Formalismo
Con il termine formalismo ci si riferisce a un insieme di innovative ricerche sulla letteratura e la poesia elaborate in Unione Sovietica nel corso degli anni Venti del Novecento da un gruppo di giovani studiosi che si riunirono in due distinte associazioni ‒ il Moskovskij lingvističeskij kružok (Circolo linguistico di Mosca), fondato nel 1915, e l'Obščestvo izučenija poe-tičeskogo jazyka (OPOJAZ, Società per lo studio del linguaggio poetico), istituito a Pietroburgo nel 1916 ‒ riconoscendosi successivamente in un programma comune. I formalisti, come furono presto chiamati, ritenevano che i fenomeni letterari andassero studiati esclusivamente in quanto prodotti di un'attività 'poietica' provvista di leggi specifiche, risultando in tal modo suscettibili di un'analisi del tutto "immanente". Ciò comportava il postulato di una sostanziale indipendenza della letteratura da fattori esterni (quali la vita sociale o la psicologia dell'autore), ma questa separazione della "serie letteraria", come fu definita, dalle altre "serie" (la politica, l'economica) era da intendersi piuttosto come un necessario presupposto teorico che non come un autentico principio filosofico: non ci si dovrà quindi stupire che i formalisti siano stati molto attivi nell'ambito di un dibattito culturale che in quegli anni fu interes-sato proprio ai rapporti tra arte e vita, e che essi abbiano lavorato a stretto contatto con l'attività creativa delle avanguardie artistiche condividendone spesso il progetto.
Così, al Moskovskij lingvističeskij kružok aderirono fin dall'inizio poeti come V.V. Majakovskij, B.L. Pasternak, O.E. Mandel′štam, mentre alcuni membri dell'Opojaz ‒ come Viktor B. Šklovskij, Osip M. Brik e Jurij N. Tynjanov ‒ si impegnarono direttamente nella produzione scrivendo romanzi o sceneggiature cinematografiche.
L'interesse principale del f. fu rivolto al fatto poetico e letterario, tuttavia la teoria del cinema coinvolse il movimento in modo non occasionale per cui, al di là di alcuni notevoli episodi di stretta collaborazione con cineasti di punta ‒ è il caso di Tynjanov con il gruppo della Fabrika Ekscentričeskogo Aktëra (FEKS, Fabbrica dell'attore eccentrico, v. avanguardia sovietica) ‒, la riflessione formalista sul cinema produsse risultati importanti, anche se non del tutto omogenei sotto il profilo teorico. In particolare, nel 1927 Boris M. Ejchenbaum, un autorevole esponente dell'Opojaz, curò un volumetto collettivo intitolato Poetika kino (Poetica del cinema) che riuniva i seguenti contributi: B.M. Ejchenbaum, Problemy kino-stilistiki (Problemi di cinestilistica); Ju.N. Tynjanov, Ob osnovach kino (I fondamenti del cinema); B. Kazanskij, Priroda kino (La natura del cinema); V.B. Šklovskij, Poezija i prosa v kinematografij (Poesia e prosa nel cinema); A.I. Piotrovskij, K teorij kino-žanrov (Sulla teoria dei generi cinematografici); E. Michajlov e A.N. Moskvin, Rol′ kino-operatora v sozdanij fil′ma (Il ruolo del cineoperatore nella costruzione del film). Nel volumetto erano dunque presenti gli studiosi più rappresentativi dell'Opojaz (Ejchenbaum, Tynjanov, Šklovskij) che tuttavia vi sostenevano posizioni non convergenti, accanto ad autori sostanzialmente estranei ai principi e ai metodi della scuola formale, come Kazanskij e Piotrovskij, e due veri professionisti, gli operatori Michajlov e Moskvin, entrambi coinvolti con la sperimentazione dell'avanguardia (e, almeno nel caso di Moskvin, con un ruolo di assoluto rilievo: fu infatti l'operatore dei principali film della FEKS e, in seguito, autore delle complesse riprese in interni di Ivan Groznyj di Sergej M. Ejzenštejn). L'eterogeneità delle posizioni e delle figure presenti in quello che resta in ogni caso il prodotto più rilevante della riflessione formalista sul cinema deve indurre alla conclusione che non esiste una vera e propria teoria cinematografica accreditabile alla scuola formale. È vero invece che, al di là delle differenze di rilievo, Poetika kino presuppone un'idea di testo cinematografico largamente condivisa e caratterizzante anche in rapporto alla comprensione dei fenomeni letterari propria del formalismo. È dunque a questa più ampia considerazione del testo artistico che si dovrà in primo luogo prestare attenzione, per poi rendere conto dei diversi modelli con cui i formalisti si avvicinarono nel concreto al fatto cinematografico.
