Forma greca e tradizione romana nel classicismo augusteo
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Dopo aver raggiunto il potere assoluto, l’imperatore Augusto definisce un programma di governo ambizioso e di ampio respiro, destinato a cambiare di fatto la mentalità romana. Le esigenze comunicative di questo programma stimolano la formazione di un linguaggio artistico che si avvale delle formule e degli stilemi dell’arte classica e che è alla base delle forme e dei temi dell’arte ufficiale romana fino al III secolo.
La vittoria di Ottaviano nella battaglia di Azio nel 31 a.C. e la morte del suo avversario Marco Antonio segnano una cesura epocale nella storia romana, già avvertita come tale presso i contemporanei: si concludono gli ultimi anni, dolorosi e turbolenti, della morente repubblica e si instaura un nuovo ordine politico, dal quale ci si attende la nascita di un’era di speranza, di pace e di prosperità, una nuova età dell’oro.
Roma e l’impero affidano i propri destini al giovane Ottaviano, che si incarica di sanare le ferite delle guerre civili e di porre un freno alla corruzione, ai personalismi, all’eccessiva ostentazione del lusso, allo smarrimento dei valori tradizionali e della religiosità del buon romano, tutti elementi che la propaganda di stampo conservatore, ormai da decenni, lamentava come cause della crisi delle istituzioni repubblicane e delle lotte intestine. Ottaviano, che nel 27 a.C. assume, significativamente, l’epiteto di Augusto (aggettivo dall’ampia sfera semantica, che può significare “venerabile”, “sacro”, ma anche riconnettersi ad augere, cioè “accrescere”), delinea un ambizioso e complesso programma politico, sorretto e promosso da una sapientissima propaganda per immagini, che imprime una svolta sostanziale alla produzione artistica romana, con la nascita di un nuovo linguaggio che diffonde simboli legati all’imperatore e ai temi della sua azione di governo tanto in ambito pubblico quanto in ambito privato, e che resta la cifra dell’arte ufficiale, nelle sue tematiche fondamentali, fino al III secolo. È così che Roma, che a partire dalla fine del III secolo a.C. aveva assorbito, imitato, rielaborato in modo eclettico suggestioni culturali e modelli artistici eterogenei dalle varie località dell’Oriente ellenistico con cui era entrata in contatto nel corso dell’espansione imperialistica, assume adesso un ruolo di assoluta egemonia nell’elaborazione e nella diffusione di un linguaggio artistico unitario, diventando la capitale anche culturale dell’impero.
Sappiamo da Svetonio (Augusto, 28) che Augusto si vantava di aver trovato una città di mattoni e di averla lasciata di marmo. L’Urbe, negli anni del principato augusteo, è in effetti interessata da un ambizioso programma di rinnovamento urbanistico destinato a trasformarla nella degna capitale di un grande impero. Un elemento sostanziale di questo programma edilizio è costituito dal restauro di antichi templi caduti nell’oblìo e dalla realizzazione di nuovi, sontuosi edifici sacri: attività che rientrano nel più generale progetto di rinnovamento religioso, che prevede il ripristino di antichi culti caduti in disuso, di riti e di sacerdozi da tempo disertati.
La pietas, intesa come restaurazione della religione tradizionale, invocata a più riprese già in età tardorepubblicana, diventa l’idea-guida del principato augusteo. Gli edifici sacri abbandonano però in molti casi i materiali modesti e le pesanti forme dell’edilizia sacra italica (i tetti di legno, le decorazioni in terracotta dipinta) ed assumono forme spiccatamente greche, con una prevalenza assoluta del decorativo ordine corinzio nei capitelli e con ornamentazioni estremamente ricche, pur mantenendo alcuni aspetti peculiari ai templi di età repubblicana, come il pronao molto profondo, il tetto ripido e l’alto podio. L’uso del candido marmo delle cave di Luni, aperte in età cesariana e ormai in piena attività, consente di avvicinarli ai più bei santuari greci di età classica, conferendo loro una suggestiva aura di sacralità e di venerabilità.
Forme particolarmente sontuose assumono i templi dedicati alle divinità che hanno un legame diretto con Augusto e con la sua famiglia, come il tempio di Venere Genitrice (ritenuta l’antenata divina della gens Iulia) nel Foro di Cesare, il tempio di Marte Ultore (“vendicatore”) nel Foro dello stesso Augusto, e i due templi urbani di Apollo (divinità con cui il princeps si identificava già dall’epoca della contesa con Antonio, che si presentava invece come novello Dioniso): il tempio di Apollo sul Palatino, costruito da Augusto stesso tra il 36 e il 28 a.C. in intima e significativa contiguità con la propria abitazione privata, e quello di Apollo Sosiano nell’area del Circo Flaminio, ampio rifacimento in forme greche, finanziato da Gaio Sosio (console nel 32 a.C. e partigiano di Antonio in seguito passato ad Ottaviano, dal quale aveva ottenuto la grazia), del più antico tempio (431 a.C.) dedicato in Roma a questa divinità.
