fortezze
In una lettera a Francesco Guicciardini del 17 maggio 1526, M. si scusa di non avere scritto da diversi giorni «perché [ha] il capo sì pieno di baluardi, che non vi è potuto entrare altra cosa» (Lettere, p. 426). Stava entrando allora in funzione la magistratura dei Cinque procuratori delle mura: la provvisione era stata votata dal Consiglio dei Cento il 9 maggio e, il 18 maggio, i Cinque, finalmente riuniti, avrebbero nominato M. provveditore e cancelliere della nuova istituzione. La frase scherzosa allude però a un interesse di lunga durata, attestato già nei Ghiribizzi al Soderino del 1506, e poi nel Principe x e xx, nei Discorsi II xxiv e nel libro VII dell’Arte della guerra. Ancora una volta, come per la sua riflessione sull’artiglieria o sulla cavalleria, M. non si accontenta di citare «il modo di procedere de’ Romani» (Discorsi II xxiv 5), ma coltiva e mostra una reale conoscenza della pratica militare e delle sue implicazioni politiche.
Nei Ghiribizzi al Soderino, M. parte da una constatazione e da un interrogativo: per quali ragioni accade che «le diverse operationi qualche volta equalmente giovano o equalmente nuocono». Gli esempi moderni che lo portano a farsi questa domanda anticipano la tematica delle f. presente nel Principe xx: «e Vitelli in Castello e questo duca d’Urbino nello stato suo disfeciono le forteze per tenere quelli stati; el conte Francesco in Milano et molti altri le edificorno nelli stati loro per assicurarsene» (Lettere, p. 136). In effetti, nel Principe il punto di partenza è identico: «Alcuni hanno edificato fortezze; alcuni le hanno ruinate e destrutte» (xx 3). Ma M. avverte subito che non entrerà nei «particulari di quegli stati dove si avesse a pigliare alcuna simile deliberazione» e che parlerà «in quello modo largo che la materia per sé medesima sopporta» (§ 4).
L’argomentazione è politico-militare: la tesi è enunciata una prima volta («la migliore fortezza che sia, è non essere odiato dal populo»: § 29) poi ribadita alla fine del capitolo: «Considerato adunque tutte queste cose, io lauderò chi farà le fortezze e chi non le farà; e biasimerò qualunque, fidandosi delle fortezze, stimerà poco essere odiato da’ populi» (§ 33).
M. stima, fedele in ciò a una sua idea centrale, che ci si deve adattare alla «qualità de’ tempi» («Sono dunque le fortezze utili, o no, secondo e tempi»: § 26). Edificare o no una fortezza è un indizio del tipo di relazione tra principe e sudditi. Viene conferita alla questione dell’odio da fuggire, trattata appunto nel cap. xix, una nuova centralità. Un’altra tesi importante viene espressa nel cap. xx: «quel principe che ha più paura de’ populi che de’ forestieri, debbe fare le fortezze; ma quello che ha più paura de’ forestieri che de’ populi, debba lasciarle indietro» (§ 27). La tesi si appoggia sull’esempio della contessa di Forlì, Caterina Sforza (→), che «mediante quella [la fortezza] possé fuggire l’impeto populare et aspettare il soccorso da Milano e recuperare lo stato», ma alla quale la medesima f. non servì «quando Cesare Borgia l’assaltò e che il populo, suo inimico, si coniunse col forestiere» (§§ 30-31).
Nel gennaio 1511 M. fu mandato a Pisa dai Dieci di Libertà e Balìa «a vedere la cittadella e referire in che termine si truovi»; la lettera inviata poco dopo a Giovan Battista Bartolini, commissario di Pisa, è importante dal punto di vista tecnico-militare e Jean-Jacques Marchand ha mostrato i legami di questa missiva con alcuni passi dell’Arte della guerra (cfr. LCSG, 7° t., pp. 63-67, e l’introduzione di Marchand). Si può ipotizzare che da quell’esperienza M. abbia tratto l’idea della possibile utilità di una f., come freno, quando si temono gli abitanti.