A tal fine si può fare utilmente riferimento a un limpido saggio del 1927, Teorija "formal′nogo metoda" (La teoria del "metodo formale"), nel quale Ejchenbaum si proponeva di tracciare un bilancio del lavoro effettuato dal gruppo e di indicarne le direttrici future. Il punto di partenza di Ejchenbaum è il chiarimento che l'approccio esplicitamente 'scientifico' del f. comportava non solo il rifiuto di ogni "estetica dall'alto" ma anche la presa di distanza da ogni indebita riduzione degli orientamenti della scuola a una questione di metodo (donde le virgolette che compaiono nel titolo del saggio). Non si era trattato, infatti, di stabilire una metodica per l'analisi dei testi, quanto di enunciare alcuni "principi" di carattere generale, primo tra tutti, come si è già detto, quello secondo cui i fenomeni letterari costituiscono una "serie" autonoma, regolata da un numero ristretto di leggi particolari, e solo a questo titolo si lasciano determinare come un autentico campo di ricerca. In tal senso, faceva notare Ejchenbaum riprendendo una lucida precisazione del linguista Roman O. Jakobson, oggetto della teoria non è la letteratura ma la "letterarietà", non l'insieme delle opere ‒ come tale suscettibile dei più diversi approcci ‒ ma "ciò che di una data opera fa un'opera letteraria".
I formalisti cercavano dunque la peculiare conformità a regole del letterario (o del poetico) e a questa ricerca subordinavano ogni assunzione metodica, disposti a modificare i propri concetti operativi dovunque questi si dimostrassero inadeguati a rendere conto della specificità dell'oggetto di analisi. È in questa luce, provvisoria e rivedibile, che Ejchenbaum raccomandava di intendere le principali acquisizioni teoriche della prima ricerca formalista (quali lo "straniamento", la distinzione tra "materiali" e "costruzione" e quella, correlativa, tra "fabula" e "intreccio", l'evidenziazione della forma attraverso procedimenti autoriflessivi e, più in generale, il rilievo accordato alle idee di "fattura" e di "principio costruttivo") evitando di istituirle in un modello rigido. Così, se con la legge dello "straniamento" Šklovskij aveva inteso in senso radicale l'autonomia della "serie" letteraria ipotizzando che una forma nuova non sorge per dare espressione a nuovi contenuti ma solo per sostituirne un'altra, logorata dall'uso, questa medesima 'legge' si era dimostrata insufficiente per spiegare la questione specifica dell'evoluzione letteraria. È certo vero, infatti, che la percezione delle forme deca-de in genere dalla "visione" al puro e semplice "riconoscimento", e che il compito dell'arte può ben essere quello di "disautomatizzare" le abitudini percettive violando le norme linguistiche consolidate e ripristinando così un rapporto diretto con le cose (era questo, per Šklovskij, il senso dello "straniamento"), ma nel gioco concreto dell'avvicendarsi delle forme il meccanismo della pura e semplice violazione spiega troppo poco e, per es., lascia del tutto indeterminato il problema delle scelte effettuate da un testo innovativo tra tutte quelle virtualmente disponibili. Per spiegare davvero l'innovazione, in altri termini, sembrava necessario rivedere il postulato della totale autonomia della "serie" letteraria e assumere uno sguardo più ampio. Analogamente, se in una prima fase era stato utile distinguere nettamente tra "materiali" e "costruzione" attribuendo a quest'ultima l'intera responsabilità della "fattura" letteraria, in una fase successiva si era potuto accertare che gli stessi materiali incidono sulla forma. La distinzione canonica tra "fabula" (la materia narrativa di base) e "intreccio" (la messa in forma di quella materia) andava in tal senso rivista, riconoscendo al testo narrativo ben altra complessità rispetto all'immagine semplificata di una pura combinatoria di "artifici" stranianti. Infine, la figura della "messa a nudo del procedimento", vale a dire quella tendenza della letteratura a giocare autoriflessivamente con le proprie forme che il primo f. aveva considerato come un tratto distintivo essenziale e qualificante (celebri, da questo punto di vista, le analisi dedicate da Šklovskij al romanzo moderno), veniva ridimensionata e ricondotta alla sua natura di principio costruttivo da valutare, di volta in volta, in rapporto alle diverse funzioni che può assumere.
