Abstract
La presente voce si propone di illustrare le principali caratteristiche della forma di governo degli Stati Uniti d’America, soffermandosi su taluni degli aspetti meno noti, come ad es. il filibuster. Un rilievo particolare è dato a quell’imponente fenomeno di aggrandizement dei poteri presidenziali, anche noto come Imperial Presidency.
La forma di governo degli Stati Uniti, sintetizzandone le caratteristiche, può descriversi come federale e presidenziale. Federale perché gli Stati Uniti sono uno Stato federale che storicamente ha avuto origine dall’unione in un unico nuovo soggetto giuridico di una pluralità di Stati preesistenti, attraverso un processo federativo che è culminato nell’approvazione della Costituzione del 17 settembre 1787.
Attualmente gli Stati che formano gli Stati Uniti sono 50, a parte dovendosi considerare il District of Columbia, ossia il distretto in cui ha sede l’intero governo, che non è uno Stato ed ha uno statuto del tutto particolare, essendo sotto la diretta amministrazione del Congresso. Presidenziale perché al vertice dello Stato vi è un Presidente che nello stesso tempo è il Capo dello Stato ed impersona il potere esecutivo. Il Presidente è elettivo, non può essere rimosso dal Congresso, salvo il caso di impeachment, dura in carica quattro anni e dal 1951 non può essere rieletto più di una sola volta. A differenza dell’ordinamento inglese quello statunitense in ragione della sua origine storica è pertanto retto da una Costituzione scritta posta al vertice delle fonti. Si tratta di una Costituzione che sin dall’origine risulta essere rigida, nel senso che per modificarla occorre un apposito procedimento disciplinato dall’articolo V della stessa Costituzione e, a partire dal noto caso Marbury v. Madison (Suprema Corte Federale 5 U.S. 137, 1803), è divenuta anche garantita, nel senso che la conformità ad essa di tutte le leggi è giustiziabile attraverso un sindacato di legittimità costituzionale che è di tipo diffuso, quantomeno sino al momento della definitiva pronuncia di costituzionalità resa dalla Corte Suprema Federale che, in forza del principio dello stare decisis, ha una efficacia vincolante per qualsiasi altro giudice. Questo peraltro non significa che nell’ordinamento statunitense non vi siano convenzioni costituzionali analoghe a quelle proprie del modello inglese, anzi ve ne sono molte, ma esse disciplinano ambiti più specifici non regolati dalla Costituzione scritta.
La Costituzione è, come detto, del 1787 e nel suo impianto risente della temperie culturale e storica in cui fu scritta, potendosi in essa intravedere il felice adattamento, compiuto con misura, equilibrio ed uno straordinario pragmatismo, della diarchia Parlamento-Re, propria della Monarchia costituzionale inglese dell’epoca, ad uno Stato che avrebbe dovuto invece essere repubblicano e federale.
Alla base dell’ordinamento statunitense sta dunque il principio della separazione dei poteri teorizzato da Montesquieu, seppur “performato” dall’esistenza di checks and balances che tuttavia lo distaccano da questa pura concezione (Casper, G., An Essay in Separation of Powers: some Early version and Practices, in Wm. & Mary L. Rev, vol. 30, n. 2, 1989, 224).
Volendo riassumere il carattere della sua struttura formale si può dire che è quello di una organizzazione all’interno della quale i vari poteri e, per quel che qui interessa, le due Camere e l’esecutivo sono continuamente chiamati a confrontarsi e a scontrarsi in una diuturna interazione fatta di contrattazioni e di reciproche concessioni circa l’adozione ed i contenuti di tutti i più importanti atti connessi all’esercizio dei rispettivi poteri.
Il potere legislativo e (in modo concorrente col Presidente) le scelte di politica generale sono affidati ad un Parlamento, denominato Congresso, composto da un Senato e da una Camera dei Rappresentanti.
Si tratta di un bicameralismo che, quantomeno per il procedimento di formazione delle leggi è sostanzialmente perfetto, salvo il fatto che «tutti i progetti di legge relativi a misure fiscali devono iniziare il proprio iter legislativo alla Camera dei rappresentanti, ma il Senato può concorrervi, come per gli altri progetti di legge, proponendo emendamenti» (art. I, sezione VII, Cost. S.U.).
La durata della legislatura è stabilita in due anni per la Camera dei Rappresentanti ed in sei anni per il Senato. Tuttavia per il Senato si è previsto un meccanismo tale per cui ogni due anni si rendono vacanti un terzo dei seggi, sì che ogni biennio un terzo del Senato risulti soggetto ad elezione.
