Forma di governo dell’Unione Europea
Dal 1952 al Trattato di Lisbona
La costruzione dell’Europa comunitaria si è venuta prospettando secondo moduli originali che, tuttavia, sono inevitabilmente influenzati dal modello organizzativo fornito dallo Stato e da quello delle organizzazioni di Stati. Il primo si dimostra in grado di soddisfare l’esigenza di costituire un’organizzazione di governo accentrata, capace di soddisfare la missione di integrazione fra ordinamenti che caratterizza il sistema comunitario. Il secondo è strettamente dipendente dal persistente ruolo mantenuto nel sistema dagli Stati nazionali che concorrono a formarlo. Partendo da questa constatazione è possibile ricostruire quella che è la forma di governo dell’Unione Europea (UE) che si è evoluta nel tempo, a partire dal 1952 con il Trattato sulla Comunità carbosiderurgica per giungere a quella delineata dal più recente Trattato di Lisbona, firmato il 13 dicembre 2007 dai rappresentanti dei 27 Paesi membri della UE, e destinato a prendere il posto dei testi comunitari vigenti. Esso si compone in realtà di due trattati: il primo modifica e sostituisce il Trattato sull’Unione Europea (TUE), comunemente noto come Trattato di Maastricht (1992), che mantiene il suo titolo iniziale; il secondo incide sul Trattato che istituisce la Comunità europea (TCE), ora denominato Trattato sul funzionamento della UE (TFUE). I due trattati hanno pari valore giuridico e si integrano fra loro. Nel corso di questa esposizione si farà riferimento a tale testo consolidato, anche se la mancata conclusione del processo di ratifica rende incerta la sua entrata in vigore, dopo aver mancato il rispetto del termine del 1° gennaio 2009 inizialmente previsto. Sarà con riferimento alle soluzioni organizzative maturate nel corso di uno sviluppo di più di mezzo secolo e infine a quanto previsto da tale ultimo strumento che si affronterà il tema della forma di governo comunitaria.
I concetti guida utilizzati sono quelli familiari alle categorie del diritto delle organizzazioni internazionali e, in particolare, del diritto costituzionale. In effetti lo stesso concetto di forma di governo, che sta alla base di queste riflessioni, deriva dalla dottrina costituzionalistica sviluppatasi intorno alla nozione di Stato e alla sua organizzazione. Ed è del tutto evidente la tendenza a utilizzare per le istituzioni comunitarie le categorie consolidatesi nel tempo per la forma Stato, fino a giungere a ipotizzare la presenza di una Costituzione europea scaturente dai trattati che hanno costituito le comunità e quindi l’attuale UE. Occorre quindi procedere iniziando con il richiamare che cosa si intenda per forma di governo, per passare poi a valutare come e in che termini vada individuata una forma di governo della UE, non senza aver prima evocato i principi quadro che caratterizzano il regime giuridico dell’Unione.
Il regime giuridico dell’Unione
Il modo in cui sono congegnati gli organi di governo della UE discende dalla volontà espressa dagli Stati membri nei trattati costitutivi ed è condizionato da quelli che sono i principi di fondo che ne costituiscono le basi. Le soluzioni tecniche sono quelle considerate funzionali al raggiungimento degli scopi individuati nei trattati e sono influenzate dai valori costituzionali di riferimento comuni agli Stati membri. Quindi almeno due elementi vanno considerati determinanti: la funzionalità delle scelte organizzative rispetto agli scopi tenuti presenti e i valori di riferimento condivisi dagli Stati partecipanti.
Nel momento in cui gli Stati hanno deciso di costituire le Comunità e quindi la UE hanno inteso realizzare un’organizzazione che consentisse di creare un mercato comune. Non hanno tuttavia voluto fondare una nuova comunità politica di natura federale che eliminasse la loro statualità. Tutti gli organi previsti dovevano essere necessari a soddisfare gli obiettivi proposti, ma l’azione degli organi finalizzata a tali obiettivi avrebbe dovuto essere compatibile con i principi di fondo condivisi dagli Stati, principi che vanno ricondotti al comune patrimonio culturale dello Stato di derivazione liberale. Dunque appare possibile risalire ai principi che caratterizzano l’attuale UE attraverso l’esame delle prescrizioni testuali dei trattati.
L’art. 6 del Trattato sull’Unione Europea recitava: «L’Unione si fonda sui principi di libertà, democrazia, rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e dello Stato di diritto, principi che sono comuni agli Stati membri». Il più recente Trattato di Lisbona ricorda nel suo preambolo, similmente a quanto già in precedenza previsto nel preambolo del fallito trattato costituzionale, una serie di valori menzionando le «eredità culturali, religiose e umanistiche dell’Europa, da cui si sono sviluppati i valori universali dei diritti inviolabili e inalienabili della persona, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza e dello Stato di diritto». Statuisce poi che «l’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto, e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità fra donne e uomini» (attuale art. 2 TUE). Inoltre, nelle Disposizioni relative ai principi democratici (titolo II), il trattato afferma: «Il funzionamento dell’Unione si fonda sulla democrazia rappresentativa» e «i cittadini sono direttamente rappresentati, a livello dell’Unione, nel Parlamento europeo. Gli Stati membri sono rappresentati nel Consiglio europeo dai rispettivi capi di Stato o di governo e nel Consiglio dai rispettivi governi, a loro volta democraticamente responsabili dinanzi ai loro parlamenti nazionali o dinanzi ai loro cittadini» (art. 10, parr. 1, 2 TUE). Va poi sottolineato che la presenza dei valori di riferimento diviene condizione essenziale per consentire a uno Stato esterno alla UE di divenirne potenzialmente parte. Infatti fra i criteri che sono considerati ai fini di un’ammissione alla UE, vi è il criterio politico comportante la presenza di istituzioni stabili che garantiscano la democrazia, lo Stato di diritto, i diritti dell’uomo, il rispetto delle minoranze e la loro tutela; quello economico che richiede l’esistenza di un’economia di mercato improntata alla libera concorrenza; quello dell’acquis communautaire che implica l’accettazione degli obblighi derivanti dall’adesione. Ma affinché il Consiglio europeo possa aprire i negoziati, deve risultare rispettato il criterio politico. Ciò sta a significare che la UE condivide i principi di regime che caratterizzano le Costituzioni degli Stati che la compongono. A un tempo però gli stessi principi devono essere presenti negli ordinamenti degli Stati che intendono aderire alla UE (art. 49 TUE), imponendo quindi agli aspiranti membri come condizione giuridicamente vincolante l’inserimento nelle proprie Costituzioni di tali principi. Inoltre, l’eventuale violazione dei principi da parte di uno Stato membro può comportare forme giuridiche di sanzione (art. 7 TUE).
Va anche notato che vi sono valori che scaturiscono da quelli che i trattati, compreso quello di Lisbona, includono nella definizione degli obiettivi dell’azione dell’Unione. Attualmente questi sono dati da: la promozione della pace; un’economia sociale di mercato fortemente competitiva e che miri alla piena occupazione e al progresso sociale; la promozione del progresso scientifico e tecnologico; il rispetto della diversità culturale e linguistica e la salvaguardia del patrimonio culturale europeo; la lotta all’esclusione sociale e alle discriminazioni; la solidarietà tra le generazioni; la tutela dei diritti del minore; la parità tra uomini e donne e la tutela dell’ambiente (art. 3 TUE).