Il saggio di Ejchenbaum mostrava, insomma, che lo sviluppo della ricerca si era andato progressivamente aprendo alle questioni della storia letteraria e che questa apertura, a sua volta, comportava un ammorbidimento delle opzioni più intransigenti del primo formalismo. I principi restavano gli stessi, ma si faceva strada una considerazione 'funzionalista' dei fatti poetici e letterari, volta a ripensare in una visione più integrata la natura delle forme artistiche e il loro rapporto con la vita complessiva di una cultura storica. Questo progetto, tuttavia, doveva restare sulla carta: la sterzata autoritaria che negli anni successivi alla pubblicazione del saggio di Ejchenbaum avrebbe in breve tempo portato alla sostanziale liquidazione delle avanguardie e dello stesso movimento formale (i cui membri furono ridotti al silenzio o a penose abiure), impedì che il nuovo programma avesse corso, anche se, negli anni Trenta e grazie alla mediazione di Jakobson, esso avrebbe trovato una convincente ripresa nei lavori del Pražský lingvisti-cký kroužek (Circolo linguistico di Praga).
Al di là di questa storia, non priva di interesse e attualità (come fanno fede la 'riscoperta' dell'eredità formalista effettuata negli anni Sessanta dagli studi semiotici e culturologici di Ju.M. Lotman e della sua scuola e gli stimoli fecondi che dal f. ha tratto la moderna teoria letteraria), interessa qui mettere in chiaro il tipo di comprensione che i formalisti ebbero dei fatti artistici. Sotto questo profilo, allora, si dovrà ammettere che l'opzione 'scientifica' del movimento sembra trovare il suo autentico fondamento in una profonda intelligenza del carattere artificiale e, si vorrebbe dire, artigianale dell'oggetto artistico. I formalisti, in altri termini, riabilitarono l'antico concetto di poiesis e lo restituirono all'ambito di un 'saper fare' specifico, dotato di un'autonoma efficacia comunicativa e di mezzi particolari per ottenerla. Il 'fare artistico', in tal modo, veniva sottratto a ogni determinazione soggettivistica e creativistica (il che spiega la collisione del f. con le estetiche idealistica, romantica e simbolista) come anche a ogni condizionamento riproduttivo (il che spiega il suo conflitto con le estetiche del rispecchiamento di ispirazione materialista e sociologica), mentre se ne cominciava a prospettare, almeno nel contesto del generale ripensamento avviato da Ejchenbaum nel saggio del 1927, l'inserimento in una più ampia rete di rapporti. Di questa comprensione oggettivamente 'poietica' dei fatti artistici i formalisti vollero prospettare una teoria generale cui essi attribuirono così spesso il nome di Poetica (come nel libro dedicato al cinema) da indurre a collocare l'estetica implicita della scuola formale sotto il segno di un ritorno ad Aristotele, se questa conclusione non fosse poi almeno in parte invalidata dall'assunto della separazione tra arte e vita, cui quella scuola rimase fedele nel timore (in verità fondato) che tra i due termini si stabilisse un intreccio 'confusivo' o, peggio, un rapporto di dipendenza (comunque orientato: una dipendenza della vita dall'arte, come volevano i futuristi e poi i costruttivisti o, viceversa, una dipendenza dell'arte dalla vita, come volevano i materialisti e poi il realismo socialista). È per questo che la posizione dei formalisti nel dibattito degli anni Venti appare sempre, e nonostante tutto, caratterizzata da un sostanziale isolamento; è per questo che la loro eccezionale finezza analitica continua a comunicare il senso di un'attitudine interpretativa tanto attenta alla "fattura" dell'oggetto indagato quanto disincantata circa le sue possibili finalità pratiche. A questa sensazione non sfugge il lettore di Poetika kino come non sfugge, d'altra parte, lo spettatore dei film più segnati (in modo diretto o indiretto) dall'influenza del f. quali furono, in particolare, quelli della FEKS (Šinel′, 1926, Il cappotto, di Grigorij M. Kozincev e Leonid Z. Trauberg; Sojuz Velikogo Dela, 1927, L'unione per la grande causa), alcune esperienze di Lev V. Kulešov (Luč smerti, 1925, Il raggio della morte) e, in parte, alcuni film di Ejzenštejn (Stačka, 1925, Sciopero; Oktjabr′, 1927, Ottobre).
