle coste. Dall’esame del potenziale eolico europeo, si rileva che i venti d’intensità maggiore sono localizzati sulle coste del Mare del Nord (fig. 3), con valori medi pari a quelli qui considerati come riferimento (10 m/s). Per quanto riguarda l’Italia, i venti medi a 50 m dal suolo sono sostanzialmente inferiori, con punte di 5 m/s sulle coste delle isole maggiori e sulla dorsale adriatica.
Questi dati indicano che tali installazioni sono redditizie soltanto in zone caratterizzate da un’ adeguata ventosità, fermo restando l’inconveniente dell’intermittenza della fornitura elettrica dovuta ai salti di vento. Per contro, il sistema da installare è relativamente semplice, e quindi i costi unitari dell’energia prodotta sono solitamente competitivi con quelli dell’energia ottenuta dalle fonti fossili, avvicinandosi a 50 euro/MWh: in particolare, sono pari a 66÷88 euro/MWh in Germania e a circa 130 in Italia, a fronte di una capacità installata (nel 2009) rispettivamente di 23 e di 4,9 GWp (ENEA 2009).
Energia geotermica
L’energia geotermica è l’energia associata al calore interno terrestre, e il suo flusso medio, indicato come flusso basale, è pari a 0,057 W/m2. Dato che la superficie terrestre misura 520 Tm2, la potenzialità geotermica della Terra equivale a 30 TW. Se si considerano unicamente le terre emerse (circa il 30% del totale della superficie), tale potenzialità si riduce a 9 TW (Lewis 2007; Smalley 2005). In realtà lo sfruttamento è localizzato nelle zone di forte anomalia, cioè con eccesso di flusso energetico rispetto al valore basale medio. Pertanto, un’anomalia di n=10 significa che in quel sito il flusso di energia è dieci volte superiore a quello medio. Questo fenomeno è sostanzialmente dovuto a una riduzione dello spessore della crosta terrestre nelle regioni tettonicamente attive.
Un impianto di generazione di energia elettrica per via geotermica è costituito da due sezioni. In quella fuori terra, del tutto analoga a una centrale termica convenzionale, il vapore prodotto nella caldaia geotermica è convertito in energia elettrica tramite un ciclo termodinamico (tipo Rankine o Kalina). I costi di questa sezione di impianto sono simili a quelli di una centrale termoelettrica di potenza analoga, dato che le principali apparecchiature (turbina, pompa e condensatore) sono le stesse. La differenza è tutta nella generazione del vapore, che in un impianto termoelettrico avviene in una caldaia mentre in uno geotermico si verifica in uno scambiatore che riceve il fluido caldo del circuito geotermico. La parte dal costo più oneroso è rappresentata dalle perforazioni realizzate per la ricerca del giacimento caldo. Tale costo dipende dalla profondità che è necessario raggiungere e dalla natura degli strati rocciosi da perforare. Occorre, infine, evidenziare il rischio minerario, ov;vero la probabilità che una perforazione non porti a raggiungere campi di temperatura di interesse per lo sfruttamento. Questo rischio è elevato qualora si esplorino aree mai studiate prima mediante perforazioni campione o precedenti installazioni.
Per valutare l’intensità energetica della fonte geotermica rispetto alla generazione di energia elettrica, bisogna puntualizzare che, se non si vuole perturbare il sistema, il flusso di calore estraibile dal sottosuolo deve equivalere a quello basale locale. Il rendimento ηtot del ciclo termodinamico di conversione del calore in elettricità dipende dal valore delle temperature assolute della sorgente Ts e del condensatore Tc. In prima approssimazione, esso può essere stimato prendendo come riferimento il rendimento del ciclo di Carnot ideale operante tra le due temperature precedentemente citate e correggendolo mediante un fattore che esprima l’efficienza del ciclo vapore utilizzato rispetto a quello ideale. Nella pratica, tale correzione si discosta poco dal 50% nell’intervallo di temperatura compreso tra 150 °C e 250 °C, quindi ηtot≈0,5(1−Tc/Ts). In tale intervallo, il rendimento globale varia tra il 12% e il 21%, e conseguentemente il flusso energetico, espresso in termini di energia elettrica prodotta, varia nell’intervallo ϕ=n(0,008÷0,015) W/m2. Pertanto, con un’anomalia di n=10 è possibile ottenere tra 0,08 e 0,15 W/m2 di estensione di giacimento.
L’energia geotermica è l’unica fonte rinnovabile che non risente dei cicli naturali, e quindi la sua fornitura può essere considerata continua. Pertanto, in questo caso, la potenza installata e quella prodotta coincidono.
Lo sfruttamento dell’energia geotermica avviene oggi sostanzialmente con procedimenti di tipo idrotermale, ovvero basati sull’impiego di sorgenti naturali di miscele di acqua e vapore ad alta temperatura (T>150÷200 °C). Si tratta quindi di una tecnologia nella quale ci si limita a praticare un foro in un acquifero idrotermale, il cui fluido caldo emerge conseguentemente in superficie per essere inviato in una turbina dopo essere stato purificato dai composti corrosivi e nocivi e dai detriti di roccia trascinati. Purtroppo, queste condizioni non sono così frequenti in natura, e pertanto tali sistemi risultano raramente sfruttabili. Diversa connotazione presenta la tecnologia HDR (Hot Dry Rock), in cui rocce secche calde sono irrorate con acqua per produrre vapore impiegato per muovere turbine o altre macchine termiche. Il ricorso a strati di rocce secche e calde è vantaggioso (pur se con alcune limitazioni, di cui si dirà poi), poiché questi sono più facili da localizzare dei giacimenti idrotermali. Infatti, in termini generali medi, la temperatura della Terra cresce di 30 °C ogni 1000 m di profondità. Pertanto, sempre in linea di principio, in un qualsiasi punto della crosta terrestre è possibile trovare rocce alla temperatura desiderata purché si raggiunga un’adeguata profondità. Quindi la tecnologia HDR consiste nella realizzazione almeno di un condotto di mandata (che invia il fluido freddo verso le rocce calde) e uno di ritorno (che raccoglie il fluido caldo; fig. 4). Per connettere le due perforazioni di mandata e di risalita, nonché per ottenere un’elevata superficie di scambio termico, è necessario realizzare un’adeguata frantumazione dello strato roccioso intermedio tramite l’impiego di esplosivi o di fluidi in pressione o di calore. Il controllo delle fessure originate dalla frantumazione della roccia non è però tale da garantire successivamente un ben definito percorso al fluido vettore termico, in questo caso sempre costituito da acqua sotto pressione, tra le perforazioni di mandata e di ritorno. Inoltre, tale cammino non è stabile nel tempo a causa della mobilità dei detriti di roccia trascinati dal moto del fluido che possono provocare l’occlusione del circuito idraulico precedentemente stabilito. Lo sfruttamento degli strati di rocce secche e calde con questa tecnologia è pertanto soggetto a rendimenti fortemente variabili, che possono pregiudicarne l’economia.