Quanto premesso sta a indicare i principi-valore che caratterizzano la UE, individuando disposizioni normative di rango superiore che fissano in modo prescrittivo i criteri del regime giuridico complessivo dell’organizzazione pluristatale. A quanto previsto in via primaria dai trattati vanno poi aggiunti gli interventi degli organi dotati di competenze normative e dalla giurisprudenza della Corte di giustizia e, in generale, dalle prassi attuative. Alla statica dei trattati va quindi aggiunta la dinamica della loro attuazione, dinamica che manifesta in concreto il modo con cui i valori sono effettivamente considerati nell’azione degli organi comunitari.
L’influenza delle soluzioni offerte dal modello statale
Se per regime giuridico possiamo intendere il complesso degli elementi che caratterizzano globalmente l’ordinamento della UE, con particolare riferimento ai principi-valori e alle finalità poste come obiettivi all’azione dei suoi organi, per forma di governo facciamo riferimento al complesso degli strumenti congegnati per conseguire le finalità dell’organizzazione e, quindi, quegli elementi che riguardano la titolarità e l’esercizio delle funzioni attribuite agli organi.
L’attuale UE è un’organizzazione internazionale sui generis. Scaturisce da trattati internazionali voluti da Stati che, pur ammettendone rilevanti limiti, mantengono la loro sovranità; tuttavia essa dispone del potere riconosciutole dagli Stati fondatori di interferire direttamente nella loro sfera interna in un numero molto elevato di settori che, tradizionalmente, erano considerati di esclusiva pertinenza statale. Per svolgere la sua missione dispone di propri organi che si vogliono svincolati da dipendenza statale, ma anche di organi che vedono la presenza determinante degli Stati membri. Questi ultimi sono i Consigli dei ministri formati da rappresentanti dei governi, previsti dai trattati, cui si aggiunge il Consiglio europeo formato dai capi di Stato e di governo. Si tratta di un modulo organizzativo che denota la persistente presenza degli interessi statali in seno alla UE, e che deriva dalle soluzioni organizzative federali in cui il passaggio dalla forma confederativa internazionale a quella federale, basata su una Costituzione, richiede la ‘costituzionalizzazione’ dell’organo internazionale. A parte questa presenza di derivazione internazionalistica, il nucleo forte della forma di governo comunitaria è ispirato da modelli statali. È, infatti, individuabile un costante riferimento nei testi normativi, nella giurisprudenza e nell’elaborazione dottrinale, a soluzioni organizzative e a un lessico formale che ripercorrono l’esperienza storica degli ordinamenti costituzionali statali.
Nello sviluppo dell’ordinamento comunitario può distinguersi il momento iniziale del riferimento a singoli istituti dell’ordinamento tipo statale, presi a modello per l’organizzazione comunitaria, da quello successivo in cui la stessa Costituzione statale diviene modello. È del tutto evidente come il passaggio dall’una all’altra fase segni un progresso significativo nel rafforzamento della costruzione dell’attuale Unione.
Inizialmente gli Stati hanno individuato i compiti da assegnare alle Comunità, secondo una logica di convenienza strumentale ai loro interessi, e hanno costruito un’intelaiatura organizzativa che prevedeva istituzioni dotate di attribuzioni normative, amministrative e giurisdizionali. Gli organi comunitari venivano delineati prendendo a generico riferimento il principio della separazione dei poteri derivante dal bagaglio di esperienza organizzativa dello Stato liberale. Le funzioni di normazione erano distribuite fra Alta autorità e quindi Commissione, Consiglio e Parlamento in un modo del tutto pragmatico, ma sempre funzionale alle svariate esigenze che si andavano via via manifestando; le funzioni amministrative erano tendenzialmente concentrate dapprima nell’Alta autorità e quindi nella Commissione; quelle giurisdizionali erano esclusivamente concentrate nella Corte di giustizia. L’intreccio di competenze da mantenersi sotto controllo statale con quelle devolute agli organi finalizzati alla realizzazione dell’integrazione fra ordinamenti aveva condotto alla realizzazione di un profilo istituzionale del tutto originale, non certo coincidente con quello proprio degli Stati costitutori ma sicuramente ispirato oltre che al modulo dell’unione di Stati a quello statale. Gli stessi organi nella loro strutturazione richiamavano, a volte in modo del tutto inequivoco, modelli organizzativi statuali. Il che era evidente per il Parlamento, individuato come organo rappresentativo dotato di competenze consultive, di indirizzo e controllo e di moderate competenze in campo normativo. L’esempio più pertinente era forse quello offerto dalla Corte, titolare del controllo di legittimità sugli atti delle istituzioni comunitarie, con potere di annullamento in caso di riscontro di particolari vizi, seguendo uno schema familiare a quello degli ordinamenti degli Stati membri.
In un momento successivo lo spettro dei temi oggetto di progressiva espansione delle Comunità si è concentrato sui valori posti a fondamento dell’organizzazione comunitaria, e in particolare sui diritti, offrendo inoltre un affinamento del profilo organizzativo dell’Unione. Quindi, anche se inizialmente le Comunità si sono affermate prendendo a modello soluzioni organizzative e funzioni riconosciute agli organi già consolidatesi negli ordinamenti degli Stati costitutori, successivamente i vari trattati hanno previsto una serie di principi, sempre ispirati alle esperienze statali, quali in particolare i valori di libertà, democrazia, Stato di diritto, rispetto dei diritti umani, e delle libertà fondamentali, e hanno incluso la disciplina della cittadinanza mirando a completare la costruzione comunitaria. Mancava tuttavia la previsione organica dei diritti riconosciuti ai soggetti inclusi nell’ordinamento della UE. A questa carenza si pensava dapprima di provvedere tramite un’adesione alla CEDU (Convenzione Europea per i Diritti dell’Uomo, 1950, entrata in vigore nel 1953), mentre la Corte nella sua giurisprudenza, per supplire a una carenza dei trattati, aveva fatto riferimento sia alla CEDU sia ai diritti desumibili dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri. Infine, la Carta di Nizza (approvata nel 2000, ma in vigore dal 2003) aveva dato organica disciplina ai diritti, pur facendo ricorso a una proclamazione da parte dei governi e non a una formale integrazione nei trattati preesistenti.
L’idea di accorpare la disciplina organizzativa con quella sui diritti in un unico testo normativo consentendo una visione organica e completa dell’ordinamento della UE conduceva infine, naturalmente, a far ricorso nel progettato trattato costituzionale al concetto di costituzione anch’esso preso a prestito dall’esperienza e dal lessico statale. E ciò in quanto è nella Costituzione degli Stati che si trovava tradizionalmente inserita in modo armonioso sia la normazione sull’organizzazione sia quella sui diritti.