Quando torna sulla questione delle f., in Discorsi II xxiv, M. non cambia il punto di vista politico-militare già espresso nel Principe xx – bisogna fondarsi «non in su le fortezze, ma in su la benivolenza degli uomini» (II xxiv 16) – ma, mentre allora aveva parlato «in modo largo», vuole ora «questa materia disputarla più tritamente» (§ 13) e, facendo distinzioni e numerosi esempi, antichi e moderni, perviene a una conclusione militare, già presente nel titolo del capitolo (Le fortezze generalmente sono molto più dannose che utili) e quindi più netta di quella del Principe. M. comincia con il distinguere tra funzione ‘interna’ e funzione ‘esterna’ delle f. ed esprime un parere che riecheggia il titolo: «Debbesi adunque considerare come le fortezze si fanno o per difendersi dagl’inimici o per difendersi da’ suggetti. Nel primo caso le non sono necessarie; nel secondo, dannose» (§ 6). Rispetto alla funzione interna, introduce una nuova distinzione: «O tu, principe, vuoi con queste fortezze tenere in freno il popolo della tua città; o tu, principe, o republica, vuoi frenare una città occupata per guerra» (§ 14); e si nota subito che solo un principe può volere «tenere in freno» il popolo della sua città, mentre l’altra funzione, «frenare una città occupata per guerra», riguarda sia un principe sia una repubblica (e difatti M. parlerà di Pisa). Il consiglio che M. dà a quei principi che credono di potersi affidare alle f. non potrebbe essere più netto: «Io mi voglio voltare al principe, e gli dico che tale fortezza, per tenere in freno i suoi cittadini, non può essere più inutile» (§ 15); ed esprime la ragione di questo parere con una formula efficace: «l’orgoglio della fortezza» (§ 20). Avere una f. incita il principe a maltrattare i sudditi che concepiscono odio contro di lui, mentre i principi dovrebbero sapere che «non le fortezze ma la volontà degli uomini mantengono i principi in stato» (§ 30) e devono «fuggire l’odio» come veniva già detto in diversi luoghi del Principe. Gli esempi moderni riprendono quelli già indicati nei Ghiribizzi e nel Principe xx (Guidubaldo duca d’Urbino, Niccolò Vitelli, Francesco Sforza) aggiungendone altri e particolarmente quello di Genova, dove il re di Francia fece costruire le f. di Codefà che Ottaviano Fregoso disfece dopo avere ripreso la città: «il disfare la fortezza non ha offeso Ottaviano e il farla non difese il re» (§ 33).
Dopo aver dimostrato «la inutilità dello edificar[e] e l’utilità del disfar[e]» una f. nella propria patria, M. tratta delle «republiche che fanno le fortezze non nella patria, ma nelle terre che le acquistano» (§ 36); e prende l’esempio di Firenze e di Pisa. La tesi è puramente politica (e riprende quella del Principe v): quando si occupa una città «vissuta libera, e che ha alla rebellione per rifugio la libertà» non c’è nessuna soluzione militare, le f. non servono a niente, ed è «necessario, volendola tenere, osservare il modo romano; o farsela compagna o disfarla» (§ 37). La conclusione era già stata enunciata all’inizio, ma M. non esita a riprenderla, nel caso in cui il suo lettore (e certo pensa ai «savi» di Firenze, ricordati all’inizio del capitolo, i quali stimavano «che Pisa e l’altre simili città si debbono tenere con le fortezze»: § 2) non fosse ancora convinto: «Conchiudo adunque che, per tenere la patria propria, la fortezza è dannosa; per tenere le terre che si acquistono, le fortezze sono inutili» (§ 39).