La prospettiva di sfruttamento del potenziale geotermico richiede allora la realizzazione di impianti a ciclo chiuso, i cosiddetti sistemi geotermici avanzati (enhanced geothermal systems). L’obiettivo di questi impianti di futura generazione è di realizzare un vero e proprio scambiatore di calore, caratterizzato da una rete di tubi di piccolo diametro in modo tale da produrre un’elevata superficie di scambio termico (fig. 4). La tecnologia attuale consente di realizzare tubi coassiali dove il fluido in pressione è iniettato nella corona circolare esterna e poi è raccolto in risalita dal tubo interno (Lund 2003). Teoricamente più efficace è la soluzione di realizzare uno scambiatore di calore multitubo posto alla giusta profondità. Tuttavia, quest’ultima soluzione presenta difficoltà di natura specificamente tecnologica, poiché le tecnologie di perforazione profonda non sono ancora in grado di realizzare tali sistemi. In particolare è critico il controllo della localizzazione istantanea della testa di perforazione durante la perforazione di rocce a elevata temperatura.
Nel 2007 nel mondo si producevano circa 9 GW elettrici da fonte geotermica di natura idrotermale. In Italia, dallo sfruttamento delle sorgenti idrotermali di Larderello (Livorno) si ricava energia elettrica per l’1,5% della quota parte elettrica (circa 0,6 GW nel 2007), con l’obiettivo di salire al 2% nel medio periodo. Una valutazione del notevole potenziale geotermico nazionale relativamente allo sfruttamento di rocce secche consente di determinare che nell’area dei Campi Flegrei (Napoli) e di Larderello si riscontrano anomalie dell’ordine di 100. Esiste, inoltre, la dorsale tirrenica sottomarina, dove i valori di anomalia superano 200, corrispondenti a flussi energetici dell’ordine di 5÷10 W/m2.
Per concludere l’analisi sulla fonte geotermica, è importante evidenziare il possibile contributo degli approcci a bassa entalpia. In essa si impiegano tutte quelle installazioni che consentono di ottenere un fluido intorno ai 70 °C, in modo tale da poter essere impiegato nel riscaldamento domestico o per scopi affini mediante, per es., la ben nota e ben sviluppata tecnologia delle pompe di calore. Si pensi che una città come Milano consuma l’equivalente di circa 1 GW per il suo riscaldamento e che gran parte di questa energia potrebbe essere recuperata sottraendo calore all’abbondante acqua di falda superficiale (raffreddandola di 1÷2 °C dai circa 15 °C originari), e nobilitandolo ai 70 °C desiderati tramite una pompa di calore, che sostanzialmente produce quattro volte la quantità di energia che consuma per il suo sostentamento. Anche in assenza di acqua di falda, per recuperare calore dal sottosuolo è sufficiente realizzare impianti analoghi a quelli previsti per la generazione elettrica, collocati però a limitate profondità. Tenendo conto della natura geologica italiana, sistemi di riscaldamento civile e industriale, basati sulle tecnologie della bassa entalpia, potrebbero essere realizzati praticamente in ogni luogo. Sono allo studio anche installazioni dal funzionamento dinamico della porzione più superficiale del sottosuolo, che prevedono il prelievo di calore dal sottosuolo nel ciclo invernale (ove è necessario ottenere il riscaldamento degli edifici) e che restituiscono calore al terreno nel ciclo estivo (ove è necessario realizzare il condizionamento degli edifici).
Prendendo in considerazione lo sviluppo di una tecnologia esportabile anche in realtà non idrotermali, lo sfruttamento dei giacimenti di rocce calde e secche sembra il più promettente, per quanto si vogliano perseguire ricerche sui sistemi di perforazione che consentano la realizzazione di impianti a ciclo chiuso dotati di elevata superficie di scambio. Infine, sarebbe conveniente puntare anche all’obiettivo minimo di incrementare notevolmente le installazioni in bassa entalpia per il riscaldamento di insediamenti civili e industriali. Queste prevedono il ricorso a tecnologie note e consolidate, e pertanto già oggi disponibili, per la realizzazione di impianti diffusi su tutto il territorio nazionale.
Energia solare
Tra le diverse forme di energia rinnovabile, sulla fonte solare sono focalizzate le maggiori aspettative per la soluzione dei problemi energetici; il Sole fornisce infatti al pianeta Terra una potenza energetica almeno 10.000 volte superiore a quella impiegata nelle varie attività umane. Inoltre, la cattura dell’energia solare offre diversi spunti verso soluzioni innovative che stimolano ricerche e sviluppi applicativi con notevoli ricadute economiche.
L’irraggiamento solare medio ϕ0 (costante solare) equivale a 1360 W/m2, e moltiplicato per la sezione terrestre (129 Tm2) fornisce 176.000 TW, il 30% dei quali è riflesso verso lo spazio siderale. Pertanto, in definitiva sono disponibili 120.000 TW, rispetto a circa 15 TW oggi richiesti dalle attività umane. Quindi il Sole è in grado di supplire a qualunque esigenza energetica terrestre, purché la conversione dell’energia radiante risulti tecnologicamente ed economicamente compatibile con lo sviluppo socio-economico del pianeta. In quest’ultimo ambito, l’efficienza η della conversione della radiazione in una forma di energia direttamente impiegabile per usi diversificati, quale quella elettrica, è uno tra i più importanti fattori da considerare, dato che esso determina la superficie da destinare alle centrali di produzione (solar farms). Tenendo in considerazione il fatto che comunque il flusso della radiazione incidente non ha un valore costante con la latitudine, e che è necessario mediare la durata del giorno con quella della notte lungo tutto l’arco dell’anno, si può attribuire al flusso radiante un valore medio ϕm di circa 200 W/m2 (183 W/m2 a Milano), per cui la potenza generabile Ė è legata alla superficie di dispositivo S dalla relazione Ė=ϕmS. Per soddisfare l’attuale fabbisogno energetico mondiale totale mediante dispositivi che abbiano un rendimento del 10%, è necessaria una superficie pari a quella di un quadrato di 800×800 km2, corrispondente a circa lo 0,2% della superficie terrestre. Traslando l’esempio sul caso italiano, un fabbisogno elettrico di 0,1 TW potrebbe essere soddisfatto compiutamente da solar farms con superficie totale di circa 70×70 km2 (1,6% del territorio nazionale). Se il rendimento fosse del 20%, tale superficie si ridurrebbe a 50×50 km2 (più o meno la provincia di Pavia). Da questi risultati appare quindi chiaro che il ricorso estensivo all’energia solare non è certo limitato da difficoltà territoriali, bensì da quelle che condizionano la disponibilità di dispositivi in grado di realizzare tale conversione a costi confrontabili con quello delle attuali fonti energetiche.