Ecco, dunque che, inevitabilmente, al termine di un lungo percorso, la stessa Costituzione si presentava come modello complessivo di organizzazione preso a riferimento, in quanto è nell’idealtipo di Costituzione che si incontrano in modo equilibrato principi-valori, diritti, criteri di organizzazione. L’individuazione della Costituzione, ove la stessa fosse intesa nel senso comune alle esperienze delle democrazie liberali, avrebbe inciso sensibilmente sulla forma di governo in quanto avrebbe confermato la presenza di istituti di garanzia dei diritti civili e politici e di quelli tipici della democrazia rappresentativa. Il fallimento del trattato costituzionale e la sua sostituzione con il successivo Trattato di Lisbona hanno condotto a cancellare il riferimento formale al termine costituzione, ma non hanno del tutto eliminato il problema della Costituzione europea che continuerà a essere tenuto presente e dibattuto in ambito dottrinale anche dopo il suo accantonamento effettuato a livello politico. Il Trattato di Lisbona elimina accuratamente i riferimenti formali alla Costituzione, superando in tale prospettiva il lessico utilizzato dall’abortito trattato costituzionale, ma mantiene una parte consistente delle soluzioni precedenti e, in particolare, convalida l’assorbimento nell’ordine comunitario della Carta dei diritti che, pure se esterna al trattato, ha lo stesso rango normativo e predispone l’adesione alla CEDU da parte dell’Unione.
Una forma di governo senza una Costituzione?
L’abbandono del riferimento alla Costituzione nel momento in cui il più recente Trattato di Lisbona evita di enunciare il termine nel suo articolato, rimuove solo apparentemente il problema. E in effetti, come dovrà ora ricordarsi, il dibattito sulla Costituzione non è soltanto legato a quelle che erano le previsioni del fallito trattato costituzionale, in quanto già negli anni precedenti era stata la Corte di giustizia comunitaria a fare riferimento all’esistenza di una Costituzione europea. E la tenace affermazione di una Costituzione evocante un modello di struttura politica in qualche modo ispirato a quello statale implicherebbe, con gli adattamenti derivanti dalla presenza delle scelte operate dai trattati, una forma di governo dotata di sue proprie originali caratteristiche.
La Corte si è pronunciata a favore dell’individuazione del trattato come Costituzione in senso sostanziale, in quanto nei trattati è presente un complesso di regole fondamentali sulla disciplina, distribuzione, esercizio e limiti dell’autorità, sui fini, sui valori e sulle funzioni. In pratica la Corte ha individuato la presenza di quelle scelte di fondo sull’assetto dei poteri comunitari che includono i profili della forma di governo. E ciò perché la Corte ha riconosciuto nell’originario atto di volontà degli Stati membri solo un fondamento storico della validità dell’ordinamento comunitario che ormai, secondo la stessa, si autogiustificherebbe. La singolare impostazione della Corte contrasta la consolidata convinzione per cui esiste un’accettata differenza fra il trattato basato sull’intesa fra Stati, regolata dal diritto internazionale, e la Costituzione espressione del potere autoreferenziale di una specifica comunità statale retta dal proprio diritto. Comunque sia, la Corte si è attestata sulla dottrina dell’esistenza di una Costituzione delle Comunità e poi dell’Unione. Partendo dai trattati ha ricostruito il sistema giuridico comunitario come un ordine giuridico compiuto, dandogli organicità e sistematicità e delineandone alcuni principi caratterizzanti, quali quello di legalità, di democrazia, di eguaglianza, di rispetto dei diritti fondamentali. In particolare, ha affermato e consolidato progressivamente a livello europeo i principi della supremazia del diritto comunitario su quelli statali oltre che quello dell’efficacia diretta del diritto comunitario. Inoltre, a corollario del principio del primato, la Corte ha affermato quello della pre-emption (prelazione), in quanto la sua giurisprudenza ritiene precluso l’intervento degli Stati quando su un’area di competenza sia stato effettivamente o potenzialmente manifestato quello delle Comunità (sentenza 5 maggio 1981, in causa C-804/79). Infine, attraverso il meccanismo del rinvio pregiudiziale la Corte si è dimostrata in grado di verificare la compatibilità del diritto interno con il trattato e con le fonti subordinate, ottenendo quindi il risultato di controllare la legittimità di tale diritto e arrogandosi pertanto un ruolo che ricorda quello di un giudice costituzionale.
In conclusione, la Corte ha considerato formato, a partire dai trattati, un ordinamento giuridico originario, autonomo da quello internazionale e da quello degli Stati. Ciò si ripercuote sul modo di interpretare i trattati e di colmarne le lacune. Quanto al primo profilo, la Corte ha costantemente utilizzato criteri obiettivi di interpretazione, escludendo di dare determinante rilevanza alla volontà degli Stati, come sarebbe dovuto avvenire ove nella lettura delle clausole dei trattati si fosse fatto ricorso alle tecniche interpretative proprie delle giurisdizioni internazionali. Quanto al secondo, la Corte, per consentire l’obiettivo della completezza dell’ordinamento comunitario, ha fatto ricorso in via estensiva a principi tratti dall’esperienza giuridica degli Stati membri e da quella del diritto internazionale, pur se rimodellati come principi autonomi dell’esperienza comunitaria. In virtù della giurisprudenza comunitaria, alcuni principi considerati indefettibili hanno finito per essere valutati come nucleo essenziale dell’ordine giuridico comunitario e, quindi, non soggetti a revisione. Si tratta sia di principi esplicitati nei trattati sia di principi impliciti, desumibili dall’interpretazione sistematica ed estensiva del diritto scritto. Tra questi assume una rilevanza particolare quello dello Stato di diritto/rule of law, elaborato dalla giurisprudenza e poi codificato nei trattati. In pratica la Corte si è avviata a considerare possibile uno sviluppo autonomo dell’ordinamento comunitario e, sotto tale punto di vista, la stessa forma di governo non potrebbe non risentirne in quanto ormai sviluppabile in autonomia.
Non è questa la sede per insistere sugli sviluppi della giurisprudenza della Corte cui dovrebbero aggiungersi quelli legati alla prassi delle altre istituzioni e, in particolare, della Commissione e del Parlamento europeo. Va però ricordato che la convinzione della Corte per cui gli Stati avrebbero in parte rinunciato alla loro sovranità, ha condotto all’errata conclusione secondo cui si sarebbe giunti a configurare una sorta di trasfigurazione della pienezza del potere originario statale (sovranità) in una ridotta ‘autonomia istituzionale’ degli Stati membri, nella cornice degli strumenti costitutivi europei. Di conseguenza le Costituzioni degli Stati finirebbero per divenire mere ‘Costituzioni parziali’ in un più ampio spazio europeo. Da queste posizioni della Corte discende la reazione delle Corti costituzionali italiana e tedesca e più tardi, dopo la firma del trattato costituzionale, delle giurisdizioni costituzionali francese e spagnola che hanno contrastato la possibilità di un esercizio indipendente di competenze che originasse una vera e propria autodeterminazione degli organi comunitari della propria sfera di competenze. Pertanto gli Stati non hanno fatto acquiescenza, accettando di perdere il controllo dei trattati e riconoscendo l’autosufficienza del nuovo ordine giuridico, come conferma il mantenimento del potere di revisione e addirittura del diritto di recesso, codificato nel Trattato di Lisbona, e non hanno mai inteso legittimare la normativa inizialmente contenuta nei trattati come Costituzione, affermatasi superiore alle Costituzioni statali, mentre hanno accettato il primato del diritto comunitario a condizione che non risultassero compromessi i principi ‘forti’ caratterizzanti le proprie Costituzioni.
