colloquiali, forme [prontuario]
Le cosiddette forme colloquiali (o colloquialismi) caratterizzano il dialogo informale e spontaneo, ovvero condizioni comunicative proprie del parlato (➔ colloquiale, lingua; ➔ lingua parlata). Esse sono tipiche della varietà di italiano nota come neostandard, ovvero dell’italiano corrente di tono informale non trascurato (sono, ad es., colloquialismi averci per «avere», con il cosiddetto ci attualizzante: c’ho freddo; e gli per le: ho incontrato Mara e gli ho chiesto come stava); viceversa, non possono dirsi colloquialismi forme come propio in luogo di proprio e convenì al posto di convenne, che non sono accettate nell’italiano corrente e che si ritrovano in varietà di italiano più trascurato (➔ substandard).
L’etichetta colloquiale riguarda dunque un certa forma in relazione a determinate circostanze sociolinguistiche, che sono tuttavia storicamente mutevoli. L’uso di lui in funzione di ➔ soggetto, ad es., può dirsi colloquialismo solo rispetto ad altre forme (nella fattispecie, egli, ei, e’) che siano stabilmente correnti nella lingua standard della stessa epoca: nella fattispecie, così è stato per secoli fino a quando, nel corso del Novecento, scomparse le forme ei ed e’, lui ha espanso ulteriormente il suo ambito d’uso sospingendo egli nel registro sorvegliato o a usi particolari (per una sintesi sul rapporto tra lui ed egli nel corso del tempo cfr. Renzi 2000: 287-288). La convergenza dei generi e dei canali comunicativi che ha caratterizzato il Novecento e l’epoca contemporanea ha attenuato inoltre i confini tra le diverse varietà, rendendoli più permeabili alle numerose ed eterogenee sollecitazioni del moderno dinamismo sociolinguistico (➔ italiano standard).
Qui di seguito sono presentate le principali forme colloquiali. Molti fenomeni ricordati non sono di per sé nuovi, ma presenti da secoli, più o meno marginalmente, nei registri più informali (cfr. D’Achille 1990; Testa 1991 e 1997; Trifone 2000; Renzi 2007). Il loro affiorare nell’italiano corrente, orale e anche scritto, ha contribuito a ridisegnare, oltre che il quadro delle varietà dell’italiano, anche il concetto di ➔ norma linguistica. I seguenti tratti sono ricavati in particolare da F. Sabatini 1985 e 1990, Berruto 1987, Serianni 1989a, Simone 1993, Mengaldo 1994, Renzi 2000, Tavoni 2002 (che raccoglie la bibliografia precedente sull’argomento), Bonomi & Mauroni 2003, Tesi 2005: 229-240, D’Achille 2006: 177-89, e Renzi 2007 (alcuni fenomeni ed esempi sono invece estratti da Telve 2007 e 2008a) e sono stati suddivisi, per comodità d’esposizione, in base a criteri di massima (nelle prime voci, relative alla sintassi, figurano anche tratti morfosintattici).
Una parte notevole dei colloquialismi sintattici è costituita da fenomeni di focalizzazione (➔ focalizzazioni).
Se ne riportano i principali:
(a) ➔ anacoluto (o tema pendente; ➔ tema sospeso): lui, gli piacciono queste cose invece di a lui (gli) piacciono queste cose;
(b) ➔ dislocazioni: a me non mi piace, le cose le devo sempre ripetere, oppure le devo sempre ripetere, le cose;
(c) frase scissa (➔ scisse, frasi): è composta da una prima frase, nella quale si mette in rilievo un elemento accompagnato da verbo (perlopiù essere), seguita da una seconda frase introdotta da che (Roggia 2009):
(1) è lui che me l’ha chiesto [invece di me l’ha chiesto lui]
(2) chi è che vuole venire [invece di chi vuole venire?]
(3) quand’è che lo chiami? [invece di quando lo chiami?]
(4) non è che hai l’incontrato? [invece di l’hai incontrato?]
La stessa struttura può ritrovarsi con il verbo avere (ho gli occhi che mi bruciano), con verbi di percezione (come vedere: ho visto Marco che rideva; ➔ percezione, verbi di) e ancora sotto altre forme (si parla in questi casi di frasi pseudorelative: Scarano 2002).