A rendere questi edifici sacri ancor più sacri e venerandi contribuisce la presenza di opere d’arte greca, originali di età arcaica e classica, come omaggio alla cultura figurativa che la propaganda augustea sceglie come veicolo preferenziale per la trasmissione dei propri slogan: il gruppo statuario di culto del tempio di Apollo sul Palatino è così formato da una statua di Apollo opera di Skopas, un’Artemide di Timoteo (entrambi gli scultori sono celebrati maestri tardoclassici attivi nel grande cantiere del Mausoleo di Alicarnasso) e una Leto di Cefisodoto, figlio di Prassitele; mentre si inserisce nel frontone del tempio un gruppo scultoreo raffigurante una Amazzonomachia, databile intorno alla metà del V secolo a.C. e forse già appartenuto al tempio di Apollo Daphnephoros (“coronato di alloro”) di Eretria. In realtà, le statue dell’Amazzonomachia sono troppo piccole rispetto alle dimensioni del frontone, ma si tratta di un particolare trascurabile in una operazione, come questa, di forte impatto simbolico.
La celebrazione della battaglia di Azio, fondamentale motivo propagandistico nei primi anni del principato augusteo, è un tema delicato, cui si allude soprattutto attraverso simboli (si era trattato di una guerra civile, e i “nemici” erano pur sempre cittadini romani): in questo caso, il tema dell’Amazzonomachia viene utilizzato per sublimare la vittoria aziaca in episodio mitico, fuori dal tempo, come i Greci di età classica sublimavano la vittoria sui Persiani ricorrendo appunto al soggetto della battaglia contro le mitiche donne guerriere. Si configura inoltre come un atto di pietas (e non di rozzo saccheggio, come potrebbe apparire) il riutilizzo delle statue frontonali di un tempio come quello di Eretria, antico e importante, ma ormai caduto in disuso a seguito delle distruzioni, ad opera dei Romani, che avevano interessato la città nel 198 e nell’87 a.C.: il trasferimento delle statue in un’altra città, più prospera e fortunata, assume così l’aspetto di una operazione volta a rivitalizzare un culto importante e venerando.
Il programma augusteo di rinnovamento urbanistico prevede anche la realizzazione di una serie di edifici pubblici destinati al tempo libero; nel tessuto urbano di Roma si inseriscono adesso elementi specificamente greci, come terme, teatri, biblioteche, giardini. In queste strutture il popolo può godere degli stessi lussi che a lungo erano stati appannaggio esclusivo dell’élite dirigenziale tardorepubblicana, come amene passeggiate nel verde, eleganti strutture in marmi pregiati, opere d’arte. La parola d’ordine, adesso, è publica magnificentia, contrapposta alla luxuria privata, cioè all’ostentato, esagerato, offensivo lusso privato che aveva caratterizzato la fine della repubblica. Del resto, il restaurato ordine politico e sociale non fa più temere, come in passato, la nascita di sedizioni e rivolte in luoghi pubblici ampiamente frequentati; e così, nel giro di pochi anni, Roma si dota di ben due nuovi teatri, il grandioso teatro di Marcello (completato nel 17 a.C. e dedicato alla memoria del nipote di Augusto, suo erede designato prematuramente scomparso) e il più piccolo teatro inaugurato nel Campo Marzio da Lucio Cornelio Balbo il Giovane nel 13 a.C.
Tra il 25 e il 19 a.C. sorgono nell’Urbe anche le prime terme pubbliche (un tipo di struttura di cui gli abitanti delle prospere cittadine della Campania potevano godere già dal II secolo a.C.), alimentate dall’acquedotto dell’Acqua Vergine (la stessa che ancora oggi sgorga dalla Fontana di Trevi) e realizzate da Marco Vipsanio Agrippa, luogotenente e genero di Augusto, alla cui iniziativa (e alle cui ragguardevoli sostanze) è affidata una parte cospicua del programma di riqualificazione edilizia dell’Urbe. Agrippa, come ricorda Plinio il Vecchio (Nat. hist., XXXV, 26), è un assertore della necessità di rendere di proprietà pubblica tutti i quadri e tutte le statue; egli espone nelle terme da lui stesso realizzate la statua dell’Apoxyomenos del grande scultore greco Lisippo di Sicione, e in altri edifici pubblici sorti per sua iniziativa (come i Saepta in Campo Marzio, già progettati da Cesare) colloca numerose opere d’arte greca. Si tratta certo di un’operazione demagogica, tesa a “concedere” alla plebe e al ceto medio il godimento di capolavori di artisti famosi (godimento riservato in passato ai ricchi), ma tesa anche, forse, a familiarizzare maggiormente i romani con le opere d’arte, e soprattutto con l’arte greca classica e tardoclassica, le cui forme sono chiamate a rivestire i messaggi propagandistici e a eternare i momenti e le cerimonie essenziali del nuovo ordine politico. Gli edifici pubblici si popolano infatti non solo di originali, ma anche di copie, varianti e ripetizioni più o meno accurate di opera nobilia, come vengono definiti i capolavori artistici greci in virtù della loro qualità estetica: anche queste, come gli originali, conferiscono solennità agli spazi in cui vengono collocate.
