FOTOELASTICITÀ (App. I, p. 613)
Fotoelasticità spaziale. - La fotoelasticità spaziale si propone di determinare lo stato elastico di un solido qualsiasi comunque sollecitato. Si colpisce il modello trasparente con luce polarizzata e si analizzano le perturbazioni che essa subisce per effetto della birifrangenza accidentale indotta nel modello dallo stato di tensione (e deformazione); questo principio è comune con la fotoelasticità piana, ma i principî fisici e in particolare ottici che si utilizzano sono notevolmente diversi.
In fotoelasticità spaziale il problema da risolvere è assai più complesso perché l'effetto ottico sul raggio di luce polarizzata che attraversa il modello è il risultante dei diversi effetti ottici intervenuti punto per punto lungo il percorso, e non si può quindi mettere in diretta relazione con lo stato di tensione dei singoli punti.
Un gruppo di metodi riguarda l'impiego della fotoelasticità piana per affrontare il problema spaziale in casi particolari. Così si possono studiare quelle parti di un modello tridimensionale il cui stato di tensione sia prevalentemente piano (es.: aste di tralicci spaziali, pareti di travi-cassone, ecc.).
Una tappa importante verso la soluzione del problema tridimensionale è data dalla conoscenza delle tensioni sulla superficie libera, dove l'ellissoide delle tensioni si riduce in ogni punto a un'ellisse. Si è pensato quindi di utilizzare il metodo della fotoelasticità piana per riflessione: A. Mesnager (1930) applica una pellicola di resina trasparente sulla superficie del modello resa speculare; G. Mabboux (1932) estende il metodo a solidi di calcestruzzo, includendo sulla superficie degli elementi di specchio. La resina ovvero gli specchi, assunto lo stato elastico della superficie, modificano il raggio polarizzato con doppio effetto (andata e ritorno). L'idea di Mabboux è stata recentemente ripresa da M. A. de Sousa Coutinho (1948). A. Favre (1932) propose di includere entro un modello di vetro speciale insensibile (di costante fotoelastica praticamente nulla) un vetrino sensibile nel punto da studiare in modo da riportare l'effetto ottico da globale a puntuale.
La fotoelasticità spaziale propriamente detta ha avuto inizio intorno al 1936 con i lavori di G. Oppel; oggi essa è ancora riservata a laboratorî specializzati che operano per metterne a punto i metodi, assai delicati sia dal punto di vista sperimentale che da quello teorico. Non è ancora entrata come strumento consueto di ricerca nel campo dell'ingegneria. Due principali metodi, del tutto distinti, sono stati proposti ed elaborati: nel primo la deformazione e la birifrangenza vengono "fissate " nel modello in modo che permangono dopo la rimozione delle forze esterne (G. Oppel, R. Hiltscher a Monaco: Erstarrungsverfahren; M. Hetenyi ed altri in America: fixation method); il secondo è il metodo per luce diffusa (R. Weller).
Nel primo metodo si utilizzano per la costruzione del modello le resine fenoliche (bachelite, marblette, trolon ecc.). Esse presentano un comportamento elastico lineare (entro opportuni limiti di tensione), sia alla temperatura ordinaria che a 80°÷110° C, ma alla temperatura elevata sono assai più deformabili e fotoelasticamente sensibili: il modulo di elasticità è circa 650 volte minore, la costante fotoelastica circa 25 volte maggiore che alla temperatura ordinaria. Il fenomeno viene spiegato secondo i concetti della polimerizzazione, ammettendo che il mezzo sia costituito da uno scheletro stabile di molecole unite da legami forti, i cui vani sarebbero riempiti da macromolecole (micelle) a legami deboli: a temperatura ordinaria la rigidità è data dal complesso, a temperatura elevata il materiale compreso nei vani fonde e la struttura resistente si riduce al solo scheletro, per cui si ha una rigidità assai inferiore pur mantenendosi un comportamento elastico.