La cattura dell’energia solare può essere perseguita attraverso diversi approcci: la trasformazione di biomasse, il solare termico e il solare fotovoltaico.
Impiego delle biomasse
Questo metodo contempla lo sfruttamento della radiazione solare per la sintesi di composti chimici con elevato contenuto di energia libera e pertanto adeguati per la produzione di combustibili. È il procedimento adottato dalla natura nella fotosintesi, nella quale interviene l’interazione della luce con biomolecole massive di struttura proteica. Il cuore del fotosistema è la molecola della clorofilla α, che assorbe le radiazioni rosse e blu riflettendo quelle verdi, che conferiscono così il tipico colore agli organismi vegetali. In seguito all’assorbimento della luce, la clorofilla passa in uno stato energetico eccitato che la rende in grado di trasferire un elettrone in un’altra parte del complesso molecolare, fornendo così l’energia richiesta per l’insieme delle reazioni chimiche implicate nella sintesi dei carboidrati, che sono i principali costituenti degli organismi vegetali. Quindi, in definitiva, si tratta di coltivare piante (biomasse) per poi impiegarle quali combustibili. In quest’ottica, i combustibili fossili non sono altro che energia solare immagazzinata. Sfortunatamente questo processo è molto inefficiente, essendo caratterizzato da un rendimento globale pari a circa lo 0,3%, poiché tutti questi processi naturali sono molto lenti: mediamente un raccolto l’anno, e 10-15 anni per far crescere una foresta di conifere. Pertanto, per produrre 13 TW sarebbe necessario impiegare 26 Tm2, corrispondenti a circa il 20% del totale delle terre emerse. Per contestualizzare questo dato, lo si può confrontare con l’energia complessiva necessaria al sostentamento della totalità delle forme di vita sulla Terra, corrispondente a circa 90 TW (Smalley 2005). In termini di produzione di calore (l’uso principale delle biomasse), l’intensità energetica è dunque pari a circa 0,6 W/m2 di coltivazione dedicata. Relativamente alla produzione di energia elettrica, tenendo conto che possono essere realizzati cicli termodinamici ad alta temperatura con rendimenti del 40-45%, l’intensità energetica si riduce a 0,24÷0,27 W/m2.
Le biomasse contribuiscono al bilancio energetico mondiale per circa il 10% (approssimativamente 1,5 TW). Il loro impiego è fortemente disomogeneo: esse costituiscono il 40% dell’approvvigionamento primario in Africa e il 3-4% nei Paesi industrializzati; mentre nel resto del mondo sono destinate generalmente alle esigenze del settore domestico, in questi ultimi trovano impiego nel settore industriale, sia per la generazione elettrica (alla quale si dedicano sostanzialmente gli scarti delle lavorazioni lignee e i sottoprodotti agricoli) sia per quella di biocarburanti.
Tradizionalmente, per la generazione elettrica le biomasse costituiscono la carica con cui si alimenta la caldaia di un ciclo a vapore, solitamente di tipo Rankine. Dato che la potenza della centrale è limitata dal bacino di raccolta della biomassa, questi impianti sono generalmente di piccole dimensioni (dell’ordine di 1÷3 MW). Alternativamente, le biomasse costituiscono la carica di supporto che affianca i combustibili fossili tradizionali. Occorre precisare che i fumi prodotti dalla combustione delle biomasse sono più inquinanti di quelli prodotti dai combustibili fossili ordinari e, pertanto, prima di poter essere rilasciati nell’atmosfera, richiedono impianti di trattamento più complessi che incidono sui costi finali. Per questo motivo sono allo studio impianti di gassificazione, il cui scopo è quello di convertire la biomassa in gas di sintesi (una miscela di idrogeno e ossido di carbonio), dal quale poi ricavare l’idrogeno purificato per alimentare, per es., pile a combustibile. I costi di questo processo (circa 100-150 dollari/MWh), ovviamente più complesso, non sono però oggi competitivi con quelli della semplice combustione, che si aggirano sui 50 dollari/MWh. Un’alternativa alla gassificazione è costituita dalla pirolisi, un processo anaerobico ad alta temperatura che permette di convertire la biomassa in un liquido idrocarburico, caratterizzato da una densità energetica circa 7 volte quella della biomassa di partenza. Il grezzo di pirolisi deve, tuttavia, essere sottoposto a processi di raffinazione prima di essere impiegato.
Più innovativa risulta la produzione di biocarburanti a partire da fonti vegetali, quali il bioetanolo e il biodiesel, ottenuti, rispettivamente, tramite la fermentazione alcolica degli zuccheri e la transesterificazione di oli vegetali. Per alimentare questi processi sono sfruttate biomasse espressamente coltivate a tale scopo, ma sono allo studio processi che impieghino direttamente sostanze ligno-cellulosiche o che ricorrano alla coltivazione di alghe, così da non interferire con i mercati alimentari. Il vantaggio dei biocarburanti risiede nel fatto che possono essere impiegati direttamente nei trasporti, senza modifiche essenziali della presente tecnologia dei motori endotermici.
Quello dei biocarburanti è in ogni modo un mercato di nicchia, e nel 2005 copriva meno del 2% dei consumi del settore dei trasporti. Poiché i costi industriali di produzione non renderebbero i biocarburanti competitivi rispetto ai corrispondenti derivati di petroliferi di origine fossile, sono stati adottati piani per incentivarne l’uso tramite agevolazioni fiscali: sulla base di questi piani, per es., l’Unione Europea prevedeva di passare al 5,75% nel 2010 e al 10% nel 2020, e gli Stati Uniti al 20% nel 2030. Tali previsioni si stanno però dimostrando ottimistiche: nell’Unione Europea, per es., nel 2010 la penetrazione dei biocarburanti non ha superato il 3,5%.
