FOTOELETTRICITÀ (dal gr ϕῶς, ϕωτός "luce" e elettricità)
H. Hertz scoprì fortuitamente nel 1887 che la luce ultravioletta aveva la proprietà di diminuire la tensione necessaria a far scoccare la scintilla fra due elettrodi nell'aria. Questa scoperta fu il punto di partenza delle ricerche di W. Hallwachs, J. Elster, H. Geitel, ecc., che permisero ben presto di riconoscere che l'azione di questa luce consisteva essenzialmente nel provocare un' emissione di elettroni da parte delle superficie metalliche da essa investite. A questo fenomeno, che si riduceva a uno scambio di energia fra la radiazione incidente e gli elettroni del metallo, si diede il nome di effetto fotoelettrico.
Equazione di Einstein. - Fu nel 1913 che A. Einstein ebbe l'idea geniale di applicare a questo scambio la concezione dei quanti di energia, nata per opera di M. Planck nel tentativo felice di conciliare la teoria della radiazione con la termodinamica. In quel tempo le modalità del fenomeno più o meno precisamente stabilite erano le seguenti: 1. il fenomeno era indipendente dalla temperatura e quindi era da escludere che questa potesse essere la sorgente da cui gli elettroni ricavavano la loro energia; 2. la velocità media con la quale questi ultimi venivano emessi dalla superficie metallica dipendeva dalla frequenza della luce eccitatrice, aumentando regolarmente con questa, mentre era assolutamente indipendente dalla sua intensità; 3. il numero degli elettroni emessi dipendeva invece da questa intensità d'illuminazione, ossia dall'energia luminosa incidente per unità di superficie in un secondo sul metallo, e per una data lunghezza d'onda variava proporzionalmente con questa; però, a parità d'intensità d'illuminazione l'emissione elettronica oltre ad essere, come abbiamo detto, caratterizzata da una maggiore velocità media, era tanto più intensa quanto più piccola era la lunghezza d'onda della luce incidente, poiché quanto più piccola era quest'onda tanto più profondo era lo strato superficiale del metallo che partecipava al fenomeno; 4. infine l'effetto fotoelettrico era istantaneo o per lo meno aveva luogo in un tempo brevissimo (inferiore a 1/2000 di secondo) a partire dal momento in cui la luce ultravioletta irradiava la superficie.
Nel complesso queste modalità caratteristiche inducevano a pensare che gli strati superficiali del metallo fossero la sede di scambî energetici tanto più numerosi quanto più intensa era l'illuminazione ogni scambio elementare avendo luogo indipendentemente dagli altri secondo una legge che era la stessa per qualunque lunghezza d'onda. Su questi elementi ancora incerti, antivedendo nell'intima natura del fenomeno, l'ipotesi formulata da Einstein fu la seguente.
Tutte le volte che, per parte della materia, avviene emissione o assorbimento di radiazione di frequenza ν, la quantità di energia ε emessa o assorbita in ogni atto elementare è legata alla frequenza della radiazione dalla seguente relazione fondamentale: ε = hν (dove h è la costante universale di Planck, il cui valore è h - 6,54 × 10-27 erg sec.). In particolare, nell'effetto fotoelettrico gli elettroni del metallo assorbono l'energia della radiazione incidente, trasformando integralmente ogni quanto e in energia cinetica, così che se si indica con m la massa dell'elettrone e con v° la velocità da esso acquisita all'atto dell'assorbimento vale la relazione ε = mv2/2. Però essendo l'elettrone trattenuto nell'interno del metallo da un campo di forze dovuto alla costituzione del metallo stesso, per estrarnelo occorre compiere un certo lavoro p a spese di una parte dell'energia cinetica acquistata dall'elettrone dopo l'assorbimento. Conseguentemente l'elettrone esce dal metallo non con la velocità v0, ma con una minore, data dalla relazione mvm2/2 = mv02/2 − p, ed essendo mv02/2 = hν l'energia del quanto incidente, si avrà:
Malgrado l'arditezza dell'idea che l'aveva suggerita, questa equazione si è mostrata di un'esattezza rigorosa. Il suo dominio non ha tardato ad estendersi dalla regione della luce ultravioletta alla luce ordinaria e ai raggi X e γ mettendo fuori di ogni dubbio la sua generale validità. Oggi quest'idea è uno dei pochi postulati su cui si edifica la concezione moderna sulla natura dei fenomeni elementari che hanno sede nella materia.