Esemplare, da questo punto di vista, è l’uso di copie delle Cariatidi della loggetta del lato meridionale dell’Eretteo di Atene nell’attico dei grandi porticati laterali del Foro di Augusto, inaugurato nel 2 a.C. dopo una lunga gestazione: la piazza, dominata dal tempio di Marte Ultore, celebra eloquentemente i destini trionfali di Roma e di Augusto, strettamente intrecciati tra loro, attraverso l’esaltazione delle origini dell’Urbe (in posizione eminente si trovano le statue di Romolo e di Enea), della sua storia antica e gloriosa (con le statue dei summi viri, degli uomini illustri che l’hanno resa grande) e del ruolo della gens Iulia, quindi della famiglia di Augusto, e di Augusto stesso, presentato come uomo del destino, la cui statua sul carro trionfale troneggia al centro della piazza.
Altrettanto significativa è la ripresa del modello della processione panatenaica del lungo fregio del Partenone nel rilievo con corteo che corre lungo i lati nord e sud di quello che viene generalmente riconosciuto come il monumento più rappresentativo dell’arte augustea, l’Ara Pacis, eretta tra il 13 e il 9 a.C. nel Campo Marzio (nei pressi del Mausoleo del princeps) per celebrare il ritorno di Augusto da una lunga missione militare in Gallia e nelle province iberiche. Si tratta della redazione monumentale di un templum minus, struttura di culto di antica origine costituita da un altare, su cui si celebra il sacrificio, circondato da un recinto che delimita lo spazio inaugurato, ovvero reso sacro dagli auguri attraverso formule e gesti rituali. Le pareti interne del recinto alludono, con la riproduzione di uno steccato ligneo coronato da festoni sovraccarichi di bacche e frutti di ogni stagione e collegati tra loro tramite bucrani (ovvero teschi animali allusivi alle vittime sacrificali), alle forme di questa veneranda tipologia di luogo sacro (appunto il templum minus), in ottemperanza al progetto augusteo di restaurazione della religiosità tradizionale romana, cui abbiamo già fatto cenno. All’esterno del recinto, una ricca decorazione figurata celebra sul lato occidentale le origini mitiche di Roma: su un pannello a rilievo Enea sacrifica ai Penati di Lavinio la scrofa di Laurento, e sull’altro la lupa allatta Romolo e Remo alla presenza di Marte e del pastore Faustolo.
Sul lato orientale, il tema è quello della felicità e della pienezza dell’età dell’oro augustea, cantata pochi anni prima nel Carmen Saeculare di Orazio nel corso dei ludi Saeculares del 17 a.C.: il celeberrimo pannello della Tellus, la giovane madre con due paffuti neonati in grembo circondata da simboli di prosperità e di fecondità fa da contraltare al pannello con la dea Roma, seduta su un cumulo di armi, custode di quella pace presupposto indispensabile del saeculum aureum. Se gli scultori dell’Ara Pacis rielaborano ed accostano in questi pannelli suggestioni e modelli di origine diversa, tra cui il naturalismo di matrice ellenistica nella resa del paesaggio con Enea (la cui testa, però, è modellata secondo prototipi della prima arte classica, necessari a conferirgli un aspetto maestoso e autorevole), e se sfogano la propria fantasia decorativa nel ricchissimo fregio floreale che si allarga su tutta la metà inferiore dei lati esterni del recinto, essi applicano invece un ritmo lento e solenne alla rappresentazione della processione inaugurale del monumento, in cui compaiono, secondo un rigido ordine gerarchico, i membri della famiglia Giulia e lo stesso Augusto, nelle vesti di pontefice massimo, su uno sfondo neutro in cui il rilievo nitido delle figure si staglia agevolando la leggibilità di ogni particolare. La sintassi classicista del rilievo proietta in un eterno presente le ambizioni dinastiche della famiglia imperiale, a perenne garanzia dell’ordine e della concordia sociale. Ai grandi capolavori dell’Atene classica vengono dunque riconosciute doti quali la magnificenza, l’eloquenza, il decoro, l’imponenza, il senso di eternità necessari a rivestire di solennità e di autorità il messaggio affidato ai monumenti destinati a celebrare il nuovo stato, i suoi riti, i suoi miti; e, nello stesso tempo, all’arte greca viene riconosciuto un valore di modello esemplare per l’espressione di concetti, quali la sobrietà, la compostezza, l’equilibrio, la moderazione, fondamentali per l’ideologia cui si richiama il principato augusteo, teso a ripristinare il mos maiorum, l’ideale austero del buon romano di una volta, ovvero dell’età repubblicana. È possibile dunque affermare che gli antichi, coloro che per il mondo moderno rappresentano la classicità, avevano già i propri “classici”. L’attribuzione di una così ampia gamma di significati e di valori all’arte della Grecia classica affonda le proprie radici in una critica d’arte che fin dall’età ellenistica aveva insistito sui valori ideali e sulle qualità pedagogiche dell’opera d’arte, rivolgendosi nostalgicamente al passato alla ricerca del momento di perfetto equilibrio tra qualità estetica e contenuti etici.
