DONATI, Forese
Nacque a Firenze nella seconda metà del sec. XIII da Simone di Forese e Tessa (Contessa), nobile donna di cui s'ignora il casato.
Apparteneva ad una famiglia ricca e potente fin dall'XI secolo e tale ancora nel XIII. Simone era uno dei capi di Parte guelfa e la consorteria dei Donati restò sempre legata alla parte magnatizia del guelfismo.
Il D. scambiò con Dante alcuni sonetti in una tenzone - forse del 1294 - sull'autenticità della quale si sono sollevati dubbi anche a causa della volgarità e violenza delle ingiurie e delle oscenità che vi corrono. Considerandola autentica, poiché non si registrano difficoltà che non derivino dal moralismo di alcuni critici e dalla sottovalutazione del carattere letterano e non biografico della rissosa corrispondenza, questa rappresenta quasi tutto ciò che resta di certo della vita del Donati. Ma, sebbene fitta di allusioni - per noi in gran parte oscure - alla vita privata e a luoghi e vicende fiorentine, essa è per più ragioni inattendibile proprio a fini biografici: sia per Dante sia per il Donati.
La tenzone registra tuttavia almeno due dati confermati da Dante stesso in altri luoghi non soggetti alla complicazione di eventuali giochi letterari di tipo antifrastico: la ghiottoneria, per la quale Dante colloca Forese tra i penitenti del Purgatorio (XXIII-XXIV), in un episodio che consacra con accenti straordinariamente affettuosi l'amicizia tra i due; e la cattiva fama dell'intera schiatta dei Donati, anche soprannominati Malefami (G. Villani, VIII, 39), ricca di ladri famosi (Dante cita Cianfa e forse anche Buoso di Forese di Vinciguerra nella bolgia dei ladri, Inf. XXV) e nota alle cronache e agli archivi per reati patrimoniali e appropriazioni varie, tra l'altro la celebre frode testamentaria commessa da Simone di Forese (padre dei D.) con la complicità di Gianni Schicchi (Inf. XXX). Un certo brigantaggio rientrava spesso nelle abitudini dei nobili, per dissesti economici o per semplice arroganza, tra Due e Trecento.
Occorre però aggiungere che secondo una possibile lettura della tenzone (Chiappelli) il D. sarebbe esente da questa pecca, d'altronde canonica nelle esercitazioni ingiuriose della letteratura comica del Duecento, e potrebbe al contrario trattarsi, da parte sua, di uno "spendere" in magnifici banchetti e cibi raffinati degno piuttosto di lode che di biasimo secondo la scala di valori mondani dell'epoca. Per quanto ne sappiamo le pratiche disinvolte dei Donati possono aver consolidato una vera e propria fama di ribalderia e latroneccio abituale solo più tardi. Le "ruberie e malefizi" compiuti dai neri guidati dal più celebre fratello di Forese, Corso Donati, ai danni degli avversari politici e dell'intera città intimidita dalla violenza, sono ovviamente di altra natura e comunque posteriori di quasi un decennio alla morte del Donati. Lo stesso soprannome di Malefarni si lega forse agli eccessi di Corso e dei suoi (Villani, ibid.) e sarebbe interpretabile secondo la tarda parafrasi che, sempre in rapporto a Corso, pronuncia Piccarda Donati in Par. III, 106: "Uomini... a mai più ch'a bene usi" (Aquilecchia).
Secondo altre letture il D. sarebbe in qualche modo da riconoscere come ladro notorio ("piuvico ladrone" sono le parole, sia pure scherzosamente iperbolicte, che usa Dante nella tenzone) e non alieno dal correre in questa attività elevati rischi: dedito a una malavita (Momigliano) della quale sarebbe stato in qualche modo partecipe Dante, non fosse che per la canagliesca compiacenza testimoniata dalla tenzone, e più tardi sconfessata.
Il D. sposò una Nella, ricordata salacemente nella tenzone, e nominata invece con amore e gratitudine in Purg. XXIII, di cui non si sa nulla. Dei figli di Nella e del D. si ha memoria solo di una Ghita, che fece un buon matrimonio, secondo le usanze dei Donati, con Mozzino di Andrea della nobile famiglia dei Mozzi.
Oltre a Corso e all'innocente Piccarda, segnata anch'essa nella vita terrena e ultraterrena (Par. III) da un matrimonio di alto affare, impostole dalla violenza di Corso, con Rossellino Della Tosa, futuro fazioso di parte nera, gli studiosi hanno ritrovato i nomi di altri fratelli, una Ravenna (Venna) e un Sinibaldo. Poco rilevante e lontanissima è invece la parentela con questi Donati di Gemma di Manetto Donati, moglie di Dante. Il D. visse con gli altri Donati presso S. Pier Maggiore a borgo Pinti.