Il modello viene riscaldato in bagno di olio e caricato quando si trova a circa 85° C, ottenendo la deformazione e la birifrangenza caratteristiche delle alte temperature; viene quindi raffreddato lentamente sempre sotto carico, mantenendosi così la deformazione. Quando alla temperatura ordinaria le forze vengono rimosse, soltanto una minima parte della deformazione e dell'effetto ottico scompare, corrispondentemente ai valori del modulo e della costante fotoelastica a temperatura ordinaria. Il potere birifrangente indotto dallo stato elastico viene pertanto quasi integralmente "fissato" nel modello e permane anche quando, con opportune precauzioni, si taglia il modello in lamelle piane di 2÷3 mm. di spessore. In questo modo viene superata la maggiore difficoltà della fotoelasticità spaziale, e cioè l'essere l'effetto ottico un effetto globale.
La lamella può essere tagliata in cubetti elementari. A ognuno di questi elementi, se sufficientemente piccolo, corrisponde uno stato tensionale spaziale; per conoscere il relativo ellissoide delle tensioni, occorre determinare l'indicatrice ottica come se il cubetto fosse un cristallo naturale (R. Hiltscher) e inoltre studiarlo in fotoelasticità piana.
Il metodo per luce diffusa proposto da R. Weller, consiste nel portare a coincidere con la generica sezione piana una lama di luce polarizzata che si può spostare in modo da esplorare l'intero modello. L'osservatore, disposto in modo che il raggio visuale giaccia nel piano del fronte d'onda (cioè in un piano normale a quello della sezione illuminata) e formi un angolo di 90° con la direzione di vibrazione della luce polarizzata originale, vede una serie di frange d'interferenza, le cui caratteristiche sono in relazione con lo stato tensionale dei punti della sezione illuminata. In ogni punto la distanza tra due frange successive è inversamente proporzionale alla differenza tra le due tensioni, massima e minima, che in quel punto si verificano nel piano del fronte d'onda.
Secondo la teoria della diffusione, la luce nell'attraversare il mezzo trasparente eccita la vibrazione di particelle submicroscopiche, che divengono in tal guisa sorgenti luminose. Se la luce incidente è polarizzata secondo la direzione r, anche la vibrazione della particella avviene in una direzione privilegiata s, normale ad r, e la luce emessa è visibile solo se il raggio visuale non coincide con tale direzione s. Se ora il mezzo è reso birifrangente dalla sollecitazione, la luce polarizzata originale genera due componenti che avanzano con velocità diverse e quindi dànno luogo a fenomeni d'interferenza lungo il percorso del raggio (per es., nei punti in cui le due componenti ritornano in fase si riproduce la luce polarizzata originale, e pertanto l'osservatore disposto a 90° con la direzione di polarizzazione, e quindi secondo s, vede un punto oscuro).
Bibl.: M. A. De Sousa Coutinho, Détermination des contraintes dans le béton par la méthode du tensomètre photoélastique, in Ann. Inst. Tech. du Bât. et des Trav. pub., maggio 1948, n. 20; A. G. Solakian, On the Hydrodynamic Analogy of Torsion, in Journ. of Appl. Mechs., III, 1936, p. A-31; G. Oppel, Polarisationsoptische Untersuchung räumlicher Spannungs-und Dehnungszustände, in Forsch. d. Ingenieurwes., VII, 1936; R. Hiltscher, Polarisationsoptische Untersuchung des raümlicher Spannungszustandes im korvengenten Licht, ibid. IX, 1938; M. Hetenyi, The Fundamentals of Three-dimensional Photoelasticity, in Journ. of Appl. Mechs., V, 1938, p. A-149; G. Giordano, Fondamenti e possibilità attuali della fotoelasticità tridimensionale, Palermo 1939; id., Fondamenti ottici della fotoelasticità tridimensionale, Palermo 1939; R. Weller, Three-dimensional Photoelasticity usig scattered light, in Journ. of Appl. Physics, 1941, p. 610; A. Pirard, La Photoélasticité, Parigi 1947.