Rimane da trattare il secondo aspetto, la funzione di una f. per «difendersi da’ nimici di fuori». Sappiamo già che M. stima che queste f. «non sono necessarie». La tesi viene precisata: «dico che le non sono necessarie a quelli popoli e a quelli regni che hanno buoni eserciti, e a quegli che non hanno buoni eserciti, sono inutili» (§ 48). Conta solo il fatto di avere o no un «buono esercito», e questa tesi rinvia a quello che M. pensa delle «arme proprie» e del ruolo delle «popolazioni armate» (→ armi). Non a caso il capitolo finisce con l’idea che se, per difendersi da un nemico esterno, le f. non sono necessarie, è utile invece «afforzare la città [...], e tenerla munita e bene disposti i cittadini di quella» (§ 54). L’affermazione sull’utilità di «afforzare» e «munire» una città riprende le indicazioni che, nel Principe, M. aveva tratto dalle città della Magna «affortificate» (Principe x 7-9), confortando già, nello stesso capitolo, i principi a «fortificare e munire la terra propria» (§§ 5-6), sul modello appunto della Magna.
Quando, nel libro VII dell’Arte della guerra, M. tratta del modo di «far forte [un sito] con la industria» (§ 3), ha sorpassato l’opposizione tra inutilità delle f. e utilità di fortificare: Fabrizio Colonna parla nello stesso tempo delle «terre» e delle «rocche». I consigli che dà per edificare le difese valgono sia per le une sia per le altre, e sembra quindi che le rocche siano concepite come parte della fortificazione delle città. È interessante rilevare che, per un punto presentato come fondamentale («credo […] che […] si debba fare il muro alto e co’ fossi di dentro e non di fuora»: § 7), Fabrizio Colonna si fondi sull’esempio dei pisani che, non avendo mura con fossati interni, ebbero l’accortezza di farne durante gli assalti:
dico che s’egli occorre che tu sia combattuto nella tua città, che non sia ordinata co’ fossi dalla parte di dentro, […] a volere che il nimico non entri per le rotture del muro che l’artiglieria fa […], ti è necessario, mentre che l’artiglieria batte, muovere uno fosso dentro al muro che è percosso. […] Questo modo di riparare fu osservato da’ Pisani, quando voi vi andavi a campo; e poterono farlo, perché avevano le mura gagliarde, che davano loro tempo, e il terreno tenace e attissimo a rizzare argini e fare ripari (§§ 133-37).
M. avrà modo di mettere in pratica la sua riflessione sulle f. delle città. Nei primi mesi del 1526, di fronte al rischio di una guerra con Carlo V, Clemente VII avvia la ristrutturazione delle fortificazioni di Firenze. Il capitano spagnolo Pedro Navarra, esperto di ingegneria militare, è incaricato di fare proposte e M. viene chiamato a occuparsene come cancelliere della nuova magistratura creata ad hoc. Dopo la visita delle mura di Firenze in compagnia di Navarra il 5 aprile 1526, M. stende una Relazione di quella visita e va a Roma per presentare il progetto di fortificazioni e la Minuta di provvisione per l’istituzione dei Cinque procuratori delle mura. Uno dei punti cruciali è l’inclusione o meno nel circuito delle mura di «questi monti che soprastanno al di là d’Arno» (Relazione, § 1). M. non è favorevole a tale ipotesi, preferita invece da Clemente VII. Neppure Navarra sembra d’accordo con quel progetto, o almeno ciò è quello che M. lascia intendere nel modo in cui presenta la reazione dello spagnolo durante la visita:
Parve al capitano questa una grande impresa e che la facesse molti buoni effetti: pure disse che a farla non bisognava avere né fretta, né necessità e che bisognava assai gente a guardarla, ma che se ne trarrebbe questo bene, che uno esercito tutto vi si potrebbe raddurre senza dare affanno allo abitato della città (Relazione, § 2).