Questo significa che negli Stati Uniti ogni due anni viene rinnovata l’intera Camera dei rappresentanti ed un terzo del Senato. Senatori e Rappresentanti sono eletti in base alla cd. Plurality rule, ossia il sistema uninominale ad unico turno.
La combinazione fra la dimensione statale dell’elezione dei Rappresentanti e dei Senatori ed il sistema elettorale adottato comporta che negli Stati Uniti vi sia un assetto politico che nella sua essenza è stato ed è sostanzialmente bipartitico. Ma se è del tutto vero che il sistema statunitense è esistenzialmente bipartitico non è, però, vero che esso si basi su di una logica strettamente maggioritaria.
Questo dipende non soltanto dal fatto che la maggioranza nelle due Camere può essere di colore politico diverso o dal fatto che il Presidente può essere di colore politico diverso da quello della maggioranza delle due Camere, ma anche da un fenomeno specifico del sistema statunitense che dipende dall’assetto delle procedure che regolano i meccanismi decisionali del Senato, meglio conosciuto come filibuster (ossia ostruzionismo). Il filibuster serve principalmente per impedire il voto su di una legge (legislative filibuster), ma esso può riguardare anche altre “misure o mozioni o affari” come ad esempio la modifica delle regole procedurali interne, o come talune nomine presidenziali, etc. Si tratta di un forte contrappeso al principio maggioritario, soprattutto in sede di approvazione delle leggi, ove si consideri che, stante in questo ambito la pressoché assoluta parità fra le due Camere, il filibuster può avere un effetto di blocco anche sulle leggi già approvate dalla Camera dei Rappresentanti.
Non a caso esso è considerato come uno dei pilastri del sistema politico statunitense, definito dai suoi sostenitori come the Soul of the Senate, al punto che il tentativo di indebolirne l’efficacia è stato nel gergo politico e giornalistico ribattezzato the nuclear option.
Il filibuster, pur essendo un freno alla logica maggioritaria, non va, però, sopravvalutato nella sua rilevanza, sebbene si possa osservare che lo stesso si inserisce nella logica voluta dalla Costituzione con il sistema dei checks and balances, costituendo un contrappeso all’attivismo presidenziale quando il partito del Presidente sia maggioranza in ambedue i rami del Congresso. È questa la ragione per cui da molte parti viene osservato che l’eliminazione del filibuster indebolirebbe le prerogative del Congresso.
Non va tuttavia sottaciuto che di recente si è riacceso il dibattito sull’essenzialità del filibuster nella vita del Senato. La sua eliminazione con un voto a maggioranza semplice sembra infatti possibile in attuazione di un principio meglio noto come constitutional option. Questa, sottintendendo che le norme procedurali fatte da un precedente Congresso non sarebbero in grado di vincolare il Congresso successivo, si configurerebbe pertanto come «an exercize of a Senate majority’s power under the Constitution to define Senate practices and procedures» (Republican Policy Committee, edited by, The Senate’s Power to Make Procedural Rules by Majority Vote, Washington, s.d., 2).
Ma se la constitutional option viene in prevalenza ritenuta legittima, rimane tuttavia controverso il suo ambito di applicazione poiché essa non legittimerebbe l’indiscriminata modifica di tutte le regole di condotta del Senato, ma solo sarebbe da usare «to correct abuses of Senate rules and precedents». In special modo non potrebbe essere usata «to destroy the filibuster for legislation», perché «to eliminate the legislative filibuster would not ristorative of Senate norms and traditions» (Republican Policy Committee, op. cit., 2).
Come l’art. I della Costituzione statunitense disciplina il potere legislativo, così l’art. II è dedicato al potere esecutivo. Ai sensi dell’art. II, sez. I, clausola 1, Cost. S.U. – la cd. vesting clause che recita: «the executive power shall be vested in a President» – (tutto il potere esecutivo è conferito ad un Presidente).
La Costituzione prevede altresì la figura del Vicepresidente che è un organo formalmente autonomo ed indipendente del Presidente, anch’esso come il Presidente elettivo e pertanto non revocabile dall’incarico. Negli Stati Uniti infatti il Vicepresidente ha una serie di poteri che gli sono attribuiti direttamente dalla Costituzione.