Per quanto qui interessa, va rilevato che dall’assenza di una Costituzione discende anche la impossibilità di individuare un sistema ‘forte’ di istituzioni che in qualche modo evochi quelle di uno Stato federale. Il permanere delle sovranità di 27 Stati ha il suo canale di emersione negli organi collegiali (Consiglio europeo e Consiglio dei ministri) e nelle procedure di collegamento che consentono agli Stati di concorrere alla formazione degli atti dei diversi organi previsti dai trattati. L’accentuazione della prudenza con cui gli Stati seguono il progredire dello sviluppo della UE emerge da quelle norme dell’ultimo trattato che ne salvaguardano l’identità. In tale quadro di prudenza si delinea un ridimensionamento del ruolo in precedenza dinamico della Commissione, considerata uno degli organi espressione del principio sopranazionale. La Corte, sicuramente il più coerente e tenace promotore dell’integrazione sopranazionale, rimane fedele alla sua dottrina, ma non potrà ignorare l’esigenza di bilanciarla con la volontà chiaramente espressa dagli Stati nell’ultimo trattato. In pratica, oggi, da un lato la Corte comunitaria rimane ferma nel dichiarare l’autosufficienza dell’ordine giuridico di cui è esponente e pretende di considerarlo sovraordinato a quelli statali e alle loro Costituzioni. D’altro lato gli ordini statali ritengono di dare spazio all’ordine comunitario ma compatibilmente con il rispetto dei propri principi fondamentali irrinunciabili. Su queste premesse la collisione fra i due sistemi normativi viene evitata in quanto, in realtà, le competenze assegnate alla UE sono quelle espressamente individuate in base al principio di attribuzione, per cui spettano alla stessa soltanto i poteri attribuiti dalla volontà negoziale degli Stati. Inoltre, la sostanziale armonia fra principi costituzionali degli Stati e principi caratterizzanti i trattati (la cosiddetta Costituzione della UE) evita la collisione, come pure la linea di mutua comprensione e collaborazione che caratterizza i rapporti fra Corti costituzionali statali e Corte comunitaria.
La ripartizione delle competenze fra Stati e Unione
In un ordinamento connotato da chiari elementi confederativi l’equilibrio fra sfera delle competenze statali e sfera delle competenze dell’istituzione internazionale costituita dagli Stati, assume un’importanza essenziale.
I poteri riconosciuti dagli Stati alla UE dovrebbero essere solo quelli esplicitamente assegnati. Vale infatti il principio di attribuzione, per il quale la UE agisce nei limiti delle competenze che le sono conferite dagli Stati membri. Pertanto qualsiasi competenza non espressamente attribuita alla UE rimane agli Stati. Tuttavia tale principio è solo apparentemente rigido in quanto il trattato ne riconosce una rilevante deroga tramite il principio di flessibilità (art. 352 TFUE), in base al quale se un’azione appare necessaria per realizzare uno degli obiettivi stabiliti dai trattati, senza che questi ultimi abbiano previsto i necessari poteri di azione, il Consiglio, deliberando all’unanimità su proposta della Commissione, e previa approvazione del Parlamento europeo, adotta le disposizioni appropriate. Ciò comporta un’evidente possibilità di dilatazione dei poteri degli organi comunitari.
L’esercizio delle competenze è sottoposto a due principi: sussidiarietà, per cui la UE interviene nei settori che non sono di sua competenza esclusiva, soltanto se e nella misura in cui gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere sufficientemente raggiunti dagli Stati membri, a livello sia centrale sia regionale o locale (i parlamenti nazionali vigilano sul rispetto di tale principio secondo la procedura prevista nel protocollo sull’applicazione dei principi di sussidiarietà e proporzionalità); proporzionalità, per il quale il contenuto e la forma dell’azione della UE non vanno al di là di quanto necessario per il raggiungimento degli obiettivi dell’Unione.
Il Trattato di Lisbona prevede, come già aveva fatto il trattato costituzionale, la ripartizione delle competenze in tre categorie: esclusive della UE, concorrenti, di completamento. Si hanno competenze esclusive quando la UE è l’unica a poter legiferare e adottare atti giuridicamente obbligatori. Sono di competenza esclusiva: unione doganale; definizione delle regole di concorrenza necessarie al funzionamento del mercato interno; politica monetaria; conservazione delle risorse biologiche del mare nel quadro della politica comune della pesca; politica commerciale comune. Vi è poi competenza esclusiva per la conclusione di accordi internazionali, quando tale conclusione è prevista in un atto legislativo della UE o è necessaria per consentirle di esercitare le proprie competenze a livello interno o nella misura in cui tale conclusione possa incidere su norme comuni o alterarne la portata. Si hanno competenze concorrenti quando sia la UE sia gli Stati membri hanno la facoltà di legiferare e adottare atti giuridicamente obbligatori. Gli Stati membri esercitano la loro competenza nella misura in cui la UE non esercita la propria. Così pure gli Stati esercitano nuovamente la loro competenza quando la UE ha deciso di cessare di esercitare la propria. Sono settori di competenza concorrente: mercato interno; politica sociale (per gli aspetti definiti nel TFUE); coesione economica, sociale e territoriale; agricoltura e pesca, tranne la conservazione delle risorse biologiche del mare; ambiente; protezione dei consumatori; trasporti; reti transeuropee; energia; spazio di libertà, sicurezza e giustizia; problemi comuni di sicurezza in materia di sanità pubblica. La UE ha inoltre competenza per condurre azioni nei settori della ricerca, dello sviluppo tecnologico e dello spazio e della cooperazione allo sviluppo e dell’aiuto umanitario, senza che l’esercizio di tale competenza possa avere per effetto di vietare agli Stati membri di esercitare la loro.
Vi è poi la competenza per intraprendere azioni di sostegno, di coordinamento o di completamento. La UE può condurre azioni che completano l’azione degli Stati membri, senza tuttavia sostituirsi alla loro competenza: tutela e miglioramento della salute umana; industria; cultura; istruzione; gioventù, sport e formazione professionale; turismo; protezione civile; cooperazione amministrativa. La UE ha, infine, competenza per promuovere le politiche economiche e dell’occupazione degli Stati membri e assicurarne il coordinamento; definire e attuare una politica estera e di sicurezza comune, compresa la definizione progressiva di una politica di difesa comune. La portata e le modalità d’esercizio delle competenze della UE sono determinate dalle disposizioni specifiche per ciascun settore.
Per concludere va ricordato il ruolo della UE nel settore dei diritti. È un settore dove l’azione della UE è particolarmente rilevante, anche se meno vistosa, perché i diritti sono già garantiti dalle discipline degli Stati membri, generalmente allineate su livelli elevati. La UE fa propria la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (o Carta di Nizza) che ha carattere giuridicamente vincolante, anche se il testo non è incluso nei trattati. La Carta sarà interpretata dalle giurisdizioni statali e della UE tenendo in conto le spiegazioni predisposte dal Praesidium della Convenzione che ha redatto la Carta stessa e aggiornate dal Praesidium della Convenzione europea. Il trattato poi contiene una base giuridica (art. 6 TUE) per l’adesione alla CEDU.