Le lettere a Francesco Guicciardini dei mesi di aprile-giugno 1526 mostrano che M. ha idee precise sul da farsi: è persuaso che bisogna fortificare il «circuito vecchio» e che non si deve né far passare le mura da San Miniato né restringere le fortificazioni ai tre quartieri «leva[ndo] via il quartiere di Sancto Spirito»: lo scrive nella lettera del 4 aprile («Il primo modo lo fa debole la gran guardia che vi bisognerebbe, dove il popolo del Cairo sarebbe poco; il secondo modo è parte debole e parte impio»: Lettere, p. 425) e lo ripete in due delle tre lettere «appartate» del 2 giugno. Nella prima, constatando che «il papa è tornato in su la oppinione de’ monti, mosso dalla oppinione di Giuliano del Bene, il quale nella sua lettera dice che nello abbracciare tutti quelli poggi è più fortezza, e meno spesa» – il nome di Giuliano del Bene si direbbe il frutto di un errore del copista, Giuliano de’ Ricci (→), il quale d’altronde lo sottolinea con puntini e scrive in margine «beno»; si tratta molto probabilmente di Giuliano Leno, architetto del papa, spesso citato a tal proposito nella corrispondenza tra Luigi e Francesco Guicciardini –, scrive a Guicciardini che «questa è una chiacchera», «è una favola, né egli [Giuliano] sa quello che si dice» (Lettere, p. 428). Nell’altra lettera, M. spiega per quale ragione è contrario a «mettere dentro il colle di Samminiato»: «La più nociva impresa che faccia una republica è farsi in corpo una cosa forte, o che sùbito si possa fare forte». E aggiunge che un nemico arrivando a Firenze si potrebbe impadronire del luogo e assoggettare la città: «se mai per alcuno disordine un potente venisse a Firenze, come il re di Francia nel 1494, voi diventate servi senza rimedio alcuno» (Lettere, p. 430). Si ritrova in questa notazione l’idea del danno che può recare una f. a chi si difende, ma anche, in modo che può sembrare paradossale, la sua utilità per chi vorrebbe così impadronirsi di una città. Si direbbe che torni in questa lettera la tesi enunciata nel Principe xx 27 e probabilmente legata all’esperienza pisana, tesi – non ripresa né nei Discorsi né nell’Arte della guerra – secondo la quale una f. può essere utile per domare i popoli.
Vi è dunque, da parte di M., un lungo percorso di riflessioni politico-militari e di azioni pratiche, con inflessioni diverse, sulla questione delle f. e delle fortificazioni. È stato mostrato da John Rigby Hale (1983) come tale riflessione sia stata all’origine di un dibattito svoltosi lungo il Cinquecento, e non solo in Italia, nel quale intervenne anche Guicciardini osservando nelle sue Considerazioni, a proposito di Discorsi II xxiv, che «le fortezze spesso sono utili a chi le tiene, per assicurarsi dalle congiure, per fuggire le rebellione e per recuperare le terre perdute», e rimproverando a M. di «biasimare tutti gli ordini moderni che non erano in uso apresso a’ romani». Se il dibattito fu acceso e mai chiuso, un riconoscimento dell’importanza dell’azione pratica di M. nella fortificazione di Firenze venne proprio da Guicciardini in una lettera al fratello del 27 aprile 1526:
El Machiavello è partito con ordine che si faccia la provisione et gli uficiali, et si cominci a fortificare, nel modo che da lui intenderete. Nostro Signore ci va di buone gambe et è per aiutare col suo la opera. Et el Machiavello è stato quello che la promosse, in modo che siate debitori di tractarlo bene di questa sua venuta et le altre cose che gli occorreranno, ché ha guadagnato molto bene lo scocto (Lettere, a cura di P. Jodogne, 10° vol., 2008, pp. 417-19).
Bibliografia: J.R. Hale, Renaissance war studies, London 1983 (in partic. The early development of the bastion: an Italian chronology c. 1450 - c. 1534, pp. 1-29, e To fortify or not to fortify? Machiavelli’s contribution to a Renaissance debate, pp. 189-209); N. Cavini, Castelli, fortificazioni e difesa locale, in Castrum 3. Guerre, fortification et habitat dans le monde méditerranéen au Moyen Âge, Madrid-Roma 1988, pp. 135-41; M. Viganò, Machiavelli e il tema della fortezza, postfazione a L. Zanzi, Machiavelli e gli ‘Svizzeri’ e altre ‘machiavellerie’ filosofiche concernenti la natura, la guerra, lo Stato, la società, l’etica e la civiltà, Bellinzona 2009, pp. 248-68.