Avanti di accennare alle esperienze che hanno pienamente confermato l'equazione (1) non sarà inopportuno il discuterla e dedurre da essa delle conseguenze che ci serviranno alla comprensione delle esperienze stesse. Prima di tutto è da osservare che in generale gli elettroni per uscire dal metallo perdono in misura variabile una parte della loro energia cinetica anche in seguito all'irraggiamento, ad urti contro altri elettroni o ioni del cristallino elementare da cui provengono, ecc., e che queste perdite supplementari, che non sono come p costanti e caratteristiche della natura dei cristalli costituenti il metallo, fanno sì che gli elettroni abbiano velocità diverse aventi come limite superiore una velocità massima che è quella per cui ha valore l'equazione (1). In secondo luogo risulta immediatamente dalla formula (1) che l'energia hν assorbita da un elettrone potrà esser sufficiente ad estrarlo dal metallo solo se hν > p cioè se ν > ν0 avendo posto ν0 = p/h. Si trova cioè che l'effetto fotoelettrico s' inizia soltanto quando la frequenza della luce supera una certa frequenza limite ν0 variabile da metallo a metallo. A questa frequenza limite si è dato il nome di soglia fotoelettrica.
Esperienze di Millikan. - La prova indiscutibile della valìdità rigorosa della relazione di Einstein e delle sue conseguenze è stata data da una serie di esperienze eseguite da R. A. Millikan nel 1916. Il metodo da questo seguito non diversifica sostanzialmente da quello dei precedenti sperimentatori ed è il seguente. Su una superficie metallica a levigata, pulita e degassificata si fa incidere una radiazione monocromatica, ossia una radiazione di lunghezza d'onda ben definita. Un lama metallica collettrice situata di fronte alla prima raccoglie gli elettroni da questa emessi. Le due superficie metalliche sono naturalmente poste in un vuoto così spinto che gli elettroni che escono da a hanno una grande probabilità di giungere direttamente in b senza subire urti con le molecole del gas residuo che li deviino dal loro cammino. In questo modo se a e b sono collegate fra di loro da un conduttore, fra le due lastre si stabilisce una corrente (corrente fotoelettrica) che per quanto in genere molto debole può facilmente essere rivelata e misurata, per esempio, con un elettrometro sensibile in derivazione su una forte resistenza inserita nel circuito. Si può inoltre analizzare la distribuzione delle velocità degli elettroni applicando tra la superficie fotoelettrica e la lama collettrice una differenza di potenziale tale da creare fra le due un campo antagonista al movimento degli elettroni stessi. Infatti se V è questa differenza di potenziale, il lavoro che deve compiere un elettrone per passare da un elettrodo all'altro è Ve, essendo e la carica dell'elettrone, e quindi se noi facciamo progressivamente crescere V saranno via via eliminati dalla corrente fotoelettrica quegli elettroni la cui energia cinetica è inferiore a Ve. La progressiva diminuzione di questa corrente permetterà allora di dedurne la loro distribuzione in velocità, e in particolare la corrente da essi determinata si annullerà quando la differenza di potenziale avrà raggiunto un valore Vm tale che il lavoro e Vm sia uguale all'energia cinetica massima da loro posseduta.
Fra le precauzioni sperimentali prese dal Millikan per superare tutte le difficoltà inerenti a queste delicatissime esperienze sono da ricordare specialmente: a) l'uso di una sorgente rigorosamente monocromatica e molto intensa; b) l'uso di superficie metalliche perfettamente pulite e continuamente rinnovate a mezzo di uno speciale dispositivo nel vuoto: c) l'eliminazione di tutta la luce diffusa. Millikan è così riuscito a provare l'esistenza di una velocità massima vm ben definita per ogni frequenza e contemporaneamente ha determinato, utilizzando le radiazioni dell'arco a mercurio che sono assai regolarmente ripartite in tutto il dominio spettrale dal rosso all'ultravioletto, la legge di variazione di mvm2/2 in funzione della frequenza incidente, verificando con la precisione del 2% l'esattezza dell'equazione di Einstein. Anzi in questo modo egli ha potuto dare una nuova determinazione della costante universale h di Planck, determinazione che è forse tuttora la più esatta che noi possediamo di questa costante.
Effetto fotoelettrico nei gas e nei vapori. - L'effetto fotoelettrico non è caratteristico solamente dei metalli allo stato cristallino e non si ottiene solamente con la luce ultravioletta; anzi se da una parte esso è in queste condizioni forse più facilmente osservabile, dall'altra presenta, per l'insufficienza delle nostre conoscenze sulla struttura dei cristalli, delle difficoltà relative alla sua completa interpretazione che non s' incontrano nello studio dell'effetto fotoelettrico ottenuto in condizioni diverse concettualmente più semplici; per es., con radiazioni appartenenti al dominio dei raggi X, oppure su materia allo stato di gas o di vapore.