Gli organi dell’Unione
La struttura organizzativa prevista dal più recente trattato consolida con alcuni significativi aggiustamenti la situazione già maturata sulla base dei trattati precedenti. Come già notato, non è possibile individuare in modo persuasivo la presenza del tradizionale principio di separazione dei poteri. Agli organi comunitari le funzioni sono attribuite in modo non sempre razionale, secondo un processo di sedimentazione via via voluto dai trattati succedutisi nel tempo. In modo netto spetta alla Corte e al tribunale di prima istanza la funzione giurisdizionale. La funzione normativa primaria (definita come legislativa, anche se nell’ordinamento comunitario non esiste la legge formale) spetta sia alla Commissione sia al Consiglio (che a prima vista non sembrerebbero organi legislativi) oltre che al Parlamento (che secondo i canoni classici dovrebbe essere il legislatore). La funzione di governo ai Consigli e alla Commissione. La funzione amministrativa essenzialmente alla Commissione. La situazione è quindi complessa e spesso confusa. Si dice, a titolo consolatorio, che nella UE non vige in senso proprio il principio di separazione ma quello dell’equilibrio dei poteri. Tale principio, cioè quello di bilanciamento fra i vari centri istituzionali, assicura una limitazione in senso garantista e quindi una sorta di check and balances di stampo liberale. Il che è vero ma non esclude l’apparente irrazionalità delle scelte succedutesi nel tempo. Il nodo principale sta nella confusione di ruoli fra Parlamento, Consigli, Commissione, tutti coinvolti nelle scelte di indirizzo, nella formazione e, in parte, nell’attuazione della normativa primaria.
Cercando di mettere ordine, si può dire che la UE ha un organo rappresentativo/legislativo (il Parlamento), un insieme di organi di governo/legislativi di cui uno indipendente dagli Stati costitutori (la Commissione) e due composti dai rappresentanti degli Stati (i Consigli). Si aggiunga che nel più recente trattato vengono creati nuovi organi individuali: il presidente stabile del Consiglio europeo, il presidente della Commissione, l’Alto rappresentante per la politica estera e la sicurezza. Si aggiungono altri organi solo menzionabili: la Corte dei conti, la BCE (Banca Centrale Europea), il Comitato delle regioni, il Comitato economico e sociale.
Parlamento europeo
Il Parlamento europeo (art. 14 TUE) è organo rappresentativo dei cittadini della UE, con un numero minimo di 6 seggi per Stato membro e uno massimo di 96 seggi. La composizione del Parlamento europeo è stabilita dal Consiglio europeo, su proposta del Parlamento e con l’approvazione di quest’ultimo. Congiuntamente al Consiglio, esercita la funzione legislativa e la funzione di bilancio; elegge il presidente della Commissione, su proposta del Consiglio europeo. Può presentare mozioni di censura sull’operato della Commissione, esercitando quindi il controllo politico sull’organo.
Consiglio europeo
Gli Stati fanno parte di due organi collegiali denominati consigli, sede della rappresentanza dei propri interessi secondo il modulo proprio degli enti confederativi costituiti da Stati sovrani. Uno di questi è il Consiglio europeo che, innovando rispetto ai trattati vigenti, è oggi compreso tra le istituzioni della UE ed è formato dai capi di Stato e di governo (art. 15 TUE). Definisce gli orientamenti e le priorità politiche generali della UE, è organo politico ma non esercita funzioni legislative. Particolarmente significativo è stato il suo ruolo nel discutere l’ampliamento dei membri della UE e le questioni di politica estera e di sicurezza. Il Consiglio europeo si riunisce due volte per semestre e si pronuncia per consenso, salvo i casi espressamente previsti dal trattato. Il presidente è eletto dal Consiglio europeo a maggioranza qualificata per un mandato di 2 anni e mezzo, rinnovabile una volta; non può esercitare un mandato nazionale; presiede i lavori e ne assicura la preparazione e la continuità in cooperazione con il presidente della Commissione; presenta al Parlamento europeo relazioni e assicura la rappresentanza esterna della UE per le materie relative alla PESC (Politica Estera e di Sicurezza Comune), fatte salve le responsabilità dell’Alto rappresentante della UE per gli Affari esteri e la politica di sicurezza.
Consiglio dei ministri
Il Consiglio dei ministri (art. 16 TUE) è composto da rappresentanti di tutti gli Stati membri scelti in seno ai rispettivi governi, responsabili dei settori interessati dall’ordine del giorno delle singole riunioni in programma. Varia quindi di volta in volta la sua composizione. La presidenza spetta a ciascuno Stato per 6 mesi secondo un principio di continuo avvicendamento fissato da delibera dello stesso Consiglio. L’organo si riunisce in varie composizioni, il cui elenco è adottato dal Consiglio europeo a maggioranza qualificata. Il Consiglio ‘affari generali’ assicura la coerenza dei lavori di tutte le formazioni del Consiglio, prepara le riunioni del Consiglio europeo e ne assicura in seguito il collegamento con il presidente del Consiglio europeo e la Commissione. Il Consiglio ‘Affari esteri’ – presieduto dall’Alto rappresentante della UE per gli Affari esteri e la politica di sicurezza – si occupa dell’azione esterna della UE secondo le linee strategiche definite dal Consiglio europeo e assicura la coerenza dell’azione dell’Unione.
Il Consiglio dei ministri è assistito da un Comitato dei rappresentanti permanenti (CO.RE.PER) degli Stati membri con funzioni preparatorie dei lavori dell’organo. Particolarmente importanti sono le sue attribuzioni. Il Consiglio ha un potere decisionale che comporta il ricorso a competenze di indirizzo e coordinamento, a competenze definite legislative (adozione di regolamenti e direttive), esercitabili in collaborazione con gli altri organi, ed esecutive.
Il Consiglio si riunisce in seduta pubblica quando delibera e vota su un progetto di atto legislativo. Le sessioni del Consiglio sono suddivise fra parti dedicate alle deliberazioni su atti legislativi e quelle relative ad attività non legislative. Particolarmente complesse sono le procedure di voto in seno all’organo, in specie per quanto riguarda le maggioranze di formazione delle decisioni. A parte i casi in cui è richiesta l’unanimità (politica estera e di sicurezza comune, cooperazione giudiziaria e di polizia, fisco e cultura), quando le decisioni sono a maggioranza deve raggiungersi la maggioranza qualificata tramite un criterio di ponderazione dei voti che tenga in considerazione la consistenza demografica e un meccanismo di perequazione tale da consentire l’equilibrio fra Stati con numerosa popolazione e Stati con popolazione ridotta. In virtù del sistema di ponderazione i Paesi maggiori non possono mettere in minoranza quelli più piccoli e viceversa. Il Trattato di Lisbona prevede il criterio della doppia maggioranza (55% dei membri del Consiglio, con un minimo di 15, rappresentanti il 65% della popolazione), ma aggiorna la sua definitiva entrata in vigore a partire dal 1° novembre 2014, data fino alla quale rimane in vigore il sistema di maggioranza qualificata di cui all’art. 205 TCE.