Nel contesto della raccolta, di cui si è già segnalato il carattere sostanzialmente disomogeneo, il compito di mettere in chiaro le assunzioni di fondo dell'approccio formalista sembra spettare all'ampio saggio di Tynjanov, che dichiara fin dal titolo (Ob osnovach kino) la portata delle sue ambizioni. L'intera argomentazione di Tynjanov fa leva su un presupposto semplice e perentorio: la riproduzione cinematografica della realtà visibile è piena di manchevolezze (bidimensionalità, assenza del suono e del colore ecc.), ma questo carattere difettivo dell'immagine cinematografica, lungi dall'essere una debolezza è, al contrario, la sua più grande forza e anzi "il principio costruttivo" del cinema sta proprio nella sua "povertà (bednost′)".
Si riconosce immediatamente, qui, la pregiudiziale antinaturalistica propria del f.: se l'immagine cinematografica fosse percepita come una copia del mondo reale il cinema non avrebbe alcuna speranza di rendersi formalmente autonomo e, di conseguenza, gli sarebbe inibita ogni elaborazione semantica e stilistica. Per contro, l'arte del cinema comincia nel momento stesso in cui l'immagine dichiara la sua emancipazione dalla base riproduttiva e la rafforza trasformando in opportunità costruttive le sue carenze illusionistiche. Grazie alla sua "povertà", in altri termini, la forma cinematografica si mette in condizione di lavorare con un materiale che ha più del segno convenzionale che non dell'immagine analogica, rendendosi idoneo, in tal modo, alla configurazione di un vero e proprio discorso. Stando così le cose, si chiede Tynjanov, qual è "il protagonista" del cinema? Non "l'uomo visibile" oppure "l'oggetto visibile", come ritiene Béla Balász, bensì il mondo visibile "restituito non come tale ma nelle sue correlazioni di senso". Ma dovrà essere chiaro ‒ e l'osservazione è tanto importante quanto radicale ‒ che "la correlazione semantica del mondo visibile deriva dalla sua trasformazione stilistica". In altri termini, in assenza di un'elaborazione stilistica coerente e sistematica, il mondo visibile in quanto materiale del cinema verrebbe a mancare del tratto decisivo: quella 'segnicità', quella facoltà di dar luogo a "correlazioni di senso" che solo un'azione compositiva responsabile può far sorgere.
Tynjanov non trae fino in fondo le conseguenze di questa notevole intuizione, ma è facile vedere come una tale precedenza del momento stilistico sul medesimo momento 'segnico' si lasci comprendere solo in rapporto a una teoria del testo filmico, risultando invece incompatibile con l'idea di un linguaggio cinematografico. In realtà, e Tynjanov ne è consapevole, ogni film inventa il suo linguaggio, a condizione, beninteso, "che lo stile sia organizzato, che l'angolazione e l'illuminazione non siano casuali ma facciano sistema". Il tratto sistematico, dunque, non è garantito da alcuna grammatica, ma determinato, di volta in volta, dai singoli testi. Il compito di una teoria generale del cinema, pertanto, dovrà limitarsi all'inventario dei procedimenti stilistici di base richiesti da qualsiasi sistema testuale. Il primo e più importante, per Tynjanov, è quello di introdurre il più alto gradiente possibile di differenziazione nel flusso indistinto dell'analogico (e questo fa pensare al cinema di Kulešov); il secondo consiste nell'utilizzo del montaggio come potente elemento di costruzione semantica (e questo ci porta al cinema del primo Ejzenštejn); il terzo, di certo il più legato agli interessi di Tynjanov, è quello di un'assimilazione del discorso filmico all'andamento discontinuo del discorso in versi (e qui si pensa al cinema della FEKS).