La ricerca di questo equilibrio è la chiave di lettura del percorso evolutivo che l’immagine di Augusto segue dagli anni del conflitto con Antonio fino all’ultimo periodo del principato. I primi ritratti noti di Ottaviano, databili negli anni intorno al 40 a.C., mostrano il potente influsso del modello ritrattistico dei dinasti ellenistici, e in particolare dell’iconografia di Alessandro Magno: caratterizzati da un intenso patetismo e da una notevole energia interiore, svelano tutta l’ambizione, l’arroganza e il desiderio di autoaffermazione di un giovane e dinamico condottiero e leader politico della fine della repubblica.
I tratti somatici del giovane Ottaviano, gli occhi piccoli, il volto ossuto, possono essere ammorbiditi e trasfigurati come nel ritratto da Fondi oggi al Museo Nazionale di Napoli, o insistiti come nella testa di una collezione privata di Maiorca, derivata probabilmente da qualche statua commemorativa: costanti restano però l’attenzione per la resa artificiosamente scomposta della capigliatura, la torsione del collo, l’inquieta concentrazione del volto. Un netto cambiamento di tendenza si coglie nel nuovo ritratto ideato probabilmente nel 27 a.C. (nello stesso anno, cioè, dell’assunzione dell’epiteto di Augusto) e destinato a diventare la faccia del princeps per migliaia di abitanti dell’impero, replicata centinaia di volte a Roma e nelle province, in luoghi pubblici e in ambito privato, nei media più eterogenei. Il volto di Augusto assume una sfumatura di sublime distacco dalle passioni e dalle ambizioni personali e depone ogni aggressività in favore di un’espressione di posata e sobria affidabilità; il princeps è ora un uomo dall’età indefinibile, dai lineamenti addolciti da una classica levigatezza, dalla sobria capigliatura corta e ordinata, in cui ogni ciocca è però lavorata con cura, come nelle statue classiche. E dal repertorio dell’arte classica un anonimo artista riprende il modello atletico della statua generalmente identificata con il Doriforo di Policleto per la creazione della statua loricata dell’imperatore, nota come Augusto di Prima Porta, congelando in un’icona di esemplare stabilità la potenza militare del comandante raffigurato nel topico momento dell’adlocutio. Agli inizi del I secolo risale probabilmente la statua da Via Labicana che raffigura Augusto nelle vesti di pontefice massimo, ad esemplare illustrazione del suo impegno a favore del ripristino della religiosità tradizionale e della pubblica moralità: il nitore delle superfici del volto, di una ascetica severità, si esalta nel contrasto con il ricco panneggio della toga, un lembo della quale copre ad Augusto la sommità del capo. L’abbandono delle tendenze patetiche e dell’esasperato verismo della ritrattistica tardorepubblicana del ritratto del princeps farà tendenza in quella privata: si assiste in età augustea al sorgere di una imitazione delle acconciature e degli stessi tratti somatici dei membri più rappresentativi della famiglia imperiale da parte dei privati cittadini, che resterà una costante della ritrattistica privata fino all’età tardoantica. Più in generale, la soluzione dei conflitti e l’instaurazione di un nuovo ordine sociale sotto l’egida di Augusto comportano la fine dei personalismi dell’ultima fase della repubblica e di una produzione artistica dinamica, aperta a mille suggestioni, assetata di novità, che di quei personalismi era lo specchio. Anche in ambito privato, i simboli, i motivi, lo stile dell’arte ufficiale augustea dominano tutti gli spazi, dalla casa alla tomba; forse per lealismo politico, forse per moda, o per la costante, capillare, pervasiva presenza delle immagini del sapiente programma iconografico-propagandistico augusteo.