Si riportano i principali:
(a) te in funzione di soggetto (me l’hai detto te): il fenomeno, benché in espansione (Mengaldo 1994: 122), è tipico del Centro-Nord, non del Sud, dove è comune voi (➔ allocutivi, pronomi);
(b) lui, lei, loro riferiti a cose;
(c) gli «a lei», «a loro»;
(d) questo, quello, uno come pronomi personali: questo / quello non ne vuole sapere; uno non sa quello che deve fare;
(e) questo qui, quello lì (pronomi rafforzati da avverbi di luogo);
(f) ’sto per questo (e rispettive forme al femminile e al plurale);
(g) niente usato come aggettivo: niente lezione oggi;
(h) ➔ imperfetto ipotetico ‘misto’ o con doppio indicativo: se me lo avessi detto sarei venuto → se me lo dicevi, venivo;
(i) imperfetto ‘prospettico’: a che ora arrivava tua sorella?;
(j) riduzione del ➔ congiuntivo, sostituito dall’indicativo (specie nelle frasi soggettive o oggettive e nelle concessive), fenomeno che si inserisce nella tendenza post-settecentesca alla riduzione progressiva dell’ipotassi (Tesi 2005: 230-235; ➔ semplificazione);
(k) che relativo indeclinato (➔ che polivalente):
(5) è una persona che non gli piace stare in compagnia [invece di è una persona a cui non piace stare in compagnia]
(6) ho un motorino che il carburatore non funziona [invece di ho un motorino il cui carburatore non funziona]
(l) concordanza a senso, in cui il verbo è concordato non con il soggetto grammaticale ma con il soggetto logico: un gruppo di studenti sono entrati nel cinema (➔ accordo; ► accordo);
(m) dove in accezione estesa: «Berlusconi-Prodi è una di queste coppie di nemici solidali dove l’uno è l’altro dilatato» («la Repubblica» 5 maggio 2006).
Si segnalano altri fenomeni rilevanti:
(a) pronome ‘affettivo’ ridondante (frequente soprattutto nel Meridione, ma in espansione; ➔ pronominali, verbi):
(7) mi bevo una bella limonata [invece di bevo una bella limonata]
(b) formule impersonali o generiche come dice che ... (per il ➔ discorso riportato: dice che domani sarà bel tempo), la terza persona plurale (il motociclista ha avuto un incidente e l’hanno subito portato all’ospedale), il tu generico (tu non ci pensi più, e invece poi te lo ritrovi davanti; ➔ generico, interlocutore);
(c) anticipazione del pronome atono con verbi fraseologici:
(8) lo cerco di aprire [invece di cerco di aprirlo]
(d) che ripetuto nelle esclamazioni e nelle interrogazioni: che bello che è!; che è che fai qui?;
(e) costruzione che + verbo + a fare? nel senso di «perché»: che sei venuto a fare?; con diversi sviluppi: che parliamo a fare?, che ti affatichi a fare? Tale costrutto, proprio soprattutto dell’area centro-meridionale, è in espansione (D’Achille 2001; ➔ Roma, italiano di);
(f) costruzione stare + gerundio: sto facendo i compiti. Tale costrutto rappresenta, nel Novecento, una delle innovazioni sintattiche più importanti (cfr. Cortelazzo 2007a; ➔ lingua d’oggi).
Alcuni verbi sono frequentissimi nell’uso colloquiale. Se ne dà qui di seguito una lista.