Notevole interesse riveste l’analisi delle modalità previste per l’elezione del Presidente e del Vicepresidente, ossia il cd. presidential ticket. Negli Stati Uniti infatti l’elezione del Presidente e del Vicepresidente non è – come pure da molti si crede – un’elezione diretta, bensì un’elezione indiretta o di secondo grado, per di più strutturata su base statale. Semplificando: vince le elezioni non il candidato che ha ottenuto più voti, ma il condidato che ha guadagnato la maggioranza degli Elettori eletti in ciascuno Stato.
Per Costituzione sono infatti gli Elettori i soggetti a cui formalmente spetta di eleggere sia il Presidente sia il Vicepresidente degli Stati Uniti (attualmente gli Elettori sono 538, pari al numero dei cento Senatori e dei 435 Rappresentanti, a cui devono aggiungersi i tre Elettori del District of Columbia).
Quanto al ruolo ed ai poteri presidenziali occorre osservare che il Presidente è uno momento il Capo dello Stato e il capo dell’esecutivo.
In tale duplice veste egli è il Com-mander-in Chief di tutte le forze armate e della milizia dei diversi Stati, può richiedere ai titolari dei Dicasteri dell’esecutivo un parere scritto su ogni argomento inerente ai compiti dei rispettivi uffici, ha il potere di concedere la grazia e di commutare le pene, salvo nei casi di impeachment, può concludere trattati with the advice and consent del Senato, a lui compete di nominare, anche in questa caso with advice and consent del Senato, gli ambasciatori, i diplomatici ed i consoli, nonché i giudici della Corte Suprema e tutti gli altri titolari di cariche pubbliche degli Stati Uniti (per la nomina degli inferior officers è, però, previsto che il Congresso possa riservarla o al solo Presidente, o alle corti giudiziarie, ovvero ai titolari dei singoli Dicasteri), gli è altresì attribuito il potere di assegnare le cariche che si rendessero vacanti nell’intervallo tra una sessione e l’altra del Senato. Inoltre può on extraordinary occasions convocare una od ambedue le Camere. Da ultimo è al Presidente che la Costituzione assegna la competenza ad accreditare ambasciatori e diplomatici e di conferire la nomina ufficiale a tutti i titolari di cariche pubbliche degli Stati Uniti.
Si è soliti definire la forma di governo statunitense come una forma di governo basata sul principio della separazione dei poteri, seppur temperata dalla previsione di checks and balances. Formula che nella sua astratta esattezza è in realtà assolutamente insoddisfacente, se non si scende nel concreto.
Ed infatti ad analizzare l’assetto costituzionale dei rapporti fra legislativo ed esecutivo si rimane impressionati dalla natura per così dire contrattuale di quasi tutti i meccanismi decisionali che nel loro reale funzionamento continuamente mettono in gioco la partecipazione di tutti i principali attori politici. Ovviamente non si può dubitare del fatto che nella sua generale impostazione l’intero sistema sia basato sulla separazione dei poteri. In particolare, per quel che concerne il potere legislativo e quello esecutivo, tale separazione emerge sia dal fatto che ordinariamente (salvo il caso di impeachment) nessuno di questi due poteri può incidere sulla permanenza in carica dell’altro sia dal fatto che nessun Senatore o Rappresentante può far parte del Governo, essendo stabilita un’assoluta incompatibilità fra il ricoprire any civil office under the authority of the United States e l’essere membro di una delle due Camere, sia ancora dal fatto che è escluso che il potere legislativo possa essere delegato o comunque esercitato in via d’urgenza dall’esecutivo (il che per vero non vuol dire che in concreto non si sia realizzata, attraverso l’autorizzazione ad adottare regulations, una forma di delegazione o che il Presidente, nel caso di una proclamata National emergency non eserciti un’ampia law making discretion). Nondimeno a quest’assetto di base si accompagnano dei reciproci poteri di controllo e/o di interdizione che sono davvero importanti, delineando un modello assai più complesso con ampie eccezioni al principio di separazione dei poteri. Il Presidente ha il diritto di veto sulle leggi, mentre compete al Congresso vigilare sul comportamento del «President, Vice-President and all civil officers of the United States», allo scopo di destituirli «from office on impeachment for and convinction of treason, bribery, or high crimes and misdemeanours» (è l’impeachment art. II, sez. IV, Cost. S.U.). Oltre a ciò è previsto che taluni tra i più importanti poteri del Presidente, tra cui la ratifica dei trattati, la nomina dei ministri e dei giudici della Corte Suprema Federale, debbano essere esercitati with the advice and consent of the Senate.