Posteriori alla morte del D. sono i gravissimi eventi politici in cui fu coinvolta la consorteria dei Donati al seguito di Corso, capo della fazione dei neri e da Dante ritenuto massimo responsabile delle sanguinose lotte civili a Firenze nei primi anni del Trecento. Può essere interessante il fatto che tale giudizio, espresso da Dante in Purg. XXIV, 82-90, sia pronunciato, nella finzione del viaggio, proprio dal fratello Forese. Sebbene da questo nulla si possa dedurre sulle opinioni e comportamenti del D., il quale, per il periodo interessato dall'amicizia con Dante (1283-96, considerando i termini temporali più ampi assegnati alla tenzone), era comunque escluso dalla vita politica fiorentina per gli effetti dell'isfituzione del priorato delle arti (1282) e dei provvedimenti antimagnatizi degli ordinamenti di giustizia del 1293, attenuati solo nel '95, che tennero i grandi - tra essi i Donati - "rimossi dagli uffici e onori della città" (Compagni). In quegli anni Corso ebbe varie cariche a Bologna e Pistoia, ma del D. possiamo con sicurezza ricordare solo la golosità, i cibi delicati, le spese e l'attività poetica al fianco di Dante nei ranghi della letteratura comica fiorentina.
Vuole una leggenda raccolta dall'Ottimocommento cheproprio Dante lo inducesse a una confessione in punto di morte che gli avrebbe garantito la salvezza eterna. E grazie a Dante si hanno più notizie sulla vita ultraterrena - meno di quattro anni di antipurgatorio, penitenza nel sesto girone, efficacia delle preghiere di Nella - che su quella terrena del Donati.Il D. morì a Firenze nel luglio del 1296 e fu sepolto a S. Reparata il 28 di quel mese.
Il primo elemento preso in considerazione dai critici per datare la tenzone è, nel primo sonetto del D. (L'altranotte mi venne una gran tosse), l'allusione ad Alighiero padre di Dante come già morto. Termine post quem dunque la sua morte nel 1283. I termini possono esser ulteriormente ristretti (Barbi, 1924) a un periodo che inizia con la morte di Beatrice nel giugno 1290; in quanto la tenzone appartiene al periodo di "traviamento - uno dei massimi enigmi della vita di Dante il quale, secondo la testimonianza di Dante pellegrino in colloquio proprio col D. (Purg. XXIII, 115-28) - da integrarsi con le parole di Beatrice (Purg. XXX, 101-45), - segue alla morte di Beatrice e si chiude con l'apparizione soccorritrice di Virgilio il venerdi santo del 1300, data simbolica non meno della prima, ancorata alla vita poetica più che alla vicenda biografica di Dante: il che è importante. Terminus ante quem, invece, sempre la morte del D. nel 1296. Si pensa di poter leggere nei vv. 3-4 del secondo sonetto del D. a Dante (Va' rivesti San Gal primache dichi) un'allusione ai provvedimenti del Comune fiorentino a favore dell'ospedale dei poveri di S. Maria a San Gallo, deliberati con un atto del 19 maggio 1294 (Barbi), e di poter congetturare la data presumibile della tenzone per l'estate del 1294 (sempre nei limiti della costante oscurità delle allusioni di questi testi).
La prima notizia diretta della tenzone si ha nel commento dantesco dell'Anonimo Fiorentino: nel chiosare i canti del Purgatorio questi menziona la molta dimestichezza tra Dante e il D., detto Bicci, e afferma che "molti sonetti et cose in rima scrisse l'uno all'altro", citando poi i primi quattro versi del secondo sonetto di Dante (Ben ti faranno il nodo Salamone). L'anonimo commento è ritenuto non anteriore al 1380, e dal Barbi non posteriore al 1390. Anche i codici che riportano la tenzone - smembrata in due gruppi: da un lato Ben ti faranno e Va' rivesti San Gal, dall'altro i restanti quattro -, attribuendola nominatamente a Dante e al D., sono generalmente tardi - fine Trecento o primo Quattrocento - e non sembrano comunque poter risalire a prima della seconda metà del XIV secolo, ma pesa anche qui una valutazione del Barbi secondo cui la silloge di rime antiche contenuta nell'archetipo al quale fanno capo due importanti codici di origine fiorentina (Chig. L, VIII, 305 della Bibl. ap. Vaticana e Pal. 180 della Bibl. Palatina di Parma) sia plausibile solo nei primi decenni del Trecento.
La relativa tardività delle testimonianze dirette - alcune indirette sono reperibili in Boccaccio - è uno degli argomenti principali dei critici che hanno negato l'autenticità della tenzone, ritenuta però inaccettabile in primo luogo perché troppo inopinatamente indecorosa per l'immagine di Dante, sia per lo stile che vi adotterebbe, sia per la gravità delle vicende che s'introdurrebbero nella sua biografia ove si desse credito alle ingiurie del Donati.