Il bioetanolo, che ha caratteristiche affini a quelle della benzina, copre circa il 3% del mercato di quest’ultima, ed è prodotto essenzialmente in Brasile (partendo da zuccheri) e negli Stai Uniti (partendo da amidi di mais). Nell’impiego del bioetanolo, puro o miscelato con la benzina, è critica la conservazione, per la tendenza di questa sostanza ad assorbire acqua, con conseguenti riflessi negativi sulle prestazioni dei motori. Questi problemi non sono presenti nel biodiesel, che è commercializzato soprattutto in Europa. La produzione di biodiesel è perseguita tramite una reazione di conduzione relativamente semplice (trans;esterificazione degli oli vegetali ottenuti per spremitura di semi oleosi). La reazione presenta il problema della gestione di un suo sottoprodotto, la glicerina, che dev’essere raffinata e purificata prima di poterla destinare ai settori cosmetico e farmaceutico; tuttavia, con l’incremento dei volumi di produzione del biodiesel, questi settori non sono più in grado di assorbirne la quantità generata, tanto che si pensa a una sua utilizzazione quale combustibile povero. Per risolvere questa difficoltà sono stati recentemente introdotti processi di idrogenazione degli oli vegetali che non producono glicerina quale sottoprodotto, mediante la tecnologia Ecofining sviluppata congiuntamente dall’italiana ENI (Ente Nazionale Idrocarburi) e dalla statunitense UOP (Universal Oil Products).
Oltre all’aspetto dei costi industriali, il problema principale dei biocarburanti consiste nella limitata disponibilità di materie prime, che non consente gli aumenti di produzione auspicati, a meno di non intaccare le aree agricole destinate alle produzioni alimentari. Pertanto, le nuove tendenze prevedono il ricorso a oli vegetali (nel caso del biodiesel) o ad amidi (nel caso del bioetanolo) ricavati da alghe marine o lacustri, che presentino alte velocità di crescita e che siano notevolmente ricche nel costituente d’interesse (olio o amido). Solitamente si tratta di microalghe superficiali trasparenti alla luce (uno dei problemi della coltivazione delle alghe è quello di sottrarre la luce alle specie viventi sottolacustri), che consentono di aumentare la produttività anche di 50 volte rispetto alle materie prime tradizionali.
In prospettiva, il settore dei biocarburanti potrà trovare giovamento dalle ricerche attualmente in corso nell’ingegneria genetica, dove sono allo studio microrganismi geneticamente modificati per migliorare i processi di fermentazione o biomasse arricchite nel costituente d’interesse.
In questo ambito si possono includere anche tutti quegli studi volti a ricreare un approccio fotosintetico artificiale dove, prendendo esempio dalla natura, si rompono dei legami chimici, acquisendo energia dal Sole, per produrre dei combustibili, con l’obiettivo di incrementare le basse efficienze del processo naturale. Lo stadio fondamentale di un processo fotosintetico è la conversione della radiazione solare in una fotocorrente elettrica. Nel processo naturale la carica anodica della fotocorrente è usata per ossidare l’acqua a ossigeno con il concomitante rilascio di 4 protoni, catturati poi dalla parte catodica della fotocorrente, la quale li riduce, immagazzinandoli nella trasformazione del complesso NADP in NADPH (rispettivamente forma ossidata e ridotta della nicotinammide-adenina-dinucleotide-fosfato). In definitiva, il processo naturale usa la luce per riarrangiare i legami dell’acqua a formare ossigeno e idrogeno. Un sistema fotosintetico artificiale può essere, quindi, realizzato separando spazialmente i due atti dell’elettrolisi dell’acqua, mediante un sistema di separazione di carica connesso al collettore di radiazione solare (fig. 5). La separazione di carica può essere ottenuta con un’opportuna giunzione a stato solido, realizzata in materiale semiconduttore. Il processo viene, quindi, compiuto in un dispositivo simile a una cella elettrolitica, il cui anodo è costituito da un opportuno semiconduttore che deve presentare, al contatto con l’acqua, una differenza di energia potenziale corrispondente a quella richiesta per dare luogo, dopo fotoeccitazione, alla scissione dell’acqua stessa. Così facendo, in prospettiva si potrebbero realizzare efficienze superiori a quella del processo fotosintetico naturale. Alcuni semiconduttori a base di ossidi (quali il biossido di titanio), pur rimanendo stabili al contatto con l’acqua, presentano un’energia di fotoeccitazione troppo elevata, per cui sono necessari additivi di fotosensibilizzazione, mentre quelli classici, quali l’arseniuro di gallio e il fosfuro di indio, soddisfano tale requisito ma sono instabili al contatto con gli elettroliti.
Solare termodinamico
In questo approccio, l’energia della radiazione è direttamente convertita in calore, impiegato per azionare un convertitore termomeccanico e produrre elettricità. Il cuore di questi impianti è un collettore con la forma, per es., di un disco o di un incavo a struttura parabolica, per concentrare la radiazione su un punto o su una linea. Le ulteriori unità sono un ricevitore per il suo assorbimento, un dispositivo per l’immagazzinamento dell’energia termica e, infine, un convertitore per trasformarla in elettricità. Quindi, il rendimento di questi impianti dipende dall’efficienza ηott della parte ottica (sistema specchio/collettore) e dal rendimento ηc del ciclo termodinamico successivamente impiegato per la conversione del calore in energia elettrica. Tenendo conto delle temperature massime possibili nel collettore (circa 500 °C) e della temperatura di esercizio inferiore del ciclo (circa 30 °C), il rendimento di un ottimo ciclo Rankine si aggira sul 45%, mentre quello del sistema ottico può essere stimato ottimisticamente del 90%. In definitiva si può arrivare ragionevolmente a un rendimento massimo complessivo ηtot=ηcηott del 40%, che porta a un’intensità energetica di circa 80 W/m2. Pertanto, nell’insieme si tratta di dispositivi efficienti, anche se permangono incertezze sulla loro durata e affidabilità. Infatti, il collettore deve essere attraversato da un fluido in grado di raggiungere temperature elevate, dell’ordine dei 500 °C, in modo da aumentare la resa del ciclo vapore impiegato per la conversione dell’energia termica in energia elettrica, e con elevata capacità termica, così da poter immagazzinare il calore a esso ceduto per un tempo relativamente lungo (dell’ordine delle 24 ore). Tali fluidi sono costituiti da sali alcalini fusi (quali miscele di nitriti e nitrati di sodio e potassio) caratterizzati però da un comportamento fortemente corrosivo. Per evitare la loro solidificazione, in caso di fermata dell’impianto debbono essere mantenuti a una temperatura superiore ai 210 °C, con la necessità, quindi, di predisporre l’isolamento dei condotti e delle apparecchiature ausiliarie di riscaldamento, il che aumenta notevolmente i costi di impianto. Infine, per quanto riguarda la superficie richiesta, per produrre circa 0,1 TW del fabbisogno elettrico nazionale sarebbero necessari 35×35 km2. Apparentemente questo valore sembrerebbe vantaggioso, ma occorre precisare che tale superficie dev’essere ricoperta con specchi accuratamente sagomati e dotati di sistemi di puntamento automatico per seguire l’evoluzione temporale della posizione del Sole. Si tratta pertanto di un sistema che richiede una gestione delicata per la presenza di parti meccaniche in movimento. Non ultimo, si deve considerare il problema di dover utilizzare acqua purificata in grandi quantità per la gestione del ciclo termico. Infatti, la produzione di energia elettrica che ha luogo a valle della caldaia solare risulta analoga a quella di una centrale termoelettrica alimentata a combustibili fossili.