(a) Averci nel senso di «avere». Quest’uso, originario dell’Italia centrale, è oggi diffusissimo, benché al Sud sia ancora ben radicato, con lo stesso valore, il verbo tenere. Nell’uso scritto il ci proclitico stenta a diffondersi anche per via di difficoltà e incertezze nella sua resa grafica (si scrive infatti ci avevo ma anche c’avevo e, del tutto scorrettamente, ciavevo; ci ho, c’ho e, scorrettamente, ciò):
(9) ciài la nomina e forse non è / colpa tua (Giovanni Giudici, “Tanto giovane”, in Giudici 1965: 40)
(10) io c’ho duecento trenini (Benni 2002: 76)
(11) non ci ho più voglia di stare sdraiata (Campo 2003: 53)
(b) Volerci nel senso di «servire, occorrere, essere necessario»: per tagliare il torrone ci vuole un buon coltello; tale verbo si riferisce in particolare a determinazioni di tempo e di spazio: quanto ci vuole per arrivare a Napoli?;
(c) Entrarci «avere a che fare / vedere»: non c’entra niente «non ha niente a che vedere». Tale verbo, frequentissimo nel parlare, è soggetto però a ➔ rianalisi: il -ci non è sempre sentito come un clitico e viene interpretato come segmento iniziale del verbo, sicché anche nel parlato delle persone colte si ha, ad es., deve c’entrare invece del regolare deve entrarci; pertanto, «si può parlare della nascita di un nuovo verbo centrare» (D’Achille 2006: 123). Nel parlato popolare si ha anche che ci centra? Dal parlato il costrutto può talvolta passare in alcune forme di scritto, come, ad es., nello stile brillante e a volte forzatamente colloquiale di certi articoli di giornale («e quindi non può c’entrare nulla l’aborto»: «Il Foglio» 13 maggio 2005);
(d) Arrivarci «riuscire a capire», perlopiù in frasi negative: con la matematica non ci arriva «non la capisce»;
(e) Farcela nel senso di «riuscire»: ce la fai a salire le scale da solo?;
(f) Mettere (o mettere il caso) nel senso di «supporre», perlopiù alla seconda persona singolare del presente indicativo: metti (il caso) che non viene, che facciamo?;
(g) Toccare impersonale nel senso di «essere obbligato»: qui tocca bere qualcosa di forte;
(h) Fare (al presente) per introdurre il discorso diretto: allora viene e mi fa: “ma davvero?”;
(i) Avercela con nel senso di «essere arrabbiato, maldisposto verso»;
(j) Alcuni verbi si presentano solamente in forme determinate: mi sa (invariabile) «penso, credo» (mi sa che non viene); ti (mi / gli) va «avere voglia» (ti va di fare una passeggiata?); si vede (che) «evidentemente» (se ha fatto tardi, si vede che ha incontrato del traffico, oppure ha incontrato del traffico, si vede); si capisce che nel senso di «è ovvio» (si capisce che tutto questo dovrà essere spiegato).
Talune congiunzioni e locuzioni congiuntive sono tipiche del linguaggio colloquiale: se no / sennò «altrimenti» (dobbiamo arrivare presto, sennò rischiamo di perdere il treno); per cui «quindi, perciò», considerato scorretto da molti ma nondimeno usatissimo (lui ha cambiato quartiere, per cui non l’ho più incontrato); solo che «tuttavia, però» (verrei volentieri, solo che oggi è stata una giornata faticosa; basta che «purché» (puoi venire, basta che ti sbrighi); a parte che «senza parlare di» (a parte che è un maleducato, è anche bugiardo).
Tra gli avverbi propri del linguaggio colloquiale si segnalano: affatto e assolutamente, usati senza negazione con senso negativo (– condividi quello che ho detto? − assolutamente / affatto! «no, per niente»); lo stesso «ugualmente» (anche se mi tratti male, ti voglio bene lo stesso); tipo «come, simile a» (il suv è tipo una jeep urbana).
Altre forme, benché piuttosto diffuse, non sono altrettanto chiaramente connotate come colloquiali (come, ad es., l’uso del verbo avere al posto di essere davanti a verbi modali seguiti da intransitivi: ho / sono dovuto partire; cfr. Cortelazzo 2007b e, in diacronia, Telve 2007; ➔ ausiliari, verbi).
Numerosissimi i colloquialismi lessicali e semantici, spesso originari ➔ dialettismi o termini gergali: ad es., beccare «cogliere di sopresa / in fallo», pizza «cosa noiosa», sciropparsi «sopportare qualcosa di antipatico o noioso», ecc. (una rassegna in Berruto 1987: 139-148).
Non sono colloquialismi, ma fenomeni di italiano trascurato e di basso registro, altri usi, come il che dopo alcune congiunzioni (mentre che, siccome che, quando che: ad es., quando che l’ho visto, m’è preso un colpo), l’uso transitivo di verbi intransitivi quali telefonare e sparare (come in l’ho telefonato, l’ho sparato), il cosiddetto foderamento (ovvero la ripetizione della parte iniziale della frase, coincidente perlopiù col verbo: mi pare vederlo suo padre, mi pare) e l’uso di dove in funzione temporale (che tuttavia pare talvolta penetrare anche nell’italiano ufficiale: si veda, ad es., immaginiamo un futuro dove sia l’uomo a prendersi cura della Terra: pubblicità dell’Eni).