In generale, per effetto fotoelettrico si deve intendere l'estrazione di un elettrone da un qualunque sistema elementare materiale, atomo molecola o cristallo, provocata da un quanto di una radiazione elettromagnetica qualunque (ivi compresi quindi i raggi X e γ) avente energia sufficiente per compiere questa estrazione. Per es., di particolare importanza, per la relativa semplicità che esso presenta, è lo studio dell'effetto fotoelettrico nei gas e nei vapori monoatomici come i gas nobili o i vapori metallici. In questo caso infatti è come se si studiasse l'effetto su un solo atomo, ossia su un sistema che allo stato attuale della fisica atomica si può dire conosciuto quasi come un sistema meccanico macroscopico. Se w0 è l'energia di ionizzazione dell'atomo, cioè l'energia occorrente a strappargli un elettrone, affinché un quanto hν possa compiere questa ionizzazione, ossia possa provocare in questo atomo l'effetto fotoelettrico occorre intanto che hν ≥ w0.
In altri termini, anche in questo caso occorre che la frequenza incidente sia superiore o uguale a una frequenza limite o soglia fotoelettrica ν0 = w0/h, ma la natura di essa è questa volta meglio definita e conosciuta che non nel caso dei metalli allo stato cristallino. Se poi la frequenza della radiazione incidente è maggiore della frequenza limite, al fotoelettrone una volta espulso dall'atomo rimane un'energia cinetica data dalla relazione mv2/2 = hν − w0, che non è altro che l'equazione di Einstein. L'esperienza conferma direttamente e indirettamente questi risultati: direttamente, come risulta per es. dalle esperienze condotte o col consueto metodo elettrico o col metodo della nebbia di C. T. R. Wilson sull'effetto fotoelettrico dei raggi X e γ; indirettamente, dall'analisi degli spettri di assorbimento. Lo studio di questi ultimi è particolarmente interessante perché completa in modo suggestivo i risultati diretti. Se si osserva infatti lo spettro di assorbimento di un vapore metallico si trova che in esso, oltre alle consuete righe di assorbimento (come per es., la riga doppia D1,2 del sodio), si presenta uno spettro continuo il quale comincia bruscamente da una certa frequenza ν0 e va poi sfumando verso le alte frequenze. Poiché questa frequenza ν0 coincide esattamente con la più piccola frequenza sufficiente a ionizzare il gas, cioè atta a renderlo conduttore, non c'è dubbio che l'assorbimento continuo sia determinato per effetto fotoelettrico. L'andamento dell'intensità dello spettro ci dice anzi che questo effetto nei gas è tanto più intenso, cioè probabile a verificarsi quanto più la frequenza del quanto incidente è vicina a ν0.
Prima di chiudere questo breve cenno non sarà male mettere in evidenza le difficoltà che si trovano cercando d'interpretare l'effetto fotoelettrico con la teoria ondulatoria classica della luce, difficoltà o meglio impossibilità che hanno enormemente influito in favore dell'ipotesi dei quanti di luce di Einstein. Quest'ipotesi, che conduce a una concezione quasi corpuscolare della luce si presta tanto, come abbiamo visto, a una semplice e armonica interpretazione del fenomeno, quanto vi si oppone la teoria classica. Infatti risulta dall'esperienza che l'effetto fotoelettrico si produce anche con radiazioni di debolissima intensità, purché la loro frequenza sia superiore a quella limite. In particolare lo si è potuto osservare con luci d'intensità tanto piccola che ammettendo, secondo la teoria classica, una distribuzione continua di energia raggiante, gli atomi investiti da questa ne immagazzinerebbero una quantità sufficiente per ionizzarsi solo dopo un tempo lunghissimo, mentre, come abbiamo pur visto, è sperimentalmente dimostrato che l'effetto fotoelettrico, nei limiti degli errori sperimentali, è istantaneo. All'opposto, con l'ipotesi dei quanti la cosa è estremamente naturale, perché una debole intensità corrisponde solamente a un piccolo numero di essi capaci ciascuno di trasmettere integralmente la propria energia ad un atomo o a un altro sistema elementare estraendone un elettrone. Però, contrariamente a quanto si credette in un primo tempo, l'ammettere l'ipotesi dei quanti, che conduceva spontaneamente a una concezione quasi corpuscolare della luce, non implicava una completa rinuncia alla teoria classica. Questa che si compendia nelle equazioni di Maxwell-Lorentz, ha serbato pressoché intatto il suo aspetto formale.