Il maggiore avversario dell'autenticità è D. Guerri (La corrente popolare nel Rinascimento, 1931), che crede di poter ricondurre la plebea contesa, o la furbesca confezione della tenzone - che coinvolgerebbe Giovanni Gherardi da Prato e un goloso spiantato fiorentino, Bicci Castellani -, nonché l'inganno dei creduli copisti responsabili dell'attribuzione dantesca, al clima di beffe e sollazzi della Firenze dello Za e del Burchiello sullo scorcio del Trecento o nei primi anni dei Quattrocento. Potendo citare a proprio favore un dubbio già espresso da Vincenzo Borghini e l'inclusione di due dei sonetti nell'edizione antica delle rime del Burchiello. Ma tralasciando la testimonianza in senso opposto di Pietro Bembo.
La stragrande maggioranza degli studiosi accetta le conclusioni del Barbi; tanto che i successivi studi si sono rivolti tutti agli ardui problemi di interpretazione e alla valutazione critica del nodo tenzone-Purgatorio, con riguardo all'opera di Dante, s'intende, più che al Donati. Sebbene anche sul D. si ripercuotano acutamente, soprattutto nell'affievolirsi della sua immagine pittoresca di ladro notturno e aristocratico masnadiere, con eventuale seguito di snobistico o degenere plebeismo intellettuale.
Rapportata al D., l'evoluzione dei giudizi sul valore letterario della tenzone e sulla funzione di palinodia e risarcimento dell'ingiuria che si riconosce all'episodio purgatoriale ha il suo punto focale nella rinuncia a cercare un compromesso tra interpretazione biografica e letteraria. Si riconosce (Contini, 1939) che ciò che si condanna in Purg. XXIII è "l'esperienza stilistica" esercitata in comune del "triviale prezioso" e del "virtuosismo dell'ingiuria, della pornografia e della coprolalia" per se stessi perseguiti. Nella tenzone si è insomma solo "all'estremo di un genere letterario", sconfessato, quando pure all'occorrenza riutilizzato da Dante (Sinone e maestro Adamo, Inf. XXX) in un discorso critico autoriflessivo che si snoda tra le figure purgatoriali successive del D. (scelto dunque a rappresentare un'intera regione della letteratura duecentesca, oltre che oggetto di tenerissimo affetto), Bonagiunta da Lucca, Guido Guinizzelli e Arnaut Daniel (Purg. XXIII-XXVI).
Più decisiva per ripercussioni biografiche l'ipotesi (Chiappelli, 1965) che si tratti, più che di avventura di stile triviale, di esperienza stilistica dell'antifrasi, o di quelle forme dell'inversione ironica - codificate dalle retoriche antiche e medievali e praticate in ambito provenzale (Peire d'Alvernha, il Monaco di Montaudon) - che sono la vituperatio iocosa, o lode alla rovescia, la permutatio per contraria, il mendacium iocosum. Secondo tale ipotesi, se accolta -il comportamento sconfessato da Dante non pare ad altri critici riducibile a pura devianza stilistica -, il D., accusato in apparenza di scarsità maritale, estensibile ai fratelli, povertà, debiti e furto abituale, di nascita dubbia (Biccinovel, figliuol di non so cui) e così via, non ne sarebbe che confermato nello splendido decoro sociale della famiglia, interpretandosi lo stesso vizio della gola come ricercatezza e magnificenza di vita. E altrettanto Dante. L'uno e l'altro contendente restando naturalmente titolare del gusto per le espressioni burlesche, aggressive e plebee, salvo la diversa qualità poetica delle rispettive esecuzioni. E a parte la palinodia che, nell'insindacabile responsabilità per la propria opera, Dante pensò di pronunciare anche a nome del Donati.
Interrogativi non trascurabili sulla veridicità degli addebiti morali e sociali che Dante e il D: si scambiano emergono infine dagli acquisti conseguiti dalla critica sul complesso della letteratura giocosa del Duecento, sottratta ad ogni interpretazione immediatamente realistica (biografica) e romanticamente antiletteraria e riconosciuta invece come fenomeno pienamente e accentuatamente letterario (Marti), con un canone ormai ben noto al quale sono ascrivibili senza difficoltà tutte le ingiurie della tenzone.
I sonetti del D. (L'altranotte mi venne una gran tosse, Va' rivesti San Gal primache dichi, Ben so che fostifigliuol d'Alaghieri) sileggono oggi nella successione proposta nel XVII sec. da Federico Ubaldini ("zibaldone Ubaldini", in Bibl. apost. Vaticana, Barb. lat. 3999), che per primo li riunì, e confermata dal Barbi. Altri, con Massera (1920), preferiscono un diverso ordinamento. Il testo è quello fissato dal Barbi. Ma per il v. 5 del secondo sonetto di Dante si vedano Contini, 1939, e, diversamente, Chiappelli, p. 337.
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