Analogamente a quanto visto per la fonte geotermica, è utile analizzare anche i sistemi a bassa temperatura. Infatti, il modo più semplice per utilizzare l’energia solare è quello di convertirla in energia termica. Nei sistemi a bassa temperatura lo scopo è captare e trasferire energia solare per produrre acqua calda o riscaldare gli edifici. In tale denominazione rientrano fluidi scaldati al di sotto di 100 °C. Si tratta dei classici collettori solari installati solitamente sui tetti delle abitazioni. Le installazioni di questo tipo in Italia superano 0,08 GW termici, con un tasso di crescita di 0,02 MW termici all’anno. Nel complesso si tratta quindi di impianti marginali, che soffrono pesantemente della concorrenza dei sistemi fotovoltaici.
Solare fotovoltaico
L’approccio solare elettrico è quello che appare più promettente, e la sua applicazione più comune si attua nelle celle fotovoltaiche, nelle quali la superficie di un materiale semiconduttore, in cui è presente una giunzione p-n ottenuta per drogaggio, viene esposta alle radiazioni luminose.
Il principio di funzionamento della conversione fotovoltaica è il seguente. I fotoni incidenti con energia Δε=hν (essendo ν la loro frequenza e h la costante di Planck) eccitano un elettrone dalla banda di valenza a quella di conduzione, lasciando una lacuna elettronica (fig. 6). La coppia si separa in corrispondenza della giunzione per effetto del campo elettrico che guida gli elettroni nella regione n e le cavità nella regione p, attraverso un movimento (deriva o drift) cui si contrappone la diffusione che tende a ripristinare la situazione iniziale. L’efficienza delle celle fotovoltaiche è pertanto determinata dalla capacità degli elettroni di sfuggire dalla regione p prima di ricombinarsi con le cavità. Le interfacce sono importanti, ma gli eventi principali della fotogenerazione riguardanti la separazione e la ricombinazione dei trasportatori di carica avvengono nel materiale massivo del semiconduttore, le cui caratteristiche chimico-fisiche, in particolare l’energia che separa le due bande (band gap), risultano fondamentali per un funzionamento ottimale delle celle. In sostanza, l’energia della radiazione è convertita in energia elettrica alla giunzione, e l’intensità della corrente che fluisce nel circuito elettrico è espressa dalla differenza fra la velocità di formazione delle coppie elettrone-cavità diminuita da quella della loro ricombinazione attraverso processi non radiativi e radiativi, che dipendono entrambi dalla differenza di potenziale che si istituisce fra i terminali connessi con le regioni p e n. Dato che lo spettro solare copre tutte le lunghezze d’onda dall’infrarosso all’ultravioletto, con un massimo in corrispondenza delle lunghezze del giallo-verde, semiconduttori che presentino band gap in questo intervallo di energia possono portare a efficienze superiori di cattura della radiazione e di conversione in elettricità.
I fattori di costo del semiconduttore e di processo (ossia della serie di operazioni necessarie per produrre la cella fotovoltaica) sono però anch’essi determinanti nel successo della tecnologia di conversione. Infatti, sfruttando le sinergie con l’industria microelettronica, il materiale attualmente di gran lunga più impiegato nella costruzione delle celle è il silicio. La tecnologia di cella che impiega come materiale il silicio cristallino (monocristallino, policristallino massivo o nastro policristallino) nel 2005 copriva circa il 96% del mercato (fig. 7), con prevalenza (56%) per la tecnologia basata su quello policristallino. L’incremento del costo del silicio policristallino a purezza elettronica (passato nel periodo 2004-2008 dai circa 40 ai circa 200 dollari/kg), dovuto appunto all’aumento del suo impiego nel settore solare, i cui volumi ormai superano ampiamente quelli del comparto elettronico, ha indotto la ricerca di sistemi alternativi basati sulle tecnologie a film sottile. Tale incremento di prezzo è stato dovuto non alla mancanza di silicio (elemento che costituisce circa il 28% della crosta terrestre, ed è quindi secondo solo all’ossigeno), ma alla saturazione delle capacità produttive delle cinque aziende che detenevano circa il 90% del mercato del silicio iperpuro (Hemlock, Tukuyama, Wacker, REC e MEMC), originariamente dotate di una capacità produttiva di circa 30.000 t/anno. La messa in produzione di nuovi impianti, da parte delle aziende sopra menzionate e di nuovi produttori asiatici, ha portato nel 2009 a una capacità produttiva di circa 250.000 t/anno, che di fatto ha riportato i prezzi a livelli analoghi a quelli dell’anno 2000, se non inferiori.
Tra le tecnologie a film sottile, che depositano uno strato sottile di materiale semiconduttore su un substrato a basso costo quale il vetro, la più importante è quella che ricorre a depositi di silicio amorfo, che attualmente copre circa il 5% del mercato delle celle installate. In alternativa all’impiego di silicio, l’attenzione è ora volta alla preparazione di materiali semiconduttori a base di composti policristallini, che sembrano offrire una valida opzione per ridurre i costi in quanto possono essere ottenuti con processi relativamente semplici, che promettono efficienze elevate. In questo quadro, sono materiali interessanti il seleniuro di indio e rame (CuInSe2-CIS) e il tellururo di cadmio (CdTe), mentre l’arseniuro di gallio (GaAs) permette di realizzare celle molto stabili e con efficienza elevata, ma costose, sia per i materiali impiegati sia per il metodo di preparazione che coinvolge reagenti metallorganici e reattori a bassa pressione. Al momento, però, queste tecnologie sono ampiamente marginali, con quote di mercato globali inferiori al 2%, comprendendo in questa cifra anche le celle multigiunzione ad alta efficienza (dell’ordine del 40%), mutuate dalla tecnologia spaziale (celle basate su arseniuro di gallio e indio, InGaAs). Con ritmi di crescita del mercato del fotovoltaico superiori al 50% annuo (nel 2007 la crescita delle installazioni fotovoltaiche è stata addirittura del 60%), è prevedibile, tuttavia con livello di certezza molto variabile tra gli operatori, che la globalità delle tecnologie a base di film sottili possa raggiungere, entro il 2015, una penetrazione del 12%. Come mostrato dalla figura 7, oltre questa data inizieranno ad avere una diffusione di mercato anche celle basate su nuovi concetti, come quelle descritte in seguito (dye sensitized solar cells, o a base polimerica). Nel complesso è prevedibile per i prossimi 20 anni una penetrazione totale delle nuove tecnologie dell’ordine del 20-30%.
