forca
Nel senso di " cosa forcuta ", e anche per parte inferiore del corpo umano, che D. chiama altrove ‛ forcata '. La parola è adoperata (If XVII 26 torcendo in sù la venenosa forca) per indicare la coda forcuta e velenosa di Gerione, con un'immagine che ha dentro di sé l'idea probabile della duplice forma della frode, esercitata verso chi si fida e chi non si fida (cfr. XI 52 ss.).
Una seconda occorrenza (If XXV 104 'l serpente la coda in forca fesse) riguarda la metamorfosi per cui il serpente biforca la coda per dar luogo a estremità umane: è un passo fitto di corrispondenze e contaminazioni, in cui D. con virtuosismo consapevole (Taccia di Cadmo e d'Aretusa Ovidio, v. 97), rifà a rovescio il tratto ovidiano della trasformazione di Cadmo in serpente: " commissa ... in unum / paulatim tereti tenuantur acumine crura " (Met. IV 579-580), incrociando con questo il ricordo di un altro verso: " lingua repente / in partes est fissa duas (vv. 586-587).
Nel senso di strumento di supplizio f. si trova in Detto 337 egli 'l mena alle forche, frase che tiene del francese mener aux fourches. Il plurale è la forma normale nei documenti medievali: erigere furcas. Il termine è di estrazione popolare e come tale era sentito da Isidoro: " Patibulum enim vulgo furca dicitur, quasi ferens caput " (Etym. V XXVII 34).