Non è difficile fare il bilancio dei meriti e dei limiti di queste tesi. Se da un lato, infatti, il concetto di un 'sistema testuale' anticipava limpidamente alcune conclusioni che la semiotica moderna avrebbe raggiunto non senza sforzi e ripensamenti (è il caso, per es., di Christian Metz), dall'altro l'intransigenza sulla "povertà" del cinema precludeva a Tynjanov (ma il rilievo vale per l'intera concezione formalista del cinema) la possibilità di comprendere l'introduzione del suono e del colore come l'apporto di nuovi elementi costruttivi e non come un semplice perfezionamento dell'adeguatezza riproduttiva, in quanto tale dannoso se non addirittura fatale per l'arte cinematografica (e qui la posizione di Tynjanov coincide in pieno con quella che sarebbe stata sostenuta da Rudolf Arnheim). Nell'idea di un 'cinema poetico' il trasferimento di alcuni principi formali dal piano del linguaggio verbale a quello dell'immagine non manca di qualche artificiosità, legandosi più di quanto non sia desiderabile agli interessi specialistici dell'autore, che alla versificazione aveva dedicato nel 1923 uno studio approfondito, Problema stichotvornogo jazyka (Il problema del linguaggio poetico).
Il confronto, implicito o esplicito, con le arti della parola, del resto, fu uno degli aspetti caratteristici della riflessione formalista sul cinema, e anzi nel suo breve contributo a Poetika kino Šklovskij considera la distinzione tra "poesia e prosa nel cinema" come uno degli oggetti di ricerca più promettenti. Si tratta di un tema su cui egli era già intervenuto più volte (e in modo più di-steso) e che avrebbe ancora riproposto in occasioni successive; tuttavia, al contrario di Tynjanov, Šklovskij non sembrò mai determinarsi per una posizione definitiva, lasciandosi guidare di volta in volta dall'esperienza concreta della produzione contemporanea, cui riconosceva, non a torto, il compito di anticipare la teoria. Accade così che un suo ampio saggio del 1923 intitolato Literatura i kinematograf (Letteratura e cinema) proclami perentoriamente che "il cinema nella sua vera essenza si colloca al di fuori dell'arte" perché la dipendenza da una base riproduttiva e la natura discontinua della forma cinematografica impediscono la "visione" limitandosi al puro "riconoscimento". In tal senso l'immagine in movimento veniva esclusa dal dominio del "poetico", risultando interessante solo dal punto di vista narrativo. Ma anche su questo piano Šklovskij non riusciva a vedere nel racconto cinematografico nient'altro che un incremento dei procedimenti dell'invenzione compositiva come, per es., l'uso di "effetti speciali" o delle risorse del montaggio per arricchire di effetti stranianti la costruzione della sequenza temporale. Nel succinto contributo alla raccolta del 1927, invece, la distinzione di cinema poetico (più precisamente: "versificato") e cinema prosastico gli sembrava appropriata e importante, a condizione tuttavia di delimitare il primo al cosiddetto "cinema senza intreccio (bessjužetnoe kino)", di cui portava a esempio le geometrie e i parallelismi compositivi di Dziga Vertov. Solo occupandosi di Ejzenštejn, infine, Šklovskij avrebbe sciolto per sempre la sua riserva circa l'artisticità del cinema apprezzandone le autonome potenzialità narrative e mettendo per una volta in disparte il parallelismo con la letteratura. "Affinché comparisse Ejzenštejn ‒ si legge nel suo intervento del 1928 intitolato 5 fel′etonov ob Ejzenštejn (Cinque feuilleton su Ejzenštejn) ‒ doveva prima esserci Kulešov, con il suo atteggiamento cosciente nei confronti del materiale cinematografico, dovevano esserci i kinoki, Dziga Vertov, i costruttivisti, doveva nascere l'idea del cinema senza intreccio". Qui Šklovskij coglieva nel segno ma, paradossalmente, lo faceva da storico più che da teorico, dimostrandosi sensibile ai risultati creativi dell'avanguardia cinematografica e illuminandone con chiarezza le radici. Nella sostanza, tuttavia, il suo contributo complessivo resta quello di un critico curioso e spregiudicato, da cui sarebbe illegittimo esigere la coerenza di una vera e propria teoria del cinema.Va preso in esame, da ultimo, il saggio del curatore di Poetika kino, B. Ejchenbaum, di gran lunga il più meritevole di attenzione. Si tratta infatti di un testo autenticamente fondativo, nonostante la sobrietà e la modestia del titolo: Problemy kino-stilistiki.