Per comprendere la trama dei rapporti fra legislativo ed esecutivo non è, però, sufficiente fermarsi ai cd. presidential express powers, ossia i poteri presidenziali enumerati in Costituzione, ma occorre considerare che accanto ad essi esistono una serie di poteri presidenziali impliciti, i quali costituirebbero «la fonte della capacità del Presidente ad agire da solo, spesso in assenza di leggi del Congresso» (è questa la implied powers doctrine).
È opinione diffusa nella dottrina e nella giurisprudenza statunitense che fra legislativo ed esecutivo la Costituzione abbia lasciato delle gray areas. Sarebbe questa l’area delle Presidential directives (le più importanti delle quali sono gli Executive orders e le Presidential proclamations) e di altre tipologie di atti presidenziali (ad es. le Signing statements): una zona grigia all’interno della quale si radicherebbe un più generale President’s lawmaking power).
Gli Executive orders sono comunque atttualmente divenuti la più importante tipologia di direttive con cui il Presidente dà corso alle Executive actions che intende intraprendere.
Sul potere presidenziale di adottare Executive orders nessun dubbio può sussistere. Come ribadito dalla Suprema Corte Federale (Corte Suprema Federale, Youngstown Sheet Tube & Co. v. Sawyer, 343 U.S. 579, 1952) tali atti hanno due fonti potenziali: la Costituzione e le leggi federali.
Molto controversi rimangono tuttavia i limiti entro cui deve ritenersi confinato questo potere. Quel che è certo è che quella dell’adozione di Executive orders senza o contro l’autorità del Congresso è una pratica che mette in discussione l’assetto dei poteri fra legislativo ed esecutivo.
Per vero sotto la implied powers doctrine esiste un altro importante ambito che può definirsi di interferenza/conflitto fra Congresso e Presidente. Tale ambito è quello che vede scontrarsi da un lato il diritto del Congresso di sorvegliare ed investigare circa il modo in cui l’Executive branch esercita le sue funzioni e dà attuazione alle leggi e dall’altro l’opposto diritto del Presidente di resistere alle richieste avanzate dal Congresso, allo scopo di mantenere riservate informazioni o documenti.
Il Congresso infatti «needs information to perform its constitutional duties» (Fisher, L., The politics of Executive Privilege, Durham-North Carolina, 2004, 257). In questo senso the power of Congress to investigate è strumentale ad una pluralità di prerogative del Congresso, dall’esercizio del power of impeachement all’esercizio della funzione legislativa.
Antitetico al congressional right to information è naturalmente l’executive’s need for secrecy (la necessità dell’esecutivo di mantenere segrete le sue attività).
Il diritto rivendicato dai Presidenti to withold information from Congress (di rifiutare le informazioni al Congresso) va sotto il nome di constitutional doctrine of Executive privilege, dottrina che proteggerebbe the President and his officials … from compelled disclosure of information or documents.
L’Executive privilege non è stato tuttavia riconosciuto come un absolute privilege, ma come un qualified privilege che richiede un bilanciamento fra la pretesa di riservatezza avanzata dal potere esecutivo e la richiesta di informazioni fatta dal Congresso.
A quanto sinora detto intorno agli Executive orders va ulteriormente aggiunto che i Presidenti hanno un vasto potere di dichiarare such national emergency, a seguito della quale esercitano i poteri straordinari che le leggi gli attribuiscono, in base alla natura ed all’estensione del tipo di emergenza dichiarata.
Pochi sanno che negli Stati Uniti dal 1933 c’è stato un solo periodo di 14 mesi in cui il paese has not been in a presidentially declared state of National emergency. È questo un aspetto della vita politco-istituzionale degli Stati Uniti che è assai poco conosciuto dal grande pubblico e che presenta elementi di notevole singolarità, dovendosi osservare che questo fenomeno di ininterrotta sussistenza di plurimi stati di emergenza nazionale di fatto ha prodotto una permanente alterazione, sebbene all’apparenza legale, sia dei rapporti fra Presidente e Congresso, sia anche (sotto un certo aspetto più gravemente fra governo e cittadini.
Attualmente negli Stati Uniti sono in vigore una molteplicità (oltre 15 stati di emergenza nazionale). Insomma i dati fattuali parlano chiaro: sono ottant’anni che gli Stati Uniti, quasi ininterrottamente sono in emergenza nazionale. In sostanza quella che avrebbe dovuto essere l’eccezione è divenuta la regola, ponendo con forza il problema dell’abuso dei poteri presidenziali in questo ambito.
L’espressione Imperial Presidency compare per la prima volta come titolo di un pioneristico lavoro di Schlesinger, jr (Schlesinger, A.M., jr, The Imperial Presidency, Boston, 1973).