Commissione europea
La Commissione ha il compito di vigilare sull’applicazione dei trattati e delle misure adottate dalle istituzioni. Dà esecuzione al bilancio e gestisce i programmi. Promuove l’attività normativa del Consiglio e del Parlamento. Esercita funzioni di coordinamento, di esecuzione e di gestione (art. 17 TUE). La Commissione è composta da un commissario per ogni Stato membro. I commissari esercitano le loro funzioni in completa indipendenza rispetto agli Stati di provenienza e nell’interesse generale della UE, poiché non devono sollecitare o accettare istruzioni dai governi. La Commissione è assistita inoltre da un imponente apparato burocratico.
La prima Commissione da nominarsi dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona sarà composta da un rappresentante per ogni Stato membro, compreso il presidente della Commissione e l’Alto rappresentante della UE per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, che è uno dei vicepresidenti. Successivamente, a far tempo dal rinnovo dell’organo (2014) la composizione corrisponderà ai 2/3 degli Stati membri, salvo modifiche da decidersi dal Consiglio europeo all’unanimità. I membri dovranno essere scelti sulla base di un sistema di rotazione paritaria tra gli Stati. Tale sistema sarà stabilito dal Consiglio europeo all’unanimità, in base al criterio di assoluta parità fra gli Stati quanto alla determinazione dell’avvicendamento e in modo da riflettere la molteplicità demografica e geografica degli Stati membri.
Il presidente è un organo individuale, con competenze proprie, eletto con un procedimento che prevede un voto del Consiglio europeo a maggioranza qualificata e un voto del Parlamento a maggioranza semplice. Il presidente concorda con il Consiglio i nomi dei commissari dopo essere stato eletto. Decide la strutturazione delle competenze della Commissione e la ripartizione delle stesse tra i commissari. Può in seguito modificare la ripartizione. Una dichiarazione allegata al Trattato stabilisce che il Parlamento europeo e il Consiglio europeo sono competenti per il processo che porta all’elezione del presidente della Commissione. Procederanno quindi, preliminarmente alla decisione del Consiglio, alla definizione delle modalità procedurali e alle consultazioni circa il profilo dei candidati alla carica di presidente della Commissione, tenendo conto delle elezioni del Parlamento europeo. Il presidente definisce gli orientamenti nel cui quadro opera la Commissione; decide la sua organizzazione interna; nomina tra i suoi membri i vicepresidenti, a esclusione dell’Alto rappresentante della UE per gli Affari esteri e la politica di sicurezza. Coopera con il presidente del Consiglio europeo nella preparazione dei lavori dello stesso Consiglio. Gli altri membri della Commissione sono designati dal Consiglio, d’intesa con il presidente della Commissione. Il presidente, l’Alto rappresentante della UE per gli Affari esteri e la politica di sicurezza e gli altri membri della Commissione sono soggetti collettivamente a un voto di approvazione da parte del Parlamento europeo.
La Commissione è responsabile collegialmente dinanzi al Parlamento europeo: nel caso di approvazione di una mozione di censura da parte del Parlamento i commissari devono abbandonare collettivamente le loro funzioni e l’Alto rappresentante della UE per gli Affari esteri e la politica di sicurezza deve dimettersi dalle sue funzioni. Il presidente della Commissione può essere revocato dal Parlamento con un voto di sfiducia che coinvolga la responsabilità collettiva dell’intera Commissione.
La Commissione ha il monopolio dell’iniziativa legislativa, salvo che i trattati non dispongano diversamente; promuove l’interesse generale europeo; avvia il processo di programmazione annuale e pluriannuale della UE e, fatta eccezione per la PESC e per gli altri casi previsti dai trattati, garantisce la rappresentanza esterna dell’Unione.
L’Alto rappresentante per la politica estera e la sicurezza rappresenta la UE per le materie che rientrano nella politica estera e di sicurezza comune (art. 18 TUE). È nominato dal Consiglio europeo, che delibera a maggioranza qualificata con l’accordo del presidente della Commissione. Presiede il Consiglio ‘Affari esteri’ ed è uno dei vicepresidenti della Commissione (cosiddetto doppio cappello), all’interno della quale è incaricato delle relazioni esterne e del coordinamento degli altri aspetti dell’azione esterna della UE: limitatamente all’esercizio di queste funzioni, è soggetto alle procedure che regolano il funzionamento della Commissione. Conduce a nome della UE il dialogo politico con i terzi. Esprime nelle organizzazioni e nelle conferenze internazionali la posizione dell’Unione. Si avvale del Servizio europeo per l’azione esterna, che è posto alle sue dipendenze. Il Servizio opererà in collaborazione con i servizi diplomatici degli Stati come un vero e proprio ministro per gli Affari esteri della UE, con funzioni più ampie di quelle dei ministri nazionali, ed estese anche alla materia della sicurezza. Il Trattato dell’Unione Europea dedica all’Alto rappresentante un intero titolo. Il Consiglio europeo con l’accordo del presidente della Commissione lo nomina e può revocarlo.
Corte di giustizia
La forma di governo non può esser compresa se non si include in essa il ruolo della giurisdizione comunitaria articolata sulla Corte di giustizia e sul tribunale di prima istanza (art. 19 TUE).
La Corte ha una serie di attribuzioni che consentono di rendere reale ed efficace il disegno organizzativo previsto dai trattati. In base alle sue competenze di controllo giurisdizionale è possibile assicurare effettività alle attribuzioni dei vari organi. La Corte è infatti garante delle competenze assegnate in modo tale da reprimere atti adottati in violazione delle stesse. Un atto del Consiglio o del Parlamento o della Commissione può essere annullato su ricorso di un organo o di vari soggetti abilitati. Inoltre la Corte può dirimere, similmente a quanto avviene in ordinamenti di impronta federale, i conflitti di attribuzioni fra organi, su ricorso dell’organo che si senta menomato nelle sue competenze da parte di un atto di altro organo. E in effetti esiste un’ampia giurisprudenza con cui la Corte risolve i casi in cui si manifestino violazioni delle rispettive sfere di competenza. La Corte è quindi l’organo regolatore dei rapporti fra organi e come tale finisce per farsi garante della forma di governo.
Le procedure decisionali
Le procedure decisionali della UE riflettono il delicato equilibrio che i padri fondatori hanno voluto stabilire all’interno dei trattati. L’evoluzione seguita dalle istituzioni, ormai in atto da molti anni, ha peraltro implicato un rafforzamento del ruolo rivestito dal Parlamento europeo attraverso un’estensione della procedura di codecisione a molteplici ambiti precedentemente non previsti. Nonostante ciò rimangono molte differenze tra i vari settori delle politiche della UE, che comportano un diverso coinvolgimento delle varie istituzioni.
La formazione degli atti comunitari di diritto derivato a carattere normativo, essenzialmente direttive e regolamenti, è il frutto di un procedimento estremamente articolato, che vede il coinvolgimento di più istituzioni. Nell’ambito delle quattro fasi in cui si articola l’iter di formazione e successiva attuazione degli atti normativi – iniziativa, consultazione, adozione, esecuzione – il monopolio del potere di proposta spetta alla Commissione; la seconda fase si sostanzia nell’assunzione dei pareri obbligatori ovvero facoltativi. Tali pareri risultano affidati, a seconda dei casi, al Comitato economico e sociale, al Comitato delle regioni, al Parlamento europeo, alla BCE, nonché a una costellazione di comitati istituiti ad hoc per l’assolvimento di funzioni tecniche. La funzione consultiva di maggior importanza è affidata al Parlamento europeo. Pur se sprovvista di effetti vincolanti per la Commissione, salvo i casi per i quali è richiesta la procedura di parere conforme, viene riconosciuta indefettibile dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, per cui la mancata consultazione costituisce violazione delle forme sostanziali, portando conseguentemente all’illegittimità dell’atto. Il terzo momento è costituito dalla fase di adozione dell’atto, la più articolata e complessa insieme con quella di esecuzione. Infatti, una volta predisposto il progetto preliminare da parte della Commissione, eventualmente correlato di tutti i pareri necessari, esso dovrà essere successivamente trasmesso al Consiglio dei ministri, che procederà al suo esame e alla successiva adozione.