Due apporti essenziali e originali lo caratterizzano: il primo consiste nella distinzione di un elemento "linguistico" e di un elemento "fotogenico", i quali cooperano alla configurazione formale dell'immagine cinematografica. Il secondo è da ravvisare nel rilievo accordato al ruolo dello spettatore, nella cui attività ricettiva Ejchenbaum riconosce la prestazione determinante di un "discorso interno" che procede via via all'articolazione e alla connessione di ciò che il film mostra. Il "linguistico" (inteso in senso ampio) valorizza quei tratti dell'immagine e del rapporto tra immagini che si prestano a un'elaborazione costruttiva sovraordinata all'aspetto fotografico e riproduttivo, offrendosi in tal modo a una vera e propria lettura, in particolare narrativa. Il "fotogenico", d'altra parte, valorizza l'insieme indeterminato delle risonanze semantiche che l'immagine mette in movimento "al di fuori di ogni nesso con l'intreccio", anche se non necessariamente in contrasto con una destinazione narrativa.
Per Ejchenbaum il cinema è diventato una forma espressiva autonoma nel momento in cui ha cominciato a far interagire questi due elementi dell'immagine nell'ambito di un'organizzazione consapevole. Il vantaggio di questa tesi è evidente: liberandosi d'un colpo dal parallelismo, in genere abbastanza inconcludente, tra cinema e arti letterarie, Ejchenbaum si metteva in condizione di riconoscere nella diversa proporzione tra i due elementi dell'immagine non solo la condizione di possibilità di una peculiare forma di racconto, ma anche lo spazio specifico della sua evoluzione. Gli sembrava naturale, infatti, che all'inizio il "linguistico" dovesse imporre i suoi requisiti di discorsività e di leggibilità non meramente riproduttiva a spese del "fotogenico", ma si aspettava anche (e la storia del cinema gli avrebbe dato ragione) che questo ulteriore aspetto dell'immagine avrebbe cercato e infine trovato il modo di interagire sempre più profondamente con il primo, rafforzando complessivamente l'autonomia formale del discorso cinematografico. Il secondo apporto di Ejchenbaum ‒ la questione del "discorso interno" ‒ è altrettanto notevole e chiarificante. "Lo spettatore cinematografico ‒ egli osserva ‒ si trova in condizioni di percezione completamente nuove e opposte a quelle della lettura [di testi scritti]: dall'oggetto, dal movimento visibile egli muove verso la comprensione, verso la costruzione di un discorso interno". È dunque inesatto dire che il cinema è "un'arte 'muta'", il cinema manca solo della "parola udibile" (e si ricordi che Ejchenbaum scriveva nel 1927), "ma questo non annulla la funzione della parola, la pone semplicemente su un altro piano", quello, appunto, del "discorso interno". Con queste lucide osservazioni Ejchenbaum mostrava come una buona teoria del cinema fosse tenuta a prendere necessariamente in carico la prestazione interpretativa dello spettatore, anticipando un tema cui i moderni studi di impostazione pragmatica hanno accordato un valore decisivo. Se ne deve concludere che, benché il contributo di Ejchenbaum a Poetika kino porti ben visibili i segni del tempo, risultando intimamente legato al cinema di montaggio che in quegli anni attraversava in URSS la sua fase di massimo dispiegamento creativo, le sue tesi teoriche sono quanto di meglio il f. abbia saputo offrire alla comprensione del cinema.
Di Poetika kino (Moskva-Leningrad 1927) esistono diverse traduzioni in lingue europee, di cui la più completa e accurata è Les formalistes russes et le cinéma, éd. F. Albera, Paris 1996 (con una documentata Introduzione, un'ampia bibliografia e una ricca appendice che include altri saggi brevi di Tynjanov ed Ejchenbaum). Un'antologia parziale, ma integrata con alcuni importanti scritti di Šklovskij e con un significativo testo di Brik, è costituita da I formalisti russi nel cinema, a cura di G. Kraiski, Milano 1971.
Sulla scuola formale sono essenziali V. Erlich, Il formalismo russo, Milano 1966 e K. Pomorska, Russian formalist theory and its poetic ambiance, Paris-La Haye 1968.
Si vedano inoltre: Ejzenštejn e il formalismo russo, a cura di P. Montani, in "Bianco e nero", 1971, 7-8.
E. Garroni, Langage verbal et éléments non verbaux dans le message filmico-télévisuel, in "Revue d'esthétique", 1973, 26, pp. 111-27.
R. Levaco, Eikhenbaum, inner speech and film stylistics, in "Screen", 1974-75, 4.
Ju. Civjan, E. Toddes, Ne kinogramota a kinokul´tura (Non cinealfabetizzazione ma cinecultura), in "Iskusstvo kino", 1986, 7.