Peraltro nella più recente dottrina statunitense compare la tendenza ad utilizzare l’espressione Imperial Presidency come sinonimo di una delle più rilevanti e discusse teorizzazioni politico-giuridiche circa il ruolo ed i poteri presidenziali: la cd. Unitary Executive doctrine.
Allo stato il fondamento di questa teoria, che risulta molto più articolata di come venne in origine prospettata, è la coordinate construction, incapsulando la cd. Commander-in-chief theory ed è diretta sia ad estendere i poteri sottesi ad una molteplicità di atti presidenziali, come gli Executive orders, Decrees, Presidential memoranda, Presidential proclamations, National security directives e Legislative signing statements, sia ad affermare «che ci sono momenti in cui il Presidente – come un Re – dovrebbe operare al di sopra della legge».
L’affermarsi della Imperial Presidency si sviluppa su due direttrici: una riduzione delle garanzie costituzionali rappresentate nella Carta dei diritti, così coinvolgendo il rapporto fra governati e governanti; una ridefinizione dei rapporti con gli altri poteri dello Stato ad esclusivo vantaggio del potere del Presidente.
Come riconosciuto dalla stessa dottrina statunitense, il vero arco di volta della Unitary Executive doctrine è la coordinate construction theory.
Teoria che viene normalmente sintetizzata nell’idea che «all three branches of the federal government have the power and duty to interpret the Constitution and that the meaning of the Constitution is determined throught the dynamic interaction of all three branches» (Kelley, C.S., Rethinking Presidential Power, The Unitary Executive and the George W. Bush Presidency, Paper per la Midwest Political Science Association, Chicago, 7-10.4.2005, 4).
Il punto di partenza è che judicial review non vuol affatto dire judicial supremacy e che al falso concetto di judicial supremacy occore sostituire quello, vero e coerente con i principi di un ordinamento democratico, di constitutional supremacy.
I giudici sono uomini, e come tutti gli altri uomini possono sbagliare, non sono migliori o peggiori degli altri uomini, certamente non sono i depositari della verità. Se si guarda alla storia statunitense non si può fare a meno di osservare che «il giudizio di legittimità costituzionale… è stato il maggior ingrediente nell’accrescersi del potere dei giudici e nell’erosione dei principi della sovranità popolare, del costituzionalismo e nei reciproci controlli fra i poteri» (Agresto, J., The Supreme Court and Constitutional Democracy, Ithica, 1984, 117).
Diversamente, alla luce di una vera e compiuta democrazia, va osservato che le decisioni di incostituzionalità della Corte sono solo «the beginning a political dialogue among the branches of government and the public, each of whom has the right to interpret the Constitution» (Meernik, J.–Ignagni, J., Judicial Review and Coordinate Construction of the Constitution, in American journal of Political Science, vol. 41, n. 2, 1997, 449).
Il fatto che ci sia un potere od un organo a cui è affidato il compito di giudicare sulla legittimità delle leggi, non significa affatto che ad esso sia attribuito il monopolio dell’interpretazione della Costituzione e della legge. D’altronde il principio della separazione fra il giudiziario e gli altri poteri dello Stato (principio che si ritrova anche in quegli ordinamenti in cui il potere di giudicare circa la legittimità costituzionale delle leggi è affidato ad un apposito organo distinto ed indipendente dagli altri poteri dello Stato) implica che «l’autorità politica, che include l’autorità di interpretare, sia deliberatamente dispersa fra istituzioni ciascuna competente a promuovere il pubblico interesse. Sicchè a ciascun ramo del governo si deve riconoscere il diritto di cercare di portare avanti la propria interpretazione della Costituzione». (Peabody, B.G., Coordinate Construction Constitutional Thickness and Remembering the Lyre of Orpheus, in Book review, 2000, 673).
Prospettiva questa in cui l’interpretazione delle Corti deve ritenersi concorrere a pari livello con la constitutional construction by elected officials e in cui anzi «these two forms of constinstitutional deliberation» devono ritenersi «in some ways symbiotic» (Whittington, K.E., Constitutional Construction: Divided Powers and Constitutional Meaning, Cambridge, 1999, 3 ss.).
In sostanza la natura democratica dell’ordinamento e l’equiordinazione di tutti i poteri dello Stato impone che l’interpretazione costituzionale debba raffigurarsi «come il processo per mezzo del quale i principali attori sia governativi sia non governativi cercano di realizzare la loro interpretazione della costituzionalità dell’ordinamento e della legge» (Meernik, J.-Ignagni, J., Judicial Review, cit., 450).