Il Consiglio, secondo una procedura preliminare adottata dallo stesso all’unanimità, su proposta della Commissione e previo parere del Parlamento europeo, può riservarsi la competenza a dare esecuzione agli atti normativi comunitari precedentemente adottati. Tuttavia il Consiglio può delegare alla Commissione il potere di dare esecuzione all’atto adottato; può inoltre determinare le modalità cui la Commissione dovrà attenersi nell’esercizio della delega. Si spiega in tal modo la prassi, sviluppatasi al fine di limitare il ruolo attivo della Commissione, di affiancarle i cosiddetti Comitati di gestione e di regolamentazione, composti da funzionari ed esperti nazionali, presieduti da un rappresentante della Commissione e generalmente competenti al rilascio di un parere nell’ambito dei settori di relativa attribuzione. Tali organi consentono di instaurare un dialogo con le amministrazioni nazionali prima di adottare le misure di esecuzione, assicurandosi che le disposizioni predisposte dalla Commissione corrispondano alla realtà di ciascuno dei Paesi interessati (cosiddetta comitologia).
Delle complesse procedure decisionali può darsi soltanto un cenno sintetico. Secondo la procedura di codecisione, nella prima lettura la Commissione presenta contestualmente la propria proposta al Consiglio e al Parlamento europeo. Ciò consente un esame parallelo in seno alle due istituzioni, permettendo una reciproca influenza prima dell’adozione dell’atto. Si prospettano tre possibilità: il Consiglio, deliberando a maggioranza qualificata, può adottare l’atto proposto, quando il Parlamento non si sia pronunciato o non abbia proposto emendamenti; il Consiglio, deliberando a maggioranza qualificata, può approvare tutti gli emendamenti eventualmente presentati dal Parlamento europeo, adottando l’atto emendato; il Consiglio può ritenere non opportune le modifiche predisposte nel parere dal Parlamento e adottare una posizione comune che sarà trasmessa al Parlamento europeo con l’indicazione delle motivazioni richieste dal caso.
In base all’ultima delle ipotesi configurate si apre la seconda fase della procedura, che assegna al Parlamento europeo un periodo di 3 mesi per decidere tra: approvare la posizione comune o non pronunciarsi, nel qual caso l’atto si dovrà ritenere adottato in conformità alla posizione comune; respingere la posizione comune a maggioranza assoluta dei suoi membri, nel qual caso l’atto proposto non si ritiene adottato; proporre, deliberando a maggioranza assoluta dei suoi membri, emendamenti alla posizione comune, nel qual caso il testo emendato dovrà essere ritrasmesso al Consiglio e alla Commissione, la quale porterà alla formulazione di un proprio parere sugli emendamenti.
Il Consiglio, entro tre mesi dal ricevimento del testo emendato dal Parlamento, può decidere di approvare tutte le modifiche (in questo caso l’atto si riterrà definitivamente adottato) ovvero di non approvare tutte le modifiche: in questo caso si aprirà una procedura di conciliazione, che vedrà la convocazione di un apposito Comitato di conciliazione, costituito da tutti i membri del Consiglio, o da loro rappresentanti, e da rappresentanti del Parlamento europeo. Viene così affidata a quest’organo, con la partecipazione della Commissione, la funzione di ricercare una soluzione di compromesso: l’organo medesimo, infatti, dispone di sei settimane per elaborare un progetto comune. In caso di riuscita nell’impresa, il Consiglio e il Parlamento europeo dispongono di un termine di ulteriori sei settimane per approvare l’atto in conformità al progetto comune, rispettivamente a maggioranza qualificata per il Consiglio e a maggioranza assoluta per il Parlamento. In caso di mancata approvazione da parte di una delle due istituzioni l’atto si riterrà come non adottato.
Secondo la procedura di consultazione, nei limitati casi previsti dai trattati, il Consiglio consulta il Parlamento europeo prima di adottare la decisione sulla base di una proposta presentata dalla Commissione. Il Consiglio è chiamato a tenere in debita considerazione la posizione espressa dall’assemblea, nonostante l’assenza di un’esplicita vincolatività del parere. La consultazione del Parlamento assume tuttavia carattere di elemento sostanziale per la validità dell’atto, che risulterà viziato da nullità nel caso in cui se ne registri l’inosservanza. Inoltre, si prevede il ritorno a una nuova consultazione del Parlamento europeo nell’ipotesi in cui il Consiglio decida di apportare emendamenti di natura sostanziale alla proposta originaria.
La procedura di parere conforme è stata a suo tempo introdotta con riferimento alla conclusione degli accordi di associazione e alle istanze di adesione di nuovi Stati. È stata successivamente estesa ad altri settori, in particolare alle disposizioni in materia di circolazione e soggiorno dei cittadini europei. La procedura comporta l’onere per il Consiglio di ottenere il consenso, il cosiddetto parere conforme, del Parlamento europeo ai fini dell’adozione di alcune decisioni di rilevante peso. Il Parlamento può decidere di approvare o rigettare la proposta, ma non può modificarla. In assenza del parere conforme del Parlamento europeo, l’atto non può considerarsi adottato. A differenza delle procedure di cooperazione e di codecisione, la procedura di parere conforme sembra riflettere una reale parità tra Parlamento e Consiglio, in quanto in assenza del positivo parere del Parlamento il Consiglio non può deliberare. Infatti, la consultazione in questi casi non è prevista solo come obbligatoria, ma anche come vincolante.
La problematica qualificazione della forma di governo
Per offrire un’opinione conclusiva sulla forma di governo occorre intrecciare le disposizioni che toccano specificamente i diversi organi con quelle che riguardano le procedure decisionali descritte dai trattati, procedure in cui emergono gli interventi imputabili di volta in volta alle singole istituzioni. Da questo esame risulta confermata la notevole confusione che permane anche dopo i tentativi di razionalizzazione compiuti dai successivi trattati su una congerie di interventi succedutisi nel tempo che hanno dovuto adattarsi alle necessità del momento. Nel complesso possiamo confermare quanto detto all’inizio: il principio della separazione dei poteri sta unicamente sullo sfondo. Non si trova soddisfatto se non in parte. L’esempio più sicuro è quello della netta separazione dell’organo di garanzia giurisdizionale delle competenze e dei diritti dall’insieme degli altri organi di governo che in modo promiscuo cumulano indirizzo, formazione di atti normativi ed esecuzione. Per tutti questi ultimi la confusione di attribuzioni trova compensazione nel principio di equilibrio fra i poteri. La frammentazione delle attribuzioni su più centri organizzativi, alcuni espressione di interessi statali, altri indipendenti dagli Stati, dovrebbe comunque assicurare il rispetto del principio garantista di controllo interpotere (check and balances).