Nei limiti di efficienza teoricamente raggiungibili mediante celle di configurazione tradizionale (ossia a singola giunzione p-n e cella funzionante senza concentrazione della radiazione solare), supponendo che ogni fotone incidente ecciti una sola coppia elettrone-cavità e che l’energia in eccesso a quella richiesta per creare la coppia venga dissipata per rilassamento termico, il valore limite dell’efficienza della cella presenta una distribuzione a campana in funzione del parametro Δε/TskB, dove kB è la costante di Boltzmann e Ts la temperatura del corpo nero al quale il Sole può essere assimilato (Ts=6000 K). Il massimo della curva corrisponde a un’efficienza del 45% in corrispondenza di Δε/TskB=2. Penalizzando questo risultato per l’incidenza dei processi di ricombinazione delle coppie attraverso transizioni radiative e termiche, si dimostra allora che il limite di efficienza viene ridotto al valore 31%. Questo risultato teorico è confermato dai dati sperimentali di efficienza massima in celle a singola giunzione, realizzate con diversi semiconduttori quali il silicio monocristallino, policristallino e amorfo o l’arseniuro di gallio, i cui valori sono, rispettivamente, 25%, 10%, 7% e 25%. Violando le ipotesi alla base del modello (singola giunzione, assenza di concentrazione della radiazione), si intravedono diversi approcci innovativi, che verranno singolarmente considerati. Oggi, la ricerca più avanzata nel comparto fotovoltaico è tutta volta sia al superamento dei limiti di efficienza precedentemente indicati sia alla drastica riduzione dei costi di cella, così da rendere il solare fotovoltaico competitivo con la generazione da fonti fossili.
Celle solari a giunzioni multiple. La presenza di una sola giunzione limita severamente il rendimento di una cella fotovoltaica, perché parte dell’energia delle radiazioni non è assorbita o è termalizzata poiché contribuisce ad aumentare le vibrazioni del cristallo disperdendosi quindi in calore. Per limitare questi processi, si possono costruire celle a materiali multipli, meno trasparenti del silicio e quindi in grado di assorbire una quantità maggiore di energia, e con gap energetico calibrato sulle zone più intense dello spettro solare. I materiali candidati per la fabbricazione di tali celle sono semiconduttori composti da elementi dei gruppi III (gallio, indio) e V (arsenico, azoto, fosforo) del sistema periodico, di cui sono noti processi di fabbricazione in grado di realizzare materiali di ottima qualità con alti coefficienti di assorbimento e con gap energetici capaci di coprire l’intero intervallo spettrale. Le celle sono costruite impilandoli in modo tale da dare origine a strutture a strati ai cui contatti si formano le giunzioni n-p. Per es., dispositivi con contatti del tipo GaInP/GaInAs/Ge hanno raggiunto rendimenti che superano il 40%, risvegliando pertanto l’interesse di diversi operatori. Sono solitamente celle in uso nella tecnologia spaziale, sinora non impiegate sulla Terra per il loro costo elevato. Tuttavia, pensando di accoppiarle a sistemi di concentrazione (funzionamento a 50-1000 soli, ossia con un flusso di radiazione uguale a 50-1000 volte quello naturale), è doveroso contemplarle in un’analisi di tipo economico-tecnico. Ovviamente, per l’impiego dei sistemi a concentrazione valgono tutti i limiti evidenziati per il solare termodinamico circa la delicatezza dei sistemi di concentrazione stessi più che delle celle fotovoltaiche vere e proprie. Per fornire elementi di confronto, si tenga conto che, a parità di potenza prodotta, il rapporto tra le superfici di cella a concentrazione Sc e a un sole S1 dipende dal rapporto tra le efficienze diviso per il fattore di moltiplicazione della radiazione σ, Sc/S1=η1/ηcσ, che quindi assume valori molto inferiori all’unità. Il rapporto tra le efficienze regola anche il rapporto tra la superficie degli specchi SS e quella di cella a un sole, SS/S1=η1/ηc, che è comunque anch’esso inferiore all’unità (dell’ordine di 0,25). I calcoli economici evidenziano che queste celle ad alta efficienza sono competitive, rispetto a pannelli in silicio operanti a un sole, in sistemi a concentrazione con fattore di moltiplicazione superiore a 400 soli.
Moltiplicazione dei trasportatori. L’approccio è quello di costruire celle usando materiali nei quali l’energia assorbita diversa da Δε non venga dissipata in calore, utilizzando materiali semiconduttori con una struttura a bande altamente quantizzata per la presenza di punti quantici (quantum-dots) e di buche quantiche (quantum-wells), come proposto nel 1997 dal chimico Arthur J. Nozik dell’NREL (National Renewable Energy Laboratory), che fa parte del Dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti. Un’analisi teorica approfondita dei meccanismi di assorbimento della radiazione ha permesso di evidenziare che l’efficienza di conversione dei fotoni aumenta in seguito alla produzione di stati eccitati multipli da un singolo fotone dotati di energia sufficientemente elevata. A loro volta, le bande intermedie contribuiscono a creare coppie elettrone-cavità. Si rendono così possibili diverse transizioni elettroniche in grado di catturare l’energia distribuita nelle diverse frequenze dello spettro solare, impedendo che venga sottratta dal processo di termalizzazione. I calcoli teorici dimostrano che con questo approccio si possono raggiungere efficienze dell’ordine del 60%. Le indagini sperimentali hanno confermato la presenza di tali effetti in particolari materiali contenenti quantum dots di PbSe, PbS, PbTe e CdSe, nei quali hanno luogo eccitazioni multiple comprese tra 3 e 7, aprendo così una linea di indagine di notevole interesse.