D’altronde ciò sarebbe in perfetta armonia con il sistema statunitense in cui come scriveva Madison «essendo i diversi bracci del governo perfettamente coordinati dalle condizioni del loro comune mandato, nessuno di essi, è evidente, può pretendere di avere un esclusivo o superiore diritto di decidere i confini fra i loro rispettivi poteri» (Madison, J., The Federalist on the new Constitution, vol. II, n. 49, New York, 1810, 19).
Per vero questa teoria, che costituisce la più credibile reazione alla supposta superiorità del giudiziario, nelle originarie intenzioni tendeva non soltanto «a provvedere un ampliamento del ruolo degli attori politici (diversi dalle Corti nell’interpretazione della Costituzione degli Stati Uniti»), quanto soprattutto a delineare un modello di interpretazione non giudiziaria della Costituzione con al centro il Congresso, allo scopo di individuare un percorso che consentisse al legislativo di realizzare la propria interpretazione costituzionale, ove fosse in contrasto con quella della Corte Suprema, anche approvando una decision reversal legislation ossia una legislazione diretta «a modificare l’effetto legale od il percepito effetto legale o l’impatto di una specifica decisione della Corte Suprema, ovvero di più decisioni» (Meernik, J.-Ignani, J., Judicial review, cit., 450 ss.).
In proposito si faceva notare che, anche se con poco clamore, il Congresso aveva costantemente cercato to pass a decision reversal legislation.
Una ricerca fatta con riferimento al periodo 1954-1990 dimostrava che, rispetto a 569 casi di annullamento di leggi statali, federali od Executive orders, decisi dalla Suprema Corte, in ben 125 casi ambedue le Camere avevano votato una legislazione diretta a rovesciare la regola posta dalla Corte ed in ben 41 casi (il 33% avevano avuto successo).
In sostanza la pratica congressuale era conforme a questa impostazione allo scopo di costruire un’interpretazione realmente popolare della Costituzione, frustrata da non poche decisioni della Suprema Corte fondate su dottrine diffuse solo in circoli culturali ristretti, lontane dai valori popolari e, non di rado, in conflitto con i sentimenti della maggioranza dei cittadini.
Nella Unitary Executive doctrine tuttavia questa teoria viene incorporata soltanto allo scopo di affermare che nessuno dei tre rami del governo ha il potere di vincolare gli altri alla propria interpretazione della Costituzione.
Quanto ai fondamenti di questa teoria da un punto di vista costituzionale ben pochi dubbi possono sussistere sul fatto che il Presidente abbia il potere-dovere di interpretare la Costituzione, come per implicito emergerebbe sia dalla Oath clause sia dalla Take care clause.
Su questo indiscutibile fondamento tuttavia la Unitary Executive doctrine introduce un’idea nuova e cioè che il Presidente nella sua posizione di assoluta indipendenza tanto dal legislativo quanto dal giudiziario avrebbe il pieno potere di realizzare la propria interpretazione della Costituzione, agendo da solo e con tutti i mezzi a sua disposizione, anche in aperto conflitto con gli altri poteri dello Stato.
Andando nel concreto al Presidente dovrebbe riconoscersi da un lato il potere-dovere di interpretare le leggi ed i trattati in conformità con quella che è la sua interpretazione della Costituzione, dall’altro il potere-dovere di non rispettare e di non far eseguire dai membri dell’esecutivo (nonenforcement authority le leggi ed i trattati che egli ritenga in contrasto con la propria interpretazione della Costituzione o che consideri invasivi della propria sfera di attribuzioni costituzionali).
Inoltre per i teorici della Unitary Executive, anche detti unitarians, dalla sistematica interpretazione della Vesting clause e della Take care clause si ricaverebbe che la Costituzione avrebbe creato «a hierarchical unified executive department under the direct control of the President» (Calabresi, S.G.-Rhodes, K.H., The Structural Constitution: Unitary Executive, Plural Judiciary, in Harvard Law Review, n. 105, 1992, 1165).
La qual cosa comporterebbe che al Presidente dovrebbe riconoscersi «a plenary or unlimited power over the execution of administrative functions, understood broadly to mean all tasks of law-implementation» (Lessig, L.-Sunstein, C.R., The President and the Administration, in Columbia Law Review, vol. 94, n. 1, 1994, 8).