Un tentativo di razionalizzazione delle funzioni spettanti agli organi potrebbe farsi scorporandole e riaccorpandole seguendo questo schema: funzioni di indirizzo, funzioni di rappresentanza, funzioni di controllo, funzioni amministrative. Agli organi che sono emanazione degli Stati spettano funzioni di indirizzo politico dell’Unione. Il Consiglio europeo stabilisce le grandi opzioni. Il Consiglio dei ministri opera come organo di governo ed è compartecipe della funzione normativa (pomposamente definita legislativa). La Commissione, svincolata dagli Stati, è l’organo che ha la gestione corrente dell’Unione. Sulla base degli indirizzi del Consiglio europeo e dei trattati ha un importantissimo ruolo di iniziativa per mettere in moto l’attività di normazione, inoltre vigila sull’osservanza dei trattati e dispone della funzione amministrativa. Le funzioni di rappresentanza spettano ai Consigli per quanto riguarda gli interessi degli Stati membri, mentre spettano al Parlamento per quanto riguarda i cittadini dei Paesi europei. Quelle di controllo competono alla Corte e alle altre istanze giurisdizionali.
Si è cercato, in precedenza, di individuare l’assetto organizzativo e funzionale che attualmente caratterizza i diversi soggetti che concorrono a individuare la forma di governo dell’Unione. Si tratta ora di verificare la riconducibilità della stessa alle categorie classificatorie utilizzate dalla scienza comparatistica. La risposta discende agevolmente da quanto ricostruito, nel senso della non riconducibilità della forma di governo europea all’interno delle categorie tradizionalmente privilegiate dalla dottrina.
Se si analizza il quadro istituzionale, si possono rilevare due distinti, ma al contempo interconnessi, modelli organizzativi. Da una parte viene in rilievo il Consiglio, istituzione dal carattere prettamente intergovernativo nella quale di fatto risiede l’essenza del potere in ambito comunitario, che, insieme con il Consiglio europeo, organo nato dalla prassi delle riunioni al vertice dei capi di Stato o di governo degli Stati membri, rappresenta la componente internazionale; dall’altra si collocano il Parlamento europeo, la Commissione e la Corte di giustizia, che rappresentano la componente sopranazionale: coesistono dunque attualmente nella struttura della UE due organi legislativi, il Consiglio e il Parlamento europeo, e due organi esecutivi, il Consiglio europeo e la Commissione.
L’evoluzione istituzionale discendente dai più recenti trattati fa emergere, quanto meno in nuce, i due organi legislativi (Consiglio dei ministri e Parlamento europeo) quali rami di un ipotetico sistema bicamerale federale, all’interno del quale il Parlamento opererebbe come sede di rappresentanza degli interessi del popolo europeo e il Consiglio dei ministri delle istanze degli Stati membri. L’embrione del bicameralismo federale sembra essere rafforzato dal diverso criterio di legittimazione delle due istituzioni coinvolte. I membri del Parlamento europeo sono infatti eletti a suffragio universale diretto, libero e segreto, con un mandato di cinque anni, mentre il Consiglio dei ministri è composto da un rappresentante di ciascuno Stato membro, abilitato a impegnare il governo che rappresenta.
Sul versante della funzione di indirizzo ed esecutiva, la UE sembra essere guidata da un governo bipolare, costituito da una testa tecnica, data dalla Commissione, e da una testa politica, rappresentata dal Consiglio europeo, ove l’equilibrio sembra essersi spostato, con il trascorrere degli anni, a favore della seconda con il conseguente declassamento della prima. Il Trattato di Lisbona sembra assecondare tale tendenza, facendo rientrare a pieno titolo il Consiglio europeo tra le istituzioni della UE. Esso rimane un organo intergovernativo, composto dai capi di Stato o di governo degli Stati membri e dal presidente della Commissione, ma con un presidente stabile, che soppianta il metodo della rotazione semestrale, conferendo coerenza e continuità alla politica dell’Unione.
In realtà, nonostante la previsione di questa figura di ‘nuova generazione’, dall’analisi delle competenze attribuitegli sembra che il trattato abbia voluto delineare un soggetto qualificabile come chairman piuttosto che come presidente con effettivi poteri operativi. La differenza tra le due qualificazioni non è solo lessicale, ma anche sostanziale, in quanto la prima designa un soggetto con semplici poteri di direzione e coordinamento di un organo collegiale, mentre la seconda vuole significare una direzione politica, caratterizzata da un forte ruolo esecutivo. Alla luce delle funzioni che gli sono state affidate non sembra potersi affermare con certezza che tale figura costituirà effettivamente una forte leadership in seno alla UE, anche se ne è stata posta in rilievo l’esigenza, affinché possa fungere da magnete di nuove politiche nella sfera potestativa dell’Unione. Tale obiettivo potrebbe forse essere realizzato qualora avesse luogo il cumulo delle due cariche di presidente del Consiglio europeo e di presidente della Commissione, possibilità peraltro non incompatibile con la lettera del trattato. Solo la prassi consentirà di capire se il presidente del Consiglio europeo sarà più assimilabile a un monarca costituzionale, organo con valore simbolico che secondo il modello inglese regna ma non governa, o alla figura presidenziale della Quarta repubblica francese o della Repubblica italiana, autorità garante dell’equilibrio costituzionale e ago della bilancia tra i diversi poteri, ovvero a un presidente della Quinta repubblica francese, con poteri estesi e una forte presenza in politica estera, o infine se non assomiglierà ad alcuna delle precedenti figure.
Le funzioni complessivamente attribuite al Consiglio europeo potranno permettere a tale istituzione di incidere in misura significativa sulle principali politiche della UE, atteggiandosi quale presidente collegiale dell’Unione, riassorbendo al suo interno il proprio presidente. Tali ipotesi potrebbero denotare una linea evolutiva della forma di governo nella direzione non di un cancellierato, bensì di un sistema a esecutivo bicefalo simile al modello francese, caratterizzato dalla presenza di un capo dello Stato, titolare delle funzioni d’indirizzo e di politica estera, e di un governo che esercita le competenze relative agli affari interni e alla politica economica. Quest’ultima entità è rappresentata dalla Commissione, organo di natura collegiale, costituito da un proprio presidente, dal neoministro degli Affari esteri e da una serie di commissari.
Gli stessi profili che caratterizzano il procedimento di formazione della Commissione e il rapporto che la medesima instaura con il Parlamento europeo rivelano segnali di politicizzazione della Commissione, essenzialmente nata come organo super partes dotato di alta professionalità tecnica al fine di promuovere l’interesse generale della Comunità nei confronti degli Stati membri.
La questione posta all’inizio del paragrafo non può dunque ancora trovare una soluzione certa e definitiva. Risulterebbe d’altra parte rischioso, e forse anche poco utile, il tentativo di attribuire etichette ormai sbiadite a un fenomeno in divenire: i risultati potrebbero essere fuorvianti, in particolare ove si tentasse di utilizzare (presunte) categorie tipiche per realtà sicuramente atipiche come l’Unione Europea.
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