Celle in materiali organici. I crescenti sviluppi nell’impiego di materiali organici per la fabbricazione di dispositivi quali, per es., i diodi emettitori di luce (LED, Ligth Emitting Diode), ha indotto la loro applicazione anche per la costruzione di celle solari. La prospettiva è allettante, poiché tali materiali posseggono elevati coefficienti di assorbimento ottico, e inoltre possono risultare meno costosi dei corrispondenti materiali inorganici. Un requisito indispensabile per poterli applicare con profitto è ovviamente la stabilità. La loro fabbricazione può fruire della larga esperienza maturata nel settore della chimica organica sintetica, grazie alla quale si possono produrre molecole con proprietà elettroniche opportunamente progettate. Esse dipendono dalla presenza di sistemi coniugati di elettroni (detti π), dall’energia dei corrispondenti orbitali molecolari e dalle interazioni che si manifestano fra le diverse molecole. Infatti, il meccanismo alla base del loro comportamento ottico ed elettronico è determinato da quello degli elettroni che occupano l’orbitale molecolare a più alta energia (HOMO, Highest Occupied Molecular Orbital), e da quello dell’orbitale libero a più bassa energia (LUMO, Lowest Unoccupied Molecular Orbital). Se il processo di eccitazione di un elettrone ha luogo su un LUMO delocalizzato nella molecola, l’elettrone acquista mobilità e il materiale si comporta come un semiconduttore. Quando due materiali con tali caratteristiche vengono messi a contatto, uno di essi può agire da accettore, se tende a ospitare in un orbitale LUMO un elettrone proveniente dall’altro materiale, o da donatore se tende a cedere un elettrone da un orbitale HOMO; pertanto la loro zona di contatto agisce come la giunzione di una cella fotovoltaica. Considerando le formule chimiche di alcune molecole che si comportano da donatori o da accettori, è interessante evidenziare che quelle di quest’ultimo tipo contengono il caratteristico radicale della molecola del fullerene, che sta trovando in questa prospettiva una promettente applicazione. In realtà, il meccanismo di eccitazione dei semiconduttori organici è più complesso di quello descritto, ed è completamente diverso da quello che si verifica nei semiconduttori inorganici. Infatti, l’assorbimento della luce non porta direttamente alla formazione della coppia elettrone-cavità: si forma uno stato eccitato mobile, chiamato eccitone, che migra sino a raggiungere la superficie di separazione fra i due materiali, dove ha luogo la separazione dell’elettrone dalla cavità. Per questa ragione le celle vengono chiamate XSC (eXcitonic Solar Cells). Le efficienze oggi raggiunte per le celle a eterogiunzione realizzate in materiale polimerico sono dell’ordine del 6,5%.
Confronto fra le tecnologie fotovoltaiche. Per poter fare un confronto tra le prospettive di sviluppo delle diverse tecnologie fotovoltaiche precedentemente descritte, è opportuno fare riferimento, in primo luogo, alle loro efficienze (fig. 8). Alla scala di laboratorio, le celle multigiunzione a concentrazione raggiungono ormai efficienze del 40%, quelle a base di silicio monocristallino, policristallino e amorfo rispettivamente del 25%, 20% e 12%, quelle a base di CIS del 18%, quelle a base di CdTe del 16%, quelle a base organica del 6%. In realtà nel passaggio al pannello commerciale si riscontra una perdita media di efficienza di circa il 30-40%, che riflette complicazioni quali la difficoltà di ottenere materiale di elevata qualità su grandi superfici, la variazione delle condizioni d’insolazione, lo stato di pulizia delle celle, le resistenze elettriche di sistema e così via.
L’efficienza però non è l’unico parametro per stabilire la forza di penetrazione di una tecnologia nel mercato. Più importante è il suo costo, solitamente espresso in funzione della potenza massima che è possibile ottenere dal dispositivo in piena insolazione o di picco (euro/Wp), che si riflette poi sul prezzo unitario finale (euro/kWh). Quest’ultimo parametro è nella sostanza quello che oggi stabilisce la ripartizione sul mercato delle varie tecnologie. Per es., la tecnologia del silicio policristallino attualmente dominante ha il vantaggio della semplicità di processo, poiché comporta unicamente la solidificazione in maniera controllata di circa 300 kg di silicio fuso in crogioli dalla forma prismatica. Successivamente, dai lingotti ottenuti si ricavano per taglio a filo la base delle celle, sulla quale si realizza poi il drogaggio per diffusione. Questa tecnologia è però costosa dal punto di vista energetico (circa 100 kWh/kg di Si), poiché coinvolge processi di fusione. Considerando la globalità dei processi coinvolti nella produzione di un pannello, i costi energetici totali ammontano a circa 400 kWh/m2. Tenendo conto che il risultato commerciale di un pannello ammonta a circa 150 kWh/m2/anno, ne consegue che il tempo di recupero dell’energia (EPBT, Energy PayBack Time) corrisponde a circa 2,5 anni, ed è quindi molto inferiore al tempo di vita dei pannelli, che si aggira sui 25 anni. La tecnologia a film sottile appare sicuramente più favorevole per quanto concerne la richiesta di energia per la produzione dei pannelli (si stima di un 50% inferiore), che però è compensata da una minore efficienza e da una minore durata del pannello stesso. La penetrazione nel mercato delle tecnologie a film sottile è definita anche da altri fattori. Per es., la disponibilità dell’indio è fortemente limitata (meno di una parte per milione della crosta terrestre); questo vincolo pone il tetto massimo della tecnologia di celle CIS a circa 1 GW. Inoltre l’indio è un costituente importante (per la costruzione di elettrodi trasparenti) della tecnologia dei display a cristalli liquidi LCD, ai quali è destinata in sostanza la totalità della produzione. Le celle a base di CdTe si scontrano invece con i problemi dell’elevata tossicità del cadmio e con la mancanza di un’adeguata tecnologia per produrle in volumi elevati. La tecnologia a base di silicio amorfo, come già detto, sconta i problemi delle basse efficienze e delle limitate durate in esercizio.
Dalla panoramica sulla maturità delle diverse tecnologie appare chiaro che quelle già oggi mature per la produzione industriale saranno le tecnologie che domineranno il mercato nella seconda metà del 21° secolo. Nel periodo più vicino a noi, ossia nel prossimo decennio, il mercato delle celle fotovoltaiche sarà ancora dominato dal silicio (fig. 9). In termini economici, le ragioni che limitano il ricorso alle tecnologie alternative sono le seguenti: a) inizialmente le nuove tecnologie presentano alti costi e scarsi volumi di produzione; b) le grandi compagnie sono poco propense ad affrontare l’innovazione; c) gli investitori sono ancora delusi per lo scarso successo avuto dalla tecnologia a base di film di silicio amorfo; d) il successo della tecnologia a base di silicio cristallino (mono- e/o poli-cristallino) rallenta la necessità d’introdurre nuove tecnologie; e) la costante riduzione dei costi della tecnologia a silicio cristallino comprime sempre più i margini possibili per le nuove tecnologie.