In altre parole la Costituzione avrebbe costituzionalizzato a single organizational value: unitariness, ossia l’unitarietà, a spese di qualsiasi altro «governmental value, such as disinterestedness or independence» (Lessig, L.-Sunstein, C.R., The President, cit., 9).
Si è detto più sopra che, per gli unitarians, dall’indipendente ability per il Presidente di realizzare la propria interpretazione della Costituzione gli deriverebbe un duplice potere: quello di interpretare le leggi ed i trattati conformemente alla propria visione della Costituzione, quello di non osservare e di non far osservare al ramo esecutivo le leggi ed i trattati, qualora ritenuti in contrasto con la propria interpretazione delle prerogative presidenziali o con la Costituzione (nonenforcement authority).
A livello istituzionale questa dottrina ha prodotto, quale rilevante conseguenza tra le altre quella di estendere i contenuti tanto delle cd. Signing statements, quanto dei Legal memoranda o Legal memos.
A cominciare da detta seconda tipologia di atti va avvertito che la legalità di tutte le proposed executive branch actions deve essere valutata all’interno del potere esecutivo dall’Office of Legal Counsel (OLC of the Department of justice). I pareri legali dell’OLC sono tradizionalmente vincolanti a meno che non vengano overruled dal Presidente o dall’Attorney General.
Ciò premesso, quando il Presidente avanza una determinata interpretazione delle proprie prerogative o si interroga se vi sono ostacoli che impediscono di formulare una determinata interpretazione della Costituzione o se vi è una base legale per una certa azione, è prassi che in merito richieda un parere all’OLC, parere che viene a porsi come il fondamento legale e la giustificazione di quanto verrà intrapreso.
Ed è proprio qui che nasce il problema, rimanendo da stabilire sino a che punto un parere dell’OLC possa costituire il fondamento legale per azioni dell’esecutivo basate su interpretazioni assai discutibili, se non arbitrarie, della Costituzione, delle leggi e dei trattati.
Peraltro il carattere dirompente di questi pareri non può essere sottovalutato anche a causa del fatto che sono serviti a “legalizzare”, rectius a ritenere legali delle attività che in realtà sono da considerare al di fuori del quadro normativo.
Tra i più eclatanti esempi di quanto si sta dicendo possono segnalarsi in primo luogo gli arcinoti “Torture memos” con i quali si è ritenuto che il Presidente, in qualità di Comandante in capo, possedesse per Costituzione l’autorità di autorizzare gli agenti del governo ad utilizzare la tortura ovvero quello, ancora più clamoroso, con cui, sotto l’amministrazione Obama, si è affermato che era legale uccidere, senza processo, due cittadini statunitensi sospettati di far parte o di fiancheggiare Al Qaeda, i quali sono poi stati effettivamente eliminati da un drone posto sotto il comando della CIA.
Si tratta dei signori Anwar Al-Awlaki e Samir Khan, di origine araba, ma cittadini americani per nascita, anche se va detto che il vero obiettivo dell’azione era soltanto il sig. Al-Awlaki, mentre l’eliminazione del sig, Khan è stata un mero, come precisato, collateral damage.
Altrettanto problematica per la definizione dei rapporti fra i poteri e segnatamente fra il legislativo e l’esecutivo è l’estensione dei contenuti delle cd. Signing statements.
Queste sono delle dichiarazioni scritte che il Presidente, all’atto di firmare un progetto di legge, così trasformandolo in legge, “attacca” alla legge stessa.
In concreto nella giuspubbicistica statunitense, al di là delle Signing statements cd. “retoriche per natura”, vengono individuate sei distinte tipologie di questo tipo di dichiarazioni, cinque delle quali riconducibili a tre fondamentali funzioni ed una, apparsa a seguito dell’inserzione delle Signing statements nell’United States Code, Congressional and Administrative News, diretta a creare una “storia legislativa” alternativa rispetto a quella che risulta dal chiaro intento del Congresso nell’adottare la legge ed esplicitata nella legge stessa. Queste tre funzioni sono: quella «di spiegare al pubblico ed in particolare ai collegi elettorali interessati dalla legge, ciò che il Presidente crede che saranno i probabili effetti della sua adozione»; quella «di dare delle direttive ai funzionari che lavorano all’interno dell’Executive branch su come interpretare od attuare la legge»; quella «di informare il Congresso e l’opinione pubblica che il Presidente ritiene che una particolare previsione legislativa sia incostituzionale in talune delle sue applicazioni, o che sia incostituzionale in sé e per sé e che pertanto a quella previsione non sarà dato effetto dal potere esecutivo nella misura in cui la sua attuazione creerebbe una condizione d’incostituzionalità» (Dellinger, W., The Legal Significance of Presidential Signing Statements, Washington,1993, 2).