Radicalmente cambiata è, invece, l'interpretazione di queste equazioni le quali, oggi accettate come le relazioni più semplici atte a rappresentare una classe vastissima di fenomeni, hanno acquistato, in conformità del carattere quasi corpuscolare della teoria dei quanti, un carattere statistico. Esse infatti permettono di determinare in un elemento dello spazio l'intensità di una radiazione, e questa altro non è, secondo le nuove concezioni fisiche, se non la probabilità che in quell'elemento si possa in modo opportuno (per esempio con lo stesso effetto fotoelettrico) rivelare un quanto della radiazione stessa. Anzi è da dire che nel quadro della nuova teoria quantistica della materia e della radiazione, l'effetto fotoelettrico ha trovato, almeno nel caso più semplice dei gas, una completa interpretazione, che ha permesso di rendersi conto non solamente del bilancio energetico fra quanti ed elettroni, ma anche della variabile intensità del fenomeno e delle direzioni proprie di questi ultimi. In questa teoria l'effetto fotoelettrico non è altro che una delle diverse perturbazioni (effetto Compton, effetto fotoelettrico, effetto Raman e dispersione) che possono essere determinate in un atomo da una radiazione elettromagnetica. Questi fenomeni, un tempo fra di loro ritenuti contraddittorî, discendono così in modo unitario da un'unica equazione, l'equazione dell'atomo perturbato dalle forze elettromagnetiche della radiazione incidente, dando un esempio mirabile della potente armonia insita nelle nuove teorie atomiche.
Applicazioni. - L'effetto fotoelettrico ha ricevuto nella pratica molte brillanti applicazioni. Si sono costruiti dei dispositivi, sfruttando questo fenomeno, mercé i quali è stato possibile rivelare e misurare debolissime radiazioni, come altrimenti non sarebbe stato possibile fare. A questi dispositivi, specie di sensibilissimi occhi artificiali, è stato dato il nome di celle fotoelettriche; esse sono generalmente costituite da un bulbo di vetro, analogo a quello di una comune lampadina elettrica, entro il quale è stato deposto un metallo, capace di emettere fotoelettroni, sotto lo stimolo della radiazione che preme di rivelare. Al disopra dello strato metallico vi è una reticella o placca; per l'uso si stabilisce una differenza di potenziale tra strato metallico e placca, facendo il metallo negativo e la placca positiva, così che appena i fotoelettroni sono emessi, sotto l'azione del campo raggiungono la placca e dánno luogo a una corrente che può in qualche caso essere misurabile con un comune galvanometro, ma che in generale essendo molto piccola richiede particolare artificio per essere rivelata e misurata. Se nell'interno della cella fotoelettrica vi è, come accade generalmente, un vuoto molto spinto, tali celle vengon dette a vuoto per distinguerle da altre dette a gas, contenenti dei gas molto rarefatti, la cui funzione è quella di esaltare l'effetto della cella, perché essi, ionizzandosi sotto l'effetto dei fotoelettroni, rendono molto più intensa la corrente che si stabilisce tra metallo fotosensibile e placca. I metalli con cui generalmente si preparano queste celle variano a seconda degli scopi cui sono destinate; così quelle fatte per funzionare sotto la luce ordinaria si fanno con sodio, potassio, cesio, litio o bario. Per rendere più facilmente sensibili le debolissime correnti fotoelettriche spesso si ricorre con successo ai comuni amplificatori a lampada. Tra le applicazioni pratiche, che sono già numerosissime, delle celle fotoelettriche si possono ricordare, quelle di fotometria, dove una cella sostituisce l'occhio dell'operatore, nello stabilire l'eguaglianza tra l'illuminazione di due superficie, nelle misurazioni stellari, pure di carattere fotometriche, dove hanno reso preziosi servigi, particolarmente negli studî delle stelle variabili, dove è necessaria un'approssimazione di almeno 1%; per le misure di debolissime intensità luminose, quali quelle dovute alle sostanze fluorescenti e fosforescenti; e per applicazioni ancora più pratiche si può ricordare la televisione; e infine apparecchi destinati a scegliere per scopi industriali oggetti di varî colori, come si usa in alcune manifatture di tabacchi per smistare i sigari chiari da quelli più scuri. Tra le innumerevoli applicazioni, poi, si può ricordare come le celle fotoelettriche possano essere di grande ausilio nella sorveglianza di locali, dove si custodiscono grandi valori; la cella fotoelettrica in questi casi viene occultata allo sguardo dei visitatori, coprendola con uno schermo permeabile ai raggi infrarossi; una sorgente di tale radiazione illumina costantemente la cella; sorgente e cella sono disposte in modo che una persona che attraversa l'ambiente da sorvegliare sia costretta ad intercettare la radiazione, che non vede perché infrarossa; nell'attimo che la cella resta così in ombra a mezzo di relais questa fa funzionare dei segnali d'allarme, che rivelano la presenza di una persona nel locale.