Il motivo che ostacola attualmente l’applicazione della tecnologia fotovoltaica, indipendentemente da quale cella si voglia realizzare, è il suo costo che, per la tecnologia dominante a base di silicio policristallino, nel 2007 si aggirava sui 3 dollari/Wp e all’inizio del 2010 era diminuito di quasi la metà (1,6 dollari/Wp). La diminuzione dei costi di cella segue le leggi delle economie di scala, e quindi si adegua all’incremento delle installazioni (circa 0,049 dollari/Wp ogni GW di potenza installato). Seguendo la progressione storica dal 2002, con una crescita (conservativa) del mercato del 32% all’anno, è prevedibile che intorno al 2015-2020 si raggiungano costi di cella dell’ordine di 1 dollaro/Wp, quindi in grado di competere con il costo dell’energia elettrica distribuita negli Stati Uniti (Swanson 2006). In Paesi che hanno costi dell’energia circa doppi (Giappone, Unione Europea), la generazione fotovoltaica potrà già essere competitiva con i costi all’utente già intorno al 2015. Questo obiettivo è molto importante, perché a quel punto la tecnologia fotovoltaica sarà in grado di autosostenersi, e i governi potranno rinunciare alle politiche di incentivazione promosse per la fase di lancio della tecnologia stessa. La strada per raggiungere prezzi competitivi con la produzione intensiva di energia da fonti fossili (grandi centrali) è invece ancora lunga (nelle più favorevoli previsioni, alla metà del 21° sec.), poiché comporta una riduzione di costo di circa 2,5 volte rispetto ai valori del 2009.
Conclusioni
Le energie rinnovabili hanno avuto un significativo incremento nel periodo compreso tra il 1990 e il 2010, poiché offrono diversi vantaggi rispetto a quelle di origine fossile: a) impiegano fonti disponibili localmente (il Sole, la biomassa, la geotermia, l’idrologia); b) riducono la necessità di importare fonti fossili in regioni che ne sono prive; c) aumentano la sicurezza energetica, dato che diversificano il ventaglio delle fonti e riducono così le variazioni del prezzo dell’energia in periodi di instabilità di prezzo delle fonti fossili; d) permettono di creare nuovi posti di lavoro e nuove opportunità imprenditoriali; e) possono essere localizzate vicino ai siti di maggiore utilizzo energetico, in virtù della loro struttura modulare; f) possono essere adattate ad applicazioni sia in griglia sia fuori griglia, tanto che in Paesi emergenti non serviti da infrastrutture di distribuzione possono già oggi rappresentare la soluzione più a basso costo; g) sono benigne da un punto di vista ambientale, dato che riducono sia le emissioni di gas serra nell’atmosfera sia quelle di microinquinanti a livello locale.
La convenienza all’impiego dell’ una o dell’altra fonte dipende da fattori locali, quali l’insolazione (dipendente sostanzialmente dalla latitudine), l’intensità dei venti, il valore locale del flusso geotermico, la disponibilità di acqua per l’irrigazione delle colture. Quindi un sito può essere favorevole per lo sfruttamento di un tipo di energia rinnovabile ma non per un’altra. Fortunatamente l’energia è, da un punto di vista termodinamico, una variabile estensiva, e quindi ogni contributo, pur se piccolo, è utile al risultato finale. Volendo fare un confronto, basato solo su dati di tipo chimico-fisico, è interessante esaminare le potenzialità delle diverse fonti rinnovabili sulla base della loro intensità energetica, ossia della potenza ricavabile per unità di superficie di territorio. Per la sua specificità, da questa analisi è omessa la fonte idroelettrica. I dati rivelano che lo sviluppo delle diverse fonti non è omogeneo, a causa sia dei costi delle tecnologie sia delle differenti politiche di incentivazione oggi presenti (tab. 1).
Nel recente passato, le energie rinnovabili hanno avuto un sostanziale incremento in termini tecnologici, di costi e di affidabilità, che le ha portate a essere prossime alla competitività economica con le fonti di natura fossile. Tale sviluppo è stato guidato dall’eolico e dal fotovoltaico, che rappresentano le fonti con il più alto tasso di crescita di tutto il comparto energetico, anche se riferito a un valore iniziale estremamente basso. Questa crescita è dovuta a differenti fattori, la cui rilevanza dipende dall’area geografica d’interesse: per es., nell’Unione Europea il mercato delle energie rinnovabili è sostenuto dalle questioni degli aspetti ambientali, dei cambiamenti climatici e della sicurezza energetica; negli Stati Uniti e in Giappone, la sicurezza energetica rappresenta il punto più importante, seguito dagli aspetti climatici e ambientali, nonché dalla domanda di energia da parte dei consumatori; nei Paesi emergenti, la possibilità di accesso all’energia e lo sviluppo economico sono i fattori largamente dominanti (tab. 2). Tuttavia, con la sola eccezione della Cina e dell’India, i mercati rilevanti per le energie rinnovabili sono ancora quelli dei Paesi più industrializzati.
D’altro canto, esistono resistenze, o barriere d’ingresso, all’introduzione estesa delle energie rinnovabili, e in particolare: a) il costo ancora relativamente alto delle tecnologie, che richiedono elevati investimenti rispetto alle fonti tradizionali, solo in parte bilanciati da più bassi costi operativi e di manutenzione; b) la mancanza di mercati maturi e di politiche favorevoli che ne incoraggino lo sviluppo; c) il prezzo ancora basso dei combustibili fossili, unito a una loro sufficiente disponibilità, almeno nel medio periodo; d) l’inadeguata capacità delle istituzioni nel governare tutti gli aspetti di progetto e sviluppo di un programma esteso sulle energie rinnovabili (sono generalmente assenti piani energetici nazionali che ne guidino lo sviluppo); e) una inadeguata informazione dell’opinione pubblica sull’effettivo potenziale delle energie rinnovabili; f) le limitazioni sui siti di possibile installazione per ragioni socio-politiche; g) l’inadeguatezza dei modelli di scale-up, ancora oggi basati su conoscenze approssimate.
In conclusione, è indiscutibile che alle energie rinnovabili si debba attribuire la concreta prospettiva di stabilizzare il mercato dell’energia riducendo l’impatto delle fluttuazioni indotte dalle tensioni sulle fonti fossili, e di favorire nel contempo uno sviluppo fortemente associato a evidenti benefici ambientali. Questi fatti giustificano l’interesse che si sta manifestando nei loro riguardi, con l’apertura di una sfida concentrata sulla capacità di fornirle a costi più bassi degli attuali, in modo tale da favorirne uno sviluppo che superi nettamente la presente marginalità.
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