Peraltro è soltanto alla terza di queste funzioni che vengono ricondotte tre distinte tipologie di Signing statements: quella con cui il Presidente dichiara che la legge (o talune sue disposizioni sarebbero da ritenere incostituzionali con riguardo a certe applicazioni); quella con cui il Presidente persegue un’interpretazione della legge che potrebbe salvare la stessa legge dall’essere incostituzionale; quella con cui dichiara che la legge è a prima vista assolutamente incostituzionale.
Tipologie queste tre sulla cui legittimità la dottrina si è profondamente divisa. Questione per comprendere la quale è necessario fare una breve premessa relativa alla dibattuta questione della nonenforcement authority del Presidente.
Con quest’espressione si intende il potere che il Presidente avrebbe di sottrarsi (e di sottrarre l’intero potere esecutivo all’esecuzione e all’osservanza di leggi asseritamente ritenute invasive delle proprie prerogative od anche, più ampiamente, adottate in violazione della Costituzione).
Ma se in via di principio la dottrina statunitense esclude che al Presidente sia riconoscibile una generale nonenforcement authority, questo non significa che la stessa dottrina non ammetta che il Presidente sia legittimato a rifiutarsi di eseguire una o più sezioni di una legge o un’intera legge quando queste o questa invadano od usurpino o comunque ledano le sue prerogative e siano «apertamente incostituzionali ponendosi in contrasto con un precedente della Suprema Corte» (Johnsen, D.G., What’s a President to Do? Interpreting the Constitution in the Wake of Bush Administration Abuses, in Boston University Law Review, vol. 88, 2008, 414).
Senonchè da Reagan in poi i Presidenti non solo non hanno mantenuto le Signing statements all’interno dei confini segnati dalla prevalente dottrina, ma ne hanno dilatato a dismisura l’ambito di efficacia.
Riassumendo quanto sin qui osservato, quel che colpisce è che negli Stati Uniti si sta assistendo ad un fenomeno di aggrandizement dei poteri presidenziali che sembra di non poco conto.
Nonostante in dottrina si siano levate una pluralità di voci critiche sul cd. abuso dei tools con cui i Presidenti intendono far avanzare le proprie actions, nondimeno i più recenti Presidenti, di ambedue i partiti, continuano ad avere un approccio aggressivo nello sviluppare i rapporti con il Congresso. Executive orders, Signing statements, Legal memos, dichiarazioni di emergenza nazionale, etc. vengono spinti all’estremo e talvolta anche oltre il quadro costituzionale, ovvero usati con una soprendente disinvoltura allo scopo di consentire al Presidente un’azione unilaterale che “tagli fuori” il Congresso nei casi in cui l’indirizzo politico deciso, anche bipartisan, da quest’organo risulti in conflitto con le policies presidenziali.
Da molti si è ritenuto che l’aggressività della politica presidenziale sia da mettere in correlazione con le plurime situazioni di divided government da Reagan in poi con 13 legislature su 17 che hanno presentato o una maggioranza in Congresso del partito opposto a quello del Presidente, ovvero un Congresso con una maggioranza diversa nell’una e nell’altra Camera.
Sicuramente tutto ciò ha influito, ma ad una disamina più profonda quel che sembra è che l’Imperial Presidency sembra rappresentare la vera ideologia, l’humus culturale in cui affonda l’“unilateralismo” presidenziale.
Costituzione degli Stati Uniti, approvata il 17.9.1787, come solennemente proclama l’art. VII. Nella sua redazione attuale la stessa è composta da un preambolo, VII articoli e XXVII emendamenti. I primi tre articoli disciplinano rispettivamente i tre poteri dello Stato: legislativo, esecutivo e giudiziario. L’art. IV contiene norme riguardanti gli Stati membri ed i loro rapporti con gli Stati Uniti. L’art. V disciplina la revisione costituzionale. L’art. VI contiene alcune disposizioni concernenti il debito pubblico, la superiorità della Costituzione e delle leggi federali sulle leggi degli Stati membri ed il giuramento di osservanza e difesa della Costituzione da parte dei pubblici funzionari. L’art. VII la procedura di ratifica e le condizioni per l’entrata in vigore della Costituzione. Gli emendamenti da I a X costituiscono la cd. Carta dei diritti e quelli da XI a XXVII sono disposizioni di vario contenuto che modificano od integrano il dettato costituzionale.
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